Venni portata in commissariato, senza clamore, come se il mondo intero avesse deciso di dimenticarmi. Lì il commissario Sorenson mi interrogo per tre ore, sicuro che prima o poi avrei confessato. Quando si accorse che non cambiavo mai la mia versione dei fatti si spazientì e fece una telefonata. Risultò poi che la telefonata era stata fatta per ottenere i risultati dell’autopsia e della scientifica, in modo da poter avere delle prove da sbattermi in faccia. Dopo tre minuti un agente aprì la porta portando delle foto.
Il commissario me le mostrò più volte, sperando che mi tradissi, ma niente, io continuavo a confermare la mia versione, secondo cui mio padre era stato ucciso e Mark era ancora vivo. Tentando il tutto per tutto il commissario dichiaro che avevano trovato le mie impronte sull’ arma del delitto
<< Vorrei ben vedere commissario, il coltello è mio, lo uso ogni giorno, sarebbe stato strano se non vi avessero trovato le mie impronte, non il contrario >> risposi, cercando di restare calma.
Dopo quell’affermazione il commissario perse la pazienza e ribadì che ero accusata di un duplice omicidio, che non avevo un alibi e che se fosse stato per lui mi avrebbe condannata all’ergastolo; ma siccome ero pazza, usò proprio questa parola, sarei semplicemente stata ricoverata in una struttura specializzata in casi come il mio. Compresi che mi avrebbero internata in un ospedale psichiatrico specializzato in criminali.
Per un secondo restai annichilita; non della paura o dal terrore come credette il commissario, ma per la troppa felicità, sarei stata finalmente al sicuro, il corocotta non mi avrebbe potuto uccidere.
<< Ci segua >> mi disse il commissario, alzandosi. Obbediente come una bambina lo segui.
Fu così che presi posto in una volante della polizia che mi avrebbe condotto alla mia nuova casa, l’ospedale psichiatrico.