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Autore: Leireel    29/03/2010    3 recensioni
Fuggivo i ricordi, e vivevo di essi: la mia vita non mi apparteneva, andava avanti senza di me, e io non la trattenevo. Il mio corso è immortale, mi ripetevo ridendo, e quella era la mia condanna, e il mio riso era amaro.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'D'amore, di morte e di altre sciocchezze'
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Secondo molti Calipso deriva dal verbo kalyptein, nascondere; Calipso sarebbe quindi colei che nasconde. E per nascondersi, ci dice Omero, aveva scelto l’Occidente, per i Greci la terra della morte.

Calipso, o del tempo e dei giorni

Di tutto ciò che avevo, di tutto ciò che avevo conquistato con fatica, di tutto quello che mi era stato donato con noncuranza, di tutto quello che non sapevo neanche di possedere, non erano rimasti che quei brandelli di memoria che ancora si ostinavano a non volermi lasciare. Perché non potevo rinunciare anche a essi, come avevo rinunciato a tutto ciò che aveva formato la mia vita? Bramavo quel tocco d’oblio che mi era negato, e ne soffrivo.
Ma sapevo in cuor mio di non poterlo avere. Cos’è eternità, se non rimpianto di quello che fu – rimpianto di ciò che sarebbe potuto essere? E dire che mi ero vantata del mio corso immortale, e con dolore avevo lasciato che il tempo scivolasse via da me, disperata per qualche momento in più. Mi ero gloriata dei miei giorni e della forza che mi ubbidiva, ammantandomi di essi come di una veste preziosa; e li lasciavo andare, e non mi accorgevo di quel che perdevo. Che poi li rimpiangessi non aveva poi tanta importanza; avrei voluto non ci fossero mai stati. Avrei voluto non averne il ricordo.
E i miei giorni scorrevano come acqua limpida, un lungo corso sinuoso che non vedevo realmente. Il tempo non mi apparteneva, non mi apparteneva quel senso di vitale passione che ricordavo aver avuto in passato. Fuggivo i ricordi, e vivevo di essi: la mia vita non mi apparteneva, andava avanti senza di me, e io non la trattenevo. Il mio corso è immortale, mi ripetevo ridendo, e quella era la mia condanna, e il mio riso era amaro.
Quello che avevo non mi era stato tolto con la forza o con l’inganno; a dire il vero, era ancora là che mi aspettava, ma era tutto così vecchio e stanco che ne avevo scordato i nomi, e loro avevano scordato il mio. L’indolenza aveva scavato la mia anima fino a farne un guscio vuoto d’assenza e apatia, ed era un torpore dal quale non volevo riscuotermi. Persino i miei ricordi ridevano di me. Ero stata una dea prima dell’acqua e del fuoco, prima che i mortali calpestassero le alture e le valli, prima che nuovi dèi mi lasciassero a consumarmi lentamente in un angolo. Ero stata potente, madre e sovrana di tutte le cose, e ogni creatura sotto il cielo mi ubbidiva, e le stelle danzavano a un mio cenno. Avevo avuto tanti nomi, e ogni nome era quello che ero e che non sarei mai stata; con veli di sogni e d’incenso percorrevo i sentieri dell’Ellade. Ero tutte quelle cose e molto ancora, più di quanto ci fosse nelle menti degli uomini, ma le mie ossa – fumo, cenere e sospiri d’amanti – le mie ossa erano stanche, e volevo sottrarmi ai giorni, trovare riposo, posare e quietarmi. Rimasi immobile in quel mondo che cambiava, e vidi ogni mutamento col sorriso paziente di chi sa che alla fine dei giorni tutto è riposo. Rimasi, e lasciai che quel mondo scordasse chi ero. Donai quei miei nomi all’oblio che divora. Lasciai la mia terra a nuovi dèi, signori della legge e del caos, e andai là dove dimora la morte.
Non mi pento di quel che è stato – le mie ossa sono ancora stanche, e la mia mente cerca ancora la quiete. Non spero più in un domani, ed è questa la mia pace. Ma che i ricordi mi abbandonino, che non debba rimpiangere, che non debba rammentare chi sono. Che i miei nomi rimangano nell’abisso in cui li ho gettati. Di uno solo m’importa, e di uno solo mi vesto.

   
 
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