Capitolo
30
Padre Giustino aveva sempre
sostenuto che la chiesa
della Madonna della Neve doveva restare sempre aperta per dare riparo
ai
viandanti. D’altronde, come ripeteva spesso dal pulpito,
lì non c’era niente di
prezioso da poter essere portato via se non l’amore del
Signore ed il conforto
che dava il pregarLo. Però, nel piccolo paesino di mare
posto ad un passo dalla
miniera di Ingurtosu, non è che ci fossero tante persone di
passaggio e
gli abitanti del luogo, in una serata
fredda e piovosa di febbraio come quella, se ne stavano tutti al riparo
ed al
calduccio nelle loro case. Per questo il vecchio sacerdote ebbe un
sussulto
quando nell’entrare in chiesa verso le dieci scorse
accasciata nei primi banchi
la figura di un uomo avvolto in un mantello fradicio di pioggia. Il suo buon cuore gli fece
vincere la
naturale paura e, trepidante, gli si avvicinò per portargli
aiuto. Solo quando
gli fu abbastanza vicino si rese conto che si trattava di Robert
Forrest.
- Ingegnere, cosa ci fate qui in
una notte tanto
brutta? – gli chiese stupito.
Lui lo guardò con uno
sguardo assente e nei suoi occhi
chiari c’era così tanta disperazione da farlo
spaventare.
- Ditemi, che succede?- gli
domandò ancora con l’ansia
nella voce.
- Mia moglie: sta partorendo ed
è un parto prematuro e
difficile – mormorò alla fine il giovane in un
sussurro, tenendosi la fronte in
un gesto desolato.
Il prete gli posò una
mano sulla spalla.
- Avete fatto bene allora a venire
qui a pregare – gli
disse, ma la reazione dell’altro fu inaspettata. La tristezza
nei suoi occhi
si trasformò
in una collera
insostenibile e, con il viso stravolto, gli urlò:
- Vi sbagliate di grosso, sono
entrato solo per ripararmi
dalla pioggia battente. Chi mai dovrei pregare poi? Io non credo
più in niente,
padre, e meno male! Se credessi ancora, allora dovrei odiare Colui che
mi dite
di pregare perché sarebbe un essere infinitamente crudele!
Sussultando di sgomento, il vecchio
gli parlò con
tutta la calma che riuscì a trovare e dandogli del tu. In
quel momento non
c’era più il Direttore della miniera seduto
accanto a lui, ma solo un’anima
smarrita bisognosa di aiuto.
- Sai, me ne sono reso conto,
né tu né tua moglie
avete molta fede. Ma è sbagliato, figlio mio.
- Davvero? Dovrei avere fede io che
sto vedendo per la
seconda volta morire una donna mentre
mette al mondo un figlio mio o magari la mia povera Barbara? Vi
assicuro,
padre, è
stata già colpita così duramente
dall’esistenza che, ne sono certo, preferirebbe mille volte
cessare di vivere
lei stessa piuttosto che vedere la sua creatura morire.
- Però tutto questo non
è ancora successo e forse non
accadrà mai – lo rassicurò
l’altro.
- Già, non è
detto, dobbiamo continuare a sperare – osservò
Robert, ironico
– può darsi che questa
volta riusciamo a cavarcela! Ma cosa avverrà la prossima
volta? E poi, anche se
personalmente ci va bene, non ci sono accanto a noi tanti che invece si
dibattono nella malattia e nel
dolore?
No, padre, c’è troppa sofferenza nel mondo e la
speranza è solo una cosa
assurda e vana che
fa ancora più male.
Non c’è nessun Dio che possa consentire tutto
ciò e se c’è,
come facciamo a chiamarlo buono ed amoroso?
- Tu non conosci i suoi fini.
- Quali? La salvezza eterna? Il
Paradiso? – Robert scosse
la testa, amaro – Io vedo soltanto lacrime e disperazione,
non c’è nessuna
salvezza.
- Anche tu sei padre
però. Quante volte hai visto il
tuo piccolino prendere un capriccio
perché gli avevi impedito di fare
ciò che voleva o perché qualcosa non
andava secondo i suoi desideri. Anche lui era disperato in quel momento
e non
si spiegava il perché di tanta cattiveria da parte tua,
eppure tu non hai
smesso neanche un istante di amarlo ed agire per il suo bene.
Vedendolo continuare a scuotere la
testa assai incredulo,
il sacerdote continuò:
- Io ti capisco, Robert, siamo
legati al nostro corpo
e all’esistenza terrena. Il nostro
stesso essere si esprime solo attraverso i sensi e non riusciamo
neanche ad
immaginare che ci possa essere qualcosa di ancora più grande
e meraviglioso
dopo questa vita.
L’idea della morte
nostra e di quella dei nostri cari ci avvelena ogni istante ed a poco a
poco
diventa talmente predominante che ci impedisce persino di guardarci
intorno e scoprire
quale immenso regalo sia l’esistenza e quanti doni ci sono
stati fatti. Pensa,
figlio mio, se il trapasso fosse solo
il
passaggio obbligato ad un mondo migliore non saresti contento?
Robert sbuffò, irritato.
- Quante belle parole! Ma allora
perché la sofferenza,
perché il dolore, perché la malattia?
- Perché sono le uniche
cose attraverso le quali
arriviamo a capire ed è
proprio la
sofferenza a far sbocciare nel nostro animo la compassione che ci
insegna ad
amarci l’uno con l’altro. Devi crederci, figliolo,
tutti gli esseri vengono da
Dio e solo quando ritornano a Lui
sono
finalmente liberi dal greve fardello della materia e di nuovo compiuti!
- Come faccio a credere! Io ho
paura, ho soltanto una
paura immensa! – protestò l’uomo
disperato
nascondendosi il viso tra le mani mentre le sue spalle
robuste erano
scosse da singhiozzi profondi.
- È vero, tutti abbiamo
paura, per questo dobbiamo
sforzarci di vivere in armonia con le Sue leggi ed abbandonarci a Lui
con
fiducia, solo così lo sentiremo vicino. Anche a questo serve
la preghiera, a
parlarGli come si fa con un padre.
- E se poi non ci ascolta?
- Siamo noi che dobbiamo ascoltare
Lui, non l’inverso.
Come fece Gesù nell’Orto di Getzemani, quando con
tanta umanità gli chiese di
allontanargli il calice amaro della sofferenza, ma poi si
abbandonò nelle Sue
mani ricevendone in cambio la forza di affrontare il proprio destino.
Prega e vedrai
che Iddio non ti lascerà solo anche se la Sua
volontà è diversa dalla tua e
poi… come fai a saperlo? Può darsi che non sia
così ed allora ne trarrai ancora
di più conforto perché
niente dà più
gioia di veder realizzare le proprie speranze.
Il giovane non parlò
più, se ne stette a capo chino,
desolato e vinto. Allora il sacerdote si alzò e con il suo
passo vacillante di
anziano si avvicinò all’immagine della Madonna
sull’altare. Dalla tonaca un po’
lisa e macchiata, trasse dei fiammiferi ed accese dei ceri davanti alla
Sacra
Effige poi si voltò a guardarlo. Alla luce tremolante delle
candele fissò gli
occhi colmi di lacrime dell’ingegnere.
- Lo sai chi raffigura questa
Immagine? – gli chiese –
Certo che lo sai, è la Madonna della Neve, ma forse non sai
perché si chiama
così. È per una bella leggenda nata nel Medioevo
che narra di un sogno fatto da
Papa Liberio. In esso gli apparve la Santa Vergine che gli
ordinò di costruire
una basilica sul colle Esquilino dove gli uomini potessero andare a
pregare. Non
doveva erigerla in un punto qualsiasi, però, solo nel luogo
che avrebbe
ritrovato l’indomani coperto di neve. Anche se si era in
piena estate, Liberio
ebbe fiducia nelle parole di Maria ed in effetti una neve miracolosa
gli indicò
il punto dove costruire la basilica desiderata dalla Vergine.
S’interruppe un attimo
guardando l’immagine ed alzando
verso di essa le mani in segno di implorazione, mormorò una
preghiera. Dopo un
po’ si girò ancora verso Robert che ora se ne
stava a capo chino, tutto
tremante. Continuò a parlargli:
- Forse non ti sembrerà
un gran miracolo la neve in
agosto, ma se ci pensi vuol dire che anche le cose più
impossibili possono
realizzarsi con la forza della preghiera. Non dobbiamo mai smettere di
aver
fede nell’aiuto divino, anche quando ci sembra
non esserci più speranza. Adesso ti lascio
solo, ma rivolgiti alla
Vergine e vincerai le tue paure – soggiunse mettendogli di
nuovo una mano sulla
spalla prima di allontanarsi.
Avvertendo la stoffa del mantello
bagnata e sentendo
ancora infuriare la bufera fuori della chiesetta silenziosa, gli disse
dolcemente:
-
Passa in
canonica prima di andartene. Berrai una tazza di latte caldo e potrai
riscaldarti un poco al fuoco del camino prima di far ritorno a casa.
Poteva essere circa mezzanotte
quando Robert arrivò
nei pressi di Villa Bianca. La violenta pioggia di poco prima si era
calmata,
ma le foglie degli alberi grondavano ancora acqua e la strada sterrata
era
diventata solo una fanghiglia. Dopo aver lasciato Thunder alla stalla,
si
avvicinò all’ingresso non senza aver lanciato uno
sguardo alla facciata dove
solo dietro alle finestre della stanza di Barbara
s’intravedeva la luce
tremolante delle candele. Con l’animo combattuto tra
l’angoscia e la speranza,
attraversò l’atrio e si diresse su per le scale
fino alla camera della moglie.
C’era così tanto silenzio che quasi poteva sentire
il proprio cuore battere
all’impazzata. La prima cosa che scorse spalancando la porta
fu la figuretta
della piccola Nunzia che dormiva rannicchiata su una poltrona, il capo
e le
braccia poggiati su un bracciolo. Il suo sguardo corse al letto dove
giaceva
Barbara, rivestita di una camicia pulita e con i capelli legati da un
nastro
azzurro. La sua immobilità lo fece spaventare ed in punta di
piedi si avvicinò
al letto per osservarla da vicino. Aveva il viso gonfio, profonde
occhiaie ed
era assai pallida. Con ansia le guardò il petto e si
calmò soltanto quando
scorse il ritmo regolare del respiro. Solo allora si girò a
guardare la piccola
culla di vimini rivestita di pizzo già appartenuta a
Charles. Trepidante vi si
avvicinò. Dentro c’era l’esserino
più piccolo che avesse mai visto in vita sua:
tutta la faccina rugosa non era più grande di una grossa
arancia e sulla
testina c’erano una quantità di capelluzzi neri.
- È una bambina
– mormorò piano alle sue spalle
Nunzia che si era
svegliata. - È
prematura, ma secondo il dottor Bernardi ce
la può fare. Anche la mamma sta bene - si
affrettò a rassicurarlo.
Robert la guardò con
un’espressione di tale gioia che
la ragazza ne fu commossa.
- Grazie, piccina, grazie per tutto
quello che hai
fatto per noi - le disse con dolcezza -
ora
però vai a dormire nel tuo letto. Resterò io a
vegliarle, tu devi essere
distrutta.
La ragazza lo era davvero e non se
lo fece dire due
volte, però prima si avvicinò anche lei alla
culla in tempo per vedere il
padrone prendere nella sua grande mano la manina minuscola della figlia
appena
nata e tenerla tra le dita con una tenerezza enorme.
- La chiameremo Maria Neve
– le disse ancora vedendola
accanto a sé.
- Mi piace, è un bel
nome – sussurrò la giovanetta. Poi
si affrettò ad andarsene un po’ perché
era davvero stanca ed un po’ perché l’ingegnere,
grande e grosso com’era, forse
non desiderava farsi vedere piangere da una servetta così
come stava facendo in
quel momento.