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Autore: JoJo    18/05/2010    2 recensioni
Nella città di Baltimora vengono trovati dei corpi senza nome. Una ragazza ritornerà inaspettatamente dal passato di uno dei membri della squadra e cercherà di aiutarli nelle indagini. Ma ci sono confini che non devono essere varcati e forse lei questo ancora non lo sa...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Spencer Reid
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie '49 ways to live'
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La paura governa il genere umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non c'è nulla nel creato più abbondante della paura. Come forza modellatrice è seconda solo alla natura stessa.
Saul Bellow

Casa di Francis Stork. Fayette Street. Baltimora, Maryland.

Francis Stork aveva trentaquattro anni ma, complice la testa in cui troneggiava un incipiente calvizie e il fisico flaccido e sovrappeso, ne dimostrava molti di più. Nella foto che aveva trovato Garcia, quella che aveva permesso il riconoscimento facciale e quindi la sua identificazione, Stork guardava l'obiettivo con sguardo folle, i piccoli occhi castani erano semichiusi e la bocca storta in una smorfia. Penelope aveva trovato quello scatto insieme a dei documenti di ricovero in vari istituti psichiatrici dello Stato. Era stato dimesso per l'ultima volta circa tre mesi prima, e il rapporto del medico sosteneva che i disturbi ossessivo-compulsivi del signor Stork, uniti alle sue manie di persecuzione, fossero notevolmente migliorati rendendo il paziente innocuo.
Evidentemente lo psichiatra si sbagliava.
Hotch alzò il mento, facendo un cenno al collega che gli stava a fianco e entrambi si accostarono alla porta tenendo le pistole saldamente in mano.
Dall'interno della casa non proveniva alcun rumore.
Morgan annuì ad un nuovo sguardo del superiore e con un calcio ben assestato buttò giù la porta, facendo irruzione nel piccolo e caotico salotto.
“FBI!” gridò, puntando l'arma contro un salotto disordinato, ma vuoto.
I colleghi lo seguirono all'interno dell'abitazione immediatamente e, dividendosi, iniziarono ad ispezionare ogni stanza.
“Libero!” disse Aaron, controllando la stanza da letto, che pareva essere ancora più caotica dell'ingresso e del soggiorno.
“Libero!” gli fece eco Prentiss, entrando in una cucina lercia e poco accogliente.
A quanto pareva, l'unico essere vivente ad abitare in quella casa in quel momento era solo un piccolo topo grigio che, quando Morgan aveva aperto uno sgabuzzino per controllarne l'interno, era sgattaiolato via alla velocità della luce, sparendo in una fessura ammuffita nella parete.
“La casa è libera.” annunciò Derek, ritornando in salotto dai colleghi.
“E le pattuglie che abbiamo piazzato in giro non hanno notato nessuno che corrisponda alla descrizione di Stork.” aggiunse Bringman, riponendo la pistola nella fondina.
Il poliziotto stava ancora sospirando rumorosamente quando anche Rossi fece il suo ingresso nella casa, sul volto un'espressione grave.
“Forse dovreste venire a vedere quello che abbiamo trovato nel capanno.” esordì, facendo un cenno del capo che invitava i colleghi a seguirlo.
Era difficile non notare le condizioni di degrado in cui versava il piccolo fazzoletto di terra su cui sorgeva la casa di Stork. La terra, nuda, arida e poco curata, lasciava nel cortile un sottile alone polveroso, facendo quasi rimpiangere il cemento che circondava il resto di quella zona fuori mano nella zona sud-est di Baltimora. Qua e là troneggiavano dei rifiuti di varia natura, tutti estremamente datati e arrugginiti, ma quello che attirò lo sguardo dei profiler fu qualcos'altro.
“Quelli devono essere i resti delle pire che ha costruito.” commentò Emily, posando lo sguardo su alcuni resti carbonizzati in cui spiccavano dei pezzi di legno anneriti.
“Quindi nessuno può averle notate.- specificò Hotch, mentre continuavano a seguire David verso il retro dell'abitazione-Questa casa è troppo fuori mano perchè qualcuno potesse vedere il fumo.”
Si fermarono di fronte a un capanno stretto e diroccato, il legno di cui era fatto sembrava marcio, o comunque di pessima qualità, e portava i resti di una vernice rossa che un tempo forse fungeva da decorazione.
Reid li aspettava all'interno, e insieme a lui, oltre all'odore di qualcosa di marcio e a quello di chiuso, c'erano le prove concrete che Francis Stork era il loro SI.
Aveva creato un altare o, perlomeno, ci aveva provato. Su un ripiano di legno improvvisato e circondato da candele in gran parte consumante, erano disposte ordinatamente delle figure sacre.
Ai piedi di questa grottesca costruzione poi erano riposti dei resti carbonizzati e agli agenti non ci volle molto per capire che si trattava delle parti mancanti dai cadaveri da loro precedentemente rinvenuti.
“Un fanatico religioso, uh?” buttò fuori Bringman, dopo essersi guardato intorno e aver messo le mani sui fianchi in atteggiamento quasi spavaldo.
“In realtà è singolare come Stork abbia associato delle immagini religiose a delle credenze arcaiche che imponevano il dono di sacrifici.-cominciò a spiegare velocemente Reid- Probabilmente ha trovato questo espediente come valvola di sfogo delle sue paranoie e del...”
“Sì- lo interruppe Morgan- una specie di fanatico religioso.”
Il poliziotto aggrottò le sopracciglia, creando una profonda ruga sopra l'attaccatura del naso. Non capiva, ed era certo che non sarebbe mai riuscito a capire, il modo esatto in cui funzionava una mente criminale.
“Ma perchè il parco naturale?”domandò ancora, ripensando al luogo del ritrovamento dei corpi.
“Se voleva dare alle vittime una sepoltura, non poteva di certo farlo nei cimiteri pubblici: sono sorvegliati.- rispose Rossi- Probabilmente ha trovato più semplice entrare in un parco e lasciare lì i resti.”
Un tossire alle loro spalle interruppe quello scambio di battute e li fece voltare verso un giovane agente che teneva in una mano, ben protetta da un guanto di lattice, un foglio di carta strappato dai bordi di un giornale.
“Scusate.- disse, prima di passare ciò che aveva trovato al suo superiore-Credo che dovreste guardare questo.”
“Che cos'è?” chiese Bringman, mentre esaminava il foglietto. Con una calligrafia incerta e obliqua c'erano scritti una serie di numeri, riconducibili a un numero di telefono di quel distretto.
“Quello è il numero del laboratorio di medicina legale.” disse Reid, che aveva allungato il collo per leggere quelle scritte.
Il poliziotto si voltò a guardarlo, stranito.
“Ho una memoria eidetica.” si giustificò il giovane profiler, con una scrollata di spalle.
“Dove l'avete trovato?” domandò quindi Hotch.
“In salotto, di fianco al telefono.- continuò l'agente-E poi abbiamo trovato anche una guida telefonica. Guardate.”
“Quello è l'indirizzo di Ross.” esalò Bringman, dopo aver notato un nome circondato dalla stessa penna che aveva scritto il numero di telefono.
“Perchè questo tizio ha segnato il suo nome?” domandò di nuovo, guardando i profiler con sguardo indagatore.
“Credo che la veda come una sorta di profanatrice di tombe, che ha rovinato il suo lavoro di purificazione del mondo.” disse Reid, fissando l'altare improvvisato che Stork aveva costruito.
“Quindi adesso che intende fare?” chiese di nuovo il poliziotto, anche se un presentimento piuttosto negativo gli stava incominciando a far stringere lo stomaco.
Lo sguardo grave che gli lanciarono valle più di una risposta a parole.
“Dannazione!- sbottò, prima di prendere il cellulare dalla tasca e comporre il numero di Alaska con foga- La chiamo e le dico di barricarsi in casa. Le manderò una scorta finchè non avremo preso quel tizio.”
I profiler attesero pazientemente che effettuasse la chiamata, ma dopo pochi secondi lo videro chiudere di scatto il telefono e sbuffare sonoramente.
“Niente, c'è quell'odiosa vocetta che dice di richiamare...”
“Forse il dottor Stein sa dove può essere.” propose Emily.
Bringman alzò gli occhi al cielo, ma alla fine si convinse a comporre il numero di casa del vecchio antropologo.
“Che c'è?” sbottò la voce dall'altro capo del filo, dopo che il telefono ebbe squillato diverse volte.
“Dottor Stein, sono l'agente Bringman.- si presentò, cercando di ignorare il tono dell'uomo- Per caso Alaska Ross si trova lì con lei?Oppure può dirmi dove posso trovarla?”
“Perchè diavolo dovrei sapere dove si trova Quarantanove?Non sono mica il suo babysitter!”
“Dottor Stein, è molto importante: Ross le ha parlato di cosa avrebbe fatto dopo il lavoro?”
“Non ricordo...Ha detto che una sua amica sarebbe passata a trovarla per il week-end. È successo qualcosa di grave?”
“Non ne siamo certi...” borbottò, pronto a concludere la chiamata.
“Mi chiamate a casa per chiedermi di Quarantanove: direi che c'è qualcosa che non va, evidentemente, e io voglio sapere cosa.”
“Mi dispiace, Stein, ora non ho tempo per assecondare i suoi modi orrendi!” tagliò corto l'uomo, chiudendo la comunicazione con aria scocciata.
“Forse è a casa, dovrebbe ospitare un'amica.” rivelò quindi agli agenti FBI.
Hotch annuì, prima di dare ai colleghi qualche direttiva “Morgan, Reid: andate con Bringman a controllare la casa. Io e gli altri controlleremo il quartiere nel caso Stork la stesse aspettando in zona.”

Casa di Alaska Ross. Lexintong Street. Baltimora, Maryland.

Alaska Ross non avrebbe dovuto abitare lì, e non occorreva essere un profiler per dirlo: l'apatia di quell'agglomerato di mattoni contrastava evidentemente con la personalità della giovane antropologa.
Il palazzo era grigio e si trovava in una via laterale del centro, forse un po' fuori mano, ma comunque in una bella zona della città. Era un complesso che conteneva numerosi appartamenti e quello di Alaska si trovava al quarto piano, senza ascensore.
“Chi ha imbiancato questo posto non doveva certo essere Michelangelo.” commentò Morgan, osservando i muri rovinati e tristi.
Reid si strinse nelle spalle prima di additare una porta “L'appartamento di Alaska deve essere quello.” aveva un po' il fiato corto dopo aver fatto tutte quelle scale e il ginocchio gli iniziava a fare male. Erano appena arrivati al pianerottolo del quarto piano ma era palese che quella porta fosse quella della casa di Alaska. Di fianco all'uscio c'era un portaombrelli colorato e un vaso basso e largo, che conteneva una decina di cactus in miniatura. La scritta sul tappetino all'ingresso dicev “Calpestami pure”, mentre su un foglio appeso sul ripiano di legno della porta c'era scritto “Se la musica è troppo alta, la tua anima è troppo vecchia!”.
“Tipico di Ross.” sospirò, scuotendo la testa Bringman, prima di suonare il campanello. Premette col dito sul pulsante dorato affianco a un adesivo su cui a caratteri irregolari c'era scritto il nome della dottoressa.
Morgan inclinò leggermente la testa di lato, mentre cercava di capire se ci fosse un movimento di qualche tipo all'interno della casa, ma dall'altra parte dell'uscio nessuno parve muoversi.
“Non risponde.” commentò, facendo passare ancora qualche secondo prima di parlare.
Bringman continuò a fissare la porta, accigliato, e iniziò a premere il dito sul campanello con più insistenza.
Spencer si strinse nelle spalle “Magari è a fare un giro in zona e a questo punto gli altri l'avranno già trovata.- ipotizzò- Oppure, se è vero che aspettava degli ospiti, è andata a prenderli all'aeroporto o alla stazione.”
Il poliziotto lo guardò alzando un sopracciglio “Quella ragazza non sa guidare nemmeno un triciclo, non può certo fare la tassista in giro per Baltimora! E poi, credimi, un piano del genere sarebbe troppo elaborato per lei: Ross improvvisa, non pianifica.”
Reid stava per proporre un'altra possibile ipotesi quando una voce li fece voltare tutti e tre.
“Non è ancora rientrata.”
“Come?” domandò Derek, voltandosi verso una donna che si stava chiudendo la porta di casa alle spalle, dall'altro lato del pianerottolo. Era in tenuta sportiva, pronta per andare in palestra.
“State cercando Alaska, immagino.- continuò, facendo ondeggiare la coda di cavallo che raccoglieva i suoi capelli biondi- Dovete essere dei suoi colleghi del dipartimento, no?Lei non c'è, mi ha detto che faceva un po' tardi per del lavoro in più che doveva fare.”
“Quando l'ha sentita?” indagò Bringman.
“Mmm, direi più o meno verso le cinque e mezza, forse, quando è uscita dal laboratorio.- continuò la vicina di casa- L'avevo invitata a cena, ma mi ha chiamato per dirmi che forse tardava.”
“Io e Rossi l'abbiamo vista un'ora dopo, e l'abbiamo vista prendere l'autobus prima di raggiungervi a casa di Stork.” disse Morgan, voltandosi verso gli altri due agenti.
“Quindi deve essere tornata a casa: la fermata dell'autobus è qui a due passi.” aggiunse Spencer, meditabondo.
Bringman si girò di nuovo verso la donna, che li osservava incuriosita “E' sicura che Alaska non è tornata a casa e poi sia uscita di nuovo?”
Lei scosse la testa “La sua porta cigola terribilmente. Me ne sarei accorta.”
I tre si congedarono in fretta, percorrendo a ritroso quelle scale ripide e decidendo che sarebbe stato meglio che si fossero aggregati a qualche pattuglia per trovare l'antropologa.
Erano appena usciti dal portone del palazzo quando il cellulare di Bringman prese a suonare con insistenza.

Non voleva aprire gli occhi.
Si sentiva la testa pesante e un ronzio prepotente le trapassava entrambe le orecchie.
Mosse piano il braccio, per portarselo sotto la testa e continuare a dormire, ma non appena lo fece una fitta le attraversò il cranio, facendola tornare alla realtà.
Non si trovava nel suo letto. E nemmeno in laboratorio. E nemmeno sul divano dell'ufficio di Davon.
La superficie sotto di sé era rigida ma leggermente morbida al tatto, come se avesse avuto un rivestimento di qualche tipo.
Alaska Ross aprì gli occhi di scatto, riuscendo a vedere solo il buio, ma improvvisamente si ricordò tutto.
Era appena scesa dall'autobus e, se avesse percorso ancora pochi passi avrebbe raggiunto il portone del palazzo dove abitava, ma qualcuno l'aveva chiamata. Si ricordò di essersi girata per guardare in faccia il proprio interlocutore e poi il colpo, forte e preciso, all'altezza della tempia destra.
“No, no, no!” sussurrò, senza rivolgersi ne a se stessa, ne a nessuno in particolare.
Il ronzio che le risuonava nelle orecchie continuava, persistente, e lei provò a prestare più attenzione. Era su un'auto. In un bagagliaio.
“Aiuto!!!”iniziò a urlare presa dal panico.
Una vocina maligna nel suo cervello, probabilmente l'ultimo barlume di razionalità che possedeva, la informò che in mezzo al rumore del traffico nessuno avrebbe notato la sua richiesta d'aiuto, per quanto accorata.
“Aiuto...” ripetè di nuovo, più piano e con voce sconsolata.
Cercò di cambiare posizione, mettendosi supina e, con un colpo di reni provò a spingere le gambe verso l'alto, cercando di metterci tutta la forza di cui disponeva.
Il tonfo delle sue ginocchia contro il metallo del bagagliaio risuonò all'interno di quello spazio angusto, senza però sortire l'effetto desiderato. Era ancora lì dentro, ancora intrappolata.
Alaska sbattè le palpebre più volte, cercando di abituarsi al buio che si trovava intorno a lei, sperando in questo modo di poter individuare un oggetto di qualsiasi tipo con cui aprirsi una via d'uscita. Il bagagliaio era completamente vuoto.
Prese dei grossi respiri, cercando di ignorare il pulsare che sentiva alla testa e il battito del suo cuore che pareva accelerare ad ogni secondo che passava. Le pareva di sentire quasi il panico scorrergli direttamente nelle vene e mischiarsi con il suo stesso sangue. Si continuava a domandare quale fosse il motivo per cui quel pazzo, lo stesso pazzo che aveva ucciso quelle tre povere ragazze?, le stesse facendo quello. Perchè proprio a lei?
Scivolò di nuovo sul fianco, mettendosi in posizione fetale e abbracciandosi da sola.
“Cosa...?” iniziò a domandarsi, mentre sentiva qualcosa premerle all'altezza della milza.
Mosse una mano per portarsela alla parte che sentiva protestare e spalancò la bocca per lo stupore.
Aveva ancora il cellulare in tasca!
Lo afferrò con un movimento secco e nervoso e la luce che si produsse non appena sfiorò i tasti con le dita le diede uno strano senso di sollievo, che però non la rincuorò del tutto.
“Andiamo, andiamo...” sibilò a denti stretti, rivolta all'oggetto inanimato. Le mani le tremavano così tanto che il cellulare le scivolò dalle dita mentre digitava il numero.
Cercando di cacciare indietro una nota di panico iniziò a tastare il suolo davanti a sé, ben decisa a non farsi sfuggire quella possibilità di chiamare aiuto e salvarsi.
Riafferrò il telefono e con dei movimenti nervosi riuscì alla fine a digitare l'unico numero utile che sapeva a memoria.
Tu-tu. Tu-tu. Squillava a vuoto, in attesa che qualcuno rispondesse e aspettare non le era mai sembrato così fastidioso. Ad ogni squillo le sembrava di perdere qualche battito del cuore.
Quando sentì la voce dall'altro capo del filo, fu certa che il cuore le si fosse fermato definitivamente. “Bringman.”
“Alan!- chiamò, la voce distorta dalle lacrime e da una sorta di sollievo- O, Dio, ti ringrazio!Alan!”
“Ross, va tutto bene?Dove sei?” il poliziotto lanciò un'occhiata agli altri agenti, che lo fissavano in attesa di sapere se fosse tutto a posto.
“Sono...-Alaska dovette deglutire una volta perchè la sua voce stava diventando troppo stridula-Sono in una macchina, in un bagagliaio.”
“Cristo!- imprecò, per poi voltarsi verso gli agenti dell'FBI- L'ha presa.”
“Cosa?” domandò Morgan, sperando di aver capito male.
“Il nostro uomo ha Ross!” sbottò Bringman, agitato.
“Alan?Alan!” la voce della ragazza sembrava disperata dall'altro capo del telefono.
Bringman stava per tornare a parlarle ma Aaron gli si avvicinò allungando una mano per farsi passare il cellulare. Li avevano raggiunti pochi minuti prima e quella chiamata era arrivata all'improvviso mentre decidevano come agire nelle ricerche.
“Sono l'agente Hotchner, Alaska. Sai dirmi da quanto tempo sei lì dentro?”
“Io...Non lo so, non mi ricordo.-cercò di farsi venire in mente a che ora era scesa dall'autobus, ma non era mai stata una ragazza troppo attenta all'orologio- Credo di aver perso conoscenza per un po'.”
“Sei ferita?” si informò quindi, rimanendo concentrato.
Automaticamente Alaska si portò una mano alla tempia e sentì al tatto qualcosa di caldo e appiccicaticcio “Mi sanguina la testa.” disse, trattenendo un gemito.
Aaron rimase in silenzio per pochi secondi, riflettendo sul da farsi, prima di spiegare alla ragazza quello che sarebbe successo “Ok, Alaska, ascoltami bene: adesso riattacco per chiamare Garcia e fare in modo che possa stabilire un contatto col gps del tuo telefono e fra meno di due minuti ti ricontatto e sapremo dove ti trovi, d'accordo?”
“O-okay.” singhiozzò l'antropologa: il solo pensiero di essere lasciata di nuovo in balia di se stessa in quello spazio angusto la angosciava terribilmente.
“Non ti abbandoneremo, capito?- la rassicurò Aaron, intuendo i suoi sentimenti- Ora conta fino a cento e prima che avrai finito ti staremo richiamando. Ce la puoi fare, Alaska?”
La giovane annuì, anche se nessuno poteva vederla “Credo...credo di sì.”
“Due minuti.” ripetè prima di riattaccare.
Il tono della sua voce era fermo ed estremamente calmo, e Alaska non potè dubitare di lui.
Mentre Hotch interrompeva la chiamata e restituiva il cellulare a Bringman, Morgan aveva già composto il numero dell'ufficio tecnico a Quantico.
“Garcia, devi localizzare il cellulare di Alaska Ross.”
La donna parve capire subito, dal tono concitato di Derek, l'urgenza della richiesta. Battè le dita agili sulla tastiera del computer e alzò lo sguardo verso lo schermo che aveva di fronte a sé.
Un puntino rosso lampeggiava, muovendosi piano sulla mappa virtuale delle strade di Baltimora.
“Ok, ci sono, ho localizzato la zona.- disse quando fu certa della localizzazione-Vicino a Ten Hills, sulla Quarantesima Strada.”
“Non puoi essere più precisa?” domandò Rossi, attraverso la funzione viva voce che Morgan aveva attivato.
“E' fra la Edmondson e la Hilton.” specificò quindi Penelope.
“C'è un parco, lì vicino?” chiese ancora Prentiss, cercando di intuire le intenzioni di Stork.
“Sì, il Leakin Park!” questa volta fu Brignman a parlare.
“Andiamo.- disse quindi Hotchner muovendosi veloce per raggiungere l'auto, prima di ritornare a parlare con Garcia- Chiama la dottoressa Ross e mettila in collegamento con i nostri cellulari.”
“Alaska?” chiamò Penelope, attraverso la comunicazione che aveva avviato tramite il computer.
“Sì?” rispose immediatamente la ragazza, con tono concitato. Quell'attesa le era sembrata interminabile.
Bringman riprese a parlare al suo posto, contento di sentire la sua voce “Stiamo venendo a prenderti, Ross, tieni duro, d'accordo?”
Alaska non potè trattenere un sospiro di sollievo “Okay.”
Sapeva che, tecnicamente, non era ancora in salvo, ma sapere che erano già sulle sue tracce, già a buon punto per arrivare da lei, la faceva aggrapparsi con tutte le sue forze alla speranza che quella situazione si risolvesse al più presto.
“La testa ti fa male?” si informò Rossi, connettendosi al viva voce del SUV.
“No...ma non è bello essere sballottati di qua e di là quando la macchina frena o curva.”
“Lo so, Ross, ma ora ci pensiamo noi.- la rassicurò Bringman- D'accordo?”
“Ah-a.” fu il mormorio che ebbero in risposta.
Qualcosa, nel tono sommesso che aveva usato, aveva fatto preoccupare immediatamente Reid. Sapeva che cosa voleva dire quel tono di voce: stava pensando. E, lui più di tutti, sapeva che pensare troppo in una situazione del genere non era affatto proficuo, né piacevole.
“Parla con me, Alaska.- si ritrovò a dire, senza rendersene conto- Raccontami qualcosa, qualsiasi cosa.”
Emily, che divideva l'auto con lui e Hotch, lo guardò per un attimo, stranita da quel comportamento, ma non disse niente.
Sentirono Alaska tossicchiare leggermente, prima di iniziare a parlare con voce sottile “I...i bambini nascono con circa trecento ossa, ma quando si cresce il numero si riduce a duecentosei.”
“Non lo sapevo.- Reid mentì, cercando di esserle d'aiuto-Dimmi qualcos'altro, Alaska.”
“Uhm...l'osso più duro e resistente del corpo umano è la mascella, e alcuni tipi di ossa sono più forti di alcuni tipi di metallo.”
Derek annuì mentre realizzava il motivo per cui il suo giovane collega stava chiedendo quelle cose all'antropologa: cercava di farla distrarre per non farle avere una crisi di panico.
“Vai avanti.-la incoraggiò David- Stai andando benissimo!”
“I denti sono l'unica parte del corpo che non si ripara da sola.” continuò quindi a parlare la ragazza, prima di aggiungere qualcos'altro “I piedi contengono circa un quarto delle ossa dell'intero corpo.”
La voce di Alaska andò scemando e gli agenti dall'altro capo del filo si ritrovarono preoccupati. Forse la ferita alla testa era più grave di quanto l'antropologa stessa pensasse.
“Ross?- la chiamò Bringman, con tono ansioso- Che ti prende, Ross?Continua a parlarci!”
“Non è casuale, vero?- domandò Alaska con voce insicura- Voglio dire, ero a un passo da casa mia, quasi sul portone, e quello non è il quartiere dove di solito agisce...E poi sapeva il mio nome...”
Bringman sospirò, mentre se la immaginava aggrottare le sopracciglia nel tentativo di raccapezzarsi del perchè si trovasse in quella situazione.
“Perchè me?” chiese, cercando di mantenere sotto controllo il ritmo del proprio respiro.
“Crediamo che...- cominciò a spiegare Hotch, cercando di non preoccuparla ulteriormente- che in te riveda una sorta di profanatrice che ha rovinato il suo lavoro di purificazione. Sei tu che ti sei occupata dei corpi, per cui incolpa te del loro ritrovamento.”
“E' questo, allora. Logico. In maniera assolutamente folle, ma...” la voce le si strozzò in gola, non appena sentì tacere il rombo del motore e capì che la macchina non era più in movimento.
“Alaska?-la chiamò Emily, preoccupata- Alaska che ti prende?”
“Ci siamo fermati.” fu tutto quello che riuscì a dire, prima che il bagagliaio si aprisse rivelando l'oscurità e l'umidità della prima sera.
Qualcuno si avventò immediatamente su di lei, senza lasciarle il tempo di pensare a come agire e l'afferrò per i capelli, trascinandola fuori dal bagagliaio, e subito un urlo di dolore le salì alle labbra. Lasciò cadere il telefonino che teneva poco saldamente fra le mani tremanti, ma ciò non impedì agli agenti che erano dall'altro capo del filo di sentire quello che stava accadendo.
“Alzati!” le ordinò l'uomo con voce dura. Era la stessa voce stridula che aveva sentito chiamarla vicino a casa sua.
Alaska soffocò un singhiozzo e tossì, la faccia appoggiata alla ghiaia del terreno sul quale l'aveva scaraventata.
Puntellò le mani per terra e si rimise seduta a fatica. Le pareva di muoversi al rallentatore, e forse era proprio così, ma le gambe le tremavano e credette che fossero diventate di gelatina.
“Andiamo!” ringhiò l'altro, afferrandole con rabbia il braccio proprio sopra al gomito e rimettendola in piedi alla svelta.
Alaska diede uno strattone per liberarsi e mosse qualche passo traballante all'indietro.
Francis Stork la guardò con il suo sguardo allucinato. Era enorme, di corporatura estremamente robusta. I vestiti erano semplici, da lavoro ma puliti. Più che a ogni altro particolare, comunque, la ragazza non poteva fare a meno di fissare quegli occhi completamente folli.
Un coagulo di sangue le appiccicava i capelli sul viso, ma ciò non le impedì di vedere che quell'uomo, quell'assassino, stringeva fra le mani una pistola.
“Ti prego...” lo implorò, la voce era tremante e scossa dai singhiozzi.
Sentiva una smorfia causata dalla disperazione e dalla paura allargarsi sulla sua faccia e tendergli i muscoli: sapeva di non poter contare più né sulla polizia né nell'FBI. C'era solo lei, lì, e questo le causava un terrore che non aveva quasi mai provato prima in vita sua.
Garica si premette la mano contro la bocca, cercando di trattenere il pianto che la stava scuotendo. Quando il cellulare era caduto dalle mani di Alaska la comunicazione non si era interrotta, così sia lei che gli altri con cui stava condividendo la chiamata avevano sentito tutto: il tonfo del corpo della giovane sul terreno, la voce stridula di Stork e le suppliche sommesse dell'antropologa.
Bringman si passò nervosamente una mano sulla fronte, domandandosi perchè quell'auto stesse andando così piano.
Rossi fissava la strada davanti a loro, mentre Morgan guidava il più velocemente possibile, e cercava di togliersi dalla testa gli occhi terrorizzati che aveva visto molti anni prima, ma che probabilmente in quel momento stavano covando la stessa espressione.
Reid si mordeva pensieroso il labbro inferiore. La nota di panico che aveva sentito nella voce della ragazza era la stessa che aveva lui quando era stato rapito e torturato.
“Ti prego...” ripetè Alaska piangendo, alzando le braccia davanti a sé e tenendo le mani come una sorta di scudo.
“Spero che Dio ti assolva dai tuoi peccati.” biascicò Stork, alzando lentamente la mano che reggeva la pistola per puntarla contro la ragazza che si trovava di fronte a lui.
Fu in quel momento che Alaska decise di agire. Si lanciò contro l'uomo, con il solo intento di strappargli l'arma dalle mani.
Non morirò senza combattere, si ripeteva mentalmente, mettendo l'accento sulle prime due parole.
Non morirò, non morirò, non morirò, non morirò, non morirò.
Ma lui era notevolmente più forte.
Quell'urlo disperato, però, continuava a risuonargli nella testa mentre conficcava le unghie nella carne dell'avambraccio di Stork per fargli perdere la presa dalla pistola.
L'uomo cercò di alzare entrambe le braccia, cercando di scostarsi di dosso quella che sembrava a tutti gli effetti una furia. Ad ogni suo movimento Alaska veniva sballottata leggermente, ma tutto ciò non le impediva di continuare a cercare di spingere l'arma lontano da sé.
“Stanno lottando?” domandò Emily in un sussurro.
Tutto quello che riuscivano a sentire erano i grugniti di protesta di Stork e delle urla nervose che uscivano di tanto in tanto dalla bocca di Alaska.
“Stanno lottando.” ripetè Rossi, mentre cercava con tutte le sue forze di non immaginarsi quel bruto prendere il sopravvento su una delle persone più indifese che avesse mai conosciuto.
Uno sparo fece cessare istantaneamente quei rumori e il silenzio calò immediatamente su quel sentiero così come nelle orecchie degli agenti che stavano ascoltando attraverso il telefono.
“Alaska?- chiamò Bringman, una nota di puro panico nella voce-Alaska!!”
Dall'altro capo del telefono, l'unico suono che rispose ai suoi appelli fu il rumore rombante di un tuono che annunciava l'arrivo di un inaspettato temporale.

E alla fine anche il capitolo tanto atteso è arrivato. Avrei voluto aggiornare più in fretta, ma c'era sempre qualcosa che non mi convinceva pienamente, ma alla fine mi sono decisa. Non sono particolarmente brava nel rendere una situazione d'ansia come quella che ho provato a descrivere, credo che la carriera della scrittrice di thriller mi sarà preclusa a vita, ma spero comunque di aver reso l'idea. E riguardo al finale del capitolo....ok, forse ammetto di essere stata un pò stronzetta a farlo finire così, ma aggiornerò in fretta questa volta, giurin giuretto! ; ) Fatemi sapere che ne pensate del cap, please. Un bacione, JoJo

takara : ehm...io ho aggiornato ma non so se la situazione tensione può essere migliorata!Lo so, sono un pò cattivella con Alaska ma non faccio apposta, il mio cervello segue dei binari tutti suoi e io non posso far altro che obbedirgli e scrivere secondo il suo volere...Sono contenta che la scena dell'ascensore ti sia piaciuta, la faccenda del cioccolato l'ho aggiunta perchè 1- ero in deficit da zuccheri e 2- credo che Reid meriti un pò di endorfine, in un modo o nell'altro! : ) Al prossimo capitolo!Besos

Maggie_Lullaby : Scusata! ; ) Fra l'altro mi rende felice sapere di non essere l'unica ad essere affetta da Alzheimer giovanile!eheheh! Sono contenta che la storia ti piaccia, nonostante la mia vena sadica che si ripercuote sulla povera e ignara Alaska!Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, alla prossima!Kisses

   
 
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