Edward’s
POV
< No! NO! Non è possibile.
>
< Edward, calmati. Così
non concluderai niente. ha attraversato il fiume. Potrebbe aver nuotato
per
chilometri, verso nord o controcorrente e poi essere andata sulla
sponda
opposta oppure essere tornata su questa. Non possiamo cercare alla
ceca. >
< E invece sì!
Disperdiamoci e cerchiamola. Non posso lasciare che… >
Non riuscii neanche a
proseguire. Non era possibile. Bella era totalmente fuori controllo. E
aveva la
bambina. Al solo pensiero le ginocchia mi cedettero ed io caddi
carponi,
affondando nel terreno fangoso.
La mia bambina. La mia
piccola bimba.
Non poteva morire in questo
modo.
Mi presi la testa fra le
mani, muovendo il capo lentamente avanti ed indietro.
Elizabeth, Elizabeth…. Vedevo
il mio volto nei pensieri degli altri. Sembravo spiritato. Non me ne
importava.
La mia bambina… la mia
piccola Liz.
Tutti erano silenziosi.
Sentivo le loro menti. Ognuno si recriminava di non essere stato
abbastanza
prudente. Esme era disperata. Continuava a ripetersi che avrebbe dovuto
portare
subito via i bambini. Emmett non si perdonava di aver lasciato andare
Bella,
sebbene la colpa fosse mia. Ero io ad averglielo chiesto.
Liz, Liz… no.
< Alice? > domandai con
una voce irriconoscibile.
< Non vedo niente. è
troppo… confusa. Non è in grado…
> la sua voce si incrinò e poi si
affievolì. < di prendere decisioni. Non riesco a
vedere da che parte è
andata. Ha nuotato per circa venti minuti, controcorrente. Il resto non
lo so.
>
Carlisle cercò di prendere in
mano la situazione. < Quindi è andata verso Sud.
Questo è già qualcosa.
Cominciamo a seguire il corso del fiume, tre su questa sponda, tre
sull’altra.
Prima o poi intercetteremo il suo odore. >
Io non riuscivo ad alzarmi.
Carlisle ed Emmett mi costrinsero a rimettermi in piedi.
< Edward, io so cosa stai
pensando. E ti sbagli. Non è solo colpa tua. È un
terribile errore commesso da
tutti noi. Non mi potrò mai perdonare se dovesse succedere
qualcosa ma adesso
dobbiamo agire, altrimenti sarà troppo tardi. Dobbiamo
trovarla. E tu sei
l’unica persona in grado di trovarle. Cerca i pensieri di
Liz. Se è ancora
viva, tu puoi captarli. Altrimenti andremo davvero alla ceca. Devi
importi di
essere più forte del tuo dolore. Devi fare di tutto per
ritrovare tua figlia
viva. Se resti a crogiolarti nell’autocommiserazione potrai
riabbracciare solo
il suo cadavere. Quindi vedi di darti una mossa. >
Poi mi afferrò per mano e,
insieme ad Alice, balzammo sull’altra sponda. Le sue parole
mi rimbombavano in
testa. Cadavere… Liz cadavere… cadavere. Non
riuscivo pensare.
Ricordai la sete, il giorno
in cui mi risvegliai dal dolore della trasformazione. E ricordai la mia
prima
vittima. Un uomo. Era un guardiano notturno.
Non avevo saputo resistere.
Avevo appena una settimana. Le bestie che mi portava Carlisle non
riuscivano a
placare l’arsura ed una notte, impazzito dalla sete, ero
fuggito sui tetti, ed
avevo trovato quel uomo. Fred. Si chiamava così. Aveva il
nome scritto sulla
sua targhetta.
Lo avevo dilaniato, in preda
alla frenesia, guidato dall’inesperienza e dalla sete
incontrollabile.
Lo avevo fatto soffrire,
involontariamente, molto più del necessario. La sua morte
era sopraggiunta
lentamente, tra atroci sofferenze. Mi aveva guardato negli occhi. E io
avevo
potuto percepire tutto il suo terrore, il suo dolore, mentre lo
prosciugavo
rompendogli le ossa per tenerlo fermo.
È così che si nutrono i
neonati, senza sapere come fare per essere veloci ed efficienti.
Bella avrebbe fatto lo
stesso, accanendosi su nostra figlia… un urlo di dolore mi
sgorgò dal petto ed
aumentai la velocità, superando i miei compagni. Con la
mente cercavo di
captare i pensieri più lontani ma, intorno a me, solo la
quiete di una foresta
terrorizzata da sei, anzi sette, vampiri.
Dovevamo
sbrigarci, prima che
facesse giorno…
Bella’s
POV
Il profumo
del suo sangue era dolcissimo. Appoggiai le labbra sul suo collo e
inspirai
profondamente.
Lei fremette ma non aprì gli occhi. Si
raggomitolò tra le mie braccia e mi
poggiò una manina sulla guancia. La presi tra le mie e la
baciai.
Le mie labbra si schiusero e con i denti le sfiorai le vene ai polsi.
La
bambina si lasciava fare tutto. Non cercava di opporre resistenza. Le
feci
poggiare il capo sulla mia spalla e poi glielo feci reclinare
all’indietro,
esponendo la giugulare. I capelli le scivolavano lungo la schiena
riflettendo i
bagliori dell’alba nascente. Sulla mia pelle il sole si
specchiava in milioni
di brillanti. Diamanti luccicanti ricoprivano la mia pelle. Mi nascosi
tra le
fronde dell’albero, in modo da allontanare da me la luce. Non
volevo che mi
vedessero. Identificai un anfratto che sembrava sicuro, dando su una
scarpata.
Sistemai meglio la bambina e poi saltai giù. In un attimo mi
intrufolai nella
fessura nella roccia. Lei chiuse gli occhi. Tremava.
< Hai paura? >
Scosse la testa, facendo segno di no.
< Io ho paura. > dissi quasi soprappensiero. E avevo
sete. Così tanta
sete che non capivo più niente.
< Perché hai paura? > mi domandò
con la sua voce cristallina.
< Perché sono sola. > risposi semplicemente.
Mi stupì accarezzandomi gentilmente la guancia. < Non
sei sola. Ci sono io.
Non avere paura. >
Strinsi la sua manina sulla mia guancia.
L’odore del suo sangue era così invitante.
< Elizabeth, forse dovresti dormire. > le parole mi
sgusciarono dalle
labbra senza che davvero potessi io stessa capirle. Non capii
perché, ma sapevo
che si chiamava
Elizabeth. Me lo sentivo dentro.
Sul suo volto si aprì un sorriso meraviglioso che mi
trasmise sicurezza. Era
felice.
si aggrappò al mio collo e mi diede un bacio. Il calore del
suo collo mi
investì facendomi bruciare la gola ed irrigidire il corpo.
l’istinto mi diceva
che dovevo nutrirmi. Avevo bisogno di sangue. Ma lo stesso istinto mi
impediva
di far del male a quella piccola creatura. Sentivo di doverla
proteggere. La
strinsi delicatamente a me e le baciai i capelli.
Sentivo che era agitata. Cominciai a cullarla. Una parte di me,
totalmente fuori
dal controllo della mia mente, sapeva che la bambina avrebbe dovuto
dormire.
< Tutto bene, piccolina? >
< Sì. > mi rispose senza staccarsi dal mio
vestito. Rimase in silenzio
alcuni istanti.
< Ho fame. > ammise poco dopo, accarezzandomi il petto.
Le sue mani si
strinsero sulla stoffa, all’altezza del mio seno. Solo allora
notai che
indossavo un raffinato abito blu. Era bello, morbido. Comodo.
La piccola richiamò la mia attenzione stringendosi a me e
dicendomi: < Ho
fame. Mi dai qualcosa da mangiare? >
< Adesso non ho niente da darti. Cerca di dormire. Ti
passerà la fame. >
e poi ripresi a cullarla.
Non potevo muovermi da lì. Avevo paura che quelle persone
potessero trovarci.
Sapevo che ci stavano cercando. Li sentivo, lontano… li
sentivo muoversi veloci
tra il sottobosco.
Non potevano prenderci. Avevo l’esigenza di
proteggerla e poi, avevo
anche un’altra necessità. Quella di tornare
indietro. Gli altri due piccoli
cuori che avevo udito nella stanza al piano terra.
Erano un richiamo atavico. Appartenevano sicuramente a due bambini
piccoli,
molto piccoli.
Dovevo andare da loro. Avevo bisogno di stare con loro. Dovevo
proteggerli. Non
potevo abbandonarli.
Scoprii di star singhiozzando ma dai miei occhi non uscivano lacrime.
< Mamma, non piangere. Ci sono qua io. Ti voglio bene. Tanto
bene. E sono
tanto felice che tu ora stai bene. Ho avuto molta paura. ma ora non
sono più
triste. Non essere triste neanche tu. >
Le sfiorai le labbra. Mamma. Mi aveva chiamato mamma.
Le baciai la fronte. E poi la strinsi a me. Tossì
più volte ma alla fine riuscì
ad addormentarsi. Sentii la temperatura del suo corpicino aumentare. Si
faceva
sempre più calda.
Rannicchiata
nel mio pertugio, osservai il sole alzarsi nel cielo e poi tornare ad
abbassarsi, fino a scomparire oltre le fronde degli alberi. Nella
foresta
l’oscurità ci avrebbe nascoste.
Quando il sole aveva cominciato a calare, avevo sentito le voci di tre
delle
persone che ci seguivano. Le loro voci erano lontanissime. Almeno venti
kilometri verso il fiume. All’inizio, con voce molto
angosciata, chiamavano
“Elizabeth. Bella” poi, qualche ora più
tardi, con voce rassegnata si
limitavano a urlare: “Bella.”
Quella parola mi faceva venire il mal di testa.
La piccola non poteva sentirli ma temevo che loro, se lei avesse
parlato,
l’avrebbero sentita perciò le feci segno di
rimanere in silenzio. Per tutta la
giornata lei rimase zitta, seduta affianco a me. Non la smetteva di
accarezzarmi. Per fortuna dormì per un paio d’ore.
Il suo stomaco reclamava
cibo.
Era passato un giorno da quando mi ero svegliata. Da quando il mio
corpo aveva
smesso di bruciare. La gola però ardeva terribilmente. E lei
non mangiava né
bevevo da allora.
Quando fui sicura che fossero abbastanza lontani, presi la bambina e,
proteggendola con il mio corpo, mi tuffai nella foresta. La pioggia
scrosciante
avrebbe scacciato il mio odore. Mi diressi nella direzione opposta
rispetto a
quella da cui avevo sentito provenire le voci.
La bambina
continuava a tossire. La sua pelle bagnata era ancora più
profumata.
Sete. Sete. Sete. Ero ottenebrata dalla sete. Così fuori
controllo che,
individuato un branco di cervi, appoggiai la bambina in un buco tra le
radici
di un’antica quercia e poi mi gettai nella mischia.
Abbattei il maschio più grande. Il suo sangue caldo non
bastò a saziarmi, né
tantomeno a placare il fuoco nella mia gola ma, per lo meno, adesso
riuscivo a
pensare.
La piccola mi fissava con gli occhi spalancati. Le tremavano le gambe e
tutto
il suo corpicino esprimeva il terrore. Mi avvicinai a lei lentamente.
Incedendo
piano piano, il mio corpo e il vestito strappato venivano bagnati dalla
pioggia
scrosciante che lavava via il sangue.
Quando la raggiunsi, il sangue era ormai stato tutto lavato via.
Le porsi la mano. < Vieni Liz. > quel diminutivo mi
uscì naturale. <
Vieni. Andiamo a prendere qualcosa da mangiare. >
Lei, inizialmente titubante, si lasciò sollevare e poi si
aggrappò al mio
collo. Corsi velocissima attraverso il bosco. Evitare gli alberi era
così
semplice e naturale che non dovevo sforzarmi di fare attenzione. I miei
piedi
nudi scivolavano leggeri senza produrre rumore.
L’aria ci sferzava e mi resi conto che, per la piccola,
questo non andava bene.
I vestiti bagnati le stavano appiccicati addosso e il vento per lei era
sicuramente gelido. Batteva i denti.
Mi fermai e la presi da sotto le ascelle. La osservai. < Hai
freddo? >
Liz, scosse il capo sebbene tremasse. Le colava il naso. Glielo pulii
con la
mia mano e lei tese le manine affinché io la stringessi al
petto. Così feci e
ricominciai a correre.
Lei mi sussurrò all’orecchio: < Mamma, ti
voglio tanto bene. >
Le baciai il lobo dell’orecchio dirigendomi verso il suono di
un centro
abitato, a quaranta chilometri di distanza, a giudicare da quanto fosse
flebile
il suono che da lì proveniva.
Quando fummo
in prossimità della cittadina era notte inoltrata e le luci
erano tutte spente.
Diminuii la velocità fino a camminare lentamente. Mi muovevo
sinuosa tra le
fronde.
La bambina dormiva ma il suo respiro era affaticato. La sua pelle molto
più
calda rispetto alla sera precedente. Mi intrufolai in una casa in cui
abitavano
quattro cuori. Uno era piccolo come quello di Liz. Era una villetta a
due piani
e la famiglia dormiva tranquilla al piano superiore. Posizionai la
piccola sul
divano e mi recai in cucina. In silenzio riempii di cibo un sacchetto
di tela.
Quella roba puzzava. Pane, merendine, una bottiglia di succo di pesca,
una
torta dentro a della carta stagnola. Tre banane, due mele, una pera, un
cartoccio di latte. Biscotti secchi.
Dato che tutto quel cibo non ci stava nel sacchetto che avevo trovato
sul
ripiano della cucina, afferrai uno zaino e, dopo averlo svuotato del
suo
contenuto di libri, lo riempii di tutto il cibo che avevo procacciato.
Poi, senza fare rumore alcuno, salii le scale. Trovai una camera e vi
entrai.
Vi dormiva un bambino. Era suo, il piccolo cuore. Frugai nel suo
armadio e
sottrassi dei vestiti pesanti. Un maglione, una felpa, una canottiera
di lana e
dei pantaloni jeans. Calzini pesanti. Poi trovai una giacca e presi
anche quella.
Nell’armadio trovai anche delle coperte. Ne presi due e poi
tornai dalla
bambina.
Dormiva accoccolata sul divano. Tremava anche se nella casa la
temperatura non
era bassa.
Cercando di non svegliarla, le levai i vestiti bagnati. La asciugai
come meglio
potei e poi le infilai gli abiti puliti e asciutti. Erano da maschietto
ma le
stavano bene comunque. Era così bella…
La lasciai
dormire fino alle cinque di mattina poi, preoccupata che gli abitanti
ci
trovassero, decisi che era ora di andarcene. Cercai di non svegliarla
ma,
nell’infilare la giacca lei aprì gli occhi.
< Liz, adesso dobbiamo andare. > le sussurrai
accarezzandola.
Tossì e al piano di sopra qualcuno si svegliò.
< Mamma… non voglio usci… > le misi
un dito sulle labbra.
Qualcuno scese dal letto e, lentamente, camminò fino alla
porta della camera.
Era un uomo.
Fece alcuni passi indietro ed aprì un cassetto. Una voce
femminile, assonnata,
disse: < Amore, torna a letto. >
< Ho sentito delle voci, al piano di sotto. > qualcosa di
metallico. Una
pistola.
Il mio corpo si irrigidì.
Lui aprì la porta. Percorse mezzo metro e poi
cominciò a scendere le scale.
Afferrai Elizabeth e spalancai in una frazione di secondo la finestra.
In un
millesimo di istante io, la piccola, le due coperte e lo zaino pieno di
cibo
eravamo nascoste nel fitto della boscaglia, in cima ad un pino.
L’uomo scese le
scale di corsa ma noi ormai non c’eravamo già
più.
In un attimo tutte le luci della casa si accesero. In breve si
accorsero che
mancavano cibo e vestiti, le coperte e lo zaino.
L’uomo era infuriato. Urlava e diceva che voleva chiamare la
polizia. La donna
cercava di calmarlo.
Avevo lasciato i vestiti bagnati di Liz nel loro soggiorno, sul divano.
Lei li
teneva in mano e, agitandoli, diceva: < Caro, qui
c’è stata una bambina. Non
vedi. Hanno portato via cibo e vestiti di un bambino di cinque anni.
Cerca di
essere comprensivo. Sono sicura si trattasse di una mamma in
difficoltà.
Avrebbe potuto rubare i soldi che tenevamo nella scatola dei biscotti
ed invece
li ha lasciati per terra. Cercava cibo, non di derubarci. >
< Cosa dici? È entrato nella camera di nostro figlio!
Qualcuno ha dormito
sul nostro divano! >
< Non vedi la sagoma? È piccola. Ci ha dormito un
bambino. Anzi, una
bambina. Queste calze, questa maglietta… sono da bambina.
Per favore, se avesse
voluto, avrebbe potuto farci del male. probabilmente era una mamma sola
e
disperata con la sua bambina. Fuori piove e fa freddo…
>
< Mi stai dicendo che non dovrei chiamare la polizia? >
lui urlava, lei
cercava di farlo ragionare.
< Esatto caro. Se vuoi, oggi chiamo la ditta e faccio inserire
un sistema
d’allarme. Però, non chiamare la polizia. Questa
notte non è entrato un
criminale. >
Mi piaceva quella signora. Era gentile con me anche se non mi
conosceva. Mi
stava cercando di proteggere.
Non ascoltai il resto della conversazione. Mi nascosi nel boschetto
retrostante
e, nel tronco cavo di un sitka, aprii il latte. Liz lo bevve
avidamente, dal
cartoccio. Le spezzettai del pane, che lei divorò.
Mangiò anche una mela e una
banana. Tre biscotti e un pezzetto di una merendina. Alla fine, senza
più la
fame ad attanagliarla, si addormentò tra le mie braccia. la
avvolsi nelle
coperte e le baciai i capelli.
Quando, cinque ore dopo, si svegliò, cominciò a
piagnucolare. < mammi, devo
fare la pipì. >
Fu difficile convincerla a farla nel bosco. Diceva che aveva bisogno
del
vasino. Io non ce lo avevo e alla fine dovette arrendersi. Non avrei
rischiato
di andare in paese e farmi scoprire per quello.
Nel corso della giornata la tosse aumentò e io le
diedi del latte per
cercare di non farle sentire la gola irritata. Era irrequieta e non
riusciva a
stare ferma. Mi sembrava sempre sul punto di fare una domanda che poi
però non
mi poneva mai.
Dopo un’ora passata sdraiata tra le coperte si
aggrappò al mio braccio. <
Mammi… ho sonno. > La presi in braccio e cominciai a
cullarla. Si addormentò
velocemente. La sua pelle era sempre molto calda. Anche nel sonno venne
colta
da dei colpi di tosse che la facevano sussultare.
Cercavo di alleviare la sua pena con baci e carezze ma io stessa non mi
sentivo
bene.Sete, sete, sete.
Quando ormai
era di nuovo notte, mi recai nuovamente al villaggio.
Non sarei entrata nella casa della notte precedente, mi sarei spinta un
po’ più
a ovest se, sulla soglia della finestra dalla quale la notte prima ero
entrata
e poi fuggita, non ci fosse stato un sacchetto di plastica grande e
gonfio.
Quatta quatta mi avvicinai, lo afferrai e in un secondo fui nel fitto
della
foresta.
Lo aprii. Dentro, i vestiti di Liz, lavati, asciugati e stirati. Dentro
a un
contenitore di plastica, trovai due porzioni di insalata di riso.
C’era anche
un bigliettino. “non preoccuparti dei vestiti di Nicholas.
Puoi tenerli. Buona
fortuna a te e alla tua bambina.”
Mi commossi e sono certa che avrei pianto se quello strano corpo avesse
potuto.
In quei giorni mi ero accorta che quel corpo era strano. Le prime ore
avevo
seguito solo l’istinto. E cioè ero fuggita.
Ma adesso, dopo aver bevuto il sangue (cosa che al solo pensiero mi
disgustava)
riuscivo anche a pensare. Cercavo di ricordare ma, oltre al dorore
infinito del
fuoco nel mio corpo e a quello che c’era stato dopo, non
ricordavo niente. sì,
delle sensazioni, delle emozioni… nulla di più.
L’unica cosa di cui ero sicura era che volevo bene alla
bambina. E agli altri
due piccoli che avevo lasciato nelle mani di coloro che mi avevano
fatto del
male.
Mi si rivoltò lo stomaco al pensiero. Dovevo andare a
prenderli. Dovevo
salvarli.
Pensai alle parole della donna.
Forse avevo
ragione. Ero davvero una mamma disperata insieme alla sua bambina
piccola.
Sebbene non
ricordassi assolutamente nulla.