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Autore: Aurelia major    11/02/2010    5 recensioni
[ Occhi di GAtto ]La famigerata banda di ladre è ormai un ricordo, da tempo infatti le tre sorelle hanno cambiato vita, lasciandosi alle spalle persone ed eventi. Ma un imprevisto rimette in gioco tutto, soprattutto i sentimenti che la protagonista pensava assopiti...
Genere: Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Che palle.”

Affermazione che riassumeva in sé, precisa e concisa, l’andazzo degli ultimi tempi. In effetti quest’espressione era diventata per Matthew un intercalare ricorrente e, come una cantilena, scandiva il trascorrere lento delle sue ore. Tanto che al segnale orario si poteva udire chiaramente il bip della sveglia, il tocco della pendola nell’atrio dell’ospedale e il suo sbuffo scocciato seguito immancabilmente da un che palle declinato con sfumature di noia sempre maggiori.   

Era trascorsa più di una settimana da quella maledetta scenata e da quel momento in poi la monotonia era diventata sua costante compagna, al punto che progressivamente aveva allungato i suoi tentacoli fino a togliergli il gusto per qualsiasi attività. Addirittura del  sonno, ecco perché alle quattro del mattino, invece di dormire col sedere per aria, stava a sorbirsi come un coglione il fuoco e fila di menate che incessanti si susseguivano sullo schermo.

Sospirò nel buio della camera, spense la tv e si accucciò sotto il lenzuolo nonostante la canicola. Dio che silenzio, avrebbe dato qualsiasi cosa per avere qualcuno con cui parlare, ma i corridoi erano deserti e non gli andava neppure di chiacchierare con quel pivello di primo pelo che avevano messo di guardia quella notte. Anche per questo s’era ridotto a guardare le televendite dei vibromassaggiatori anticellulite, i sermoni religiosi della chiesa presbiteriana, urlati da due americani completamente fuori di testa e addirittura le lezioni di astrofisica comparata che un barbuto professore garantiva portassero alla laurea in sole diecimila lezioni. Praticamente tutta roba della quale non capiva un accidenti, ché cellulite non ne aveva, probabilmente era scintoista e degli astri non gliene fregava assolutamente nulla, salvo la lettura mattutina dell’oroscopo.    

Certo a quell’ora il palinsesto notturno offriva ben altro, ma saggiamente non v’indulgeva giacché, supponeva a giusta ragione, la visione d’un porno gli avrebbe fatto più male che bene. Del resto i suoi guai erano partiti tutti da quell’impulso, senza contare che, col progredire della guarigione, la bestia gli si stava risvegliando in modo incontrollabile e non gli pareva assolutamente il caso di buttare ulteriore benzina sul fuoco. Già, ultimamente non passava giorno senza che facesse una figura di merda. Sconsolato guardò in direzione della zona incriminata pensando alle rassicurazioni ricevute in proposito dal suo medico curante. Non erano affatto riuscite a placarlo, del resto che poteva aspettarsi da un ultrasessantenne? Chiaro che per lui non si trattasse d’altro che d’un segno di buona salute e che considerasse quanto gli accadeva al risveglio una semplice questione idraulica.  

Sarà, si disse perplesso. Intanto, idraulica o no, le turbine del suo acquedotto continuavano a girare ventiquattrore su ventiquattro ed era teso come una corda di violino. Persino con quella cozza dell’assistente dell’ortopedico si era ritrovato con un imbarazzante bozzo sul davanti e d’accordo che gli stava manipolando proprio i muscoli in prossimità della zona critica, ma possibile che fosse disperato fino a tal punto? Oltre al danno poi c’era stata pure la beffa, dal momento che, alla vista della suo improvvido irrigidimento, quella l’aveva esortato spiccia a non imbarazzarsi, con un’indifferenza che gli aveva fatto a brandelli l’amor proprio. In pratica, l’aveva rassicurato la donna, quello era un fenomeno del tutto normale in certe circostanze, quindi che la piantasse di agitarsi costernato,  perché non c’era assolutamente nulla di straordinario.  Bontà sua che la vede così, s’era detto allora tentando disperatamente di non badare a quanto gli stava succedendo al di sotto dell’addome. Fermo restante che comunque aveva usata proprio la parola adatta, perché, brutta com’era, per provocargli quell’alzabandiera si doveva assolutamente trattare di un fenomeno. Paranormale presumibilmente.

Ma, considerazioni estetiche a parte, non era stato affatto un bel momento e per di più gli aveva fatto suonare un preoccupante campanello d’allarme, giacché una domanda gli era sorta spontanea: com’era possibile infatti che quello scorfano la prendesse con tanta filosofia mentre la sua ragazza, a parità di situazioni, immancabilmente l’aveva legnato? Dipendeva forse dal fattore avvenenza? In caso affermativo poteva essere plausibile solo perché una racchia, avendo meno chance, di sicuro era più propensa a prendere qualsiasi cosa passasse il convento. Ma in caso negativo? Beh, qui si era arenato e ancora continuava a chiederselo. Alla fine era giunto alla conclusione che chi poco ha, caro tiene, eppure, nonostante la saggezza di fondo, c’era qualcosa che non tornava. Ché parimenti poteva anche essere tutto il contrario, in quanto il ritrovarsi in fregola per qualcuna, era incontestabilmente un atto di gratificazione alla bellezza. Ergo Sheila avrebbe dovuto essere quantomeno lusingata dai suoi slanci, piuttosto che reagire come una bertuccia chiusa in un baule. Quanto a quella befana poi, come minimo avrebbe dovuto fare salti di gioia. Invece la prima aveva tentato di staccargli la testa e la seconda non ci aveva dato granché importanza.  Quindi?  

Io le donne non le capirò mai, pensò sconfortato e chiuse gli occhi nella speranza che il sonno finalmente lo sopraffacesse. Ma aveva il sistema nervoso talmente sovraccarico che i pensieri continuavano ad andarsene per i fatti loro, incuranti della sua stanchezza. Si tirò su, incrociò le mani dietro il capo e li lasciò liberi di vagare a briglia sciolta.

“Forse ha ragione il dottore”, si disse ad un certo punto, “dovrei piantarla di farmi domande e lasciar fare semplicemente alla natura.”

Lodevole proposito, però non risolveva affatto i suoi problemi e, quanto alla natura fattiva, doveva aver incrociato le braccia in uno sciopero a tempo indeterminato, giacché Sheila si era data alla lunga latitanza e lui non sapeva che pesci prendere. Telefonarle? Come? E per dirle cosa poi? Le mancava da morire certo, però non gli piaceva affatto il modo altezzoso con cui lo stava trattando. In fondo lei poteva permettersi di fare il bello e cattivo tempo, ma lui che scelta aveva? Oltre al fatto che l’impressione generale era quella che se ne sbattesse altamente delle sue condizioni a fronte di quelle che riteneva motivazioni molto più importanti. E aveva un bel dire Kelly con tutti i suoi discorsi sull’amore, ma intanto la realtà era questa e continuare a farsi trattare da bamboccio di certo non l’avrebbe migliorata.  

“Un po’ di dignità e che cavolo!” Si disse e si riaccomodò sul materasso, assolutamente determinato ad addormentarsi stavolta. Ma non gli riusciva e ogni espediente, dal mettersi a pancia in giù, allo stringere il cuscino tra le braccia, aveva l’unico risultato d’innervosirlo ancora di più. Anzi, quest’ultimo escamotage si stava rivelando essere il peggiore poiché, non appena cingeva quella forma vagamente muliebre e morbida, all’istante si ritrovava involontariamente a pescare nel torbido delle sue fantasie.  

“Ma porca Eva!” Imprecò spazientito mollando la presa. Incrociò le braccia al petto, chiuse nuovamente gli occhi, ma invece di rilassarsi, ripensò a quanto gli aveva intimato la sua bella in proposito. E anzi, per meglio sottolinearsi il concetto, si mise pure a farle il verso, imitandola con toni striduli e broncio offeso. Il che provocò, nel il medico di turno che di là passava di ritorno dalla toilette, una certa apprensione. Infatti l’uomo, transitando a portata d’orecchio, udì chiaramente una voce assai equivoca affermare: “Se è questo che vuoi da me, te lo puoi scordare Matthew. Io me ne vado e tu arrangiati! Anzi, sai che ti dico? Neanche le pippe puoi farti pensando a me!”

E su quest’ultima frase il dottorino cacciò la testa all’interno scrutando con attenzione l’ambiente. In effetti si aspettava di trovarci di tutto, l’occupante di quella stanza infatti aveva pessima fama, si diceva in giro che fumasse e bestemmiasse come un turco, oltre al fatto che facesse il gallo con qualsiasi gonnella. Di conseguenza, si era detto il giovincello preoccupato, era il caso di accertarsi al di là di ogni dubbio con chi o cosa stesse parlando. Anche perché, ne aveva concluso accendendo tutte le luci, un individuo del genere non si sarebbe fatto scrupolo alcuno di far salire di sopra un travestito. Pure pareva non ci fosse nessuno e i due si fissarono per mezzo minuto senza emettere suono. Matthew aveva davanti a sé uno sbarbato alle prime armi che aveva tutta l’aria di essere assai ansioso e di non sapere assolutamente che fare. Per contro, l’altro si ritrovava di fronte un marcantonio, non si sa fino a che punto inoffensivo, nonostante gli arti ingessati, dagli occhi iniettati di sangue, la chioma arruffata, il pallore diffuso ed in un manifesto stato d’irrequietezza.

“Tutto bene?” Chiese cauto, sperando che il camice potesse proteggerlo e tastando il muro alla ricerca del campanello d’emergenza per averlo a portata di mano in caso estremo.  Per tutta risposta, e con suo gran sollievo, tutto quello che ne ricevette fu un cenno che chiaramente l’invitava ad andarsene e svelto se la filò.

“Ora sì che ho fatto il pieno”, pensò Matthew spegnendo le luci e raggomitolandosi fin dove gli era possibile, “dopo essermi beccato del maniaco, ci mancava solo che mi prendessero per pazzo!” 

Nonostante tutto però gli venne da ridere, tanto che rilassò i muscoli e restò addirittura per un intero minuto nella stessa posizione. Ma non poteva durare, il tarlo che lo rodeva infatti riprese immediatamente possesso dei suoi pensieri e arrivederci alle cullanti braccia di Morfeo. Si voltò, si rivoltò, sbuffando si tirò il lenzuolo sul capo e subito dopo lo buttò all’aria, infine aprì un occhio e guardò ferocemente le cifre in rosso che la sveglia digitale continuava a sbattergli in faccia senza alcun rispetto per la sua insonnia. “Porca miseria”, brontolò tirando un pugno nel guanciale, “ma quando viene mattina?”

Ma se pure avesse fatto giorno subito, si disse arrendendosi e riaprendo gli occhi, che sarebbe cambiato? Niente di niente, sarebbero state solo altre ventiquattrore da riempire bivaccando dal letto alla sedia, ciondolando dalla tv alla radio, dal distributore di caffè ai controlli  giornalieri.  Senza contare che, ogniqualvolta sentiva il suono degli stramaledetti tacchi di qualcuno in corridoio, non poteva evitare di protendersi verso la porta tutto speranzoso e con un’espressione che si poteva immaginare uguale a quella d’un coglione.  

“Merda!” Fece ribaltandosi supino. Com’era che, pur ritenendosi nel giusto, si ritrovava preda ad una frustrazione cui avrebbe potuto dare non solo nome, ma pure cognome, nonché forma, voce e profumo?

“Bello schifo.” Ne concluse sfiduciato e faticosamente si tirò su, raccattò la stampella e a passi strascinati si portò sul balcone. Una volta lì continuò nel suo soliloquio, rifiutando di concedersi qualsiasi ammissione potesse dargli pace ed attribuendo testardamente il suo abbattimento alla calura che persisteva persino sulle soglie dell’alba.  Da qualche parte sotto la massa scapigliata di capelli una voce insistentemente gli suggeriva di lasciar perdere, ma decise d’ignorarla e, poggiandosi alla balaustra, si accese una sigaretta. Al secondo tiro un’espressione disgustata gli deformò le labbra. “Porco mondo”, inveì, lieto che per qualche momento potesse finalmente indirizzare il malumore su qualcos’altro, “sembra mi sia ciucciato l’intero posacenere.”

Quante ne aveva fumate quel giorno? E quante dacché… non da quella lite, ci mancherebbe, come se poi gliene fosse fregato qualcosa. No, no, semmai, se proprio si voleva cercare il pelo nell’uovo, ecco, quante ne aveva fumate dacché aveva  persuaso uno degli infermieri a comprargliele?

“Mm.” Mugugnò accarezzandosi il mento ispido nel tentativo di farne un approssimativo conto. Ma la matematica non era mai stata il suo forte, perciò, a dispetto d’ogni intenzione, finì dritto, dritto a valutare per l’ennesima volta il discorsetto che Kelly gli aveva fatto l’ultima volta che s’erano visti. Certo doveva avere le sue buone ragioni per parlare a quel modo, pure, nonostante ci stesse mettendo tutta la sua buona volontà, né volesse volutamente ignorare gli spunti che gli aveva graziosamente porto, proprio non gli riusciva di venirne a capo.  Sapeva solo che, al di là delle incomprensioni  sentimentali, restava il fatto che presto l’avrebbero dimesso e che era chiaro quanto avesse bisogno d’una mano per districarsi in tutte quelle circostanze. Un dettaglio che a quanto pareva non tangeva più di tanto la sua amorevole fidanzata, altrimenti non l’avrebbe fatta tanto lunga. E okay, magari col suo comportamento le aveva potuto mancare di rispetto, ma com’è che quando lei assumeva un atteggiamento insensibile aveva dalla sua tutte le attenuanti del caso e lui manco mezza? Voleva metterla su quel piano? Beh, allora che facesse pure, ché non aveva nessuna voglia di mendicarne l’aiuto. Né a lei, né a nessun’altra componente della famiglia Punti Perfetti, che parevano agire sempre in modo da farlo apparire come un individuo di mezza tacca. Era stufo e non intendeva mandare a puttane quel po’ di dignità che ancora gli restava. Anche a costo di rompersi le corna a furia di cazzate.

“Kelly può dire quel che accidenti le pare.” Ne concluse rientrando e ingollando due pastiglie di sonnifero. “Ma con le pezze al culo ci sto io e se Sheila ha scelto di fregarsene, io faccio altrettanto.”

Una risoluzione questa che, unita all’azione dei barbiturici, finalmente lo fece cadere in uno stato di catalessi dalla quale emerse a mattino inoltrato e con le idee molto più chiare.  Tanto che, appena sveglio, attese pazientemente che si facesse ora di pranzo e telefonò ad Alice. L’unica persona, si disse mentre ascoltava impaziente gli squilli,  cui poteva rivolgersi e sulla quale ancora poteva contare. O perlomeno lo sperava, giacché, e se ne rendeva conto soltanto adesso, cosa che gli dava un vago senso di colpevolezza, anche se non sapeva proprio spiegarsene il motivo, era da un bel pezzo che non si vedevano, né lui se n’era preoccupato. Chissà forse era stata troppo occupata col lavoro per andarlo a trovare. E quando glielo chiese, dopo i saluti ed i convenevoli di rito, Alice, che non era affatto rimasta colpita dal quell’improvvisa chiamata, gli rispose chiaro e tondo che l’aveva volontariamente evitato perché non le garbava affatto l’eventualità di potersi incontrare con una qualunque delle tre sorelle. Ma, aveva continuato senza dargli la possibilità di aggiungere altro, visto che da quella telefonata era facile evincere che nell’attuale non ne corresse il pericolo, sarebbe passata a trovarlo quello stesso pomeriggio.

“Allora, ti sei stufato di fare l’amorevole piccioncino?” Lo  apostrofò, per l’appunto, varcando la soglia qualche ora dopo. Matthew si rattrappì contrito nel suo letto di dolore, entrando Alice l’aveva squadrato da sopra agli occhiali in modo che tutto era, tranne che promettente. Ciononostante aveva le braccia cariche di generi di prima necessità quali sigarette, stuzzichini assortiti e prodotti vari d’editoria, cosa che gli ridiede un po’ di fiducia riguardo a quanto poteva dirle. Effettivamente si aspettava una paternale senza fine, tuttavia quelle erano chiare offerte di pace, quindi fu facendole un premuroso gesto di benvenuto che le rispose, ma non prima di averle scoccato un ruffiano sorriso.  

“Tu sì che hai la vista lunga e mi sa che lo sapevi fin dal primo momento come sarebbe finita.”

Pur segretamente compiaciuta da quella chiara attestazione di merito, la donna comunque non si fece fregare, ché non era proprio il tipo da cedere a certe moine, per cui ci tenne a mettere immediatamente i puntini sulle i.

“Sentimi bene vecchio mio”, cominciò con tono di rimprovero, “non m’interessa quello che è successo tra te e quella, ma come ti stai comportando con me non mi piace affatto. Prima mi scarichi di brutto e poi, quando la tua amichetta ti manda a spasso, mi richiami disperato? Questo si chiama sfruttamento, sai?”

“Alice”, ribatté pungente, nonostante quell’accusa contenesse molto di più che un fondamento di verità, “se la pensavi così, potevi anche dirmelo a telefono. Ora”, continuò con calma, ma in modo da essere inequivocabile, ché davvero ne aveva fin sopra la cima dei capelli, “se vuoi darmi una mano te ne sarò eternamente grato. In caso contrario, evitati la predica, ché non ne posso più di femmine che mi criticano per qualsiasi cosa faccia.”

“Ma che faccia tosta!” Ribatté incurante di quelle lamentele e perlopiù maldisposta verso quel maldestro tentativo di rivalsa. Ma poi, considerato che Matthew non ce l’aveva con lei e che, anzi, le stava implicitamente chiedendo venia quale sua ultima ancora di salvezza, decise di tagliar corto. “Veniamo a noi, d’accordo?”

“Sì che è meglio.” Rispose l’altro soffocando a stento un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo.

“Dopo che ci siamo sentiti mi sono attivata per verificare lo stato attuale delle tue finanze. Fortunatamente negli archivi di polizia sono ancora consultabili le copie dei tuoi documenti, altrimenti sarebbe stato un processo parecchio difficoltoso. Inoltre mi avevi dato delega quale esecutore bancario in tua assenza, perciò non ho avuto problemi ad accedere ai dati del fondo di previdenza.”

“Molto bene.” Fece compito, per la verità non ci aveva capito più di tanto e non sapeva che altro dire, ma davanti ad una simile efficienza era quantomeno doveroso mostrarsi impressionato.

“Dunque”, continuò Alice come se non l’avesse affatto interrotta, “ufficialmente fai ancora parte del corpo di polizia, anche se per il momento risulti in congedo per malattia. Il che vuol dire che per tutto il tempo hai continuato a percepire lo stipendio, più un’indennità mensile per incidente sul lavoro.” Detto ciò fece una pausa e gli mostrò una distinta dei relativi conti. Matthew, per farla contenta, finse di studiarseli attento, dopodiché la fissò interrogativo.

“Detto in parole povere?”

Alice levò gli occhi al cielo e s’ingiunse, per l’ennesima volta dacché s’erano conosciuti ai tempi lontani del commissariato, a portare pazienza.

“Significa  che depositata sul tuo conto corrente c’è una somma considerevole e che per il momento non hai di che preoccuparti per il tuo mantenimento.”

“Menomale.” Ripose sollevato, ma Alice, che detestava sovra ogni cosa il lassismo e che trovava la sua propensione alla fannullaggine detestabile, frenò subito quei moti. 

“Non credo mio caro, certo al momento rientri ancora nei tempi previsti per il congedo sanitario, ma se il tuo stato dovesse prolungarsi, saresti costretto a lasciare l’incarico. Questo significa che devi darti da fare non solo per guarire, ma anche per trovarti un’altra occupazione.”

A fronte di questa eventualità Matthew s’accigliò e mugugnò qualcosa d’intelligibile, tanto che la donna ritenne opportuno non insistere oltre sull’argomento. Del resto il male da cui era affetto era talmente imprevedibile che nessuno, lui per primo, avrebbe potuto dargli una definizione temporale. E se era inutile pretendere in questo momento una qualsivoglia iniziativa da parte sua, in ogni caso riteneva suo dovere fargli notare l’inutilità dello starsene con le mani in mano, ché vivacchiare in attesa di tempi migliori era un giochetto cui si era già prestato e gli esiti erano stati pessimi. Ad ogni modo ora che gliel’aveva detto, potevano passare al punto successivo.

“Per quanto riguarda il domicilio, come ebbi a dirti tempo fa, possiedi un appartamento. Certo non è una reggia, ma è comunque un tetto.”

“Una casa piccina picciò. Chissà perché, ma me l’immagino un buco maleodorante, disordinato e pieno di scarafaggi.” Replicò disfattista, quella conversazione tutto stava facendo, tranne che metterlo di buonumore .

“Oh, è stata maleodorante e disordinata finché ci sei vissuto. Topi e scarafaggi ne hanno preso possesso dopo.” Precisò Alice con tagliente ironia. Poi, onde evitare di dargli ulteriore modo per crogiolarsi nelle sue inquietudini, continuò: “Comunque piantala di fare il frignone e pensa ai vantaggi. Hai vissuto là per tanti anni ed è probabile che tornandoci qualcosa si smuova. Che ne sai che il contatto con i tuoi oggetti quotidiani non ti possa aiutare?”

“Sei sprecata come poliziotta, secondo me dovresti vendere pentole e materassi in tv.” Affermò per tutta risposta, ma Alice non era affatto il tipo di donna da lasciarsi intimidire da un po’ di sarcasmo.

“Quanto al fatto che è stata abbandonata per tanto tempo”, insisté imperturbabile, “basta che mi dica quando sei fuori di qui e nel frattempo manderò un’impresa di pulizie a fare lo sporco lavoro.”

“Hai ragione scusami.” Ammise infine dopo che averci pensato un po’ su. In fondo Alice non poteva farci nulla se gli si prospettava un eremo spoglio e triste. Piuttosto si stava prodigando in tutti i modi, nonostante l’avesse trattata come una pezza da piedi. “Mah, credo che per il weekend potrei già essere là. Hai anche le chiavi?”

“No, ma so dove procurarmele.”

“Bene.“  Fece fissandola riconoscente, poi prese il coraggio a due mani e disse quanto andava detto. “Sai forse me ne rendo conto solo adesso, ma stai facendo davvero molto per me e sono certo che l’abbia fatto spesso in passato. Insomma, quel che intendo dire è che non basterebbe a ringraziarti neanche un milione di volte, soprattutto perché nulla ti obbliga.”

“Siamo amici no?” Lo interruppe lei arrossendo visibilmente, ché certe manifestazioni la mettevano molto a disagio e peggio che mai quando provenivano dall’unico che era stato capace di far breccia nella sua inespugnabile corazza.

“Certo, i migliori amici che ci possano essere.” Replicò Matthew sorridendole amabile e del tutto ignaro degli altarini d’un tempo, per non parlare del possibile fuoco che ancora poteva covare sotto la cenere. Ma Alice era stata molto attenta a non tradirsi e non c’era ragione che qualcuno potesse sospettare. “Mi piacerebbe ricambiare in qualche modo. C’è qualcosa che posso fare per te?”

“In un certo senso.“ Fu la risposta ambigua che ne ebbe. Alice Asatani infatti prima di pensare come una donna badava particolarmente a ragionare da detective e da tempo si stava chiedendo se fosse il caso di azzardare una determinata  mossa. Non si trattava solo di decidere se quello che stava per fare fosse giusto, giacché non aveva nessun dubbio quanto a quello e non solo per una questione di etica professionale ed umana. Fermo restante che era convinta che quanto si proponeva avrebbe potuto aiutarlo a ricordare. In ogni caso il vago timore che fino a quel momento l’aveva sempre indotta a fermarsi ormai era superato e ora si trattava solo di farlo, smettendola di cincischiare e rimandare all’infinito. Pure, ancora si chiese se se la sentiva di rischiare l’apparente tranquillità di un amico perché la legge potesse seguire il suo corso.  

“Dopotutto, se decido di sì, non ne uscirei meglio di quella sfacciata ipocrita.” Pensò riferendosi a quelle che in cuor suo aveva da anni appurato essere le falsità di Sheila. Irrigidendosi se la rivide davanti, compiaciuta e tronfia com’era sempre stata e come seguitava ad essere, e risoluta si decise. “E’ mio dovere ed è giusto che anche lui scopra la verità.”

Quindi frugò nella borsetta e ne estrasse una delle tante prove indiziarie che insieme avevano raccolto e catalogato. Da tempo l’aveva prelevata dall’archivio della sezione criminale ed oggi finalmente gliela mostrava. Era un rettangolo di carta rigida, bianco e lucido, sul quale spiccava il disegno stilizzato di una testa felina. Ovvero uno dei singolari biglietti di preavviso che Occhi di Gatto aveva l’abitudine di recapitare al loro distretto prima d’ogni azione criminosa.

“Ti ricorda niente?” Gli domandò piazzandoglielo sotto il naso e  ripensando a  tutte le volte che ne avevano avuto tra le mani uno. Matthew lo prese o lo soppesò con espressione blanda. Era palese che Alice ci teneva molto, tanto che subito si rimangiò quanto stava per dirle, ché se avesse potuto parlare senza urtare la sua suscettibilità, le avrebbe chiesto senza remore che accidenti fosse quella stronzata. Pure, mentre osservava quel coso solo per compiacerla e senza alcun reale interesse, man a mano che gl’istanti passavano, si ritrovò seriamente concentrato. Avvertiva infatti il destarsi improvviso dell’attenzione e non era una sensazione ingannevole come le altre volte, no, stavolta percepiva chiaramente un qualcosa agitarsi nel fondo della sua mente e si sentiva esattamente come qualcuno che abbia una parola sulla punta della lingua, ma incapace di pronunciarla. Non fece un gesto né articolò parola, continuava semplicemente a fissare insistente quell’oggetto, quasi a volerne spremere con la sola forza di volontà, tutte le risposte che disperatamente stava cercando. Non poteva sbagliarsi, quel curioso biglietto lo rapportava a qualcosa che non poteva definire, ma che dentro la testa gli stava scatenando un tumulto. Per timore che quella fugace percezione potesse interrompersi continuò insistito a fissarlo finché presero a dolergli gli occhi, ma non ci badò, né distolse lo sguardo. Non aveva nessuna intenzione di mancare il momento in cui, ne era certissimo,  una traccia qualsiasi della sua vita ne sarebbe emersa.

Tremante socchiuse le labbra come a voler parlare, ma tutto quello che ne uscì fu un singulto strozzato. Improvvisamente una fitta tremenda gli trapassò le tempie e quanto aveva preavvertito in precedenza si mutò in una pulsazione martellante che pareva volesse spaccargli il cranio in mille pezzi. Pazzo di dolore e frustrazione si portò le mani al capo e prese a gemere.

A questa vista Alice balzò in piedi preoccupata e a gran voce chiamò aiuto. Subito accorse un’infermiera che, innanzi allo spettacolo del paziente che si teneva la testa  lamentandosi e scuotendosi, senza indugio gli somministrò un forte sedativo. L’effetto fu immediato, ma per sicurezza fu fatto stendere e gli fu applicata una flebo supplementare che a poco a poco lo calmò fino a farlo assopire.

Durante tutto quel trambusto Alice se n’era rimasta in disparte per non intralciare il lavoro dei sanitari, intanto però il suo abituale raziocinio ne stava uscendo piuttosto scosso, ché mai avrebbe immaginato le sue azioni avessero potuto scatenare una reazione tanto forte, oltre che repentina. Concitatamente scansò quelli che suppose essere sensi di colpa e si concentrò su quella che doveva essere la sua mossa successiva. Ché ormai era fatta, aveva piantato un cuneo indelebile in quella terra di nessuno e non aveva più senso chiedersi se la necessità giustificava i mezzi. Solo voleva rassicurarsi che stesse bene, almeno questo. Perciò parlò a lungo col medico che l’aveva in cura e restò lì a vegliarlo mentre scivolava in uno stato d’incoscienza che tanto torpida non doveva essere, giacché di tanto in tanto continuava a dimenarsi, stringeva i denti e sembrava in balia di un’agitazione che lei stessa aveva volontariamente provocata. Sì, non c’erano dubbi, gli stava facendo del male e ne era responsabile. Ma, cosa che riteneva molto più importante, finalmente nella coscienza di Matthew qualcosa stava sedimentando, presto sarebbe uscita allo scoperto e lei era certa di non avere nulla di cui rimproverarsi.

 

In quegli stessi giorni a casa Tashikel, e nell’omonima galleria, tutto pareva andare avanti come al solito. Nondimeno, andando al di là delle mere apparenze, era palese che Sheila stava facendo finta di nulla e che le sorelle la stavano pazientemente assecondando, allo scopo neanche troppo occultato, di non forzarle la mano. Ché entrambe conoscevano fin troppo bene la testardaggine asinina da cui Sheila era affetta. Di conseguenza,  prendendo debito spunto dalle precedenti esperienze, Kelly e Tati di comune accordo avevano deciso che sarebbe stato preferibile lasciarla cuocere nel suo brodo fintanto ne avesse avuta voglia.

In un certo senso ignoravano a quanto ammontasse la somma dei giorni necessari perché ciò avvenisse, ma nel frattempo stavano portando avanti una serie d’insistite e sibilline intromissioni che, a tempo debito, speravano avrebbero dato frutto. Comunque la stessa Sheila pareva quasi matura per essere colta. Ah certo, davanti a loro badava a mostrarsi efficiente e piena di vita come al solito, peccato però che, quando si credeva inosservata, tirasse dei frequenti sospironi ed assumesse un’aria a tal punto depressa che alle sorelle veniva un’irresistibile voglia di prenderla e scuoterla come un tappetino da bagno. Un nonnulla poi era sufficiente a farle perdere le staffe, per cui ultimamente le liti erano state parecchio frequenti tra quelle mura. Non ultimo, appena pochi giorni prima e sempre a causa dei ghiribizzi dell’artista russo, per poco non era successo l’irreparabile. Tuttavia aveva minacciato l’uomo di prenderlo per la pelle delle ginocchia e di lanciarlo fuori dalla sala esposizioni, per poi ripetere la medesima operazione con le sue pompose installazioni, se non l’avesse piantata immediatamente di darle il tormento con le sue pretese assurde. Col solo risultato che il russo adesso faceva l’offeso, nonché il prezioso, e che il vernissage che avevano programmato da tempo, e che si sarebbe dovuto tenere di lì a poco, poteva saltare da un momento all’altro.

Era chiaro come il sole quindi che ormai l’irritazione per il gesto improvvido di Matthew, a furia di nostalgia e rimpianto, le era quasi passata. Quel che le sorelle ignoravano però, era che invece che dileguarsi la sua rabbia si era diversificata e aveva preso tutt’altra direzione. E quel che le stava rodendo il fegato a posteriori era la riflessione sul fatto che il suo sedicente fidanzato, nonostante quel che andava millantando, la stava bellamente e apertamente ignorando. Oh certo, ammetteva con sé stessa che gli sarebbe stato alquanto difficile rintracciarla, in quanto non sapeva il suo indirizzo né il numero di telefono. Tuttavia, stando a quanto le aveva detto Kelly (che ad arte aveva lasciato cadere con falsa noncuranza quella bomba inesplosa) riferendosi all’ultima volta che si erano visti, pareva che Matthew alla prospettiva della sua devastante furia non si fosse agitato più di tanto. Dettaglio questo che aveva dato la stura a tutta una serie d’incertezze cui Sheila faticava a star dietro, al punto che successivamente avrebbe voluto chiedere alla sorella spiegazioni meglio particolareggiate in proposito. Di più, le sarebbe bastato pure la ripetizione dei soli fatti parola per parola, giusto in modo d’appurare d’aver capito senza nessuna possibilità d’equivoco. Ma, naturalmente, l’orgoglio gliel’aveva impedito e non aveva avuto il nerbo di cedere a quella tentazione, con il solo risultato di non far altro che macerarsi nell’incertezza per giorni e giorni.

Cosicché, il mattino successivo al pomeriggio in cui Asatani si era recata in ospedale e aveva provocato quel casino, lei se ne stava accoccolata sul divano, stringendo un cuscino tra le braccia e con un’espressione talmente afflitta, che Tati vedendola decise fosse giunto il momento di farla finita.

“Senti Kelly“, fece entrando a passo di carica nella camera della sorella maggiore, “non ti pare che dovremmo parlarle?”

“Non mi piace veder soffrire Sheila, Tati.” Affermò la più grande meditabonda. “Ma ti confesso che per la prima volta in vita mia non so come gestire la situazione.”

“Beh, allora lascia fare a me.” Rispose risoluta. Fino a quel momento infatti Kelly le aveva sistematicamente impedito di metterci bocca, esortandola a rimandare ed avere pazienza. Ma Tati era un carattere impulsivo, non conosceva ponderatezza e soprattutto si era stufata di camminare sulle uova. Quindi non attese risposta e ritornò in salotto, seguita a ruota da una Kelly lieta, perché una volta tanto le veniva demandato l’onere e il bastone del comando passava in mano altrui.

Una volta là, senza tanti complimenti, la piccola si parò davanti alla sorella, che ancora stazionava sul divano, anche se al suono dei loro passi aveva dissimulato l’espressione affranta e nel frattempo aveva preso a sfogliare una rivista con fittizio interesse, e iniziò il discorso che da tempo aveva nel gozzo.

“Ehi Madama Butterfly è ora di piantarla con questo strazio!” L’apostrofò con le mani sui fianchi. Sorpresa dal tono contrariato della ragazza Sheila fece tanto d’occhi, ma Tati non se lo diede per inteso e continuò: “Dico a te Cio-Cio-san!”

“Ma che stai dicendo?” Esclamò a questo punto alzandosi ed assumendo a bella posta un’aria indifferente.

“Sto dicendo che stare qui ad aspettare come una geisha disperata è tempo perso! E aggiungo pure che l’unico fil di fumo che vedrai levarsi un bel dì, sarà quello che s’alzerà dal tuo cervello per il troppo pensarci. Datti una svegliata!” 

“Tati”, rispose sarcastica, con una calma più ostentata che altro, “se sei stata al teatro dell’opera e vuoi farmelo sapere, non è questo il modo.”

“Oh no, altro che opera. Quello che volevo dirti, anche se ormai l’avresti dovuto capire da un bel pezzo, è che sarà alquanto improbabile vedere Matthew arrivare qui strisciando sulle braccia come un vietcong. Quindi sorella cara, perché non la pianti e vedi quello che devi fare?” Concluse pestando un piede atterra. E fu una specie di segnale, giacché Sheila perse completamente la compostezza e cominciò finalmente a risponderle per le rime.

“Oh, ma davvero? E dall’alto della tua vastissima esperienza nelle questioni di cuore, che cosa mi consiglieresti di fare?” Domandò con evidente ironia inarcando un sopracciglio. Ma le reazione che si era aspettata a quella provocazione non venne, anzi, la piccola di casa riuscì a spiazzarla ancora una volta in quanto, mentre pareva che fosse lì, lì per risponderle con impertinenza e cominciare una discussione con tutti i crismi, assunse un tono assennato e provò a farla ragionare.

“Avanti, non è la prima volta, né sarà l’ultima, che tu e quell’altra testa di legno andate a scontro. Va bene ti sei arrabbiata, ma di tutta questa faccenda non hai considerato i lati positivi.”

“Ma davvero?” Motteggiò Sheila la quale, più che irritata, a questo punto cominciava a sentirsi parecchio incuriosita.  

“Certamente.” Replicò Tati annuendo, quindi gettò un’occhiata a Kelly e, ricevutone il tacito assenso, continuò: “Hai mai pensato al fatto che la totale mancanza di sdolcinatezza da parte del tuo fidanzatino è corrispondente ad un’altrettanta scarsità d’esperienza?”

In effetti Sheila non ci aveva mai pensato, ma ora che la sorella glielo stava chiedendo in modo così convincente, forse era il caso di cominciare a rifletterci. Per la verità non sapeva che risponderle, perciò Tati si senti spronata ad andare avanti. “Questo secondo me non fa altro che confermare che dopo di te c’è stato il nulla.”

“Non esserne troppo sicura”, buttò lì beffarda per il solo gusto della polemica, “ho il sospetto che Matthew sarebbe un impedito anche dopo essersene uscito da un corso intensivo di sei anni in un gineceo!” 

“Balle, si tratta proprio di questo. E poi se ci pensi”, aggiunse cominciando a ridacchiare, “saltarti addosso è una dimostrazione di carenza prolungata. Fai due più due sorellina che non è difficile!”

“Forse Tati non ha tutti i torti.” S’intromise Kelly prima che quest’ultima sciupasse del tutto l’effetto del suo discorso a suon di battutine spudorate. “E non mi meraviglierebbe più di tanto neppure sapere che sul serio abbia continuato a pensare a te durante tutto il tempo in cui siete stati separati. E poi renditi conto che maldestro era prima, figuriamoci adesso che è più confuso che mai.”

“Ecco che ricominci a difendertelo neanche fosse un dono dal cielo!” Ribatté Sheila non ancora disposta a cedere. Per la verità avrebbe voluto, ma perché ne uscisse con la dignità intatta, occorreva che insistessero un altro po’. E Kelly, che conosceva bene i suoi polli, murò a rete quell’obiezione ribattendogliela all’istante.

“Dovresti perdonarlo e passarci sopra una volta per tutte Sheila.” Consigliò giudiziosamente, dopodiché le scoccò uno sguardo malizioso e aggiunse: “Naturalmente non in quel senso, anche se di sicuro taciterebbe per sempre ogni lamentela!”

“Che fai, ti ci metti anche tu adesso?” Inveì stizzita per nascondere l’imbarazzo, intanto che Tati cantava a gola spiegata Sono una donna, non sono una santa, non tentarmi, non sono una santa. Kelly eroicamente riuscì a mantenere un contegno serio, ma la voce aveva forti tracce d’ilarità quando le domandò: “Non intendi riconciliartici?”

“Sì, certo.” Ammise infine sospirando. Lo stesso sospiro di sollievo che non poterono impedirsi di tirare entrambe le sue sorelle. Ovviamente se ne accorse, ma, visto che le premeva di più sapere quanto fino a quel momento si era negata di chiedere, finse di non averci fatto caso. “Ma a te precisamente cosa ha detto?”

“Molte sciocchezze e qualche verità.” Affermò Kelly incoraggiante, poi le passò un braccio rassicurante attorno alle spalle e aggiunse: “Ma mi ci gioco quel che vuoi che in questo preciso istante muore dalla voglia di vederti e si sta dannando l’anima per trovare un modo per farlo.”

E c’è di più “, esclamò Tati con aria saputa, “chi ti dice che Asatani non gli stia girando intorno a cerchi sempre più stretti peggio di uno squalo? Senza contare quella dell’impronta di rossetto. Fossi in te, mi darei una mossa.” Concluse allusiva rimettendosi a cantare quel motivetto evocativo.

“Ma figuriamoci, hai fatto due esempi pessimi.” Replicò Sheila alzando il mento e mettendosi involontariamente in posa, come a dire che rispetto a lei si trattava di due nullità.

“Già, ma intanto loro sono là e chissà che sta succedendo.” Insinuò Tati con ironica malafede, per poi assestarle la botta finale: “Inoltre, se ho fatto bene i miei calcoli, tra un po’ dovrebbe esserne fuori. Dì, come la metti se una volta uscito se ne va di nuovo per la sua strada?”

“Va bene, va bene!” Sbottò capitolando e levando le mani in segno di resa. “Ci vado e spero tanto che adesso sarete contente!” Affermò enfatica evitando d’incrociarne gli sguardi dopodiché, senza aspettare risposta, se ne andò in camera sua a cambiarsi. A ques’uscita da tragica primadonna Kelly e Tati si guardarono sogghignando  e cominciarono a ridere senza riuscire a fermarsi per un bel pezzo.

 

   
 
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