Quinto capitolo. Confesso che è stata un’impresa
scriverlo. Innanzitutto perché all’inizio avevo immaginato un pairing diverso (Near x Xion, che ho poi scartato, probabilmente perché odio
Xion e la odierei ancora di più se “circuisse”
quel cucciolo incompreso di Near è__é x’D);
in secondo luogo, perché ho dovuto modificare davvero molto della trama
originale del film prescelto. Spero anzi di non aver combinato disastri. u.u’
Per certi versi, questo capitolo potrebbe essere considerato un eventuale
seguito di “#3. Alice in Wonderland”. Detto questo, non è
che mi convinca poi molto, il che mi dispiace da morire perché ci tenevo
moltissimo a questo pairing: coinvolge i miei due
personaggi preferiti tra quelli trattati finora…
ç__ç Beh, spero comunque che vi piaccia, anche se è
scritto in modo un po’ confuso.
Ringrazio come sempre tutti i miei meravigliosi lettori! *-* E per
le recensioni:
Rein94: x’D
Hai ragione, è stato un po’ avventato far restare Sayu a dormire da Zexion nello
scorso capitolo… Sono così perversa a
volte! >w< xD Per quanto riguarda Mello, beh, l’idea che lo coinvolge c’è… Vedremo cosa ne verrà fuori! ^^ Un
milione di grazie, sei sempre dolcissima!
Dany92: Ma non
sei affatto monotona nei tuoi commenti, Dany-chan,
anzi! Ogni volta mi fai emozionare come se fosse la prima…
E guarda che dico sul serio! *////* Non so come ringraziarti. Un bacione
enorme!
Vi lascio al capitolo. Buona lettura! :)
* * *
*A few simple fairytales*
Prompt: #2. The Little Mermaid
Personaggi: Naminè [Kingdom Hearts], L [Death Note]
Genere: Introspettivo, Drammatico
Rating: Giallo
Note: AU (vale solo per Naminè)
Acqua.
Tanta acqua.
Non riusciva a vedere altro. Sopra e sotto
di lei, dentro e fuori di lei. Acqua scura e fredda.
Non riusciva a sentire nulla, se non che il
suo posto era quello.
E vi si lasciava andare senza opporre
resistenza. Il suo posto era quello.
Si
svegliò dopo molto tempo [una vita? un secondo?] e la prima sensazione
che la colpì fu quella dell’asciutto.
Dov’era la sua acqua? Dov’era
il suo mondo? Non era lì che doveva stare. Non era quel profumo di
lenzuola calde che doveva sentire, ma l’odore pungente del salmastro. Non
era il ritmo lento del suo respiro che doveva scuoterla, ma il movimento
ipnotico dei flutti.
Là – dovunque fosse quel
‘là’ – non era il suo posto.
Dove mi hanno
portata?
Aprì gli occhi.
Dopo l’asciutto, fu il colore. Un
bianco immacolato si distendeva a perdita d’occhio davanti al suo sguardo.
Le ci volle qualche istante per capire di essere distesa sotto il baldacchino
candido di un letto sconosciuto ed immenso.
Anche questo era sbagliato. Lei voleva il
blu del cielo lontanissimo che si specchiava nell’acqua. Non quel bianco,
non quel letto.
Si mosse con estrema lentezza. Ricordò
di avere due mani e se le portò al petto, stringendo piano le dita
attorno al lenzuolo. I piedi nudi scorsero sul materasso morbido. Che cos’aveva
indosso? Una vestaglia?…
«Ben svegliata.»
La voce arrivò improvvisa. Le fece
anche un po’ paura. Voltò il capo sul cuscino, finché
poté vedere la persona seduta accanto al letto.
A prima vista si sarebbe detto un ragazzo
normalissimo. Occhi e capelli neri, pelle chiara, qualche anno più di
lei. Ma ad un’occhiata più attenta si potevano intravedere mille
piccole stranezze, mille sfaccettature inusuali, che per qualche motivo glielo
rendevano simpatico, così, a
pelle. Ad esempio il modo in cui se ne stava appollaiato sulla poltroncina in cuoio
bianca. O il leccalecca gigante, di quelli che i bambini guardavano con occhi
sognanti, appoggiato alle labbra nascoste al suo sguardo. O anche il modo
attento e gentilmente curioso in cui la guardava.
Io non sono me. Non sono quella che ricordo di essere.
Sono una principessa, mi sono appena svegliata, ed un
principe che vuole conoscere la mia storia aspetta che io gliela racconti.
Che pensiero buffo. Di certo aveva dormito
molto.
[ Prova ne era che
aveva ancora voglia di sognare. ]
Il ragazzo dagli occhi neri scostò
appena il leccalecca e parlò di nuovo.
«Sei qui da poche ore. Cominciavo ad
essere curioso.»
Lo guardò interrogativamente –
più per il desiderio di capire dove fosse quel ‘qui’
piuttosto che di conoscere il motivo della sua curiosità. Ma lui rispose
soltanto al secondo perché. Inclinò la testa e allontanò
ancora di più il dolce, portandosi un polpastrello al labbro inferiore.
«Curioso di vedere i tuoi occhi.»
Lei non reagì in alcun modo. Continuò
a guardarlo dal basso del cuscino, respirando l’odore caldo di quel letto
non suo e lasciando che la mente riaffiorasse a poco a poco alla realtà.
Niente da fare. Vedeva soltanto acqua.
Perché il
principe mi ha strappata all’acqua?
Avrebbe voluto chiederglielo. Avrebbe voluto
saperlo fare, aprire la bocca e far uscire le parole. Ma non ci riusciva. Forse
non c’era abituata. In acqua non c’è
bisogno di parlare.
Lui proseguiva silenzioso il suo esame,
osservandola con un’intensità quasi invadente. Concentrato sul suo
viso, sui suoi occhi, come alla ricerca disperata di qualcosa.
[ Anche lui. ]
Alla fine aggiunse solo un’ultima
parola.
«Riposa.»
Lei non voleva riposare. Lei voleva il suo
mondo. Lo voleva indietro. Perché non poteva avere altro.
Eppure non riuscì a non seguire quel
consiglio. Sentì le palpebre chiudersi, e il fruscio silenzioso dell’acqua
calarle addosso dalla mente stanca.
La presenza del ragazzo restava lì,
al margine del suo dormiveglia.
Poche ore, le aveva detto. Poche
ore trascorse a dormire tra quelle lenzuola bianche e calde e asciutte, lontana
da ciò cui apparteneva.
Prima di allora – prima dell’acqua
– non ricordava nulla [di piacevole].
Si svegliò di nuovo, e questa volta
si guardò intorno più a lungo nella stanza.
Pareti spoglie, chiare, asettiche. Mobili
pochi, e poco vissuti. Una finestra chiusa che aveva l’aria di esserlo
sempre stata. Soltanto la poltroncina in cuoio bianca sembrava corrotta da un
uso prolungato. Ma era difficile notarlo: il ragazzo dagli occhi neri vi era
ancora appollaiato sopra.
Non parlava, il ragazzo, come se volesse
lasciarle il tempo di osservare il suo
mondo. Senza chiederle come fosse quello da cui veniva lei.
Non parlava, limitandosi a sfiorarsi il
labbro con il dito e a girare incessantemente il cucchiaino in una tazzina da
tè colma fino all’orlo, posata sul bracciolo della poltroncina
accanto ad una scatola di zollette di zucchero.
Non parlava e non pretendeva neppure che
lei parlasse.
Forse l’hai
capito che non volevo essere svegliata, principe.
Il
primo giorno fu così; lungo e silenzioso. Si guardarono in silenzio e in
silenzio lasciarono aleggiare in sospeso le domande.
Il secondo giorno il ragazzo continuava a
non parlare, ma posò sul comodino accanto a lei un blocco di fogli
bianchi e una scatola di colori.
Il terzo giorno, lei era seduta contro la
testiera del letto, e i fogli bianchi erano pieni dell’azzurro dell’acqua.
«Sei
brava.»
Il ragazzo la guardava dalla sua solita
posizione. Erano le prime parole che le rivolgeva da molto tempo, dal momento
in cui si era svegliata e l’aveva trovato ad aspettarla tranquillo in
quel posto troppo asciutto.
Lei tenne gli occhi bassi e continuò
a stendere l’azzurro sull’angolino del foglio. Questa volta non era
un oceano, ma un lago; una distesa circoscritta dai limiti del foglio ma
immensa [accogliente] nelle sue
intenzioni. Il pastello era ormai un pezzo di legno consunto; ma era anche l’unica
cosa, nell’asciutto, a poterla riavvicinare alla sua acqua.
Poi il ragazzo fece una cosa che non aveva
mai fatto prima davanti a lei. Si alzò.
Sollevò lo sguardo, curiosa. Lo aveva
sempre visto lì, quando si addormentava e quando si risvegliava, fermo
sulla sua poltroncina di cuoio con un qualche immancabile dolce in mano. Ora che
lo vedeva in piedi le sembrava diverso.
[ Uguale a tutti gli
altri. ]
Ma c’era ancora qualcosa di lui nella
sua postura, nelle spalle incurvate e nel capo chino; c’era lo stesso
ragazzo strano che si sedeva sui talloni e si tormentava il labbro con il dito.
C’era lo sconosciuto dai silenzi interminabili e gli sguardi
insostenibili.
«Ti senti meglio, adesso?»
C’era il principe che senza il bisogno di alcuna
parola aveva capito quanto lei fosse stata male.
Lo guardò a lungo, incerta. Non aveva
ancora modo di rispondergli. Non voleva, o non ci riusciva. Sollevò lentamente
le spalle.
Il ragazzo annuì, come se capisse. E
probabilmente era proprio così.
All’improvviso le voltò le
spalle e camminò in modo buffo verso la finestra alla parete opposta
rispetto al letto. La raggiunse, si fermò e creò uno spiraglio
nella pesante tenda di tessuto bianco. Uno spiraglio appena – ma sufficiente
a scarcerare un filo di luce rossastra che lei identificò come un
tramonto.
Il ragazzo parlò senza guardarla. Era
la prima volta che lo faceva.
«C’è una cosa che vorrei
tu vedessi.» Una breve pausa. «Se ti senti sufficientemente in
forze da uscire.»
Lasciò cadere di nuovo la tenda
sulla luce e si voltò a guardarla.
E lei, semplicemente, come al primo
sguardo, si fidò del suo sguardo.
Mosse
quei passi come se fossero i primi di tutta la sua vita. E forse era proprio
così. In acqua non c’è
bisogno di camminare.
Percorse lenta la stanza bianca in cui
aveva trascorso quei [primi?] tre
giorni nel mondo asciutto; accanto a lei, tanto vicino da poterla sostenere e
tanto distante da poterla lasciare a se stessa, il ragazzo seguiva attento i
suoi passi.
Fuori dalla porta, lungo un corridoio,
giù per le scale. Il mondo del ragazzo le scorreva intorno, silenzioso e
bianco, e lei pensò che era davvero il posto adatto a lui.
[ Ma a lei no. Lei apparteneva all’acqua. ]
Quando il ragazzo aprì la porta che
la separava dall’esterno e dalla sua luce di sole al tramonto,
istintivamente chiuse gli occhi.
«Non avere paura.»
Una frase sicura, limpida. L’aveva
sussurrata piano, ma con il tono di chi se rassicura qualcuno è perché
vuole farlo davvero.
Aprì gli occhi e continuò a
seguirlo.
Fuori da quella costruzione che dal di
fuori le sembrò un posto per anime confuse, e giù per un pendio
dolce ed erboso, fino a che lo sguardo poté spingersi su quella stessa
immagine che lei aveva trasfuso più e più volte sui fogli bianchi.
Uno specchio d’acqua pura.
Il lago che aveva disegnato poco prima.
Per la prima volta in quei tre giorni, fu
invasa da mille emozioni che la fecero sentire davvero viva. Rivisse tutto con
chiarezza.
E l’ossigeno la soffocò.
«Che
hai, piccola?»
«Mi sono
persa.»
Lei si
era persa, letteralmente. Aveva smarrito la
coscienza di se stessa.
Era solo
una bambina quando i suoi genitori erano rimasti uccisi in un incendio. A partire
da quel momento, lei e sua sorella erano state perennemente sole e in balia
degli eventi. Esposte alla crudeltà di quella domanda indifferente posta
da una classica persona sconosciuta.
Sua sorella.
La ragazza coraggiosa, la ragazza positiva. Così diversa da lei.
Le si
era attaccata in ogni modo possibile, si era abbandonata alle sue cure e al suo
modo di vedere colorate le cose anche quando intorno infuriava la tempesta. Perché
se era vero che lei era la più saggia, la più
assennata, lei era anche la
più debole.
Non si
va da nessuna parte, con la sola saggezza. Quando non hai coraggio non vivi. Esisti, soltanto.
Kairi no. Lei
viveva. Per questo motivo era la sua
ancora.
Per questo
motivo, quando aveva perso anche lei, era rimasta spezzata.
«Non andare. Ti
prego, non andare!»
«Devo farlo, Naminè.»
«Ma perché non riesci a capire…?»
«Sei tu che non capisci. Io so chi
è! Devo dirlo alla polizia!»
«Ti ucciderà!»
L’aveva guardata, una determinazione incrollabile
negli occhi azzurri identici ai suoi.
«Meglio morire, che sottostare alle leggi di un
mostro.»
Si era voltata, incurante delle sue lacrime inutili, e
aveva camminato sotto la pioggia fino al suo incontro con la giustizia.
Che era venuta per
mano sbagliata.
Quella era stata l’ultima
volta che aveva visto sua sorella.
Due lunghissimi,
eterni giorni dopo, un gruppo di uomini l’aveva raggiunta e con poche
parole senza senso aveva cercato di liquidare una vita senza fare troppo male
alla ragazzina sopravvissuta.
Con loro
c’era anche un ragazzo dai capelli neri, ma lei non era riuscita a
guardarlo in faccia.
Li vedeva ancora, sulla collina che sovrastava il lago,
raccolti insieme a decidere del suo futuro.
Li vedeva
ancora, mentre i suoi piedi nudi sfioravano l’acqua fredda.
[ Meglio morire, che
sottostare alle leggi di un mostro. ]
[ Meglio morire, che non avere coraggio.
]
[ Meglio
morire, che restare soli. ]
L’acqua
la chiamava a sé, illusione di pace, promessa di silenzio. Era tutto
quello che lei desiderava: silenzio. Silenzio e liberazione da quella maledetta
voce interiore che continuava ad urlarle addosso quelle accuse, ad urlare con
la voce di Kairi.
Aveva mosso
un passo, poi un altro, e un altro ancora.
Si può desiderare di morire a quindici anni?
[ Sì, forse sì. ]
Non poteva avere
altro che questo. Non meritava nulla di diverso.
E quando
non riuscì a vedere altro che acqua, sopra e sotto di sé, dentro
e fuori di sé, acqua scura e fredda – non sentì più
nulla, se non che il suo posto era quello.
E vi
si lasciava andare senza opporre resistenza. Il suo posto era quello.
Tornò
al presente, aprì gli occhi e si ritrovò abbandonata ed ansante sulla
sponda del lago.
L’acqua, la stessa acqua in cui aveva
cercato rifugio e conforto, compassione e assoluzione, era incendiata dal
tramonto. Non aveva più l’aspetto rassicurante di quel pomeriggio
non troppo lontano. Ora sembrava solo un inferno simile a quello che aveva
devastato la sua mente e ogni sua forza di volontà.
L’erba le pungeva sotto le mani e
sulla pelle, vincendo la resistenza leggera della vestaglia che si era
ritrovata addosso. Era caduta in ginocchio. Alle sue spalle avvertiva ancora la
presenza del ragazzo dagli occhi neri.
Mi ricordo di te,
principe.
«Non è quello il modo di
sfuggire al dolore.»
Di nuovo la sua voce bassa, ferma. E poi
una cosa nuova. Il tocco leggero, quasi esitante, di una mano sulla spalla.
Ancora prigioniera del suo mutismo, si
voltò in tempo per vederlo accosciarsi al suo fianco.
Per una volta, c’era una traccia di
impaccio nelle sue iridi buie. Come se quel contatto sorprendesse lui per
primo.
Mi hai salvata tu,
principe.
«Lasciale scorrere.»
Non ebbe bisogno di chiedere per sapere a
cosa si riferisse.
E le lasciò scorrere, e loro caddero
dai suoi occhi con la forza della disperazione e degli innocenti che per troppo
tempo hanno sognato l’evasione. E con le lacrime vennero i singhiozzi e
con i singhiozzi vennero i ricordi. E uno ad uno, la uccisero di nuovo.
«Fa tanto male,
Kairi…»
«Siamo
insieme, sorellina. Finché saremo insieme, niente potrà mai fare
male.»
Morì mille volte, e mille volte
peggio di come sarebbe potuta morire in quel lago, mentre le lacrime le
incidevano la pelle lasciando il dolore dei ricordi e dei rimpianti a
germogliare dentro le ferite.
Morì mille volte e mille volte rinacque,
perché la mano ampia del ragazzo dagli occhi neri riuscì
sorprendentemente a sciogliere il ghiaccio dell’acqua del lago.
Mi hai salvata di
nuovo, principe.
[…]
«Il tuo nome è Naminè, vero?»
Annuì lentamente.
«Puoi chiamarmi Ryuuzaki.
Starai con me per un po’.» La stretta sulla sua spalla si fece di
colpo più forte, più salda, accompagnando un velo impercettibile
di amarezza nelle parole che seguirono. «Non sei sola, Naminè. Gente come me, abituata a camminare e
muoversi dentro al dolore degli altri, lo è. Ma non tu. I tuoi occhi non
sono vuoti come i miei; non lo saranno mai, se tu impedirai loro di svuotarsi.»
Forse non era vero. Ma dal modo in cui lo
diceva, sembrava impossibile non crederci.
«Rientriamo. Comincia a fare freddo.»
Si alzò e rimase là curvo ad
aspettare che lei facesse altrettanto.
Quando ci riuscì, Naminè inspirò più forte l’aria
asciutta, augurandosi che stavolta le facesse un po’ meno male.
E alla fine racimolò le forze per esalare
un’unica parola.
«Grazie…»
Il ragazzo la guardò, sorpreso, e
non si mosse quando lei rifugiò la fronte sulla sua spalla.
[ Sapeva di caldo. Sapeva
di asciutto. ]
Forse, dopotutto, non è vero che non volevo
essere svegliata.
Forse è
solo che stavo aspettando qualcuno che mi tendesse una mano.
Qualcuno
che mi aiutasse a respirare.