La
paura governa il genere
umano. Il suo è il più vasto dei domini. Ti fa
sbiancare come una candela. Ti spacca gli occhi in due. Non
c'è
nulla nel creato più abbondante della paura. Come forza
modellatrice è seconda solo alla natura stessa.
Saul Bellow
Casa di Francis Stork. Fayette Street. Baltimora, Maryland.
Francis Stork aveva
trentaquattro anni
ma, complice la testa in cui troneggiava un incipiente calvizie e il
fisico flaccido e sovrappeso, ne dimostrava molti di più.
Nella foto che aveva trovato Garcia, quella che aveva permesso il
riconoscimento facciale e quindi la sua identificazione, Stork
guardava l'obiettivo con sguardo folle, i piccoli occhi castani erano
semichiusi e la bocca storta in una smorfia. Penelope aveva trovato
quello scatto insieme a dei documenti di ricovero in vari istituti
psichiatrici dello Stato. Era stato dimesso per l'ultima volta circa
tre mesi prima, e il rapporto del medico sosteneva che i disturbi
ossessivo-compulsivi del signor Stork, uniti alle sue manie di
persecuzione, fossero notevolmente migliorati rendendo il paziente
innocuo.
Evidentemente lo psichiatra si
sbagliava.
Hotch alzò il mento, facendo un
cenno al collega che gli stava a fianco e entrambi si accostarono
alla porta tenendo le pistole saldamente in mano.
Dall'interno della casa non proveniva
alcun rumore.
Morgan annuì ad un nuovo sguardo
del superiore e con un calcio ben assestato buttò
giù
la porta, facendo irruzione nel piccolo e caotico salotto.
“FBI!” gridò, puntando
l'arma contro un salotto disordinato, ma vuoto.
I colleghi lo seguirono all'interno
dell'abitazione immediatamente e, dividendosi, iniziarono ad
ispezionare ogni stanza.
“Libero!” disse Aaron, controllando
la stanza da letto, che pareva essere ancora più caotica
dell'ingresso e del soggiorno.
“Libero!” gli fece eco Prentiss,
entrando in una cucina lercia e poco accogliente.
A quanto pareva, l'unico essere vivente
ad abitare in quella casa in quel momento era solo un piccolo topo
grigio che, quando Morgan aveva aperto uno sgabuzzino per
controllarne l'interno, era sgattaiolato via alla velocità
della luce, sparendo in una fessura ammuffita nella parete.
“La casa è libera.” annunciò
Derek, ritornando in salotto dai colleghi.
“E le pattuglie che abbiamo piazzato
in giro non hanno notato nessuno che corrisponda alla descrizione di
Stork.” aggiunse Bringman, riponendo la pistola nella fondina.
Il poliziotto stava ancora sospirando
rumorosamente quando anche Rossi fece il suo ingresso nella casa, sul
volto un'espressione grave.
“Forse dovreste venire a vedere
quello che abbiamo trovato nel capanno.” esordì,
facendo un
cenno del capo che invitava i colleghi a seguirlo.
Era difficile non notare le condizioni
di degrado in cui versava il piccolo fazzoletto di terra su cui
sorgeva la casa di Stork. La terra, nuda, arida e poco curata,
lasciava nel cortile un sottile alone polveroso, facendo quasi
rimpiangere il cemento che circondava il resto di quella zona fuori
mano nella zona sud-est di Baltimora. Qua e là troneggiavano
dei rifiuti di varia natura, tutti estremamente datati e arrugginiti,
ma quello che attirò lo sguardo dei profiler fu
qualcos'altro.
“Quelli devono essere i resti delle
pire che ha costruito.” commentò Emily, posando lo
sguardo
su alcuni resti carbonizzati in cui spiccavano dei pezzi di legno
anneriti.
“Quindi nessuno può averle
notate.- specificò Hotch, mentre continuavano a seguire
David
verso il retro dell'abitazione-Questa casa è troppo fuori
mano
perchè qualcuno potesse vedere il fumo.”
Si fermarono di fronte a un capanno
stretto e diroccato, il legno di cui era fatto sembrava marcio, o
comunque di pessima qualità, e portava i resti di una
vernice
rossa che un tempo forse fungeva da decorazione.
Reid li aspettava all'interno, e
insieme a lui, oltre all'odore di qualcosa di marcio e a quello di
chiuso, c'erano le prove concrete che Francis Stork era il loro SI.
Aveva creato un altare o, perlomeno, ci
aveva provato. Su un ripiano di legno improvvisato e circondato da
candele in gran parte consumante, erano disposte ordinatamente delle
figure sacre.
Ai piedi di questa grottesca
costruzione poi erano riposti dei resti carbonizzati e agli agenti
non ci volle molto per capire che si trattava delle parti mancanti
dai cadaveri da loro precedentemente rinvenuti.
“Un fanatico religioso, uh?” buttò
fuori Bringman, dopo essersi guardato intorno e aver messo le mani
sui fianchi in atteggiamento quasi spavaldo.
“In realtà è singolare
come Stork abbia associato delle immagini religiose a delle credenze
arcaiche che imponevano il dono di sacrifici.-cominciò a
spiegare velocemente Reid- Probabilmente ha trovato questo espediente
come valvola di sfogo delle sue paranoie e del...”
“Sì- lo interruppe Morgan- una
specie di fanatico religioso.”
Il poliziotto aggrottò le
sopracciglia, creando una profonda ruga sopra l'attaccatura del naso.
Non capiva, ed era certo che non sarebbe mai riuscito a capire, il
modo esatto in cui funzionava una mente criminale.
“Ma perchè il parco
naturale?”domandò ancora, ripensando al luogo del
ritrovamento dei corpi.
“Se voleva dare alle vittime una
sepoltura, non poteva di certo farlo nei cimiteri pubblici: sono
sorvegliati.- rispose Rossi- Probabilmente ha trovato più
semplice entrare in un parco e lasciare lì i
resti.”
Un tossire alle loro spalle interruppe
quello scambio di battute e li fece voltare verso un giovane agente
che teneva in una mano, ben protetta da un guanto di lattice, un
foglio di carta strappato dai bordi di un giornale.
“Scusate.- disse, prima di passare
ciò che aveva trovato al suo superiore-Credo che dovreste
guardare questo.”
“Che cos'è?” chiese
Bringman, mentre esaminava il foglietto. Con una calligrafia incerta
e obliqua c'erano scritti una serie di numeri, riconducibili a un
numero di telefono di quel distretto.
“Quello è il numero del
laboratorio di medicina legale.” disse Reid, che aveva
allungato il
collo per leggere quelle scritte.
Il poliziotto si voltò a
guardarlo, stranito.
“Ho una memoria eidetica.” si
giustificò il giovane profiler, con una scrollata di spalle.
“Dove l'avete trovato?” domandò
quindi Hotch.
“In salotto, di fianco al telefono.-
continuò l'agente-E poi abbiamo trovato anche una guida
telefonica. Guardate.”
“Quello è l'indirizzo di
Ross.” esalò Bringman, dopo aver notato un nome
circondato
dalla stessa penna che aveva scritto il numero di telefono.
“Perchè questo tizio ha
segnato il suo nome?” domandò di nuovo, guardando
i profiler
con sguardo indagatore.
“Credo che la veda come una sorta di
profanatrice di tombe, che ha rovinato il suo lavoro di purificazione
del mondo.” disse Reid, fissando l'altare improvvisato che
Stork
aveva costruito.
“Quindi adesso che intende fare?”
chiese di nuovo il poliziotto, anche se un presentimento piuttosto
negativo gli stava incominciando a far stringere lo stomaco.
Lo sguardo grave che gli lanciarono
valle più di una risposta a parole.
“Dannazione!- sbottò, prima di
prendere il cellulare dalla tasca e comporre il numero di Alaska con
foga- La chiamo e le dico di barricarsi in casa. Le manderò
una scorta finchè non avremo preso quel tizio.”
I profiler attesero pazientemente che
effettuasse la chiamata, ma dopo pochi secondi lo videro chiudere di
scatto il telefono e sbuffare sonoramente.
“Niente, c'è quell'odiosa
vocetta che dice di richiamare...”
“Forse il dottor Stein sa dove può
essere.” propose Emily.
Bringman alzò gli occhi al
cielo, ma alla fine si convinse a comporre il numero di casa del
vecchio antropologo.
“Che c'è?” sbottò la
voce dall'altro capo del filo, dopo che il telefono ebbe squillato
diverse volte.
“Dottor Stein, sono l'agente
Bringman.- si presentò, cercando di ignorare il tono
dell'uomo- Per caso Alaska Ross si trova lì con lei?Oppure
può
dirmi dove posso trovarla?”
“Perchè diavolo dovrei sapere
dove si trova Quarantanove?Non sono mica il suo babysitter!”
“Dottor Stein, è molto
importante: Ross le ha parlato di cosa avrebbe fatto dopo il
lavoro?”
“Non ricordo...Ha detto che una sua
amica sarebbe passata a trovarla per il week-end. È successo
qualcosa di grave?”
“Non ne siamo certi...” borbottò,
pronto a concludere la chiamata.
“Mi chiamate a casa per chiedermi di
Quarantanove: direi che c'è qualcosa che non va,
evidentemente, e io voglio sapere cosa.”
“Mi dispiace, Stein, ora non ho tempo
per assecondare i suoi modi orrendi!” tagliò corto
l'uomo,
chiudendo la comunicazione con aria scocciata.
“Forse è a casa, dovrebbe
ospitare un'amica.” rivelò quindi agli agenti FBI.
Hotch annuì, prima di dare ai
colleghi qualche direttiva “Morgan, Reid: andate con Bringman
a
controllare la casa. Io e gli altri controlleremo il quartiere nel
caso Stork la stesse aspettando in zona.”
Casa di Alaska Ross. Lexintong Street. Baltimora, Maryland.
Alaska Ross non avrebbe
dovuto abitare
lì, e non occorreva essere un profiler per dirlo: l'apatia
di
quell'agglomerato di mattoni contrastava evidentemente con la
personalità della giovane antropologa.
Il palazzo era grigio e si trovava in
una via laterale del centro, forse un po' fuori mano, ma comunque in
una bella zona della città. Era un complesso che conteneva
numerosi appartamenti e quello di Alaska si trovava al quarto piano,
senza ascensore.
“Chi ha imbiancato questo posto non
doveva certo essere Michelangelo.” commentò
Morgan,
osservando i muri rovinati e tristi.
Reid si strinse nelle spalle prima di
additare una porta “L'appartamento di Alaska deve essere
quello.”
aveva un po' il fiato corto dopo aver fatto tutte quelle scale e il
ginocchio gli iniziava a fare male. Erano appena arrivati al
pianerottolo del quarto piano ma era palese che quella porta fosse
quella della casa di Alaska. Di fianco all'uscio c'era un
portaombrelli colorato e un vaso basso e largo, che conteneva una
decina di cactus in miniatura. La scritta sul tappetino all'ingresso
dicev “Calpestami pure”, mentre su un foglio appeso
sul ripiano
di legno della porta c'era scritto “Se la musica è
troppo
alta, la tua anima è troppo vecchia!”.
“Tipico di Ross.” sospirò,
scuotendo la testa Bringman, prima di suonare il campanello. Premette
col dito sul pulsante dorato affianco a un adesivo su cui a caratteri
irregolari c'era scritto il nome della dottoressa.
Morgan inclinò leggermente la
testa di lato, mentre cercava di capire se ci fosse un movimento di
qualche tipo all'interno della casa, ma dall'altra parte dell'uscio
nessuno parve muoversi.
“Non risponde.” commentò,
facendo passare ancora qualche secondo prima di parlare.
Bringman continuò a fissare la
porta, accigliato, e iniziò a premere il dito sul campanello
con più insistenza.
Spencer si strinse nelle spalle “Magari
è a fare un giro in zona e a questo punto gli altri
l'avranno
già trovata.- ipotizzò- Oppure, se è
vero che
aspettava degli ospiti, è andata a prenderli all'aeroporto o
alla stazione.”
Il poliziotto lo guardò alzando
un sopracciglio “Quella ragazza non sa guidare nemmeno un
triciclo,
non può certo fare la tassista in giro per Baltimora! E poi,
credimi, un piano del genere sarebbe troppo elaborato per lei: Ross
improvvisa, non pianifica.”
Reid stava per proporre un'altra
possibile ipotesi quando una voce li fece voltare tutti e tre.
“Non è ancora rientrata.”
“Come?” domandò Derek,
voltandosi verso una donna che si stava chiudendo la porta di casa
alle spalle, dall'altro lato del pianerottolo. Era in tenuta
sportiva, pronta per andare in palestra.
“State cercando Alaska, immagino.-
continuò, facendo ondeggiare la coda di cavallo che
raccoglieva i suoi capelli biondi- Dovete essere dei suoi colleghi
del dipartimento, no?Lei non c'è, mi ha detto che faceva un
po' tardi per del lavoro in più che doveva fare.”
“Quando l'ha sentita?” indagò
Bringman.
“Mmm, direi più o meno verso
le cinque e mezza, forse, quando è uscita dal laboratorio.-
continuò la vicina di casa- L'avevo invitata a cena, ma mi
ha
chiamato per dirmi che forse tardava.”
“Io e Rossi l'abbiamo vista un'ora
dopo, e l'abbiamo vista prendere l'autobus prima di raggiungervi a
casa di Stork.” disse Morgan, voltandosi verso gli altri due
agenti.
“Quindi deve essere tornata a casa:
la fermata dell'autobus è qui a due passi.”
aggiunse
Spencer, meditabondo.
Bringman si girò di nuovo verso
la donna, che li osservava incuriosita “E' sicura che Alaska
non è
tornata a casa e poi sia uscita di nuovo?”
Lei scosse la testa “La sua porta
cigola terribilmente. Me ne sarei accorta.”
I tre si congedarono in fretta,
percorrendo a ritroso quelle scale ripide e decidendo che sarebbe
stato meglio che si fossero aggregati a qualche pattuglia per trovare
l'antropologa.
Erano appena usciti dal portone del
palazzo quando il cellulare di Bringman prese a suonare con
insistenza.
Non voleva aprire gli occhi.
Si sentiva la testa pesante e un ronzio
prepotente le trapassava entrambe le orecchie.
Mosse piano il braccio, per portarselo
sotto la testa e continuare a dormire, ma non appena lo fece una
fitta le attraversò il cranio, facendola tornare alla
realtà.
Non si trovava nel suo letto. E nemmeno
in laboratorio. E nemmeno sul divano dell'ufficio di Davon.
La superficie sotto di sé era
rigida ma leggermente morbida al tatto, come se avesse avuto un
rivestimento di qualche tipo.
Alaska Ross aprì gli occhi di
scatto, riuscendo a vedere solo il buio, ma improvvisamente si
ricordò tutto.
Era appena scesa dall'autobus e, se
avesse percorso ancora pochi passi avrebbe raggiunto il portone del
palazzo dove abitava, ma qualcuno l'aveva chiamata. Si
ricordò
di essersi girata per guardare in faccia il proprio interlocutore e
poi il colpo, forte e preciso, all'altezza della tempia destra.
“No, no, no!” sussurrò,
senza rivolgersi ne a se stessa, ne a nessuno in particolare.
Il ronzio che le risuonava nelle
orecchie continuava, persistente, e lei provò a prestare
più
attenzione. Era su un'auto. In un bagagliaio.
“Aiuto!!!”iniziò a urlare
presa dal panico.
Una vocina maligna nel suo cervello,
probabilmente l'ultimo barlume di razionalità che possedeva,
la informò che in mezzo al rumore del traffico nessuno
avrebbe
notato la sua richiesta d'aiuto, per quanto accorata.
“Aiuto...” ripetè di nuovo,
più piano e con voce sconsolata.
Cercò di cambiare posizione,
mettendosi supina e, con un colpo di reni provò a spingere
le
gambe verso l'alto, cercando di metterci tutta la forza di cui
disponeva.
Il tonfo delle sue ginocchia contro il
metallo del bagagliaio risuonò all'interno di quello spazio
angusto, senza però sortire l'effetto desiderato. Era ancora
lì dentro, ancora intrappolata.
Alaska sbattè le palpebre più
volte, cercando di abituarsi al buio che si trovava intorno a lei,
sperando in questo modo di poter individuare un oggetto di qualsiasi
tipo con cui aprirsi una via d'uscita. Il bagagliaio era
completamente vuoto.
Prese dei grossi respiri, cercando di
ignorare il pulsare che sentiva alla testa e il battito del suo cuore
che pareva accelerare ad ogni secondo che passava. Le pareva di
sentire quasi il panico scorrergli direttamente nelle vene e
mischiarsi con il suo stesso sangue. Si continuava a domandare quale
fosse il motivo per cui quel pazzo, lo stesso pazzo che aveva ucciso
quelle tre povere ragazze?, le stesse facendo quello. Perchè
proprio a lei?
Scivolò di nuovo sul fianco,
mettendosi in posizione fetale e abbracciandosi da sola.
“Cosa...?” iniziò a
domandarsi, mentre sentiva qualcosa premerle all'altezza della milza.
Mosse una mano per portarsela alla
parte che sentiva protestare e spalancò la bocca per lo
stupore.
Aveva ancora il cellulare in tasca!
Lo afferrò con un movimento
secco e nervoso e la luce che si produsse non appena sfiorò
i
tasti con le dita le diede uno strano senso di sollievo, che
però
non la rincuorò del tutto.
“Andiamo, andiamo...” sibilò
a denti stretti, rivolta all'oggetto inanimato. Le mani le tremavano
così tanto che il cellulare le scivolò dalle dita
mentre digitava il numero.
Cercando di cacciare indietro una nota
di panico iniziò a tastare il suolo davanti a sé,
ben
decisa a non farsi sfuggire quella possibilità di chiamare
aiuto e salvarsi.
Riafferrò il telefono e con dei
movimenti nervosi riuscì alla fine a digitare l'unico numero
utile che sapeva a memoria.
Tu-tu. Tu-tu. Squillava a vuoto, in
attesa che qualcuno rispondesse e aspettare non le era mai sembrato
così fastidioso. Ad ogni squillo le sembrava di perdere
qualche battito del cuore.
Quando sentì la voce dall'altro
capo del filo, fu certa che il cuore le si fosse fermato
definitivamente. “Bringman.”
“Alan!- chiamò, la voce
distorta dalle lacrime e da una sorta di sollievo- O, Dio, ti
ringrazio!Alan!”
“Ross, va tutto bene?Dove sei?” il
poliziotto lanciò un'occhiata agli altri agenti, che lo
fissavano in attesa di sapere se fosse tutto a posto.
“Sono...-Alaska dovette deglutire una
volta perchè la sua voce stava diventando troppo
stridula-Sono
in una macchina, in un bagagliaio.”
“Cristo!- imprecò, per poi
voltarsi verso gli agenti dell'FBI- L'ha presa.”
“Cosa?” domandò Morgan,
sperando di aver capito male.
“Il nostro uomo ha Ross!” sbottò
Bringman, agitato.
“Alan?Alan!” la voce della ragazza
sembrava disperata dall'altro capo del telefono.
Bringman stava per tornare a parlarle
ma Aaron gli si avvicinò allungando una mano per farsi
passare
il cellulare. Li avevano raggiunti pochi minuti prima e quella
chiamata era arrivata all'improvviso mentre decidevano come agire
nelle ricerche.
“Sono l'agente Hotchner, Alaska. Sai
dirmi da quanto tempo sei lì dentro?”
“Io...Non lo so, non mi
ricordo.-cercò di farsi venire in mente a che ora era scesa
dall'autobus, ma non era mai stata una ragazza troppo attenta
all'orologio- Credo di aver perso conoscenza per un po'.”
“Sei ferita?” si informò
quindi, rimanendo concentrato.
Automaticamente Alaska si portò
una mano alla tempia e sentì al tatto qualcosa di caldo e
appiccicaticcio “Mi sanguina la testa.” disse,
trattenendo un
gemito.
Aaron rimase in silenzio per pochi
secondi, riflettendo sul da farsi, prima di spiegare alla ragazza
quello che sarebbe successo “Ok, Alaska, ascoltami bene:
adesso
riattacco per chiamare Garcia e fare in modo che possa stabilire un
contatto col gps del tuo telefono e fra meno di due minuti ti
ricontatto e sapremo dove ti trovi, d'accordo?”
“O-okay.” singhiozzò
l'antropologa: il solo pensiero di essere lasciata di nuovo in balia
di se stessa in quello spazio angusto la angosciava terribilmente.
“Non ti abbandoneremo, capito?- la
rassicurò Aaron, intuendo i suoi sentimenti- Ora conta fino
a
cento e prima che avrai finito ti staremo richiamando. Ce la puoi
fare, Alaska?”
La giovane annuì, anche se
nessuno poteva vederla “Credo...credo di
sì.”
“Due minuti.” ripetè prima
di riattaccare.
Il tono della sua voce era fermo ed
estremamente calmo, e Alaska non potè dubitare di lui.
Mentre Hotch interrompeva la chiamata e
restituiva il cellulare a Bringman, Morgan aveva già
composto
il numero dell'ufficio tecnico a Quantico.
“Garcia, devi localizzare il
cellulare di Alaska Ross.”
La donna parve capire subito, dal tono
concitato di Derek, l'urgenza della richiesta. Battè le dita
agili sulla tastiera del computer e alzò lo sguardo verso lo
schermo che aveva di fronte a sé.
Un puntino rosso lampeggiava,
muovendosi piano sulla mappa virtuale delle strade di Baltimora.
“Ok, ci sono, ho localizzato la
zona.- disse quando fu certa della localizzazione-Vicino a Ten Hills,
sulla Quarantesima Strada.”
“Non puoi essere più precisa?”
domandò Rossi, attraverso la funzione viva voce che Morgan
aveva attivato.
“E' fra la Edmondson e la Hilton.”
specificò quindi Penelope.
“C'è un parco, lì
vicino?” chiese ancora Prentiss, cercando di intuire le
intenzioni
di Stork.
“Sì, il Leakin Park!” questa
volta fu Brignman a parlare.
“Andiamo.- disse quindi Hotchner
muovendosi veloce per raggiungere l'auto, prima di ritornare a
parlare con Garcia- Chiama la dottoressa Ross e mettila in
collegamento con i nostri cellulari.”
“Alaska?” chiamò Penelope,
attraverso la comunicazione che aveva avviato tramite il computer.
“Sì?” rispose immediatamente
la ragazza, con tono concitato. Quell'attesa le era sembrata
interminabile.
Bringman riprese a parlare al suo
posto, contento di sentire la sua voce “Stiamo venendo a
prenderti,
Ross, tieni duro, d'accordo?”
Alaska non potè trattenere un
sospiro di sollievo “Okay.”
Sapeva che, tecnicamente, non era
ancora in salvo, ma sapere che erano già sulle sue tracce,
già
a buon punto per arrivare da lei, la faceva aggrapparsi con tutte le
sue forze alla speranza che quella situazione si risolvesse al
più
presto.
“La testa ti fa male?” si informò
Rossi, connettendosi al viva voce del SUV.
“No...ma non è bello essere
sballottati di qua e di là quando la macchina frena o
curva.”
“Lo so, Ross, ma ora ci pensiamo
noi.- la rassicurò Bringman- D'accordo?”
“Ah-a.” fu il mormorio che ebbero
in risposta.
Qualcosa, nel tono sommesso che aveva
usato, aveva fatto preoccupare immediatamente Reid. Sapeva che cosa
voleva dire quel tono di voce: stava pensando. E, lui più di
tutti, sapeva che pensare troppo in una situazione del genere non era
affatto proficuo, né piacevole.
“Parla con me, Alaska.- si ritrovò
a dire, senza rendersene conto- Raccontami qualcosa, qualsiasi
cosa.”
Emily, che divideva l'auto con lui e
Hotch, lo guardò per un attimo, stranita da quel
comportamento, ma non disse niente.
Sentirono Alaska tossicchiare
leggermente, prima di iniziare a parlare con voce sottile
“I...i
bambini nascono con circa trecento ossa, ma quando si cresce il
numero si riduce a duecentosei.”
“Non lo sapevo.- Reid mentì,
cercando di esserle d'aiuto-Dimmi qualcos'altro, Alaska.”
“Uhm...l'osso più duro e
resistente del corpo umano è la mascella, e alcuni tipi di
ossa sono più forti di alcuni tipi di metallo.”
Derek annuì mentre realizzava il
motivo per cui il suo giovane collega stava chiedendo quelle cose
all'antropologa: cercava di farla distrarre per non farle avere una
crisi di panico.
“Vai avanti.-la incoraggiò
David- Stai andando benissimo!”
“I denti sono l'unica parte del corpo
che non si ripara da sola.” continuò quindi a
parlare la
ragazza, prima di aggiungere qualcos'altro “I piedi
contengono
circa un quarto delle ossa dell'intero corpo.”
La voce di Alaska andò scemando
e gli agenti dall'altro capo del filo si ritrovarono preoccupati.
Forse la ferita alla testa era più grave di quanto
l'antropologa stessa pensasse.
“Ross?- la chiamò Bringman,
con tono ansioso- Che ti prende, Ross?Continua a parlarci!”
“Non è casuale, vero?- domandò
Alaska con voce insicura- Voglio dire, ero a un passo da casa mia,
quasi sul portone, e quello non è il quartiere dove di
solito
agisce...E poi sapeva il mio nome...”
Bringman sospirò, mentre se la
immaginava aggrottare le sopracciglia nel tentativo di raccapezzarsi
del perchè si trovasse in quella situazione.
“Perchè me?” chiese,
cercando di mantenere sotto controllo il ritmo del proprio respiro.
“Crediamo che...- cominciò a
spiegare Hotch, cercando di non preoccuparla ulteriormente- che in te
riveda una sorta di profanatrice che ha rovinato il suo lavoro di
purificazione. Sei tu che ti sei occupata dei corpi, per cui incolpa
te del loro ritrovamento.”
“E' questo, allora. Logico. In
maniera assolutamente folle, ma...” la voce le si
strozzò in
gola, non appena sentì tacere il rombo del motore e
capì
che la macchina non era più in movimento.
“Alaska?-la chiamò Emily,
preoccupata- Alaska che ti prende?”
“Ci siamo fermati.” fu tutto quello
che riuscì a dire, prima che il bagagliaio si aprisse
rivelando l'oscurità e l'umidità della prima sera.
Qualcuno si avventò
immediatamente su di lei, senza lasciarle il tempo di pensare a come
agire e l'afferrò per i capelli, trascinandola fuori dal
bagagliaio, e subito un urlo di dolore le salì alle labbra.
Lasciò cadere il telefonino che teneva poco saldamente fra
le
mani tremanti, ma ciò non impedì agli agenti che
erano
dall'altro capo del filo di sentire quello che stava accadendo.
“Alzati!” le ordinò l'uomo
con voce dura. Era la stessa voce stridula che aveva sentito
chiamarla vicino a casa sua.
Alaska soffocò un singhiozzo e
tossì, la faccia appoggiata alla ghiaia del terreno sul
quale
l'aveva scaraventata.
Puntellò le mani per terra e si
rimise seduta a fatica. Le pareva di muoversi al rallentatore, e
forse era proprio così, ma le gambe le tremavano e credette
che fossero diventate di gelatina.
“Andiamo!” ringhiò l'altro,
afferrandole con rabbia il braccio proprio sopra al gomito e
rimettendola in piedi alla svelta.
Alaska diede uno strattone per
liberarsi e mosse qualche passo traballante all'indietro.
Francis Stork la guardò con il
suo sguardo allucinato. Era enorme, di corporatura estremamente
robusta. I vestiti erano semplici, da lavoro ma puliti. Più
che a ogni altro particolare, comunque, la ragazza non poteva fare a
meno di fissare quegli occhi completamente folli.
Un coagulo di sangue le appiccicava i
capelli sul viso, ma ciò non le impedì di vedere
che
quell'uomo, quell'assassino, stringeva fra le mani una pistola.
“Ti prego...” lo implorò, la
voce era tremante e scossa dai singhiozzi.
Sentiva una smorfia causata dalla
disperazione e dalla paura allargarsi sulla sua faccia e tendergli i
muscoli: sapeva di non poter contare più né sulla
polizia né nell'FBI. C'era solo lei, lì, e questo
le
causava un terrore che non aveva quasi mai provato prima in vita sua.
Garica si premette la mano contro la
bocca, cercando di trattenere il pianto che la stava scuotendo.
Quando il cellulare era caduto dalle mani di Alaska la comunicazione
non si era interrotta, così sia lei che gli altri con cui
stava condividendo la chiamata avevano sentito tutto: il tonfo del
corpo della giovane sul terreno, la voce stridula di Stork e le
suppliche sommesse dell'antropologa.
Bringman si passò nervosamente
una mano sulla fronte, domandandosi perchè quell'auto stesse
andando così piano.
Rossi fissava la strada davanti a loro,
mentre Morgan guidava il più velocemente possibile, e
cercava
di togliersi dalla testa gli occhi terrorizzati che aveva visto molti
anni prima, ma che probabilmente in quel momento stavano covando la
stessa espressione.
Reid si mordeva pensieroso il labbro
inferiore. La nota di panico che aveva sentito nella voce della
ragazza era la stessa che aveva lui quando era stato rapito e
torturato.
“Ti prego...” ripetè Alaska
piangendo, alzando le braccia davanti a sé e tenendo le mani
come una sorta di scudo.
“Spero che Dio ti assolva dai tuoi
peccati.” biascicò Stork, alzando lentamente la
mano che
reggeva la pistola per puntarla contro la ragazza che si trovava di
fronte a lui.
Fu in quel momento che Alaska decise di
agire. Si lanciò contro l'uomo, con il solo intento di
strappargli l'arma dalle mani.
Non morirò senza combattere, si
ripeteva mentalmente, mettendo l'accento sulle prime due parole.
Non morirò, non morirò,
non morirò, non morirò, non morirò.
Ma lui era notevolmente più
forte.
Quell'urlo disperato, però,
continuava a risuonargli nella testa mentre conficcava le unghie
nella carne dell'avambraccio di Stork per fargli perdere la presa
dalla pistola.
L'uomo cercò di alzare entrambe
le braccia, cercando di scostarsi di dosso quella che sembrava a
tutti gli effetti una furia. Ad ogni suo movimento Alaska veniva
sballottata leggermente, ma tutto ciò non le impediva di
continuare a cercare di spingere l'arma lontano da sé.
“Stanno lottando?” domandò
Emily in un sussurro.
Tutto quello che riuscivano a sentire
erano i grugniti di protesta di Stork e delle urla nervose che
uscivano di tanto in tanto dalla bocca di Alaska.
“Stanno lottando.” ripetè
Rossi, mentre cercava con tutte le sue forze di non immaginarsi quel
bruto prendere il sopravvento su una delle persone più
indifese che avesse mai conosciuto.
Uno sparo fece cessare istantaneamente
quei rumori e il silenzio calò immediatamente su quel
sentiero
così come nelle orecchie degli agenti che stavano ascoltando
attraverso il telefono.
“Alaska?- chiamò Bringman, una
nota di puro panico nella voce-Alaska!!”
Dall'altro capo del telefono, l'unico
suono che rispose ai suoi appelli fu il rumore rombante di un tuono
che annunciava l'arrivo di un inaspettato temporale.
E alla fine anche il capitolo tanto atteso è arrivato. Avrei voluto aggiornare più in fretta, ma c'era sempre qualcosa che non mi convinceva pienamente, ma alla fine mi sono decisa. Non sono particolarmente brava nel rendere una situazione d'ansia come quella che ho provato a descrivere, credo che la carriera della scrittrice di thriller mi sarà preclusa a vita, ma spero comunque di aver reso l'idea. E riguardo al finale del capitolo....ok, forse ammetto di essere stata un pò stronzetta a farlo finire così, ma aggiornerò in fretta questa volta, giurin giuretto! ; ) Fatemi sapere che ne pensate del cap, please. Un bacione, JoJo
takara : ehm...io ho aggiornato ma non so se la situazione tensione può essere migliorata!Lo so, sono un pò cattivella con Alaska ma non faccio apposta, il mio cervello segue dei binari tutti suoi e io non posso far altro che obbedirgli e scrivere secondo il suo volere...Sono contenta che la scena dell'ascensore ti sia piaciuta, la faccenda del cioccolato l'ho aggiunta perchè 1- ero in deficit da zuccheri e 2- credo che Reid meriti un pò di endorfine, in un modo o nell'altro! : ) Al prossimo capitolo!Besos
Maggie_Lullaby : Scusata! ; ) Fra l'altro mi rende felice sapere di non essere l'unica ad essere affetta da Alzheimer giovanile!eheheh! Sono contenta che la storia ti piaccia, nonostante la mia vena sadica che si ripercuote sulla povera e ignara Alaska!Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo, alla prossima!Kisses