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Autore: _Princess_    23/03/2010    17 recensioni
La disarmava, questo era il fatto. La lasciava indifesa.
“Su, vuota il sacco.” Le intimò, senza alcuna pietà verso il suo essere così disperatamente persa in lui.
Kuu osò voltare il viso verso il suo, incontrando così i suoi occhi sorridenti, e il suo cuore saltò un battito.
Quegli occhi…
Non si sarebbe mai abituata alla loro imperscrutabile profondità, alla bellezza infinta che traspariva da quel suo sguardo mite, un misto di luci e ombre che faceva venire i brividi, che cancellava ogni capacità di respiro, di raziocinio.
Li amava, quegli occhi, così come amava l’anima che vi stava dietro.
Ed era orribile pensarci. Era orribile amare tanto qualcosa che non sarebbe mai stato alla sua portata, ed anche peggio era essere pienamente consapevole che non sarebbe mai riuscita a farsene una ragione.
[Sequel di The Truth Beneath The Rose]
Genere: Romantico, Malinconico, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Nuovo personaggio, Tom Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'The Heart Of Everything' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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I'll survive in this nothing, leading nowhere
I survive
Feeling strong for how much longer?

(Survive, Lacuna Coil)

 

***

 

‘Exclusive property of Tom Kaulitz’. Era la scritta riportata sulla t-shirt che indossava Vibeke quella mattina. Tom ne andava particolarmente orgoglioso, perché era un regalo che le aveva fatto lui. Ce n’erano una discreta serie: dalle magliette (‘Yes, I’m a Bitch. Tom Kaulitz’s bitch.’) ai pezzi di intimo (‘Tom’s territory: keep out.’), e perfino un collarino in simil pelle nera con tanto di medaglietta con nome, cognome, indirizzo e numero di telefono. Vibeke andava matta per quel tipo di cose: le piaceva pavoneggiarsi assieme a lui, crogiolarsi nella sua possessività quasi prepotente, ma questa sua vanità esibizionista aveva un limite: era totalmente allergica agli obiettivi di macchine fotografiche e telecamere. Finché c’era da mettersi in mostra in pubblico non aveva problemi, ma quando iniziavano a scattarle fotografie diventava nervosa e rigida.

Anche ora, mentre posava assieme a lei nello studio fotografico, Tom la sentiva irrequieta sotto alle proprie mani. Aveva acconsentito a fare quel servizio fotografico per Vanity Fair, alla fine, ma Tom sapeva che glielo avrebbe fatto pesare per settimane.

Pensò alla naturalezza con cui Kuu e Kaaos si erano lasciati immortalare insieme soltanto il giorno prima, durante un photoshoot nel backstage della data di Helsinki. Osservando Kuu posare per quegli scatti, senza ipocrisie, Tom si era ritrovato a pensare che, se non avesse avuto Vibeke, un serio pensierino per una come lei lo avrebbe fatto.

La conosceva solo da poche settimane e nemmeno tanto bene, visto che la ragazza non aveva una grande inclinazione alla socializzazione, ma qualcosa di lei lo affascinava profondamente. Non lo aveva detto a Vibeke per non provocarla inutilmente, ma lei lo aveva intuito da sola. Non solo lo aveva intuito, ma aveva anche capito. Aveva capito esattamente quello che Tom aveva temuto che lei non avrebbe mai potuto capire: il suo sentirsi attratto da Kuu era una cosa involontaria e istintiva, e non aveva nulla a che vedere con il sentimento. Quello stesso sentimento che invece provava per lei.

“Vibeke, potresti voltarti un po’ verso sinistra?”

Il fotografo si avvicinò a Vibeke, che se ne stava seduta con Tom su un divano nero dal design fin troppo moderno e le mostrò la posizione che voleva che lei assumesse: le fece accavallare le gambe, coperte solo da dei collant a rete molto larga, e le fece appoggiare la mano destra sul petto di Tom.

“Voglio che si veda bene il tuo tatuaggio.” Le disse, poi con una mano le sistemò i capelli dietro all’orecchio. “Mettiamo bene in mostra anche questi piercing.”

Tom avvertì distintamente il fastidio di Vibeke, e apprezzò il suo silenzio. Poteva quasi sentirla ripetere a se stessa ‘Resisti, tra poco sarà tutto finito’. Personalmente, lui aveva apprezzato l’esperienza: era la prima volta che loro due facevano una cosa del genere insieme e le varie pose che avevano assunto per le fotografie gli erano piaciute: sensuali e territoriali, quasi aggressive, e certi sguardi che lei aveva sembravano proprio dire ‘Lui è mio’.

“Bene,” disse il fotografo, una volta finito di scattare. “Direi che abbiamo finito. Grazie, ragazzi, siete stati perfetti.”

Tom attese di essere solo nel camerino con Vibeke per dire qualcosa, ma appena aprì bocca, lei lo precedette:

“Nei, Kaulitz, tystne!” (“No, Kaulitz, zitto!”)

Tom soppresse un mugolio frustrato.

“Vi…”

Cercò di prenderla per un polso, ma lei si divincolò e iniziò a spogliarsi frettolosamente.

“Vi, dai! Non fare la capricciosa.”

“Non faccio la capricciosa!” ribatté lei, gettandogli la maglietta in faccia. “Faccio quella che vuole tornarsene in hotel dopo una mattinata buttata nel cesso per quattro fotografie del cazzo che milioni di stupide ragazzine gelose si divertiranno a scarabocchiare e fare a pezzetti!”

“Tu adori le ragazzine gelose di te.” Puntualizzò Tom.

Vibeke si infilò una felpa nera con uno sbuffo annoiato.

“Ciò non vuol dire che io non detesti queste stronzate da prostituzione mediatica.”

“Siete una rottura, tu e i tuoi idealismi.”  Ridacchiò Tom, riuscendo finalmente ad afferrarla e catturarla tra le proprie braccia. Le rubò un bacio veloce. “Non insisterò mai più per una cosa così, ok?”

“Scusa, da quand’è che ti illudi che io mi beva tutto quello che riesci a sparare?”

Tom sogghignò, avanzando di un paio di passi, facendo finire Vibeke con la schiena contro il muro.

“Mi stai servendo una battutaccia di quelle proprio volgari su un vassoio d’argento, lo sai, vero?”

Un lampo di divertita malizia brillò negli occhi di Vibeke, ma lei finse uno spintone sdegnato.

“Din teiting!” (“Idiota!”)

Tom le affondò il viso tra i capelli, ridendo.

“Dimmi da uno a infinito al quadrato quanto non ti sopporto.” Disse Vibeke con una fermezza palesemente forzata.

“Probabilmente infinito al cubo.”

“Probabilmente sì.”

“E da uno a infinito al quadrato quanto sei stracotta di me?”

Vibeke finse di soppesare le opzioni. I due colori diversi dei suoi occhi erano particolarmente evidenti, quella mattina di sole.

“Non so, direi più o meno tre. Tre e mezzo, se stai zitto. E potremmo arrivare a quattro, quando sei particolarmente in forma.”

Tom annuì saggiamente.

“Quindi in pratica sei così sconvolgentemente cotta di me che impazziresti a starmi lontana per più di due ore.”

Vibeke gli rivolse un’occhiata acida:

“Tu non hai ancora capito che io sono impazzita nel momento stesso in cui la sfiga ha disgraziatamente deciso che di tutti i miliardi di coglioni di cui ci si potesse innamorare, il mio dovessi essere proprio tu.”

Tom si concesse di esultare in gran segreto: Vibeke aveva modi tutti suoi di dimostrargli il proprio affetto e ci aveva messo un po’ a imparare a farlo, ma in fondo lui stesso non era diverso. A nessuno di loro due erano mai piaciute le smancerie.

“Quindi sono tuo, mh?”

Un sorrisino provocante affiorò sulle labbra rosse di Vibeke, mentre lei si avvicinava per baciarlo.

“Ci puoi giurare.”

“Anche se mi sento attratto da Kuu?”

Vibeke gli circondò il collo con le braccia e alzò le spalle:

“Capirai… Anch’io mi sento attratta da Kuu.”

Ok, pensò Tom, pungolato da una fastidiosa fitta di gelosia, me la sono cercata.

“È proprio seccante avere una ragazza bisex.” Commentò. “Non ti puoi mai distrarre mezzo secondo.”

Vibeke rise, e Tom con lei. I ragazzi avevano ragione: era semplice. Era tutto così semplicemente semplice, per loro due.

Pensò a Georg, a come era felice che finalmente Nicole ed Emily li avrebbero raggiunti per la data di Amburgo. Mancavano solo due giorni a quando le avrebbe finalmente riviste e non era il solo a rallegrarsene: le due Sandberg mancavano a tutti. Tom si divertiva un mondo a vedere Vibeke che giocava con Emily: era come se per un po’ tornasse ragazzina, e il modo in cui sorrideva era diverso, più spensierato e sereno, e c’era qualcosa di speciale nelle tenerezza con cui si comportava con Emily. Nemmeno con Bill riusciva a essere così.

“Dai, muoviamoci.” Lo esortò Vibeke, scrollandoselo di dosso. “Dobbiamo rientrare prima che la principessa chiami la polizia.”

Tom rimase con le braccia a mezz’aria mentre si sfilava la felpa.

“Non siamo poi così in ritardo.”

“No, ma vedrai quando si accorgerà che gli ho preso il mascara.”

 

***

 

Mani sottili. Un portafogli di Gucci. Trecento euro in pezzi da cinquanta. Un cappotto di cachemire color avorio così bello e fine che giustificava qualsiasi prezzo.

“Per oggi hai finito con gli acquisti, allora?”

“Penso di sì, ma l’ho detto anche appena uscita da Dior.”

Una risata limpida ma fredda, esattamente come gli occhi che guardavano dritti nella telecamera. Bill aveva scoperto da poco meno di un’ora il videolog dei Pristine Blue e già si era divorato i tre filmati che raccoglieva finora. Quello che era appena finto era finora quello che lo aveva interessato di più. Nei primi due Kuu e Kaaos aveva raccontato un po’ di come andavano le cose per i preparativi della prima data e qualche loro impressione dopo i primi concerti. In quest’ultimo, invece, Kuu compariva da sola, armata di contanti e carte di credito, alla scoperta delle vie modaiole di Bruxelles, soltanto la mattina prima. Bill a stento aveva badato alle griffe dei negozi in cui era entrata e quasi altrettanto aveva fatto con i vestiti che aveva comprato. Tutta la sua attenzione era stata per lei: dopo una settimana di tour insieme, praticamente non la conosceva tanto più di quando la vedeva solo in televisione.

Guardando quel filmato, però, aveva iniziato a capire qualcosa in più. Le piacevano i vestiti ricercati e femminili, ma non quelli troppo vistosi e volgari: il cameraman le aveva suggerito di provarsi un paio di abitini striminziti e lei aveva risposto con delle smorfie molto eloquenti. Prediligeva i tagli semplici e i toni neutri, dal bianco al nero, e tutte le sfumature di grigio; i tocchi di colore li metteva negli accessori, nelle gemme dei gioielli, nelle cinture, nelle scarpe, e in tutte le piccole cose che però attiravano inevitabilmente l’attenzione. Non le piaceva l’oro giallo: tutti i capi che avevano dettagli in oro li aveva scartati e aveva invece preferito quelli con bottoni o fibbie in metallo nero o argentato. E poi c’era una cosa che lo aveva colpito più di tutto il resto: quando si guardava allo specchio, Kuu non si guardava mai in faccia. Si scrutava di sotto in su, ma sempre fermandosi al decolleté.

Chissà perché, si chiese Bill, curioso. Per lui era fondamentale vedersi il viso, quando si specchiava.

Gettò un’occhiata fuori dalla finestra: una pioggerellina insistente bagnava Oberhausen senza accennare a smettere. Erano arrivati quella notte e non si era ancora fermata un momento. Fuori dall’arena c’erano già più di un migliaio di fans accampate da chissà quanto tempo, e i preparativi per il concerto non erano nemmeno cominciati. Appena Tom fosse rientrato, avrebbero potuto fare il soundcheck. Al momento sentiva i Pristine Blue accordare sul palco i propri strumenti.

Era tentato di andare a dare una sbirciata, ma Kaaos lo metteva a disagio: era sempre pronto a guardare storto chiunque mostrasse il più vago sintomo di interesse verso Kuu. Non era ancora chiaro a nessuno se questo atteggiamento fosse dovuto semplicemente al suo carattere o se ci fossero gelosie ben diverse alla radice. Più studiava quei due, meno trovava credibile che non fossero romanticamente legati, in qualche modo. Ma poi pensava Gustav e Vibeke, e il dubbio lo assaliva di nuovo. C’erano troppe diverse sfumature di amore per poter essere certi di qualcosa.

Bill spense il portatile, sfregandosi stancamente gli occhi. Non aveva nessuna voglia di sorbire la seduta di trucco che lo aspettava con Natalie, ma durante le prove Christopher avrebbe fatto qualche ripresa e un minimo di presentabilità se la doveva dare. Si era sistemato nella saletta dove era stato allestito il catering e aveva finalmente trovato un po’ di sana pace, ma il suo senso di spossatezza non era sparito, nemmeno dopo un Redbull e diverse manciate di orsetti gommosi. Probabilmente era una questione che non si limitava al piano fisico.

Si alzò e si andò a versare un po’ di coca. Aveva voglia di marshmallows, ma ingozzarsi da solo non era la stessa cosa che farlo assieme ai ragazzi davanti a qualche episodio di Scrubs. Si portò il bicchiere alle labbra e nello stesso istante la porta si aprì. Non era Christopher, come aveva creduto.

Lo sguardo di Kuu, velato da un paio di occhiali da sole, si posò di lui con stupore, ma lei entrò e chiuse la porta senza esitare. Attraversò la stanza e si servì di caffè senza degnarlo di uno sguardo. L’ego di Bill fremette di irritazione. Non fu capace di trattenersi:

“Avete finito presto.”

“Sì. È stato meno impegnativo del previsto.”

“C’è un’ottima acustica, qui.”

“L’ho notato.”

Bill odiava quelle risposte telegrafiche. Avrebbe preferito sentirsi dire qualcosa tipo ‘Non rompere’, piuttosto che essere assecondato. Kuu, nel frattempo, si era seduta su una poltroncina e stava sorseggiando tranquillamente il suo caffè. Molto maleducatamente, non si era nemmeno tolta gli occhiali da sole.

“Ti danno fastidio le luci?” le chiese.

“Come?”

Bill accennò con il capo agli occhiali firmati, e allora Kuu capì.

“Oh.”  Sollevò una mano e sfiorò la montatura nera. “Sì, i miei occhi sono piuttosto delicati.”

Tutto di lei, a dire il vero, sembrava piuttosto delicato, tanto che Bill si era spesso chiesto se non fosse per quella sua apparente fragilità che Kaaos fosse così possessivo con lei. Non si erano mai fatti vedere a un pranzo, né a una cena, né a una colazione: mangiavano da soli, passavano il tempo libero da soli e da soli se ne stavano perfino durante le soste in autogrill. Forse era solo perché le due band non si conoscevano ancora, ma di questo passo non si sarebbero affatto conosciuti.

Kuu sorseggiava silenziosa il proprio caffè, le gambe accavallate. Portava dei pantaloni neri. Per qualche motivo, Bill era stato convinto che fosse una da gonne vertiginosamente corte e top succinti, almeno per i concerti, e invece anche sotto quell’aspetto era rimasto stupito, perché Kuu si esibiva sempre con lunghi abiti fiabeschi, a metà tra una fata e una vampira, che Tom usava pragmaticamente definire ‘inutili metri di stoffa superflua’.

“Potresti smettere di fissarmi, per cortesia?”

Bill si riscosse. Non si era nemmeno reso conto di essersi messo a fissarla.

“Scusa,” farfugliò, imbarazzato. “Stavo –”

Si rese conto che, qualunque cosa avesse potuto dire, sarebbe sembrato una patetica scusa.

“C’è un inferno, là fuori.” Lo interruppe lei. “Ogni volta che Kaaos sfiorava la chitarra, si scatenava un putiferio.”

Suonava quasi come un’accusa.

“Abbiamo un pubblico caloroso.” Ribatté Bill, sulla difensiva.

“Avete un pubblico isterico.”

Bill non digerì quella provocazione gratuita.

“Se ti stiamo così sulle palle, perché sei qui?”

Doveva essere una frecciata, ma Kuu non se ne fece turbare:
“Non siete voi.” Gli spiegò. “Sono le vostre fans. Quelle che voi chiamate ‘le fans migliori del mondo’.”

“E cosa ne vuoi sapere tu delle nostre fans?”

Kuu sollevò il mento, compunta.

“Ne so più di te.” dichiarò, sicura. “Ero una di loro, una volta.”

Bill ne restò stranito: aveva già sentito da qualche parte che Kuu fosse stata un’ammiratrice dei Tokio Hotel, in passato, ma era talmente abituato a non badare alle voci che aveva dato per scontato che fosse una sciocchezza.

“Forse avrete anche le fans migliori del mondo, ma avete anche le peggiori.”

“Le stalker non sono incluse tra quelle che noi definiamo fans” ci tenne a sottolineare Bill, in difesa di tutte coloro che avevano permesso a lui e agli altri di arrivare dov’erano adesso.

“Non sto parlando delle stalker.” Rispose Kuu. “Parlo di tutte quelle squallide oche che vi seguono solo perché siete quattro pezzi di carne appetitosi. La maggior parte di quelle che dicono di amare i Tokio Hotel a stento si ricordano che esiste qualcuno al di fuori di te – o di te e tuo fratello, nel migliore dei casi.” Il suo disgusto era tanto e tale che era impossibile dubitare che fosse sincero. “Non ti fa schifo? Non ti dà la nausea sapere che tutto ciò che conta ai loro occhi sia il tuo bel faccino? Ai concerti urlano e basta, nemmeno ascoltano la vostra musica. Se tu smettessi di cantare e ti mettessi semplicemente in mostra su un palco, per loro sarebbe la stessa identica cosa. Non ti umilia questa consapevolezza?”

La cosa peggiore, di tutto quel discorso, era che era la verità, e non solo: Bill stesso, benché malvolentieri, aveva pensato le stesse identiche cose. E questo gli faceva male.

“Grazie per questa gentile mazzata alla mia autostima.”

Kuu doveva esserci accorta di essere stata eccessivamente dura, perché la sua espressione si ammorbidì notevolmente:

“Non sono tutte così.” Lo rassicurò. “Sono poche quelle che vi amano davvero, ma su questo ti devo dare ragione: sono le migliori.”

E adesso c’era una domanda che a Bill premeva di farle. Per lui era importante, e voleva capirla. Voleva capire Kuu più di ogni altra cosa, perché non aveva mai occasione di conoscere una ragazza così da vicino.

“Perché non ti piacciamo più?”

Un guizzo di stupore animò per un istante i begli occhi di Kuu. Bill avrebbe dato qualsiasi cosa per vederla senza trucco: era sicuro, ormai, che in lei ci fosse molto di nascosto da svelare. Il problema, fondamentalmente, era che lei non voleva lasciarsi scoprire. Delle molto volte in cui aveva cercato di conversare con lei, mai Kuu gli aveva concesso di intravedere qualcosa al di sotto della sua superficie.

E ora lo guardava, seria e posata come sempre, con un po’ di compassione negli occhi.

“Non avete mai smesso di piacermi, Bill. Ho smesso di seguirvi perché non riuscivo ad accettare che tutte quelle stupide non riuscissero a vedere altro che la tua superficie.” Una piccola smorfia di disgusto distorse le sue labbra. “Non sanno far altro che dire ‘Bill è troppo figo!’, ‘Bill è perfetto!’, ‘Bill è bellissimo!’… E invece ci sarebbe così tanto in te che meriterebbe considerazione. E lo stesso vale per tuo fratello, e per Georg, e per Gustav…” Era uno sfogo che sapeva di indignazione e dispiacere, e Bill capì che Kuu era stata – o forse era ancora – una di quelle che a loro ci teneva davvero. “Ma forse è così che deve essere.” Proseguì Kuu, atona, e lo guardò dritto negli occhi. “Forse se la gente attorno a noi non fosse così sciocca e superficiale, saremmo ancora meno liberi di così.”

Bill, stupefatto, non poté che trovarsi d’accordo con ogni singola cosa. E c’era di più: dal non aver mai avuto alcun tipo di contatto emotivo con lei, era passato a una dimostrazione di affetto e rispetto che, seppur indiretta, aveva toccato qualcosa dentro di lui.

“Non ero preparato per un discorso di questo peso…” Accennò un sorriso esitante. “Sono abbastanza sconvolto.”

Inaspettatamente, molto più rilassata, sorrise anche lei.

“Mi sono lasciata trasportare.”

Sembrava una bambina. Bill non riusciva a capacitarsi di come una ragazza potesse apparire così dolce e sensibile e contemporaneamente snobista e presuntuosa. Non era però sicuro che questo suo aspetto ambiguo gli dispiacesse.

“Dovevi amarci davvero molto se ti stava così a cuore il modo in cui ci vede la gente.” Rifletté, celando una punta di orgoglio.

“Mi sta ancora a cuore.” Puntualizzò lei, in tono offeso. “Siete delle belle persone, meritate di più di certe stupide ragazzine.”

Da un lato Bill era spiazzato da quell’improvvisa parentesi di confidenza, ma dall’altro ne era lusingato. Finora Kuu non si era mai dimostrata particolarmente amichevole con nessuno di loro.

“A sentirti parlare, ho quasi la sensazione che tu ci conosca.” Le confidò. “Da dentro, intendo. Come se tu fossi sempre stata con noi, fin dall’inizio di tutto quello che siamo.”

“Mi ricordo di voi.” Disse semplicemente lei. “Mi ricordo quanto eravate piccoli e inesperti e – senza offesa – buffi. Ma avevate un sogno più grande di voi da rincorrere e quando avete pubblicato Durch Den Monsun sono stata sinceramente felice per voi. Invidiosa da morire, ma felice.”

“Be’, pare che il destino tuo e di Kaaos non sia tanto diverso dal nostro.”

Lei non rispose. Giocherellava con la mano sulla catenina d’argento che portava sempre, ed era come persa nel vuoto.

“Tu sei felice?” gli chiese a un tratto.

“Come?”

“Sei felice di quel che ne è stato di te, da quella prima volta che ci siamo visti?”

Era fin troppo impegnativa, come domanda. Dalla prima volta che si erano visti erano passati dieci anni, e in quei dieci anni erano successo più cose di quante a una persona normale ne sarebbero potute succedere in una vita intera. C’erano un’infinità di fattori da valutare e soppesare, tutti insieme.

Sono felice?

Aveva raggiunto quello a cui aveva sempre puntato, dopotutto. Sarebbe stato così ipocrita ignorare l’altra faccia della medaglia?

“Sì.” Assentì. “Sono felice di aver realizzato quel sogno.”

“Intendo felice in senso globale, considerando ogni pro e ogni contro.”

Stavolta fu lui a non rispondere.

“Perché questa domanda?”

L’occhiata intensa che Kuu gli rivolse lo trafisse da parte a parte, a tradimento, e quello che gli disse non fu da meno:

“Perché l’espressione dei tuoi occhi non è quella di una persona felice.”

Bill cominciava a sentirsi a disagio. Essere un pubblico incompreso era diventata un’abitudine così consolidata che mai avrebbe creduto che una quasi perfetta sconosciuta sarebbe arrivata a dirgli certe cose, per di più in faccia. A questo punto, tutto poteva dirsi di Kuu, tranne che fosse superficiale.

“Diventare una cantante famosa era il tuo sogno?” le chiese, sforzandosi di restare impassibile.

Le rispose senza esitazioni:

“Sì.”

“E sei felice di averlo realizzato?”

“Sì.”

“E sei felice, considerando ogni pro e ogni contro?”

Stavolta Kuu esitò, e il modo in cui lo guardò fece capire a Bill molto più di quel che non fece l’effettivo responso.

“No.”

“Non penso che ci sia più bisogno che io risponda.”

Le labbra di Kuu si contrassero impercettibilmente.

“Suppongo di no.”

“La verità è che probabilmente potrei essere felice,” aggiunse Bill. “Se sapessi accontentarmi. Ma non ne sono capace.”
Sollevò le spalle. “Una volta volevo essere una star. Adesso che sono una star, vorrei un po’ di vita normale. Vorrei avere la fortuna di Tom e Georg, incontrare qualcuno che dia un senso più profondo a tutto quanto…”

“Spesso sprechiamo energie preziose cercando cose che abbiamo già sotto il naso.” Gli fece notare lei. “O cercando in posti sbagliati. Di solito è quando smetti di crederci che succede.”

A Bill sfuggì una risatina cinica.

“È quello che mi hanno sempre detto tutti. Figurati, Tom non ci ha mai nemmeno creduto, nell’amore, e ora guardalo: se qualcuno fa anche solo finta di toccargli Vibeke, perde la testa. Credevo che tra noi due sarei stato io ad avere la prima storia importante. E invece…”

“Ti saresti potuto accontentare della prima capitata, di una fan qualsiasi che dicesse di amarti, ma se stai ancora aspettando, è perché sai di meritare qualcosa di più.”

E proprio mentre ascoltava quelle parole, Bill si rese conto che erano esattamente ciò che aveva bisogno di sentirsi dire. Si chiese quanto ci fosse in lei che al mondo non era concesso di vedere.

“E pensare che c’è chi crede che tu sia solo una bella bambolina.”

Kuu chinò la testa. Sottili ciuffi biondi le ricaddero sulla fronte.

“Già.”

Decisamente non era felice nemmeno lei.

“Non sono depresso,” disse Bill un attimo dopo, più a se stesso che a lei. “Ma nemmeno felice. Vorrei solo incontrare una persona che non abbia preconcetti su di me, che possa conoscermi solo come Bill e non Bill Kaulitz dei Tokio Hotel.”

“E che ti ami incondizionatamente per quello che sei, che non ti giudichi, che accetti la tua vita e i tuoi difetti…” lo interruppe lei, continuando al suo posto.

Bill annuì.

“Sì.”

Kuu si lasciò andare in una risatina di scherno.

“Sei più ingenuo di quanto pensassi.”

“Perché?” chiese lui, offeso.

“Non hai speranze di trovare una persona così.” Sentenziò lei, impietosa. “Tutto il mondo sa chi sei, chiunque si è già fatto un’idea tutta sua di te. Tutt’al più puoi sperare di incontrare qualcuno che capisca, che sappia cosa significhi essere nelle tue condizioni.”

“Qualcuno come te?”

 

***


Kuu fu completamente presa alla sprovvista. Anche se quasi non diede segno di stupore, il momentaneo sgranarsi dei suoi occhi tradì la sua reazione istintiva. Davanti a lei, Bill – struccato, in tuta – le puntava addosso due occhi che sapevano di sfida. Era così bello che non c’era modo di non sentirsi conquistati da lui, ma Kuu non aveva la minima intenzione di mostrare un qualunque tipo di debolezza, di fronte a lui men che meno.

“Io non credo nel vero amore.”

“E in cosa credi?” domandò allora Bill.

“In niente.” fu l’asciutta risposta. “La gente si lega a chi la fa stare bene, e ci sono infinite persone al mondo che possono farti stare bene in infiniti modi diversi, e chiunque tu possa trovare, non avrai mai la certezza che sia proprio quella persona che ti completerà meglio di tutte le altre. Siamo sei miliardi, al mondo. La maggior parte di noi non incontrerà mai la sua vera metà mancante; si accontenterà del meglio che troverà.”

Bill inarcò un sopracciglio.

“Piuttosto cinica come filosofia.”

“Platone docet.”

“Platone?”

“Il mito degli androgini.” Specificò lei. “Le due metà della stessa mela disperse per il mondo, destinate e cercarsi in ogni altra metà che non combacerà mai perfettamente. Quasi nessuno trova quella giusta. Potresti aspettare per tutta la vita qualcosa che non arriverà mai.” Lo accarezzò con un’occhiata severa. “Dovresti rassegnarti e imparare ad accontentarti di quello che passa il convento, Bill.”

“Io credo nel destino.” Affermò lui, deciso, ma gli era affiorato un lievissimo rossore sulle guance. “Credo che ci sia un motivo se nasciamo per sentirci incompleti, e credo anche che quelle due metà della stessa mela che dici tu, in un modo o nell’altro, verranno portate a incontrarsi, prima o poi. Forse è vero che non capita a tutti, ma credo che sia così.”

C’era tensione, tra loro. Lei seduta nella sua poltrona come una regina sul trono, lui appoggiato al tavolo, le braccia conserte e un piccolo broncio ostinato sulle labbra pallide. Non semplicemente bello: era meraviglioso.

“Hey, voi due, ditemi che non state veramente disquisendo di filosofia.”

L’incanto si ruppe. Tom era appena entrato nella stanza, seguito a ruota da Vibeke. A Kuu non piaceva quella ragazza: si erano sempre guardate con poca simpatia e probabilmente e cose non sarebbero mai cambiate. Erano troppo diverse.

“Ciao, Tom.” Salutò Bill con scarso entusiasmo.

Tom sfilò baldanzoso davanti a Kuu per raggiungere il frigo, e nel frattempo la squadrò per bene.

“Hey,” esclamò contrariato. “Cos’è tutta quella roba che hai addosso? Non si usano più le minigonne?”

Vibeke gli allungò una ginocchiata sul sedere.

“Sono una cantante, non una prostituta.” Gli fece notare lei, tagliente, infastidita dal suo atteggiamento forzatamente malizioso. Non era nemmeno molto galante nei confronti di Vibeke.

“Se tutte la pensassero come te, sai quante donne ci sarebbero sulla scena musicale?”

“Circa un decimo. Forse meno.”

Tom, una lattina di aranciata in mano, si voltò preoccupato verso Vibeke:

“Vi, tu te le metterai sempre le minigonne, vero?”

Lei si erse al suo fianco in tutta la sua notevole altezza, poggiandogli un braccio sulla spalla.

“Ma certo.” Gli promise, suadente. “Io non sono una cantante, posso tranquillamente fare la prostituta.” Aggiunse, rivolgendo a Kuu un’occhiata di fuoco.

Avrebbe ricevuto una risposta a modo, se solo Georg non si fosse intromesso a ricordare loro che il soundcheck li aspettava.

Georg era un interrogativo aperto: c’erano giorni in cui era serio e taciturno, come adesso, e altri in cui la sua allegria diventava contagiosa. Kuu era curiosa di conoscere la famosa Nicole per capire cosa potesse cercare uno come lui in una ragazza. E poi c’era la bimba, Emily, che a lei era sempre sembrata incompatibile con il tipo di vita che conduceva Georg: che razza di madre poneva di fronte alla figlia una figura paterna che era più assente che presente?

Ma la verità era che era invidiosa: invidiosa di Nicole, che era riuscita a conquistarsi Georg, e invidiosa di Vibeke che si era presa Tom, e già sapeva che un giorno avrebbe invidiato che le ragazze che si sarebbero portate via Bill e Gustav.

Non ce n’erano di ragazzi come loro, nel modo reale.

 

***

 

Era stata una giornata sfiancate, ma il peggio doveva ancora arrivare. Mancava meno di un’ora all’inizio del concerto e l’adrenalina iniziava a farsi sentire. Bill e Tom stavano litigando nel camerino, Georg andava avanti e indietro per il corridoio, al telefono con Nicole, e, stranamente, la conversazione sembrava allegra. Gustav però non era in vena di chiasso: voleva solo un posto tranquillo in cui rintanarsi per rilassarsi, o almeno provarci, e sapeva che c’era una stanzetta isolata, appena svoltato l’angolo, che avrebbe potuto sfruttare. Quella stanza era il suo angolo di pace ormai da anni, lì a Oberhausen, ed era una sorta di tradizione, per lui, chiudersi là dentro per quella breve mezz’ora che precedeva la performance, anche se questa volta l’apertura vera e propria del concerto spettava ai Pristine Blue.

Quando aprì la porta, tuttavia, scoprì di essere stato preceduto: Kuu sedeva sul divanetto al lato opposto della stanza, un paio di occhiali dalla montatura sottile sul naso e un plico di fogli sciupati in mano, e aveva sollevato sorpresa la testa.

“Oh, scusami.” Farfugliò Gustav, che non aveva nemmeno pensato a bussare. “Non credevo ci fosse qualcuno.”

Kuu scosse il capo.

“Non importa.”

“Sempre sola?” le chiese, richiudendo la porta dietro di sé.

Lei si limitò a sollevare appena le spalle che il maglioncino grigio perla lasciava nude e rivolgergli uno sguardo sostenuto:

“Sempre solo?”

Touché, pensò Gustav, divertito.

Tacque, e la osservò in silenzio. Era una come bambola: piccola, fragile, innaturalmente perfetta in ogni minimo dettaglio, così bella da non sembrare nemmeno vera.

“È strano, vero?” esordì Kuu ad un tratto, senza smettere di leggere.

Lui batté interrogativamente le palpebre.

“Che cosa?”

Kuu gli rivolse uno sguardo penetrante:

“Persona felice con persona felice fa due persone felici. Persona triste con persona triste fa due persone tristi. Persona arrabbiata con persona arrabbiata fa due persone arrabbiate.” Si interruppe per un secondo soltanto, per incontrare i suoi occhi con un’espressione penetrante. “Persona sola con persona sola fa due persone insieme.”

Lui si ritrovò, senza un perché, a sorriderle. C’era qualcosa di sbagliato in lei e nella sua perfezione, un’incrinatura stonata indecifrabile ma tangibile che lo aveva affascinato fin dal primo istante.

“Credo di avere lasciato qui la mia borsa.” Disse, guardandosi intorno.

“È quella laggiù?” Kuu indicò il tavolo nell’angolo. La borsa verde militare era proprio lì.

“Sì, grazie.” Gustav si accostò al tavolo e la afferrò. “Me ne vado subito, non ti voglio disturbare.”

Inaspettatamente, però, Kuu non si dimostrò poi così ansiosa di essere lasciata sola:

“Non fa niente, resta pure. So che anche a te piace la tranquillità.”

Gustav non ricordava di averla mai vista così gentile, finora. Almeno non con lui.

“Lettere di fans?” indovinò, accennando ai fogli scritti fittamente che lei teneva in mano.

Lei annuì.

“Sì. Cerco di leggerle tutte, ma sta iniziando a diventare difficile.”

Per qualche motivo, gli fece tenerezza. Magari era un po’ fredda con chi le stava attorno, ma si vedeva che le stavano a cuore i suoi ammiratori.

“Non sapevo portassi gli occhiali.”

Lei se li aggiustò automaticamente sul naso. Le donavano molto, ma del resto sembrava che non esistesse niente che non le donasse.

Proprio come Bill…


“Solo per leggere e per usare il computer.” Gli spiegò Kuu.

“Capisco.” Gustav le sorrise. Era ora che iniziasse a prepararsi: il suo rituale dello scotch richiedeva tempo e dedizione, e non voleva essere una distrazione per Kuu.

O forse, gli sussurrò una vocina debole e remota, non vuoi che lei sia una distrazione per te.

Prese la borsa e fece per avviarsi verso la porta.

“Be’, ora credo che toglierò il disturbo.”

 

***

 

Era una stanza troppo piccola per due persone. Nove metri quadrati scarsi, per metà occupati da un tavolo e due divanetti, erano decisamente troppo pochi per ospitare più di un asociale per volta, e Kuu sapeva di essere lei quella nel posto sbagliato. Era scappata dal malumore di Kaaos dopo l’ennesima discussione telefonica con la sua ragazza e si era infilata nella prima porta aperta che aveva trovato. Era una salettina minuscola, ma calda e a suo modo accogliente, ed era stata bene, finora. Gustav non le dava fastidio; avrebbe solo preferito restare da sola. Ma non poteva lasciarlo andare via. Non ancora.

“Gustav, aspetta.”

E lui aspettò. Si fermò ad un passo dalla soglia e si voltò indietro, in attesa.

Kuu non sapeva esattamente cosa dire.

“Voglio scusarmi con te per come ti ho trattato l’altra sera.” Esordì infine. Si sfilò gli occhiali. “Sono stata scortese e non avrei dovuto, ma ero stanca, e nervosa… E non era colpa tua.”

Avrebbe voluto che Gustav non la guardasse con quella dolcezza disarmante.

“Non serve che ti scusi.” La rassicurò. Si sedette sull’altro divanetto, di fronte a lei, e vi lasciò cadere la borsa, in cui si mise a rovistare alla cieca, finchè non trovò uno dei suoi rotoli di morbido scotch. “Vivo questa situazione da più tempo di te, so riconoscere una persona emotivamente esausta, quando la vedo. Convivo con Bill da dieci anni.”

Kuu non riuscì a non ridere. Gustav, intanto, si mise a fasciarsi le dita, senza però negarle attenzione.

“So di risultare spesso antipatica…” mormorò Kuu, dispiaciuta.

“Sì, è vero.” Ammise lui, lasciandola a bocca aperta, si era aspettata una smentita di cortesia. “Ma risultare non vuol dire essere, fino a prova contraria.”

Kuu stette a guardare mentre lui si avvolgeva scrupolosamente la seconda striscia di scotch attorno all’indice. Aveva mani solide e maschili, rovinate dalla musica, dotate tuttavia di un’impensabile delicatezza.

“Vuoi che ti dia una mano con quello?”

Si sentì arrossire quando lui alzò gli occhi e li sgranò, stupito.

“Oh.” Gustav abbassò lo sguardo su ciò che stava facendo, poi tornò a guardare Kuu con rinnovata gentilezza: “Grazie.”

Lei si alzò e gli andò a sedere accanto. Gli prese la mano tra le sue quasi con prepotenza; gli tolse il nastro adesivo di mano e iniziò a lavorare al suo posto. Sapeva che erano uno preciso e per fortuna lo era anche lei.

“Dovresti metterci un bel po’ di crema idratante, su queste mani.” Commentò, sfiorandogli la pelle ruvida e screpolata.

Gustav, chino su se stesso, rise in un sospiro.

“Lo so, Bill me lo dice in continuazione. Ma è inutile, le maltratto troppo.”

“Suppongo che avere mani curate sia l’ultimo dei pensieri di un batterista.”

“È senz’altro una cosa che riesce più semplice a voi cantanti.”

Kuu non seppe come interpretare quella frase. poteva essere una semplice constatazione, così come un’offesa velata. Ma Gustav non era il tipo da offendere le persone, lo aveva ammesso lui stesso.

“Per una pianista è importante avere delle mani curate.” Gli ricordò.

Lui la lasciò continuare, seguendo i suoi movimenti in silenzio, da vicino. Solo dopo qualche istante le chiese:

“Quando hai cominciato?”

Kuu sentì un accenno di sorriso solleticare le estremità delle proprie labbra.

“A curare le mie mani o a suonare il piano?”

Non poteva vedere il viso di Gustav, ma ebbe la sensazione che anche a lui venisse da sorridere.

“La seconda.”

“A quattro anni.” Gli rispose. “Mia prozia Ingrid insegnava al conservatorio, mi ha fatto venire lei la passione.”

“Insomma, suoni da tutta la vita.”

“Come te, no?”

“Già.”

Con un ultimo giro, Kuu finì di sistemare l’ultimo pezzo di nastro attorno all’ultimo dito. Non capiva come Gustav potesse suonare con quella roba sulle mani, ma evidentemente funzionava.

“Ecco fatto. Spero di non aver stretto troppo.”

“Va benissimo. Grazie.”

“Di niente.”

Non si era resa conto che fossero così vicini. Inspiegabilmente, la presenza di Gustav sembrava sempre portarle una sensazione di quiete, di pace, eppure allo stesso tempo la faceva sentire stranamente vulnerabile. Sollevò lo sguardo sui suoi occhi, ma li trovò timidamente abbassati sulla mano che ancora gli stava stringendo. Lo lasciò andare di scatto, proprio mentre la porta si spalancava.

“Kuu.” Lo sguardo di Kaaos cadde immediatamente su di lei, poi si spostò su Gustav, sospettoso. “Che ci fai qui? Abbiamo l’intervista.”

Lei si rizzò su se stessa, irritata da quel suo atteggiamento invadente. La soffocava, quando faceva così.

“Mi stavo rilassando un po’.”

Lo sguardo di Kaaos vagò con ironia fino a Gustav.

“Sì, lo vedo.” Le andò incontro e le porse una mano per aiutarla ad alzarsi. “Su, muoviamoci, la giornalista è già arrivata.”

Pur riluttante, Kuu dovette accettare. Un’intervista per RTL, per quanto breve, non poteva aspettare.

“A dopo.” Li salutò Gustav, mentre Kaaos la trascinava via. Un secondo dopo, la porta stava già sbattendo alle spalle di Kuu.

 

***

 

Qualcosa brucia nei miei occhi e disturba il mio sonno.

Forse sto vedendo sorgere il sole.

 

_____________________________________________________________________________________

 

Note: sono troppo stanca per delle note vere e proprie, vi chiedo scusa, ma c’è chi premeva per leggere al più presto questo capitolo, quindi eccovelo qui! Prometto che risponderò al più presto a chi aveva fatto domande e/o osservazioni!

   
 
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