“Che
palle.”
Affermazione
che riassumeva in sé, precisa e concisa, l’andazzo
degli ultimi tempi. In
effetti quest’espressione era diventata per Matthew un
intercalare ricorrente
e, come una cantilena, scandiva il trascorrere lento delle sue ore.
Tanto che al
segnale orario si poteva udire chiaramente il bip della sveglia, il
tocco della
pendola nell’atrio dell’ospedale e il suo sbuffo
scocciato seguito
immancabilmente da un che palle
declinato
con sfumature di noia sempre maggiori.
Era
trascorsa più di una settimana da quella maledetta scenata e
da quel momento in
poi la monotonia era diventata sua costante compagna, al punto che
progressivamente
aveva allungato i suoi tentacoli fino a togliergli il gusto per
qualsiasi
attività. Addirittura del sonno,
ecco
perché alle quattro del mattino, invece di dormire col
sedere per aria, stava a
sorbirsi come un coglione il fuoco e fila di menate che incessanti si
susseguivano sullo schermo.
Sospirò
nel buio della camera, spense la tv e si accucciò sotto il
lenzuolo nonostante
la canicola. Dio che silenzio, avrebbe dato qualsiasi cosa per avere
qualcuno
con cui parlare, ma i corridoi erano deserti e non gli andava neppure
di
chiacchierare con quel pivello di primo pelo che avevano messo di
guardia
quella notte. Anche per questo s’era ridotto a guardare le
televendite dei vibromassaggiatori
anticellulite, i sermoni religiosi della chiesa presbiteriana, urlati
da due
americani completamente fuori di testa e addirittura le lezioni di
astrofisica
comparata che un barbuto professore garantiva portassero alla laurea in
sole
diecimila lezioni. Praticamente tutta roba della quale non capiva un
accidenti,
ché cellulite non ne aveva, probabilmente era scintoista e
degli astri non
gliene fregava assolutamente nulla, salvo la lettura mattutina
dell’oroscopo.
Certo
a quell’ora il palinsesto notturno offriva ben altro, ma
saggiamente non
v’indulgeva giacché, supponeva a giusta ragione,
la visione d’un porno gli
avrebbe fatto più male che bene. Del resto i suoi guai erano
partiti tutti da quell’impulso,
senza contare che, col progredire della guarigione, la bestia gli si
stava
risvegliando in modo incontrollabile e non gli pareva assolutamente il
caso di
buttare ulteriore benzina sul fuoco. Già, ultimamente non
passava giorno senza che
facesse una figura di merda. Sconsolato guardò in direzione
della zona
incriminata pensando alle rassicurazioni ricevute in proposito dal suo
medico curante.
Non erano affatto riuscite a placarlo, del resto che poteva aspettarsi
da un
ultrasessantenne? Chiaro che per lui non si trattasse d’altro
che d’un segno di
buona salute e che considerasse quanto gli accadeva al risveglio una
semplice
questione idraulica.
Sarà, si disse perplesso. Intanto,
idraulica o no, le turbine del suo
acquedotto continuavano a girare ventiquattrore su ventiquattro ed era
teso
come una corda di violino. Persino con quella cozza
dell’assistente
dell’ortopedico si era ritrovato con un imbarazzante bozzo
sul davanti e
d’accordo che gli stava manipolando proprio i muscoli in
prossimità della zona
critica, ma possibile che fosse disperato fino a tal punto? Oltre al
danno poi
c’era stata pure la beffa, dal momento che, alla vista della
suo improvvido
irrigidimento, quella l’aveva esortato spiccia a non
imbarazzarsi, con un’indifferenza
che gli aveva fatto a brandelli l’amor proprio. In pratica,
l’aveva rassicurato
la donna, quello era un fenomeno del tutto normale in certe
circostanze, quindi
che la piantasse di agitarsi costernato, perché
non c’era assolutamente nulla di
straordinario. Bontà
sua che la vede
così, s’era detto allora tentando disperatamente
di non badare a quanto gli
stava succedendo al di sotto dell’addome. Fermo restante che
comunque aveva
usata proprio la parola adatta, perché, brutta
com’era, per provocargli quell’alzabandiera
si doveva assolutamente trattare di un fenomeno. Paranormale
presumibilmente.
Ma,
considerazioni estetiche a parte, non era stato affatto un bel momento
e per di
più gli aveva fatto suonare un preoccupante campanello
d’allarme, giacché una
domanda gli era sorta spontanea: com’era possibile infatti
che quello scorfano
la prendesse con tanta filosofia mentre la sua ragazza, a
parità di situazioni,
immancabilmente l’aveva legnato? Dipendeva forse dal fattore
avvenenza? In caso
affermativo poteva essere plausibile solo perché una
racchia, avendo meno
chance, di sicuro era più propensa a prendere qualsiasi cosa
passasse il
convento. Ma in caso negativo? Beh, qui si era arenato e ancora
continuava a
chiederselo. Alla fine era giunto alla conclusione che chi
poco ha, caro tiene, eppure, nonostante la saggezza di fondo,
c’era qualcosa che non tornava. Ché parimenti
poteva anche essere tutto il
contrario, in quanto il ritrovarsi in fregola per qualcuna, era
incontestabilmente un atto di gratificazione alla bellezza. Ergo Sheila
avrebbe
dovuto essere quantomeno lusingata dai suoi slanci, piuttosto che
reagire come
una bertuccia chiusa in un baule. Quanto a quella befana poi, come
minimo
avrebbe dovuto fare salti di gioia. Invece la prima aveva tentato di
staccargli
la testa e la seconda non ci aveva dato granché importanza. Quindi?
Io
le donne non le capirò mai, pensò sconfortato e
chiuse gli occhi nella speranza
che il sonno finalmente lo sopraffacesse. Ma aveva il sistema nervoso
talmente sovraccarico
che i pensieri continuavano ad andarsene per i fatti loro, incuranti
della sua
stanchezza. Si tirò su, incrociò le mani dietro
il capo e li lasciò liberi di
vagare a briglia sciolta.
“Forse
ha ragione il dottore”, si disse ad un certo punto,
“dovrei piantarla di farmi
domande e lasciar fare semplicemente alla natura.”
Lodevole
proposito, però non risolveva affatto i suoi problemi e,
quanto alla natura fattiva,
doveva aver incrociato le braccia in uno sciopero a tempo
indeterminato,
giacché Sheila si era data alla lunga latitanza e lui non
sapeva che pesci
prendere. Telefonarle? Come? E per dirle cosa poi? Le mancava da morire
certo,
però non gli piaceva affatto il modo altezzoso con cui lo
stava trattando. In
fondo lei poteva permettersi di fare il bello e cattivo tempo, ma lui
che
scelta aveva? Oltre al fatto che l’impressione generale era
quella che se ne
sbattesse altamente delle sue condizioni a fronte di quelle che
riteneva
motivazioni molto più importanti. E aveva un bel dire Kelly
con tutti i suoi
discorsi sull’amore, ma intanto la realtà era
questa e continuare a farsi
trattare da bamboccio di certo non l’avrebbe migliorata.
“Un
po’ di dignità e che cavolo!” Si disse e
si riaccomodò sul materasso, assolutamente
determinato ad addormentarsi stavolta. Ma non gli riusciva e ogni
espediente, dal
mettersi a pancia in giù, allo stringere il cuscino tra le
braccia, aveva
l’unico risultato d’innervosirlo ancora di
più. Anzi, quest’ultimo escamotage si
stava rivelando essere il peggiore poiché, non appena
cingeva quella forma
vagamente muliebre e morbida, all’istante si ritrovava
involontariamente a pescare
nel torbido delle sue fantasie.
“Ma
porca Eva!” Imprecò spazientito mollando la presa.
Incrociò le braccia al
petto, chiuse nuovamente gli occhi, ma invece di rilassarsi,
ripensò a quanto
gli aveva intimato la sua bella in proposito. E anzi, per meglio
sottolinearsi
il concetto, si mise pure a farle il verso, imitandola con toni
striduli e
broncio offeso. Il che provocò, nel il medico di turno che
di là passava di ritorno
dalla toilette, una certa apprensione. Infatti l’uomo,
transitando a portata
d’orecchio, udì chiaramente una voce assai
equivoca affermare: “Se è questo che
vuoi da me, te lo puoi scordare Matthew. Io me ne vado e tu arrangiati!
Anzi,
sai che ti dico?
Neanche le pippe puoi farti pensando a
me!”
E su
quest’ultima frase il dottorino cacciò la testa
all’interno
scrutando con attenzione l’ambiente. In effetti si aspettava
di trovarci di
tutto, l’occupante di quella stanza infatti aveva pessima
fama, si diceva in
giro che fumasse e bestemmiasse come un turco, oltre al fatto che
facesse il
gallo con qualsiasi gonnella. Di conseguenza, si era detto il
giovincello
preoccupato, era il caso di accertarsi al di là di ogni
dubbio con chi o cosa
stesse parlando. Anche perché, ne aveva concluso accendendo
tutte le luci, un
individuo del genere non si sarebbe fatto scrupolo alcuno di far salire
di
sopra un travestito. Pure pareva non ci fosse nessuno e i due si
fissarono per
mezzo minuto senza emettere suono. Matthew aveva davanti a
sé uno sbarbato alle
prime armi che aveva tutta l’aria di essere assai ansioso e
di non sapere
assolutamente che fare. Per contro, l’altro si ritrovava di
fronte un
marcantonio, non si sa fino a che punto inoffensivo, nonostante gli
arti
ingessati, dagli occhi iniettati di sangue, la chioma arruffata, il
pallore
diffuso ed in un manifesto stato d’irrequietezza.
“Tutto
bene?” Chiese cauto, sperando che il camice potesse
proteggerlo e tastando il muro alla ricerca del campanello
d’emergenza per
averlo a portata di mano in caso estremo.
Per tutta risposta, e con suo gran sollievo, tutto quello
che ne
ricevette fu un cenno che chiaramente l’invitava ad andarsene
e svelto se la
filò.
“Ora
sì che ho fatto il pieno”, pensò
Matthew spegnendo le luci e raggomitolandosi
fin dove gli era possibile, “dopo essermi beccato del
maniaco, ci mancava solo
che mi prendessero per pazzo!”
Nonostante
tutto però gli venne da ridere, tanto che rilassò
i muscoli e restò addirittura
per un intero minuto nella stessa posizione. Ma non poteva durare, il
tarlo che
lo rodeva infatti riprese immediatamente possesso dei suoi pensieri e
arrivederci
alle cullanti braccia di Morfeo. Si voltò, si
rivoltò, sbuffando si tirò il
lenzuolo sul capo e subito dopo lo buttò all’aria,
infine aprì un occhio e
guardò ferocemente le cifre in rosso che la sveglia digitale
continuava a
sbattergli in faccia senza alcun rispetto per la sua insonnia.
“Porca miseria”,
brontolò tirando un pugno nel guanciale, “ma
quando viene mattina?”
Ma
se pure avesse fatto giorno subito, si disse arrendendosi e riaprendo
gli occhi,
che sarebbe cambiato? Niente di niente, sarebbero state solo altre
ventiquattrore da riempire bivaccando dal letto alla sedia, ciondolando
dalla
tv alla radio, dal distributore di caffè ai controlli giornalieri. Senza contare che,
ogniqualvolta sentiva il
suono degli stramaledetti tacchi di qualcuno in corridoio, non poteva
evitare
di protendersi verso la porta tutto speranzoso e con
un’espressione che si
poteva immaginare uguale a quella d’un coglione.
“Merda!”
Fece ribaltandosi supino. Com’era che, pur ritenendosi nel
giusto, si ritrovava
preda ad una frustrazione cui avrebbe potuto dare non solo nome, ma
pure
cognome, nonché forma, voce e profumo?
“Bello
schifo.” Ne concluse sfiduciato e faticosamente si
tirò su, raccattò la
stampella e a passi strascinati si portò sul balcone. Una
volta lì continuò nel
suo soliloquio, rifiutando di concedersi qualsiasi ammissione potesse
dargli
pace ed attribuendo testardamente il suo abbattimento alla calura che
persisteva
persino sulle soglie dell’alba. Da qualche parte
sotto la massa
scapigliata di capelli una voce insistentemente gli suggeriva di
lasciar
perdere, ma decise d’ignorarla e, poggiandosi alla balaustra,
si accese una
sigaretta. Al secondo tiro un’espressione disgustata gli
deformò le labbra.
“Porco mondo”, inveì, lieto che per
qualche momento potesse finalmente
indirizzare il malumore su qualcos’altro, “sembra
mi sia ciucciato l’intero
posacenere.”
Quante
ne aveva fumate quel giorno? E quante dacché… non
da quella lite, ci
mancherebbe, come se poi gliene fosse fregato qualcosa. No, no, semmai,
se
proprio si voleva cercare il pelo nell’uovo, ecco, quante ne
aveva fumate
dacché aveva persuaso uno degli infermieri a
comprargliele?
“Mm.”
Mugugnò accarezzandosi il mento ispido nel tentativo di
farne un approssimativo
conto. Ma la matematica non era mai stata il suo forte,
perciò, a dispetto
d’ogni intenzione, finì dritto, dritto a valutare
per l’ennesima volta il
discorsetto che Kelly gli aveva fatto l’ultima volta che
s’erano visti. Certo
doveva avere le sue buone ragioni per parlare a quel modo, pure,
nonostante ci
stesse mettendo tutta la sua buona volontà, né
volesse volutamente ignorare gli
spunti che gli aveva graziosamente porto, proprio non gli riusciva di
venirne a
capo. Sapeva solo
che, al di là delle
incomprensioni sentimentali,
restava il
fatto che presto l’avrebbero dimesso e che era chiaro quanto
avesse bisogno
d’una mano per districarsi in tutte quelle circostanze. Un
dettaglio che a
quanto pareva non tangeva più di tanto la sua amorevole
fidanzata, altrimenti
non l’avrebbe fatta tanto lunga. E okay, magari col suo
comportamento le aveva
potuto mancare di rispetto, ma com’è che quando
lei assumeva un atteggiamento
insensibile aveva dalla sua tutte le attenuanti del caso e lui manco
mezza? Voleva
metterla su quel piano? Beh, allora che facesse pure, ché
non aveva nessuna
voglia di mendicarne l’aiuto. Né a lei,
né a nessun’altra componente della
famiglia Punti Perfetti, che parevano agire sempre in modo da farlo
apparire
come un individuo di mezza tacca. Era stufo e non intendeva mandare a
puttane quel
po’ di dignità che ancora gli restava. Anche a
costo di rompersi le corna a
furia di cazzate.
“Kelly
può dire quel che accidenti le pare.” Ne concluse
rientrando e ingollando due
pastiglie di sonnifero. “Ma con le pezze al culo ci sto io e
se Sheila ha
scelto di fregarsene, io faccio altrettanto.”
Una
risoluzione questa che, unita all’azione dei barbiturici,
finalmente lo fece
cadere in uno stato di catalessi dalla quale emerse a mattino inoltrato
e con
le idee molto più chiare. Tanto
che,
appena sveglio, attese pazientemente che si facesse ora di pranzo e
telefonò ad
Alice. L’unica persona, si disse mentre ascoltava impaziente
gli squilli, cui
poteva rivolgersi e sulla quale ancora
poteva contare. O perlomeno lo sperava, giacché, e se ne
rendeva conto soltanto
adesso, cosa che gli dava un vago senso di colpevolezza, anche se non
sapeva
proprio spiegarsene il motivo, era da un bel pezzo che non si vedevano,
né lui
se n’era preoccupato. Chissà forse era stata
troppo occupata col lavoro per
andarlo a trovare. E quando glielo chiese, dopo i saluti ed i
convenevoli di
rito, Alice, che non era affatto rimasta colpita dal
quell’improvvisa chiamata,
gli rispose chiaro e tondo che l’aveva volontariamente
evitato perché non le
garbava affatto l’eventualità di potersi
incontrare con una qualunque delle tre
sorelle. Ma, aveva continuato senza dargli la possibilità di
aggiungere altro,
visto che da quella telefonata era facile evincere che
nell’attuale non ne corresse
il pericolo, sarebbe passata a trovarlo quello stesso pomeriggio.
“Allora,
ti sei stufato di fare l’amorevole piccioncino?” Lo
apostrofò, per
l’appunto, varcando la soglia qualche ora dopo. Matthew si
rattrappì contrito nel
suo letto di dolore, entrando Alice l’aveva squadrato da
sopra agli occhiali in
modo che tutto era, tranne che promettente. Ciononostante aveva le
braccia
cariche di generi di prima necessità quali sigarette,
stuzzichini assortiti e
prodotti vari d’editoria, cosa che gli ridiede un
po’ di fiducia riguardo a
quanto poteva dirle. Effettivamente si aspettava una paternale senza
fine, tuttavia
quelle erano chiare offerte di pace, quindi fu facendole un premuroso
gesto di
benvenuto che le rispose, ma non prima di averle scoccato un ruffiano
sorriso.
“Tu
sì che hai la vista lunga e mi sa che lo sapevi fin dal
primo momento come
sarebbe finita.”
Pur
segretamente compiaciuta da quella chiara attestazione di merito, la
donna
comunque non si fece fregare, ché non era proprio il tipo da
cedere a certe
moine, per cui ci tenne a mettere immediatamente i puntini sulle i.
“Sentimi
bene vecchio mio”, cominciò con tono di
rimprovero, “non m’interessa quello che
è successo tra te e quella,
ma come
ti stai comportando con me non mi piace affatto. Prima mi scarichi di
brutto e
poi, quando la tua amichetta ti manda a spasso, mi richiami disperato?
Questo
si chiama sfruttamento, sai?”
“Alice”,
ribatté pungente, nonostante quell’accusa
contenesse molto di più che un
fondamento di verità, “se la pensavi
così, potevi anche dirmelo a telefono.
Ora”, continuò con calma, ma in modo da essere
inequivocabile, ché davvero ne
aveva fin sopra la cima dei capelli, “se vuoi darmi una mano
te ne sarò
eternamente grato. In caso contrario, evitati la predica,
ché non ne posso più di
femmine che mi criticano per qualsiasi cosa faccia.”
“Ma
che faccia tosta!” Ribatté incurante di quelle
lamentele e perlopiù maldisposta
verso quel maldestro tentativo di rivalsa. Ma poi, considerato che
Matthew non
ce l’aveva con lei e che, anzi, le stava implicitamente
chiedendo venia quale
sua ultima ancora di salvezza, decise di tagliar corto.
“Veniamo a noi,
d’accordo?”
“Sì
che è meglio.” Rispose l’altro
soffocando a stento un sospiro di sollievo per
lo scampato pericolo.
“Dopo
che ci siamo sentiti mi sono attivata per verificare lo stato attuale
delle tue
finanze. Fortunatamente negli archivi di polizia sono ancora
consultabili le
copie dei tuoi documenti, altrimenti sarebbe stato un processo
parecchio
difficoltoso. Inoltre mi avevi dato delega quale esecutore
bancario in tua
assenza, perciò non ho avuto problemi ad accedere ai dati
del fondo di
previdenza.”
“Molto
bene.” Fece compito, per la verità non ci aveva
capito più di tanto e non sapeva
che altro dire, ma davanti ad una simile efficienza era quantomeno
doveroso
mostrarsi impressionato.
“Dunque”,
continuò Alice come se non l’avesse affatto
interrotta, “ufficialmente fai
ancora parte del corpo di polizia, anche se per il momento risulti in
congedo
per malattia. Il che vuol dire che per tutto il tempo hai continuato a
percepire lo stipendio, più
un’indennità mensile per incidente sul
lavoro.”
Detto ciò fece una pausa e gli mostrò una
distinta dei relativi conti. Matthew,
per farla contenta, finse di studiarseli attento, dopodiché
la fissò
interrogativo.
“Detto
in parole povere?”
Alice
levò gli occhi al cielo e s’ingiunse, per
l’ennesima volta dacché s’erano
conosciuti ai tempi lontani del commissariato, a portare pazienza.
“Significa che depositata sul tuo
conto corrente c’è una
somma considerevole e che per il momento non hai di che preoccuparti
per il tuo
mantenimento.”
“Menomale.”
Ripose sollevato, ma Alice, che detestava sovra ogni cosa il lassismo e
che
trovava la sua propensione alla fannullaggine detestabile,
frenò subito quei
moti.
“Non
credo mio caro, certo al momento rientri ancora nei tempi previsti per
il
congedo sanitario, ma se il tuo stato dovesse prolungarsi, saresti
costretto a
lasciare l’incarico. Questo significa che devi darti da fare
non solo per
guarire, ma anche per trovarti un’altra
occupazione.”
A
fronte di questa eventualità Matthew
s’accigliò e mugugnò qualcosa
d’intelligibile, tanto che la donna ritenne opportuno non
insistere oltre
sull’argomento. Del resto il male da cui era affetto era
talmente imprevedibile
che nessuno, lui per primo, avrebbe potuto dargli una definizione
temporale. E
se era inutile pretendere in questo momento una qualsivoglia iniziativa
da
parte sua, in ogni caso riteneva suo dovere fargli notare
l’inutilità dello
starsene con le mani in mano, ché vivacchiare in attesa di
tempi migliori era
un giochetto cui si era già prestato e gli esiti erano stati
pessimi. Ad ogni
modo ora che gliel’aveva detto, potevano passare al punto
successivo.
“Per
quanto riguarda il domicilio, come ebbi a dirti tempo fa, possiedi un
appartamento. Certo non è una reggia, ma è
comunque un tetto.”
“Una
casa piccina picciò. Chissà perché, ma
me l’immagino un buco maleodorante,
disordinato e pieno di scarafaggi.” Replicò
disfattista, quella conversazione tutto
stava facendo, tranne che metterlo di buonumore .
“Oh,
è stata maleodorante e disordinata finché ci sei
vissuto. Topi e scarafaggi ne
hanno preso possesso dopo.” Precisò Alice con
tagliente ironia. Poi, onde evitare
di dargli ulteriore modo per crogiolarsi nelle sue inquietudini,
continuò:
“Comunque piantala di fare il frignone e pensa ai vantaggi.
Hai vissuto là per
tanti anni ed è probabile che tornandoci qualcosa si smuova.
Che ne sai che il
contatto con i tuoi oggetti quotidiani non ti possa aiutare?”
“Sei
sprecata come poliziotta, secondo me dovresti vendere pentole e
materassi in tv.”
Affermò per tutta risposta, ma Alice non era affatto il tipo
di donna da lasciarsi
intimidire da un po’ di sarcasmo.
“Quanto
al fatto che è stata abbandonata per tanto tempo”,
insisté imperturbabile, “basta
che mi dica quando sei fuori di qui e nel frattempo manderò
un’impresa di
pulizie a fare lo sporco lavoro.”
“Hai
ragione scusami.” Ammise infine dopo che averci pensato un
po’ su. In fondo Alice
non poteva farci nulla se gli si prospettava un eremo spoglio e triste.
Piuttosto
si stava prodigando in tutti i modi, nonostante l’avesse
trattata come una
pezza da piedi. “Mah, credo che per il weekend potrei
già essere là. Hai anche
le chiavi?”
“No,
ma so dove procurarmele.”
“Bene.“
Fece fissandola riconoscente, poi prese il coraggio a due mani e disse
quanto
andava detto. “Sai forse me ne rendo conto solo adesso, ma
stai facendo davvero
molto per me e sono certo che l’abbia fatto spesso in
passato. Insomma, quel
che intendo dire è che non basterebbe a ringraziarti neanche
un milione di
volte, soprattutto perché nulla ti obbliga.”
“Siamo
amici no?” Lo interruppe lei arrossendo visibilmente,
ché certe manifestazioni
la mettevano molto a disagio e peggio che mai quando provenivano
dall’unico che
era stato capace di far breccia nella sua inespugnabile corazza.
“Certo,
i migliori amici che ci possano essere.” Replicò
Matthew sorridendole amabile e
del tutto ignaro degli altarini d’un tempo, per non parlare
del possibile fuoco
che ancora poteva covare sotto la cenere. Ma Alice era stata molto
attenta a
non tradirsi e non c’era ragione che qualcuno potesse
sospettare. “Mi
piacerebbe ricambiare in qualche modo. C’è
qualcosa che posso fare per te?”
“In
un certo senso.“ Fu la risposta ambigua che ne ebbe. Alice
Asatani infatti
prima di pensare come una donna badava particolarmente a ragionare da
detective
e da tempo si stava chiedendo se fosse il caso di azzardare una
determinata mossa.
Non si trattava solo di decidere se
quello che stava per fare fosse giusto, giacché non aveva
nessun dubbio quanto
a quello e non solo per una questione di etica professionale ed umana.
Fermo
restante che era convinta che quanto si proponeva avrebbe potuto
aiutarlo a
ricordare. In ogni caso il vago timore che fino a quel momento
l’aveva sempre
indotta a fermarsi ormai era superato e ora si trattava solo di farlo,
smettendola
di cincischiare e rimandare all’infinito. Pure, ancora si
chiese se se la sentiva
di rischiare l’apparente tranquillità di un amico
perché la legge potesse
seguire il suo corso.
“Dopotutto,
se decido di sì, non ne uscirei meglio di quella sfacciata
ipocrita.” Pensò riferendosi
a quelle che in cuor suo aveva da anni appurato essere le
falsità di Sheila.
Irrigidendosi se la rivide davanti, compiaciuta e tronfia
com’era sempre stata
e come seguitava ad essere, e risoluta si decise.
“E’ mio dovere ed è giusto
che anche lui scopra la verità.”
Quindi
frugò nella borsetta e ne estrasse una delle tante prove
indiziarie che insieme
avevano raccolto e catalogato. Da tempo l’aveva prelevata
dall’archivio della
sezione criminale ed oggi finalmente gliela mostrava. Era un rettangolo
di
carta rigida, bianco e lucido, sul quale spiccava il disegno stilizzato
di una
testa felina. Ovvero uno dei singolari biglietti di preavviso che Occhi
di
Gatto aveva l’abitudine di recapitare al loro distretto prima
d’ogni azione
criminosa.
“Ti
ricorda niente?” Gli domandò piazzandoglielo sotto
il naso e ripensando
a tutte le volte
che ne avevano avuto tra le
mani uno. Matthew lo prese o lo soppesò con espressione
blanda. Era palese che
Alice ci teneva molto, tanto che subito si rimangiò quanto
stava per dirle, ché
se avesse potuto parlare senza urtare la sua suscettibilità,
le avrebbe chiesto
senza remore che accidenti fosse quella stronzata. Pure, mentre
osservava quel
coso solo per compiacerla e senza alcun reale interesse, man a mano che
gl’istanti
passavano, si ritrovò seriamente concentrato. Avvertiva
infatti il destarsi improvviso
dell’attenzione e non era una sensazione ingannevole come le
altre volte, no,
stavolta percepiva chiaramente un qualcosa agitarsi nel fondo della sua
mente e
si sentiva esattamente come qualcuno che abbia una parola sulla punta
della
lingua, ma incapace di pronunciarla. Non fece un gesto né
articolò parola,
continuava semplicemente a fissare insistente quell’oggetto,
quasi a volerne
spremere con la sola forza di volontà, tutte le risposte che
disperatamente
stava cercando. Non poteva sbagliarsi, quel curioso biglietto lo
rapportava a
qualcosa che non poteva definire, ma che dentro la testa gli stava
scatenando
un tumulto. Per timore che quella fugace percezione potesse
interrompersi
continuò insistito a fissarlo finché presero a
dolergli gli occhi, ma non ci
badò, né distolse lo sguardo. Non aveva nessuna
intenzione di mancare il momento
in cui, ne era certissimo, una traccia qualsiasi della sua
vita ne
sarebbe emersa.
Tremante
socchiuse le labbra come a voler parlare, ma tutto quello che ne
uscì fu un
singulto strozzato. Improvvisamente una fitta tremenda gli
trapassò le tempie e
quanto aveva preavvertito in precedenza si mutò in una
pulsazione martellante che
pareva volesse spaccargli il cranio in mille pezzi. Pazzo di dolore e
frustrazione
si portò le mani al capo e prese a gemere.
A
questa vista Alice balzò in piedi preoccupata e a gran voce
chiamò aiuto.
Subito accorse un’infermiera che, innanzi allo spettacolo del
paziente che si
teneva la testa lamentandosi e scuotendosi, senza indugio gli
somministrò
un forte sedativo. L’effetto fu immediato, ma per sicurezza
fu fatto stendere e
gli fu applicata una flebo supplementare che a poco a poco lo
calmò fino a
farlo assopire.
Durante
tutto quel trambusto Alice se n’era rimasta in disparte per
non intralciare il
lavoro dei sanitari, intanto però il suo abituale raziocinio
ne stava uscendo
piuttosto scosso, ché mai avrebbe immaginato le sue azioni
avessero potuto scatenare
una reazione tanto forte, oltre che repentina. Concitatamente
scansò quelli che
suppose essere sensi di colpa e si concentrò su quella che
doveva essere la sua
mossa successiva. Ché ormai era fatta, aveva piantato un
cuneo indelebile in
quella terra di nessuno e non aveva più senso chiedersi se
la necessità
giustificava i mezzi. Solo voleva rassicurarsi che stesse bene, almeno
questo.
Perciò parlò a lungo col medico che
l’aveva in cura e restò lì a vegliarlo
mentre scivolava in uno stato d’incoscienza che tanto torpida
non doveva
essere, giacché di tanto in tanto continuava a dimenarsi,
stringeva i denti e sembrava
in balia di un’agitazione che lei stessa aveva
volontariamente provocata. Sì,
non c’erano dubbi, gli stava facendo del male e ne era
responsabile. Ma, cosa
che riteneva molto più importante, finalmente nella
coscienza di Matthew qualcosa
stava sedimentando, presto sarebbe uscita allo scoperto e lei era certa
di non
avere nulla di cui rimproverarsi.
In
quegli stessi giorni a casa
Tashikel, e nell’omonima
galleria, tutto pareva andare avanti
come al solito. Nondimeno, andando al di là delle mere
apparenze, era palese
che Sheila stava facendo finta di nulla e che le sorelle la stavano
pazientemente
assecondando, allo scopo neanche troppo occultato, di non forzarle la
mano. Ché
entrambe conoscevano fin troppo bene la testardaggine asinina da cui
Sheila era
affetta. Di conseguenza, prendendo
debito
spunto dalle precedenti esperienze, Kelly e Tati di comune accordo
avevano deciso
che sarebbe stato preferibile lasciarla cuocere nel suo brodo fintanto
ne
avesse avuta voglia.
In
un certo senso ignoravano a quanto ammontasse la somma dei giorni
necessari
perché ciò avvenisse, ma nel frattempo stavano
portando avanti una serie
d’insistite e sibilline intromissioni che, a tempo debito,
speravano avrebbero
dato frutto. Comunque la stessa Sheila pareva quasi matura per essere
colta. Ah
certo, davanti a loro badava a mostrarsi efficiente e piena di vita
come al
solito, peccato però che, quando si credeva inosservata,
tirasse dei frequenti
sospironi ed assumesse un’aria a tal punto depressa che alle
sorelle veniva
un’irresistibile voglia di prenderla e scuoterla come un
tappetino da bagno. Un
nonnulla poi era sufficiente a farle perdere le staffe, per cui
ultimamente le
liti erano state parecchio frequenti tra quelle mura. Non ultimo,
appena pochi
giorni prima e sempre a causa dei ghiribizzi dell’artista
russo, per poco non era
successo l’irreparabile. Tuttavia aveva minacciato
l’uomo di prenderlo per la pelle
delle ginocchia e di lanciarlo fuori dalla sala esposizioni, per poi
ripetere
la medesima operazione con le sue pompose installazioni, se non
l’avesse piantata
immediatamente di darle il tormento con le sue pretese assurde. Col
solo risultato
che il russo adesso faceva l’offeso, nonché il
prezioso, e che il vernissage
che avevano programmato da tempo, e che si sarebbe dovuto tenere di
lì a poco,
poteva saltare da un momento all’altro.
Era
chiaro come il sole quindi che ormai l’irritazione per il
gesto improvvido di Matthew,
a furia di nostalgia e rimpianto, le era quasi passata. Quel che le
sorelle ignoravano
però, era che invece che dileguarsi la sua rabbia si era
diversificata e aveva
preso tutt’altra direzione. E quel che le stava rodendo il
fegato a posteriori
era la riflessione sul fatto che il suo sedicente fidanzato, nonostante
quel
che andava millantando, la stava bellamente e apertamente ignorando. Oh
certo, ammetteva
con sé stessa che gli sarebbe stato alquanto difficile
rintracciarla, in quanto
non sapeva il suo indirizzo né il numero di telefono.
Tuttavia, stando a quanto
le aveva detto Kelly (che ad arte aveva lasciato cadere con falsa
noncuranza
quella bomba inesplosa) riferendosi all’ultima volta che si
erano visti, pareva
che Matthew alla prospettiva della sua devastante furia non si fosse
agitato
più di tanto. Dettaglio questo che aveva dato la stura a
tutta una serie
d’incertezze cui Sheila faticava a star dietro, al punto che
successivamente avrebbe
voluto chiedere alla sorella spiegazioni meglio particolareggiate in
proposito.
Di più, le sarebbe bastato pure la ripetizione dei soli
fatti parola per
parola, giusto in modo d’appurare d’aver capito
senza nessuna possibilità d’equivoco.
Ma, naturalmente, l’orgoglio gliel’aveva impedito e
non aveva avuto il nerbo di
cedere a quella tentazione, con il solo risultato di non far altro che
macerarsi nell’incertezza per giorni e giorni.
Cosicché,
il mattino successivo al pomeriggio in cui Asatani si era recata in
ospedale e
aveva provocato quel casino, lei se ne stava accoccolata sul divano,
stringendo
un cuscino tra le braccia e con un’espressione talmente
afflitta, che Tati
vedendola decise fosse giunto il momento di farla finita.
“Senti
Kelly“, fece entrando a passo di carica nella camera della
sorella maggiore, “non
ti pare che dovremmo parlarle?”
“Non
mi piace veder soffrire Sheila, Tati.” Affermò la
più grande meditabonda. “Ma
ti confesso che per la prima volta in vita mia non so come gestire la
situazione.”
“Beh,
allora lascia fare a me.” Rispose risoluta. Fino a quel
momento infatti Kelly le
aveva sistematicamente impedito di metterci bocca, esortandola a
rimandare ed
avere pazienza. Ma Tati era un carattere impulsivo, non conosceva
ponderatezza
e soprattutto si era stufata di camminare sulle uova. Quindi non attese
risposta e ritornò in salotto, seguita a ruota da una Kelly
lieta, perché una
volta tanto le veniva demandato l’onere e il bastone del
comando passava in
mano altrui.
Una
volta là, senza tanti complimenti, la piccola si
parò davanti alla sorella, che
ancora stazionava sul divano, anche se al suono dei loro passi aveva
dissimulato l’espressione affranta e nel frattempo aveva
preso a sfogliare una
rivista con fittizio interesse, e iniziò il discorso che da
tempo aveva nel
gozzo.
“Ehi
Madama Butterfly è ora di piantarla con questo
strazio!” L’apostrofò con le
mani sui fianchi. Sorpresa dal tono contrariato della ragazza Sheila
fece tanto
d’occhi, ma Tati non se lo diede per inteso e
continuò: “Dico a te Cio-Cio-san!”
“Ma
che stai dicendo?” Esclamò a questo punto
alzandosi ed assumendo a bella
posta un’aria indifferente.
“Sto
dicendo che stare qui ad aspettare come una geisha disperata
è tempo perso! E aggiungo
pure che l’unico fil di fumo che vedrai levarsi un bel
dì, sarà quello che
s’alzerà dal tuo cervello per il troppo pensarci.
Datti una svegliata!”
“Tati”,
rispose sarcastica, con una calma più ostentata che altro,
“se sei stata al
teatro dell’opera e vuoi farmelo sapere, non è
questo il modo.”
“Oh
no, altro che opera. Quello che volevo dirti, anche se ormai
l’avresti dovuto
capire da un bel pezzo, è che sarà alquanto
improbabile vedere Matthew arrivare
qui strisciando sulle braccia come un vietcong. Quindi sorella cara,
perché non
la pianti e vedi quello che devi fare?” Concluse pestando un
piede atterra. E
fu una specie di segnale, giacché Sheila perse completamente
la compostezza e
cominciò finalmente a risponderle per le rime.
“Oh,
ma davvero? E dall’alto della tua vastissima esperienza nelle
questioni di cuore,
che cosa mi consiglieresti di fare?”
Domandò con evidente ironia inarcando
un sopracciglio. Ma le reazione che si era aspettata a quella
provocazione non
venne, anzi, la piccola di casa riuscì a spiazzarla ancora
una volta in quanto,
mentre pareva che fosse lì, lì per risponderle
con impertinenza e cominciare
una discussione con tutti i crismi, assunse un tono assennato e
provò a farla
ragionare.
“Avanti,
non è la prima volta, né sarà
l’ultima, che tu e quell’altra testa di
legno andate a scontro. Va bene ti sei arrabbiata, ma di tutta questa
faccenda
non hai considerato i lati positivi.”
“Ma
davvero?” Motteggiò Sheila la quale,
più che irritata, a questo punto cominciava
a sentirsi parecchio incuriosita.
“Certamente.”
Replicò Tati annuendo, quindi gettò
un’occhiata a Kelly e, ricevutone il tacito
assenso, continuò: “Hai mai pensato al fatto che
la totale mancanza di
sdolcinatezza da parte del tuo fidanzatino è corrispondente
ad un’altrettanta
scarsità d’esperienza?”
In
effetti Sheila non ci aveva mai pensato, ma ora che la sorella glielo
stava
chiedendo in modo così convincente, forse era il caso di
cominciare a
rifletterci. Per la verità non sapeva che risponderle,
perciò Tati si senti
spronata ad andare avanti. “Questo secondo me non fa altro
che confermare che
dopo di te c’è stato il nulla.”
“Non
esserne troppo sicura”, buttò lì
beffarda per il solo gusto della polemica, “ho
il sospetto che Matthew sarebbe un impedito anche dopo essersene uscito
da un
corso intensivo di sei anni in un gineceo!”
“Balle,
si tratta proprio di questo. E poi se ci pensi”, aggiunse
cominciando a
ridacchiare, “saltarti addosso è una
dimostrazione di carenza prolungata.
Fai due più due sorellina che non è
difficile!”
“Forse
Tati non ha tutti i torti.” S’intromise Kelly prima
che quest’ultima sciupasse del
tutto l’effetto del suo discorso a suon di battutine
spudorate. “E non mi
meraviglierebbe più di tanto neppure sapere che sul serio
abbia continuato a
pensare a te durante tutto il tempo in cui siete stati separati. E poi
renditi
conto che maldestro era prima, figuriamoci adesso che è
più confuso che mai.”
“Ecco
che ricominci a difendertelo neanche fosse un dono dal
cielo!” Ribatté Sheila
non ancora disposta a cedere. Per la verità avrebbe voluto,
ma perché ne uscisse
con la dignità intatta, occorreva che insistessero un altro
po’. E Kelly, che
conosceva bene i suoi polli, murò a rete
quell’obiezione ribattendogliela
all’istante.
“Dovresti
perdonarlo e passarci sopra una volta per tutte Sheila.”
Consigliò giudiziosamente,
dopodiché le scoccò uno sguardo malizioso e
aggiunse: “Naturalmente non in quel
senso, anche se di sicuro taciterebbe per sempre ogni
lamentela!”
“Che
fai, ti ci metti anche tu adesso?” Inveì stizzita
per nascondere l’imbarazzo,
intanto che Tati cantava a gola spiegata Sono
una donna, non sono una santa, non tentarmi, non sono una santa. Kelly
eroicamente riuscì a mantenere un contegno serio, ma la voce
aveva forti tracce
d’ilarità quando le domandò:
“Non intendi riconciliartici?”
“Sì,
certo.” Ammise infine sospirando. Lo stesso sospiro di
sollievo che non
poterono impedirsi di tirare entrambe le sue sorelle. Ovviamente se ne
accorse,
ma, visto che le premeva di più sapere quanto fino a quel
momento si era negata
di chiedere, finse di non averci fatto caso. “Ma a te
precisamente cosa ha
detto?”
“Molte
sciocchezze e qualche verità.” Affermò
Kelly incoraggiante, poi le passò un
braccio rassicurante attorno alle spalle e aggiunse: “Ma mi
ci gioco quel che
vuoi che in questo preciso istante muore dalla voglia di vederti e si
sta
dannando l’anima per trovare un modo per farlo.”
E
c’è di più “,
esclamò Tati con aria saputa, “chi ti dice che
Asatani non gli
stia girando intorno a cerchi sempre più stretti peggio di
uno squalo? Senza
contare quella dell’impronta di rossetto. Fossi in te, mi
darei una mossa.”
Concluse allusiva rimettendosi a cantare quel motivetto evocativo.
“Ma
figuriamoci, hai fatto due esempi pessimi.”
Replicò Sheila alzando il mento e
mettendosi involontariamente in posa, come a dire che rispetto a lei si
trattava di due nullità.
“Già,
ma intanto loro sono là e chissà che sta
succedendo.” Insinuò Tati con ironica
malafede, per poi assestarle la botta finale: “Inoltre, se ho
fatto bene i miei
calcoli, tra un po’ dovrebbe esserne fuori. Dì,
come la metti se una volta
uscito se ne va di nuovo per la sua strada?”
“Va
bene, va bene!” Sbottò capitolando e levando le
mani in segno di resa. “Ci vado
e spero tanto che adesso sarete contente!” Affermò
enfatica evitando
d’incrociarne gli sguardi dopodiché, senza
aspettare risposta, se ne andò in
camera sua a cambiarsi. A ques’uscita da tragica primadonna
Kelly e Tati si
guardarono sogghignando e cominciarono a ridere senza
riuscire a fermarsi
per un bel pezzo.