Artù, il re
Com'era rotonda, quella Tavola -
rotonda e perfetta come i fianchi di una bella donna -
e come l'amava – Dio, se l'amava!
Ma sapeva bene, il re, che l'amore e l'odio
sono solo due facce della stessa medaglia (quella della vita, avrebbe detto),
e così di notte, talvolta,
quando sentiva sua moglie scivolare sempre più lontano,
e di giorno poi,
quando scopriva che un re non nasce mai per la pace,
talvolta, la odiava nello stesso tempo.
I suoi cavalieri, tutti lì a cercare la verità,
e Ginevra che gli sfuggiva lentamente di mano,
e il Graal – benedetto pezzo di legno! - che non si trovava mai,
e poi quel chiodo fisso,
quello, soprattutto, piantato sulla fronte, appena sotto alla sua corona:
non essere degno di Excalibur.
Allora si estraniava un istante - uno solo -
non gli serviva neppure chiudere gli occhi,
e ritornava uno scudiero come tanti
e aveva solo pochi anni d'inesperienza e nessun tradimento da dover gestire
e suo padre e suo fratello
e tornei e un regno ancora da aspettare.
Ma Camelot lo reclamava sempre, ingombrante e rotonda -
aveva il volto radioso di Ginevra e guardava con gli occhi tristi di Lancillotto,
incantava con le mani affusolate di Morgana e la voce raffinata di Galvano -
e allora – che altro avrebbe potuto fare? -
tornava
e guardava la sua Tavola
e l'amava
perché sapeva – lui solo -
che quella Tavola
era l'unica possibilità d'amore.
Adesso, finalmente, a Mongibello non ha più fretta.
Siede in riva al mare, spettinato dal vento gonfio di sale che gli impiastra il volto,
guarda l'orizzonte fin dove l'occhio può arrivare
e confonde l'Avalon e la Trinacria, e talvolta perfino la sua Bretagna,
sovrappone Morgana e Ginevra e Mordred e Lancillotto,
e quant'altro ancora, e aspetta.
Aspetta qualcosa che non saprebbe dire
e spera, col volto così impiastrato di sale e i capelli spettinati dal vento,
che non arrivi mai.
Che rimanga solo quello. Un'attesa, una speranza, un vago desiderio di pace.