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Autore: Willow Gawain    08/05/2010    4 recensioni
Hidel, contea di Northumberland, Inghilterra - 1852.
Quel villaggio era perennemente bagnato dalla neve, perennemente avvolto dal freddo, dal vento, dalle nubi. Non compariva sulle carte, ma la sua figura tanto piccola quanto antica era sempre lì, ad aspettare pazientemente. Come un mostro in agguato, come un fantasma dagli occhi spietati. Una volta entrati a Hidel, la legge del villaggio proibiva tassativamente di abbandonarlo. Una maledizione, un sortilegio, una stregoneria lanciata tempo addietro da Satana camuffato da vecchia strega.
Forse, però, c’era ancora una speranza per Hidel. E quando il primo degli Angeli, il Supervisore, varcò la soglia di quel villaggio costruito in modo perfettamente circolare, come un cerchio magico, il conto alla rovescia per l’Apocalisse di Hidel ebbe inizio.
«Ora aggrappati al mio braccio. Tieniti forte. Visiteremo luoghi oscuri, ma io credo di sapere la strada. Tu bada solo a non lasciarmi il braccio. E se dovessi baciarti nel buio, non sarà niente di grave: è solo perché tu sei il mio amore.» [Cit. S.King]
Genere: Drammatico, Mistero, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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What colour is the snow

What colour is the snow?

Capitolo 10: Il dolore che lenisce l’animo.

Una nuova giornata stava per cominciare, e non si preannunciava una delle migliori.

Un brusco ed alterato bussare alla porta di casa aveva costretto Nathan ad una levataccia; si trovava sempre peggio a svegliarsi presto la mattina: si sarebbe mai abituato ai ritmi della gente normale? O forse era davvero il caso di tornare in città e rinchiudersi nelle amate biblioteche locali?

Bofonchiando qualche scocciata parola nella sua lingua madre, per una volta senza preoccuparsi di nascondere quell’assurdo e pesantissimo accento tipico della sua patria mescolato all’intonazione elegante e sottile a cui la madre lo aveva abituato, raggiunse la porta d’ingresso, che aprì lentamente, non senza preoccuparsi di indossare prima il suo pesante mantello.

«Buongiorno, messere Metherlance.»

La voce di mister Grant, membro del gruppo che si occupava della gestione del villaggio, era inconfondibile: secca, atona, come un sasso che cade per terra. Nonostante l’aspetto decisamente poco incoraggiante dato dalla possente muscolatura, gli occhi nerissimi e il viso perennemente adirato, era tuttavia una brava persona.

L’uomo stava ritto davanti alla porta, con il corpo nascosto fino alle ginocchia da un lungo mantello marrone in netto contrasto con le braghe verdi. Il viso, che sembrava non conoscere la stanchezza, era il ritratto della serietà.

«Buongiorno a voi.» sorrise Nathan, sforzandosi di sembrare già abbastanza sveglio da intrattenere una conversazione; la tenue luce che penetrava a fatica attraverso la folta coltre di nubi lo soccorreva ben poco.

«Perdonate l’orario, ma si tratta di una faccenda molto urgente.»

Quelle poche e concise parole bastarono a interessare Nathan, che annuì invitando l’uomo a parlare.

«C’è stata un’altra sparizione.» spiegò Grant, grave.

«Ancora!» lo straniero strabuzzò gli occhi «Due in un mese!»

L’altro annuì, precisando poi «Si tratta di mister Hurst…»

Il ragazzo fece una faccia addolorata; ricordava bene la signora Hurst, quella simpatica donna che tre mesi prima, al ritorno dalla foresta assieme ad Ann: lo aveva definito addirittura “eroe”.

«Mi dispiace, ma credo di non poter essere d’aiuto… non lo vedo da ieri sera a cena, quando eravamo tutti nella Sala Maestra.» affermò, per poi domandare con aria preoccupata «Quando è scomparso?»

«Stamane è uscito per andare a raccogliere della legna nella foresta; la cara Joanne, dopo averlo atteso per un’ora, si è precipitata a cercarlo, ma ne ha trovato solamente la giacca: era stesa per terra, in mezzo ad una piccola radura abbastanza lontana dal villaggio.» gli spiegò l’altro, senza accennare ad un cambiamento nel serio volto «Vi saremmo grati se ci aiutaste nelle ricerche.»

«Senza dubbio.» annuì il biondo.

Dopo qualche altro scambio di battute, durante il quale Nathan ebbe la netta impressione che l’uomo dubitasse di ogni sua parola e che lo additasse come potenziale sospettato, i due si separarono, ed il giovane poté rientrare in casa. C

hiuse la porta alle proprie spalle con un sospiro; due sparizioni in un mese, ben cinque da quando era arrivato: era ovvio che si sospettasse di lui!

Scoccò uno sguardo all’orario, scoprendo che era ancora abbastanza presto, ma sicuramente l’intero villaggio, o almeno una buona parte, era sveglio. Dunque si cambiò in fretta, decidendo di andare a far visita alla signora Hurst, che ormai poteva reputarsi vedova.

Nessuno degli scomparsi era mai stato ritrovato.

In molti si erano dati da fare già dalla prima sparizione, quella di Monna Dora, avvenuta poco dopo l’arrivo di Nathan. L’Angelo ricordava bene la nottata passata a cercarla, e ricordava altrettanto vividamente la sicurezza con cui la donna era stata data per morta poco dopo: sicuramente, si era pensato all’epoca, i lupi si erano spinti fin dentro il villaggio, approfittando delle tenebre, ed avevano trovato nella villica una buona cena.

Tali affermazioni erano miseramente cadute dopo l’assassinio della sorella di Monna Dora, Monna Dana.

«Ricordo che sin da quando ero piccola si prendevano sempre gioco degli altri scambiando i propri nomi. Era una cosa che amavano fare…» gli aveva detto Ann.

Negli occhi della ragazzina, Nathan aveva letto una grande tristezza, che lo aveva spinto ad offrire il proprio aiuto. Assieme al capo villaggio e a messere Nevue si erano dati da fare per fare un sopralluogo degno di questo nome, ma le uniche cose che erano riusciti a confutare era che la donna era stata sgozzata, che l’omicidio era avvenuto di mattina e che si stava preparando a partire senza avvertire nessuno: destinazione sconosciuta.

Nessuna arma era stata ritrovata, ed il povero stalliere che aveva scoperto il cadavere non aveva né visto né udito nulla.

 

«È permesso?»

«Sì…» una vocina indistinta annuì.

Nathan spinse con delicatezza la porta d’ingresso, muovendo un passo dentro casa Hurst. Dalla stanza principale, quello che sembrava il salone – anche se di salone aveva ben poco -, provenivano dei mugolii e dei lamenti: sembrava che qualcuno stesse piangendo. L’uomo sospirò, capendo bene quale grande dolore dovesse aver assalito così repentinamente quelle mura.

Era la prima volta che entrava in quel luogo, ma già gli piaceva: i colori della mobilia erano molto accessi e sgargianti, sicuramente merito dell’innata vivacità della padrona di casa e dell’amore immenso che il padrone nutriva nei suoi confronti, tanto da permetterle la qualunque.

Tutto sembrava essersi fermato, lì dentro; persino il famoso cardellino delle nevi, di cui i coniugi spesso vantavano il frizzante e acuto canto, si era acquietato in un angolo del suo trespolo, piegato a riccio su se stesso.

Una visione straziante, ma niente in confronto a quello che aspettava lo straniero nell’altra stanza.

Entrando nella  cucina, la prima cosa che poté notare fu un ordine quasi cinico: ogni cosa sembrava essere al suo posto. Il fuoco scoppiettava a intervalli regolari nel camino, illuminando la stanza abbastanza fredda; le imposte delle finestre erano appena socchiuse, quanto bastava a far penetrare qualche filo di luce. Ma la cosa che più colpiva della scena, oltre il buio quasi mistico, era il fatto che non si potesse avvertire alcun odore.

Tutto, in quella parte di casa, sembrava essere in uno stato di quiete quasi inquietante.

In un angolo, seduta sulla sedia a dondolo che faceva avanti e indietro con cupo rumorio ripetitivo, la sagoma di quella che un tempo era stata la signora Hurst faceva quasi paura a Nathan: non era più la donna che gli aveva accreditato quel titolo che lo aveva messo in imbarazzo, bensì una povera vecchia stanca, infelice, china su dei merletti, che cuciva incessantemente.

Lacrime amare le scorrevano lungo il viso, andando poi a bagnare i lavori ormai zuppi.

«Madame?» provò a chiamarla Nathan, ma la voce gli si ruppe, spezzata miseramente dalla pena che lo aggrediva in quel momento.

La donna sembrava quasi in uno stato di trance, tantoché non alzò il capo né emise alcun suono, limitandosi a piangere mutamente, mentre le dita scorrevano veloci sui ricambi, con abilità dettata dagli anni tale che, nonostante la pochissima attenzione che ella vi metteva, non si pungeva le dita.

«Madame…» riprovò ancora lui, avvicinandosi.

Si chinò dinnanzi a lei, rivolgendole uno sguardo preoccupato; non sapeva se aveva fatto bene a recarsi lì.

Fato vuole che Nathan somigliasse molto al signor Hurst da giovane, come spesso la donna gli ripeteva. Dunque era un male essersi recato lì, a ricordale un doloroso passato?

Aveva incontrato per strada alcuni che erano stati dalla donna, provando a consolarla e a dimostrarle la loro vicinanza, ma gli avevano raccontato che ella non si era aperta con nessuno. Forse con lui, che tanto ricordava il suo adorato marito, avrebbe avuto un comportamento diverso?

«Perdonate l’intrusione, madame, ero preoccupato per voi.» sospirò l’Angelo, estraendo dalla tasca della giacca un fazzoletto bianco che porse alla donna.

Nessun segno di ripresa: ella continuava a cucire, imperterrita.

Nathan sentì un nuovo moto di grandissima compassione, evidentemente non se la sentiva di parlare neanche con lui.

Tuttavia volle provare un ultimo gesto disperato.

Con lentezza, quasi stesse per attraversare un confine proibito, allungò il braccio, giungendo con la mano destra al viso della donna, della quale asciugò le lacrime con un gesto delicato, atto a non darle fastidio.

Ella ebbe un tremito che sembrò riscuoterla, e per un attimo tremò duramente, costringendo Nathan a bloccare ogni movimento. Infine, la donna alzò finalmente gli occhi, incontrando quelli del giovane studioso, e sorrise: sorrise di un sorriso dolce, che quasi fece sciogliere le membra di Nathan, che in quel momento si sentiva davvero un libro aperto a quegli occhi nocciola. Quegli occhi parevano riuscire a leggere nella sua anima, tanto che il giovane ritrasse la mano, come se si fosse scottato.

“Non fare lo stupido, Nate…” si apostrofò mentalmente “è solo suggestione. Tutto questo buio ti fa male…

Eppure non era solo merito dell’atmosfera pesante, dell’oscurità che li avvolgeva, dell’incessante scorrere delle dita piegate dall’artrosi che, nonostante i tremolii, cucivano fermamente, con una vena di cinismo.

«Finalmente sei tornato…» Joanne sorrise dolcemente, piegando il capo «William.»

Nathan sbarrò gli occhi.

Seguì qualche attimo di silenzio, durante il quale il giovane studioso si pentì amaramente di essersi recato in quella casa: come temeva nella peggiore delle ipotesi, era stato scambiato per il marito della donna.

E ora?

Non poteva di certo negare di essere sempre stato un ottimo attore, ma quella messa in scena si prospettava troppo macabra e crudele per metterla in atto; oppure era, molto in fondo, un’opera buona farla parlare un’ultima volta col “marito”? Come sempre, Nathan decise di rischiare.

«… Perdonami il ritardo, cara.» la sua voce era molto diversa da quella anziana del signor Hurst, ma confidava nell’illusione data dal proprio aspetto giovanile e dalle allucinazioni della fragile mente della donna.

«Hai trovato Alice, finalmente?» continuò speditamente l’anziana.

La sua voce aveva un’intonazione completamente diversa dal quella che ostentava di solito: quel dolcissimo e tenero tono era sempre stato riservato solamente al marito.

Era davvero convinta che Nathan fosse William.

“Il dolore è davvero capace di lenire l’animo…” pensò amaramente il tedesco, pensando che anche lui lo sapeva bene, perché anche lui per diverso tempo si era chiuso nel suo dolore dopo aver perso la persona più cara di tutte, in passato.

Rispose con un’inclinazione della voce più confidenziale «Sì, ed era bellissima.»

Sapeva chi fosse stata Alice: era la bambina degli Hurst, ma purtroppo era nata morta, glielo aveva raccontato Ann.

La donna riprese a piangere, ma stavolta sembravano essere lacrime di gioia. Annuì vivacemente, come una bambina, e a quella visione anche Nathan si sentì sollevato.

«Guarda, caro…» continuò lei, alzando il merletto a cui stava lavorando per mostrargli un centrino candido, che ritraeva una rosa «La rosa bianca è il tuo fiore preferito, vero?»

La prima immagine che balenò nella mente del ragazzo al nome del niveo fiore, fu Ann. Ella amava le rose bianche, ne avevano parlato molte volte, e spesso egli notava proprio quel fiore cucito sui vestiti della giovane, in particolare sulle gonne, all’altezza della vita. Solo ora si rendeva conto del fatto che probabilmente passava molto tempo ad osservarla inconsciamente se ricordava quei particolari.

La seconda immagine riguardava il campo fiorito dove giocava da bambino con Auror: lì poteva contare decine di fiori diversi, tra cui le rose bianche, bellissime.

«Sì… sono splendide.» annuì con un sorriso.

Joanne aveva ragione: erano davvero i suoi fiori preferiti.

La donna rise lievemente, porgendo il lavoro completo a Nathan.

«La nostra cara nipotina ama questi fiori, glielo donerai?» chiese, riferendosi al centrino.

«Certamente.» annuì lui, prendendo il dono.

Voleva provare a spingersi un po’ più in là: voleva provare a convincerla a sfogare il dolore che si portava dentro, nella speranza che ritrovasse la lucidità. La realtà era certo dura e terribile, ma non poteva continuare a vivere in una prigione fatta di illusioni.

«Ma credo che la nostra piccola Doralice sarebbe più felice se a donargliela fossi tu stessa.» effettivamente si chiedeva come l’avrebbe presa Doralice, la nipotina dei signori Hurst, davanti a un regalo da parte della zia datole dallo straniero.

Joanne scosse il capo, poggiando con fare stanco le spalle allo schienale della sedia a dondolo; il cupo scricchiolare del legno sembrava scandire il tempo.

«Questo tempo non è più il mio, caro. Mi dispiace così tanto lasciare queste lande…» la voce dell’anziana sembrava più leggera rispetto a prima «Hidel è la mia casa. Sai… il capo villaggio non è duro come sembra…»

Esordì così, e Nathan si mise in ginocchio davanti a lei, ascoltandola attentamente.

«Ricordo quando vi ubriacaste tutta la notte, il giorno dopo fu molto difficile togliere la puzza dell’alcool dai tuoi vestiti!» e risero insieme.

Il tedesco non sapeva di quell’episodio, ma non poté fare a meno di essere partecipe della gioia data dai ricordi alla signora Hurst.

«Ricordo anche quando Padre Richardson ci sposò… il giorno più bello della mia vita…» qualche nuova lacrima cominciò a farsi spazio lungo le gote pallide «Ed il matrimonio dei cari Elijah e Mary, la nascita di Doralice, il quinto compleanno della bambina, quando litigò con la piccola Annlisette Nevue per il possesso del fratello!»

Nathan rise: chi mai avrebbe pensato che all’origine della famigerata inimicizia tra Ann e Doralice vi fosse un’infantile lite per Gabriel? 

«Ricordo ancora Mary ed Elizabeth che rattoppavano abiti; erano così giovani quando insegnai loro a cucire, sapevano a malapena tenere in mano l’ago...» la donna faceva lunghe pause tra una frase e l’altra, come se respirare fosse diventato faticoso.

Nathan si mise in piedi, guardandola attentamente e con la paura di vedersela morire davanti di crepacuore. Sembrava stremata, non poteva andare avanti.

«Va bene così, cara.» cercò di rassicurarla con un sorriso «Ora riposati…»

In quel momento qualcuno bussò alla porta.

Nathan fu esortato ad aprire e lasciò la donna con un “torno subito”. All’ingresso, in piedi sul tappeto lo aspettava Doralice intenta a sfilarsi il cappotto; anche lei, come la zia, sembrava irriconoscibile: teneva il capo chinato, gli abiti erano molto stropicciati ed i capelli poco curati, ma nel complesso risultava comunque una bella ragazza.

Il suo sguardo languido incontrò quello di Nathan.

«Siete venuto a far visita a mia zia, messere?» chiese con intonazione grave mentre si chiudeva la porta alle spalle.

«Sì, sembra stare molto male.» lo straniero sapeva bene quanto fosse doloroso per la giovane ricevere una notizia simile in quel momento, ma non c’era tempo da perdere «Vado a chiamare il dottor Ross.»

Fece per uscire, quando la voce di Joanne lo fermò «Non fatemi aspettare…»

Fu un tenue sussurro, che però fece sentire Nathan in colpa per l’intenzione di abbandonarla proprio in quel momento critico.

«Venite…» li chiamò ancora; entrambi, dopo essersi scambiati un’occhiata carica di inquietudine ed indecisione, decisero di assecondare la vecchia donna.

Camminarono molto rapidamente attraverso il piccolo salone e senza scambiarsi neanche una parola, e quando raggiunsero la stanza poco prima lasciata da Nathan, Doralice esitò sulla porta. La visione della zia ridotta a quello stato la turbò profondamente, e per un attimo sembrò avere un mancamento, tanto che l’uomo dovette ricorrere alla sua prontezza di riflessi per reggerla prima che ella cadesse a terra.

«Sicura di voler andare oltre?» le mormorò mentre la aiutava a rimettersi in piedi.

«Sì, sì…» annuì la giovane che intanto cominciava a piangere, restando per qualche secondo aggrappata saldamente alla giacca dello straniero. Riuscì a reprimere le lacrime e sforzare un sorriso solo dopo diversi tentativi, quindi si rimise dritta ed avanzò a passi tremolanti verso l’anziana.

«Ciao, zia…» la raggiunse a fatica, fermandosi poi davanti a lei, lì dove Nathan si era inginocchiato poco prima.

Egli la raggiunse, sorridendo quindi a Joanne, che intanto alzava lo sguardo consumato e bianco come un cencio, tuttavia felice.

«Tesoro mio…» sussurrò dolcemente «Ho un regalo per te.»

Doralice parve confusa, ma Nathan sciolse i suoi dubbi porgendole il centrino di poco prima.

La ragazza arrossì, mormorando un timido «Grazie, zia… è bellissimo.»

In quel momento il giovane studioso poté notare qualche lacrima farsi di nuovo prepotentemente spazio sulle gote candide, anzi, pallide, della fanciulla: Doralice sembrava stare molto male.

Stava per consigliarle di andare a casa quando si sentì chiamare da Joanne «Messere Metherlance…»

«Ditemi.» si voltò, senza ragionare, e solo quando gli occhi ricolmi di affetto materno della signora Hurst si posarono sui suoi, capì di essersi tradito da solo. Istintivamente abbassò lo sguardo con un moto di vergogna.

La ragazza non capiva quello strano comportamento, tuttavia non riuscì a dire né fare niente, chiusa ermeticamente nel suo dolore.

Fu allora che entrambi si sentirono toccare una mano, e, alzando gli occhi, scoprirono con stupore che l’anziana donna aveva preso con le proprie mani quelle di entrambi, rivolgendo loro un evanescente sorriso.

«Grazie a entrambi per essermi stati vicini, ma ora devo andare…» sussurrò con fatica.

Istintivamente Doralice scoppiò in lacrime, sentì il cuore mancare un battito e, irrigidendosi, esclamò «No, zia! Non è vero!»

La donna strinse più forte la mano della nipote, lasciandola però poco dopo; lo stesso fece con l’altra con cui teneva Nathan.

«William mi attende sulla porta.» spiegò, e lanciò uno sguardo alle spalle dei giovani.

Forse a causa della troppa suggestione di quel luogo, entrambi si voltarono intimoriti, all’unisono, trattenendo il fiato.

Non c’era nessuno sulla porta.

Si rivolsero uno sguardo sollevato ma ancora un po’ intimorito, tornando poi a guardare la donna, ed il centrino che Doralice teneva in mano scivolò a terra assieme alla ragazzina che si abbandonava alle lacrime, mentre Nathan, nonostante fosse profondamente turbato, trovava la forza di poggiarle le mani sulle spalle, permettendole di sfogarsi, mentre rivolgeva un ultimo sguardo colmo di dolore in direzione della signora Hurst, morta.

 

 

Note dell’Autrice:

Capitolo in versione 1.5, ovvero rivisto da me ma non ancora visto dal mio beta reader :D

Dalla vecchia versione riprendo i ringraziamenti vivissimi a violacciocca, Midao e Kikyo per le recensioni!

 

A presto!

Sely.

 

 

 

  
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