Mezzanotte.
Al dodicesimo rintocco del campanile della chiesa, Madoka Ayukawa era ancora sveglia. Complice il leggero caldo che iniziava a maturare nell’aria, per persistere durante tutta l’estate ormai alle porte, sudava. Ma non solo per il caldo.
“…Se non pago, mi sfrattano…”
Per tutto l’anno, fino alla prima settimana di Giugno, aveva lavorato come segretaria presso quella grande azienda… fino a che tutto era crollato. Ufficiali giudiziari, carabinieri, addetti dell’agenzia recupero crediti avevano apposto i sigilli sulle porte d’ingresso e di conseguenza i dipendenti erano stati licenziati, tutti. Tra questi c’erano anche madri in attesa e studenti universitari, che senza quel lavoro avrebbero avuto più difficoltà a sbarcare il lunario.
Lei, Madoka, non era più studentessa universitaria da almeno dieci anni, ma dallo stesso lasso di tempo non era riuscita a trovare un lavoro decente nella “Città Eterna”. Soltanto lavori brevi, di copertura, di “sopravvivenza” – come li chiamavano in molti – che non l’aiutavano più di tanto a mantenersi da sola. Si guardò attorno, mentre era seduta sul letto, rannicchiata in sé stessa come una bambina impaurita… La stanza era illuminata dalla fioca luce dell’abat-jour, l’arredamento era composto da un comò, un armadio e una scrivania completa di computer portatile e stampante… e una sedia, dove c’erano i suoi vestiti. Una camicetta a fiori ed un paio di jeans. Il sonno non voleva coglierla, i suoi occhi erano spalancati e vigili, la sua testa piena di pensieri.
“Perché non mi sono mai trovata un ragazzo…? Perché?”
Pensò in un momento di lucidità. La risposta le venne immediata. Lei aveva sempre voluto essere indipendente, bastevole a sé stessa, orgogliosa di non voler chiedere niente a nessuno. Per questo aveva lasciato il Giappone anni prima, ospitata da un’azienda italo-nipponica che l’aveva messa a fare la segretaria, quando all’improvviso la società era finita a gambe all’aria stroncata dalle imposte italiane. Pur di non tornare indietro ed ammettere che per lei non c’era posto in Italia, si era trovata un altro lavoro… e poi un altro, e poi un altro, e un altro ancora. Tutto questo per dieci anni di fila. Ed ora era lì, incerta sul da farsi.
Cercare un altro lavoro?
Tornare a casa?
Dormire…
Dormire, già.
Si distese sul letto, provando a chiudere gli occhi. L’indomani mattina avrebbe avuto la mente più fresca, e sicuramente sarebbe stata in grado di gestire la faccenda in maniera migliore che non perdendo il sonno con le congetture sul suo futuro.
*****
-Aaaah… aaaahhh…. Ooohhhhhh!!!!-
-Hmmm…. Hikaru…. Aaaaahhhh…..-
Altrove, in un’altra stanza da letto, un uomo di mezza età ed una ragazza di circa ventotto anni stavano facendo l’amore. Chiunque avesse sbirciato nel suo portafogli, avrebbe visto che l’uomo si chiamava Vegeta, aveva cinquantotto anni ed era sposato. Lo stesso che gli avesse guardato la mano sinistra, avrebbe rilevato una differenza sostanziale fra il documento: l’uomo non portava la fede nuziale. Terminato l’amplesso, l’ennesimo di quella serata, lui si distese su un fianco, dando le spalle a lei. Lei si accese una sigaretta. Dalla sua posizione Vegeta poteva sentire il rumore leggero del tabacco che veniva bruciato dalla tirata della ragazza.
-Hikaru…-
-Che c’è.-
Chiese lei, freddamente.
-Lo sai che non …-
Lei sbuffò una nuvola di fumo, scuotendo la testa.
-Non mi importa. Ho bisogno di rilassarmi.-
Evitando di prolungare la discussione, Vegeta si zittì, trattenendo l’impulso di bloccarle il polso contro la spalliera del letto e levarle l’orrenda sigaretta che ora lei teneva fra l’indice e il medio della mano destra. Dopo una nuova sbuffata, lei mormorò qualcosa.
-…A volte mi chiedo chi me lo fa fare.-
-Hikaru… Ascolta….-
-No, ascoltami tu, Vegeta. Io non ne posso più. Quanto ancora dovrà andare avanti questa storia?-
Sempre dandole la schiena, Vegeta rispose
-Non molto ancora. Stamattina ho parlato col mio avvocato.-
-E…?-
-Ha detto che se la lascio, non riuscirò ad ottenere il suo patrimonio e in più dovrò anche pagarle gli alimenti.-
-Pfffffft. Che palle. Ami più i tuoi soldi che me?-
Hikaru sbuffò nuovamente e scrollò la cenere della sigaretta nel posacenere che stava sul comodino. Vegeta si issò a sedere. Il suo petto glabro era muscoloso e tonico, e le sue braccia scolpite. Delicatamente lui la cinse per i fianchi, stringendola a sé e dandole un leggero bacio sulla fronte. Lei a quel gesto si sciolse, chiudendo gli occhi e sentendo tutto l’amore che provava per lui.
-…Scusami…-
-Non è niente. Purtroppo mia moglie tiene i fili della mia vita…-
-…-
-Hikaru… Io… ti faccio una promessa. Quest’estate non avrò nulla da fare, mia moglie se ne andrà in vacanza in crociera con delle sue amiche… Se vuoi… io e te… potremmo…-
-…Andare in vacanza insieme?-
-Sì. E fare finta di essere marito e moglie. Che ne diresti?-
Le venne da
piangere. Il loro rapporto clandestino era iniziato tre anni prima, quando lei
era ancora una semplice contabile presso
-Ci penserò. D’accordo?-
-D…D’accordo.-
Rimase un po’ turbato da quella risposta, per cui decise di non insistere oltre. Dopodiché si distese nuovamente sul letto, su un fianco, questa volta guardandole le cosce generose che per tre anni gli avevano regalato momenti lieti… Sorrise tra sé, mentre lei… Lei era persa a guardare nel vuoto, mentre la sigaretta fumava tra le sue dita. Poco dopo la spense, e si accoccolò a dormire accanto al suo amante, baciandogli dolcemente le labbra.
*****
Nel suo appartamento all’attico di un palazzo in pieno centro di Roma, una donna in camicia da notte era in preda all’insonnia. Nel locale tutte le luci erano spente, l’unica fonte di luce era la luna che donava all’atmosfera una diafana tranquillità. Lei, la donna, era in piedi sulla grande porta a vetri che dava sul terrazzo. Alla luce della luna, i suoi capelli blu cobalto apparivano bianchi, come la camicia da notte, dandole le sembianze di una qualche dea mitologica che stesse comunicando con altre entità sconosciute agli umani.
Ma una dea non era.
Lei era semplicemente Bulma, cinquantasei anni, imprenditrice di un’azienda metalmeccanica ben avviata, madre di un figlio, moglie di un figlio di puttana di nome Vegeta… nonché…
“…Prossima alla morte. Condannata da una giustizia superiore, senza appello.”
…Nonché gestante di un tumore allo stomaco, in uno stadio molto avanzato. A causa degli impegni che il dirigere un’azienda comporta, non aveva mai trovato il tempo di pensare a sé stessa, neanche di andare a fare una visita. Le ci era voluto un malore fortissimo allo stomaco mentre era in banca, dal suo consulente finanziario. La morsa le si era stretta attorno alla bocca dello stomaco come un pugno, lei aveva stretto i denti e si era accasciata a terra. Portata al pronto soccorso di un ospedale vicino, le avevano consigliato di andare a fondo alla faccenda… e adesso….
Adesso sarebbe voluta tornare indietro, resistere stoicamente al dolore e non fare tutte quelle visite successive che l’avevano condotta per mano in un abisso senza fine.
Contemporaneamente alla sua malattia, accuratamente tenuta nascosta ai familiari (perché non sapeva ancora come dirlo a suo figlio e non voleva parlarne con suo marito), aveva scoperto che quest’ultimo la tradiva, e il dolore era aumentato.
Non trovando il coraggio di affrontare l’argomento, per paura di venire abbandonata anche dal marito (sì, era un figlio di puttana ma era anche l’unico che l’avesse amata, almeno negli ultimi anni), si teneva tutto dentro. E non sapeva come uscirne.
Aprì la grande portafinestra, e uscì sul terrazzo. L’aria fresca le sferzò il viso e fece ondeggiare i lembi inferiori della sua camicia da notte, oltre che i suoi capelli. Si avvicinò al parapetto, vi posò lentamente le mani sopra e, con uguale lentezza si sporse oltre con la testa.
Al ventiduesimo
piano del palazzo, tutte le cose sotto sembravano piccole. C’erano molte auto
parcheggiate lì, tutte abbastanza di lusso. Una Mini Cooper, una
BMW ultimo modello, una Mercedes Classe A, e tanti altri veicoli che
erano
Ridacchiò, scuotendo la testa al pensiero di giocare a fare Icaro da quell’altezza. Suicidarsi sarebbe stato come mettere la firma sul testamento e dare tutto a suo marito, cosa che non voleva assolutamente fare. Indietreggiò, come se la ringhiera fosse un animale feroce e lei non volesse darle le spalle, e ritornò nell’appartamento.
Lì, si sedette su un divano e si mise a pensare.