Precisazioni:
Ho saltato l’aggiornamento Areopago lo so e me ne scuso. Ma è una
settimana che Saga e Kanon sono ai ferri corti per un
vasetto di marmellata di fichi e di collaborare e darmi una mano per Mesi non c’è stato verso di convincerli.
Li ho messi d’accordo per cinque nano
secondi: giusto il tempo di rifilarmi un secco no concorde e tornare a ignorarsi e fulminarsi ogni volta che sono
nella stessa stanza. E dire che l’idea di fare della marmellata doveva essere
così piacevole...Sigh!
Per consolarmi, mi sono dedicata a...a
questa cosa. Avevo già detto che ci
stavo lavorando; ebbene l’ho finita. E non so esattamente cosa dovrebbe essere.
Se ne sta un po’ per i fatti suoi e non è diventato proprio quello che avevo in
mente all’inizio. Pazienza! Shion e Dohko sono alla loro prima apparizione reale nelle mie
fila, e devono fare un po’ di rodaggio. Taaanto
rodaggio.
Comunque, per Areopago
non è detto che la situazione non si sblocchi un po’ prima: altrimenti a venerdì prossimo^^
E, per inciso, i ringraziamenti e le risposte a eventuali
commenti saranno nel prossimo aggiornamento (sotto qualsiasi titolo) di Saint Seiya.
AQUILONI
“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di
Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko
conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o
nella neve accecante del Jamir.
“Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko
rideva al suo fianco.
“Sei in ritardo.”
Dohko provò un senso di abitudine,
mentre scivolava sotto l’architrave del tempio. Gli era mancato quel modo un
po’ irritante un po’ puntiglioso che Shion aveva di
riprendere tutti alla minima mancanza. Tutti e mai se stesso. Perchè a riprendere lui c’era
stato Dohko, un tempo. Quando erano ragazzi vestiti
d’oro e di cosmo; quando erano ragazzi e credevano che sarebbero morti.
“Non mi hai dato un orario.”
Shion sorrise sotto la maschera del
sacerdote, rialzando il collo anziano. Sorrise, perchè
Dohko non era cambiato, in quei due secoli. E si
chiese come avesse potuto sopportare la distanza e i lunghi silenzi cui
Anissa conosce si rispondeva, quando la
malinconia lo coglieva, nelle notti greche che sanno di ginestra e rosmarino.
Anissa sa ripeteva, e lasciava il ricordo
delle piane brulle del Jamir
per le verdi risaie dello Jiangxi. Tornava alla
cascata che riempiva la mente con il suo fragore; ai pomeriggi fra l’erba alta
e il fruscio del changshan. C’era tornato tante volte
nella memoria, Shion, a Goro-ho,
in quei lunghi anni trascorsi sul trono di Grecia. E mentre lui ricostruiva e conservava,
Dohko sedeva, le gambe intrecciate, davanti al
mormorio della cascata.
Sarebbe stato semplice lasciar libero il cosmo e cercare.
Cercare un contatto, una parola, anche un rimprovero. Sarebbe stato semplice, e
Shion non ha mai amato le cose semplici. Lo sapevano
entrambi: dovevano aspettare.
“Vieni.” I movimenti di Shion erano
rigidi, stanchi per gli anni e vecchi ricordi. “Ho fatto
preparare. Per due.”
E per un istante il passo malfermo si arrestò; e poi riprese,
nel suo andamento un po’ claudicante. Che pensiero sciocco
la mia premura notò Shion, mentre lo sguardo
scivolava lungo i fianchi aprichi della collina, dalla mole della Tredicesima
giù fino alle luci di Rodorio e ancora oltre, ai
fuochi sulle mura difensive: il regno della Dea, il loro mondo segreto e
inesistente.
“Ho preparato anch’io. Per due.”
Le labbra si piegarono in uno strano sorriso, mentre Dohko continuava a fissare l’acqua eterna della cascata, il
suo precipitare. E nei riflessi notturni vedeva la terra di Grecia, risentiva
nell’aria bagnata l’odore salino di un mare lontano. E c’era di nuovo il sole
caldo sulla pelle nuda, c’era di nuovo il clangore dell’oro ad ogni passo. E
c’era Shion, seduto accanto a lui, su gradini bianchi
un po’ scrostati un po’ nuovi.
“L’uva di Grecia è dolce, corposa” commentò Shion sovrappensiero, riempiendo le coppe. “Non ti è mai
piaciuta”
“A te, invece, il baijiu piaceva.”
Dohko rise e la sua immagine tremolò. E
Shion si chiese che suono avesse la voce di Dohko, adesso che era un vecchio; e che aspetto avesse, il
compagno di sempre. E si soffermò sui tratti indefiniti del suo viso, sul corpo
che ricordava un ragazzo e si era presentato con il passo felpato e sornione di
una tigre che stuzzica la preda. E si chiese cosa vedesse Dohko,
seduto sotto la grande cascata, fra il vapore umido e le ombre di Cina. Si
chiese che aspetto avesse lui, in quel momento: un vecchio o un ragazzo? Forse
un bambino, come quando si erano conosciuti nella penombra della pagoda. O
forse era l’ariete, fiero e maestoso, come Dohko
contorceva in spire voluttuose la coda della tigre che era in quel momento.
Shion si chiese cosa vedesse e se davvero avesse importanza capirlo, in quel
momento. E si rispose che, in fondo, poteva gustarsi quella compagnia a lungo
aspettata, prima che tutto finisse. Alzò in un brindisi lento la kylix e bevve. La coppa di Dohko non si mosse, ma la mano scivolò alla tazzina e Dohko lo imitò, il baijiu che
scorreva caldo nella gola.
“Hai ricostruito il tempio” commentò Dohko,
stringendo gli occhi come per definire meglio le immagini tremolanti nell’acqua
scura.
“L’ho ricostruito” convenne Shion.
“Era il compito che Lei mi aveva
affidato. Ma per me è com’era allora. Lo ricordi?”
“Sì.”
Com’era la voce di Dohko, si
chiese di nuovo Shion. Era un acuta,
una volta; e poi era diventata più roca e profonda. Era diventata la voce di un
ragazzo che rideva davanti alla paura; la voce di un ragazzo che aveva pianto
accanto a lui, su un campo di morti e di rabbia.
Com’era la voce di Dohko, la voce di un vecchio seduto davanti ad una cascata? Shion avrebbe voluto sentirla; avrebbe voluto
sapere se era cambiata ancora, forse più vecchia e stanca; forse più simile
alla sua. La voce che sentiva, invece, non aveva età: l’espandersi di un suono
nell’aria silenziosa di Grecia assieme al ricordo di umido e del tono che
dovevi tenere sempre un po’ più alto, quando parlavi vicino alla cascata.
Si versò dell’altro vino dal cratere e indugiò sulle
sagome sempre più scure nella notte: il giardino alle pendici della Collina
delle Stelle era di nuovo rigoglioso e il profumo
intenso di rosmarino e olive maturate al sole risaliva fino al piccolo tempio. Shion alzò lo sguardo: la statua di Atena si intravvedeva contro il cielo notturno, appena rischiarata
dalle fiaccole accese sulla terrazza. Inclinò la testa, rilassando meglio le
spalle, mentre Dohko al suo fianco tremolò, la luce
divenne più intensa e poi si affievolì di nuovo.
“É passato molto tempo davvero” constatò
Dohko, intrecciando le mani in grembo. In quei due
secoli non aveva mai voluto accorgersi davvero dei
cambiamenti avvenuti: la cascata continuava a scrosciare; le costellazioni si
avvicendavano in cielo secondo le stagioni; a primavera il riso veniva piantato
e il suo corpo si era solo racchiuse su se stesso, come una crisalide. Nella
terra di Cina, fra le vette di Goro-ho, tutto era
rimasto immobile; e in Grecia molto era mutato. Forse troppo. E le stelle
demoniache, Dohko lo aveva percepito, avevano di nuovo iniziato a pulsare nella loro prigione di pietra.
“Molto tempo” sussurrò Shion, sfilandosi
i pesanti paramenti sacerdotali cesellati d’oro. Non si era ancora abituato a
vederli sulla propria persona e il loro peso, con il trascorrere degli anni,
era diventato fisico oltre che spirituale. Ma Dohko non si sarebbe offeso; con Dohko
poteva riassaporare quella libertà, recuperare quell’identità cui aveva
rinunciato in un inchino davanti ad un cosmo che andava addormentandosi.
“C’erano i Turchi, quando te ne sei andato” ricordò Shion, in un pigro gioco di memoria. “E
con loro i rapporti erano difficili, ma non impossibili. Era sufficiente
dar loro l’illusione di comandare anche noi.”
La mano vago incerta fra le dolmades, ignorò
le sardine affumicate e indugiò con calma studiata su una sarikopitakia. Shion assaporò il rustico di formaggio e miele, e per un
istante ebbe l’impressione di avvertire il profumo di xiao-mai
e involtini primavera caldi mescolarsi all’aria. Dohko,
dall’altro lato del tavolo, ai piedi della cascata, aveva imitato i suoi
movimenti.
“Poi ci sono stati i re tedeschi e danesi.” riprese Shion, la voce in un sussurro. “E i rapporti
con Asgarðr e Blue Grado si
sono intensificati. Speravo. Ma poi...”
Shion socchiuse gli occhi, riavvertendo
il moto di inquietudine e delusione che aveva
avvertito anni prima: i movimenti per l’indipendenza, il ritorno della
monarchia e la guerra mondiale. I contatti con gli alleati del Nord si erano
fatti sporadici e complicati, attraverso un’Europa violata e distrutta. Shion si osservò le mani, raggrinzite e callose: non aveva
potuto fare nulla. Non c’erano cavalieri d’oro, all’inizi
del secolo. L’ultima volta che aveva avvertito un cosmo d’oro brillare era
stato nelle lande di Russia, ai tempi di Napoleone. Lo aveva perso giovane,
quell’unico cavaliere d’oro e l’armatura del Sagittario aveva
aspettato ancora, paziente, fino a pochi mesi prima.
Gli sembrò che il vino caldo gli restasse imprigionato in
gola, assieme a un nodo di frustrazione e accettò quasi con sollievo
l’abbraccio di cosmo che avvertì, discreto e caloroso, di Dohko.
E, di nuovo, Shion si perse nell’illusione che fosse
davvero lì con lui, seduto accanto al parapetto.
“Tre anni di guerra civile” riprese infine, seguendo un
pensiero che non si voleva esaurire. “I governi anticomunisti
e i colpi di stato, la dittatura militare. Hanno proibito Sofocle,
Euripide, Eschilo, Aristofane lo sai? E anche la zeta.” Shion
strinse forte il pugno e Dohko annuì grave, il dou li seguì il movimento a coprire gli
occhi vivi sul viso rugoso.
“Oggi è intervenuto l’esercito, al Politecnico” aggiunse
senza un vero motivo. E Dohko avvertì il significato
nascosto dietro quelle parole, dietro quell’elenco di fatti storici in
apparenza fine a se stesso. L’acqua di Cina continuava a scorrere,
imperturbabile, ma qualcosa stava mutando, e, presto, anche la cascata avrebbe
visto, forse, un nuovo dragone invertirne il flusso impetuoso, alzandosi al
cielo. E la terra sacra del Santuario aveva già accolto fra le sue braccia
antiche
Il baijiu in certi momenti è utile pensò Dohko,
portando la tazzina alle labbra e osservando con apparente casualità l’alone
violaceo con cui conversava. Shion non aveva volto,
ma anche da quell’amalgama di luce informe si poteva avvertire la dignità e la
stanchezza che emanava. Per due secoli si erano imposti di ignorarsi, ognuno
dedito ad assolvere il compito che Lei
aveva loro affidato nell’ultimo alito, attraverso il corpo sempre più freddo di
una bambina.
Sasha.
Due secoli; e adesso tutto stava per ricominciare. E se Dohko avrebbe potuto scendere di
nuovo in battaglia, grazie a quel segreto
che custodiva, Shion sarebbe rimasto al fianco della
dea bambina come Hakurei prima di lui, fermo e
maestoso come l’Ariete. E forse. Forse
questa volta, sarà diverso.
E la bambina che riposava al Tempio, i grandi occhi
sfumati d’azzurro, avrebbe vissuto.
“Qui, però, non è cambiato nulla” constatò
Dohko, e non seppe se ne fu sollevato o spaventato.
“Qualcosa è cambiato anche qui” lo corresse Shion con un sorriso assieme amaro e ironico. “Io sono
invecchiato, e inizio ad essere stanco, amico mio.”
Per la prima volta in quella serata irreale, sospesa nel
tempo e nello spazio, Dohko si concesse di
soffermarsi sulla luminescenza che gli sedeva di fronte. C’era
un misto di rassegnazione e accettazione nel cosmo di Shion,
una quieta indulgenza in pensieri ed emozioni che, a tratti, vibravano quasi
contrastanti, la traccia di una qualche decisione – o forse di una
consapevolezza – soppesata a lungo, conquistata fra notti insonni sotto il
cielo e nel silenzio di riflessioni e ricordi, nel peso di un ruolo accolto con
un inchino.
Qualcosa è cambiato si ripetè
Dohko, e il riflesso nella tazzina gli restituì un
guizzo di pelle violacea vecchia e raggrinzita; le rughe profonde che solcavano
il viso e la pelle gonfia sotto gli occhi, le guance cadenti ai lati di una
bocca secca. Il baijiu tremolò nella mano ossuta, e Dohko sorrise di se stesso, di quel corpo che aveva
accettato il trascorrere del tempo con indifferenza, raggrinzendo e mutando.
Cos’era rimasto, del cavaliere di
Libra? Forse solo un pallido ricordo e un cappello di paglia
grigio e strappato; forse solo ossa stanche e fragili che si muovevano lente
con il sostegno di un bastone. Si lisciò i
baffi in un gesto distratto: la memoria, a volte, è traditrice ed erano state
troppe le cose che Dohko aveva visto nella sua lunga
vita per poterle ricordare tutte.
Ai piedi della grande cascata, nel silenzio raccolto ed innaturale della prima notte, di fronte al baluginio di Shion com’era un tempo – come io voglio ricordare che fosse – Dohko
avvertì per la prima volta il peso reale degli anni trascorsi, assieme ad
un’intima malinconia.
Qualcosa è cambiato scandì lentamente nel pensiero,
socchiudendo gli occhi. Nell’alone violaceo del cosmo di Shion
scorgeva le sagome scure dei templi oltre il parapetto.
I templi. Restaurati.
Vuoti.
In attesa si corresse con un sospiro di cui
si sorprese. E Shion taceva, il volto stanco e
solcato da rughe appoggiato alla mano. Seguiva il
medesimo pensiero di Dohko, la stessa malinconica
ovvia e fastidiosa consapevolezza che stava prendendo forma concreta fra loro,
nei loro pensieri.
I templi erano in
attesa. E presto, molto presto, l’oro di nuovi cosmi li avrebbe pervasi. Cosmi freschi di forze e di determinazione; cosmi diversi, estranei
e sconosciuti, timidi al cospetto del Sacerdote e infuocati in battaglia.
Cosmi diversi da quelli dei compagni di due secoli prima, da
scoprire e veder crescere.
“Una nuova generazione” sussurrò Dohko,
e quelle parole gli raschiarono la lingua, sospese fra amarezza e speranza:
occhi estranei a fissarti sotto elmi conosciuti; voci espandersi fra le colonne
fino a sovrapporsi a echi udibili solo nella memoria; ricordi e condivisioni
ormai dimenticate e lasciate cadere, abbandonate.
“Una nuova generazione, sì” e la testa di Shion indugiò in un movimento lungo, forse stanco.
Dohko intrecciò le mani: dodici
cavalieri e Shion sul trono di Grecia, al fianco di
una bambina da proteggere e custodire.
Sasha.
Rise fra sè, nel rombo della
cascata. Non Sasha: Atena. Atena alla testa dei suoi
cavalieri; Atena dagli occhi azzurri e dalla determinazione inflessibile.
Atena dal sorriso di sole e dalla mente acuta. Atena. Atena. Atena.
Atena; non Sasha.
Sasha è morta. Molti anni fa.
Atena. Come allora; come sempre. Di nuovo.
“Dovrai guidarli, Dohko. Dovrai guidarli; e confortarli”
“Con il tuo aiuto, Shion”
“Da solo, Dohko. Sarai solo”
E le parole si spensero, nel vento umido che si diffondeva
nella cascata, giù fra l’erba troppo alta, verso un villaggio lontano fra i
picchi rocciosi. Le parole si spensero, mentre l’amalgama di luce scuoteva il
capo, in un gesto tanto vago quanto inevitabile. E Dohko
sentì qualcosa rompersi. Sentì di aver perso qualcosa, qualcosa di importante, prima ancora di capire cosa esattamente
fosse. E Shion muoveva lento la
testa, il sorriso pallido fra le rughe, la pacatezza di un inevitabile
accettato con tranquilla rassegnazione.
Sarai. Solo. Dohko.
“Da solo.”
“Sì” soffiò Shion, mentre si
stringeva nella veste sacerdotale, forse per fingere indifferenza forse per nascondere
disappunto. “Solo.”
E Dohko capì: capì
che quella cena, consumata assieme e lontani, sarebbe stata l’ultima; capì che
di Shion non avrebbe mai visto altro che il riflesso
del suo ricordo nelle sfumature d’oro e viola di un cosmo che sedeva di fronte
a lui. Capì che Shion sapeva e che non avrebbe fatto nulla per cambiare quello che le
stelle gli avevano raccontato. Perchè dovevano esser
state le stelle a raccontare a Shion qualcosa che era un addio.
“Sai come accadrà?” chiese in un soffio, o forse in un
singhiozzo.
“Lo so. L’ho...visto.”
Shion socchiuse gli occhi e oltre il
cosmo di Dohko immaginò un
altro cosmo inquieto e disperato che si avvicinava. E nelle ombre del tempietto
gli balenò, lucida, la visione, come quella notte di mesi prima, sotto le
stelle dell’ariete. E nelle ombre altre ombre, immagini iridescenti e sfuggenti
di parole rabbia rimorso orgoglio cosmi destino volontà
rassegnazione rimpianto. Nelle ombre il viso delinearsi
nitido, il cosmo brillare in una mano vista crescere, lacrime su un sorriso che
sarà di decisione.
Perchè lui sceglierà la vita; perchè lui sceglierà di soffrire per raggiungere un’illusione. Perchè le stelle, per
lui, hanno tracciato la strada più difficile, nei labirinti della mente e
della volontà, nei trabocchetti della coscienza.
L’ho visto, si ripetè
Shion e scivolò col pensiero all’elmo alato, alla
tunica scura rifinita d’oro e di porpora; scivolò su membra nervose e tese,
troppo giovani e troppo conosciute. Scivolò sugli occhi di Atena incastonati
nei suoi. E la mano si mosse
nell’aria, disperdendo come fumo una bolla di cosmo pronta a investirlo.
Sarà lì, prima o dopo. Su quell’altura,
sotto quel cielo lontano e complesso. Sarà lì, fra gli echi del mito e
del tempo, nel profumo di olive maturate al sole e di ginestra. Sarà lì, e Shion vedrà il cielo sotto l’architrave del prostilio nero e rosso e d’oro e azzurro. E negli occhi vuoti
resterà il riflesso del sorriso azzurro di Atena.
“Un sicario?” osò chiedere Dohko,
rigirando le bacchette nelle dita ossute. E il pensiero faceva male e la
distanza era impotenza e la volontà di Anissa una
costrizione mai prima pesata così tanto.
“Un cavaliere.”
E Dohko strinse i denti e le
mani ossute furono polvere nella mente, fu il corpo sciogliersi nel fluire
eterno della cascata, fu il respiro spezzato nella gola al ricordo di vecchi
compagni e vecchi tradimenti di fratelli che si
uccisero fra loro.
“L’hai cresciuto. Puoi fermarlo”
suggerì, e dopo secoli si riscoprì infantile e ingenuo. Dopo secoli,
riassaporò una testardaggine giovanile e la caparbietà di un’età lontana. E,
seduto ai piedi della cascata, nei primi freddi di Cina, Dohko
si convinse che, per l’ultima volta, poteva tornare a parlare come un ragazzo,
come il Cavaliere di Libra di due
secoli prima. Con Shion. Per convincere Shion.
“Sarebbe ingenuo pensarlo.”
“Atla potrebbe...”
“Atla è morto. Una settimana fa; assassinato.”
“Assassinato” ripetè Dohko e, lucido, nella mente si formò la consapevolezza, la ineluttabile certezza che, di nuovo, Shion
lo aveva escluso. Di nuovo, Shion lo aveva a modo suo
protetto e si stava comportando da
egoista. Perchè solo un egoista, e Shion lo era, può
gettarti addosso un’eredità di comando con il sorriso
rilassato e tranquillo che Dohko riusciva a vedergli
sul viso rugoso e grigio, anche nei baluginii del cosmo.
Shion è egoista, Dohko lo ha
sempre saputo; e di quello che prova, dell’impotenza e della frustrazione che
gli cresceranno dentro non se ne cura.
“Un successore” e la parola bruciò
sulla lingua, mentre Dohko avvertiva la fretta e lo
volontà di conosce i pensieri più intimi e segreti di Shion.
“Un successore: devi sceglierlo. In fretta. Domani. Adesso.”
“L’ho scelto” assicurò Shion, ma
nel tono apatico c’era indifferenza. “Si è scelto, per la precisione.”
“Si è scelto? Ma cosa significa...” scegliersi
avrebbe voluto chiedergli Dohko.
Cosa significa scegliersi? Avrebbe voluto sapere, ma la
domanda si esaurì in un respiro più profondo, assieme all’intuizione di uno
svolgersi di eventi che Dohko sfiorò per un istante,
sotto le stelle traslucide di Grecia. Non chiese nulla Dohko
e seppe che il suo silenzio era assenso; seppe che Shion
sapeva e vedeva e conosceva il viso e il nome di chi
aveva osato troppo e che non avrebbe fatto nulla. E, per un istante, credette di vedere qualcosa di simile all’orgoglio e alla
sicurezza nel brilliò del cosmo di Shion, mentre pensava a quell’uomo.
“Ricordi gli aquiloni, Dohko?”
La voce di Shion era pacata nel silenzio della notte, come una nenia o una
preghiera; come lo stormio del vento nella steppa e
fra le gole di granito; come il mormorio dell’acqua che si allontana dalla
grande cascata di Cina. E quel suono, quel baluginio indifferente di cosmo fece
più a male a Dohko di un colpo segreto, di un cosmo
esploso.
“Li ricordo” biascicò fra rabbia e confusione. “Ma cosa c’entrano, adesso, gli aquiloni?”
“Quando ti venivo a trovare, durante l’addestramento, li
abbiamo fatti volare spesso. E salivano in alto; molto in alto.
Ti ricordi? Il mio restava sempre un po’ più in basso del tuo. Sempre un po’ più in basso.”
“Scherzi del vento” chiosò Dohko, stringendo forte le mani e socchiudendo gli occhi. “Fei Lian è da sempre capriccioso.”
Shion sorrise,
gustandosi alcune olive in salamoia e immaginando nel riflesso verde del cosmo
il disappunto di Dohko. Presagio avrebbe voluto rispondergli, ma sapeva che era superfluo. Shion sapeva che Dohko aveva
compreso, e stava solo fingendo di sminuire le sue parole.
“Sei un shèng.”
“Lo so” sussurrò Dohko. “E sono
impotente: tu vuoi morire.”
“Io devo morire. É diverso.”
Dohko respirò a fondo e a Shion sembrò di percepire l’odore di tabacco ed erbe secche
che si disperdevano in placide volute di fumo mescolarsi all’acqua e al muschio
della cascata di Cina. Erano trascorsi due secoli, e alla fine succedeva: il Polisemantor
presto avrebbe fatto ritorno, forse proprio in seno al Santuario. E la dea fanciulla, la piccola Aithyia,
avrebbe raccolto nel suo seno il compagno avversario per crescere con lui e
soffrire del loro distacco.
E Shion doveva morire. Ma se Shion non morisse...
Dohko accarezzò il pensiero: due erano
i cavalieri investiti del pieno cosmo, e due ragazzi si possono controllare. E
uno era al Santuario e l’altro era lontano, nel mare scuro come vino. Shion doveva morire. Glielo avevano raccontato le stelle.
Ma se Shion
non morisse...
E Dohko lo immaginò, il suo
cosmo espandersi fino alla neonata costellazione che brillava nel Santuario;
espandersi e avvolgere con dolcezza una mente ancora bambina, in bilico fra dedizione
e follia. Lo avvertì, o immaginò di avvertire, il suo cosmo di aria insinuarsi
fra rocchi e colonne conosciute, risalire la scalinata e...Se Shion non
morisse.
“La bilancia è l’equilibrio” lo riscosse Shion senza preavviso, e l’immagine, l’impressione di un
pensiero sbagliato naufragò fra i miscugli del cosmo. “E il tuo equilibrio è
precario, adesso.”
“Sto per perdere un caro amico,
anche se inaffidabile. Concedimelo.”
Shion rise, di quella risata piena e
giovane di due secoli prima; rise e gli occhi nel volto vecchio e segnato
brillarono di un guizzo adolescente e malizioso, di una consapevolezza che
racconta uno scherzo che non si può svelare, non ancora.
“Inaffidabile” ripetè, gustando
la parola assieme all’uva dolce. “Sono un ariete. Stai attento: posso ingannare.”
E Dohko ricambiò quel sorriso
fatto di cosmo, e avvertì un non detto che non si poteva accennare; avvertì
parole gettate nel fuoco perchè diventassero cenere e
pungolo costante nella sua mente.
“C’è dell’altro” e non era una domanda.
“Forse” acconsentì Shion, e con
il vino tracciò un cerchio sul marmo polveroso del parapetto. Perchè di quello che sarebbe successo
dopo aveva solo un ricordo vago e
confuso. E nelle tenebre che sanno di ghiaccio e asfodeli ricordava
la compagnia di cosmi fanciulli e l’aria precipitare di nuovo nei polmoni e
lacrime senza corpo e tempo scandito da fuochi azzurri. Ricordava...O forse illudeva
quello che le stelle gli avevano raccontato. Ma
parlarne a Dohko sarebbe stato troppo facile e troppo
sbagliato: perchè Dohko non
doveva sapere; perchè Dohko
avrebbe dovuto capire con il tempo, in tredici anni lasciati passare
nell’apatia e nell’inganno.
Lui avrebbe fatto quello che credeva
giusto, e lo avrebbe fatto con ferocia e misericordia; lo avrebbe fatto con
rimorso e decisione. Ma lo avevano deciso le stelle e Atena che sorride nel cielo: per Gemini avevano deciso la lacerazione,
per la sua antitesi il rimpianto.
E Shion sorrise al sole che si insinuava oltre le alture, verso l’Eubea
e una terra di neve e una terra di riso che non avrebbe più rivisto.
“Sarà presto?” sussurrò Dohko,
mentre il riflesso della cascata tingeva d’acqua la pietra e le foglie rosse di
un acero.
“Sì. Molto presto.”
E mentre il cosmo di Dohko
svaniva nell’alba mattutina; mentre il cosmo di Shion
scompariva nell’ombra delle creste rocciose si
rividero assieme vestiti di metallo in cosmi ardenti, forse nel passato forse
nel futuro, raccogliere petali sotto una pioggia sottile. Si rividero
insieme, con le stesse lacrime e la stessa angoscia, giovani e complici di quel
non detto che sapevano che avrebbero
conosciuto.
E nell’ultimo sbuffo di una notte ormai finita, sorrisero
di un saluto che voleva essere un nuovo incontro.
“Siamo come gli aquiloni”
Lo diceva spesso, Shion, fra le colonne vecchie di Atene; nell’aria umida di
Cina. Lo diceva spesso, quando gli anni vissuti erano ancora pochi. Quando Shion aveva diciotto anni, e Dohko
conversava con lui, sotto il sole caldo di Grecia; fra le foreste di bambù o
nella neve accecante del Jamir.
“Siamo come gli aquiloni” ripeteva, e Dohko
rideva al suo fianco. E di quella libertà legata ad un
filo sottile; di quella libertà nelle mani di una dea bambina erano orgogliosi.
E sorrisero nel ritrovarsi su fronti avversi; sorrisero dei cosmi che si scontrarono e dell’inganno
costruito senza parole. Sorrisero di tanti, piccoli nuovi aquiloni stretti
nelle mani di Atena dagli occhi azzurri.
E Dohko sorrise nelle lacrime
scure mentre di Shion restava polvere chiara dispersa
nel vento e il sorriso impertinente di un ragazzo inaffidabile. Perchè era di Shion andarsene lasciandogli il compito di guida, senza
preavviso. Perchè era di Shion
studiare la situazione e gettarti in mano una strategia completa e contorta. Perchè Shion era inaffidabile, e Dohko
lo aveva sempre saputo.
“Siamo come aquiloni” ripetè Dohko, e sorrise fra la nostalgia e il vuoto che Shion aveva lasciato: questa
volta, Shion aveva raggiunto il cielo per primo.
Note conclusive:
1) Anissa, traslitterazione
bizantina dell’epiteto greco antico anassa, significa signora
ed è un epiteto spesso accostato, assieme a potnia, ad Atena e alle divinità
guerriere in generale.
2) Il changshan è il
tradizionale abito cinese maschile, costituito da pantaloni e una camicia
lunga. I termine è nella variante in mandarino.
3) Il baijiu è un tipico liquore
chiaro cinese distillato solitamente dal sorgo, dal grano o dal frumento nella
Cina del Nord, mentre nella parte meridionale del paese è distillato dal riso.
Ad alta gradazione alcolica, il baijiu può essere
servito sia caldo sia a temperatura ambiente in piccoli bicchierini di
ceramica.
4) La kylix,
spesso indicata in italiano con il nome di coppa,
aveva un corpo espanso e poco profondo, con due piccole anse impostate poco
sotto l'orlo e quasi orizzontali, sostenuta da un piede in genere con alto
stelo ed era usata durante i simposi sia per le bevute sia per le libagioni o
il gioco del cottabo.
5) Il cratere è un grande vaso utilizzato per mescolare
vino e acqua nel simposio greco. Nel corso del banchetto i crateri venivano posti al centro della stanza e venivano riempiti di
vino, a cui veniva aggiunta acqua per diluirlo ed abbassare il contenuto
alcolico. Presenta un corpo tondeggiante, con corte anse per il trasporto e una
larga imboccatura, ma se ne conoscono numerose varianti. Le forme più antiche
presentano forma simile allo skyphos, una coppa per bere, e
sono conosciute già in epoca micenea.
6) Le dolmades sono involtini di riso o carne
trita avvolti in foglie di vite, in genere servite fredde e accompagnate
da yogurt come antipasti o stuzzichini con l’aperitivo o comunque insieme ad un
alcolico.
7) I sarikopitakia sono tipici rustici salati ripieni di
formaggio e coperti con il miele, tipici della zona di Creta ma probabilmente
originari della Turchia e di Costantinopoli. Il loro nome deriva probabilmente
da “sariki“,
ovvero turbante, a causa della loro forma arrotolata.
8) Il dou li è il nome
cinese del tipico cappello di paglia originario del sud-est asiatico, di forma
conica e viene fissato mediante una stringa di tessuto
che passa sotto il mento, spesso di seta; all'interno è presente un'altra
fascia che non lo fa muovere sulla testa. Questo cappello viene
usato essenzialmente come protezione dal sole e dalla pioggia, specialmente da
chi lavora nei campi di riso.
9) Fei Lian
è, nella mitologia cinese, il dio del vento.
10) Shèng è la traduzione in
cinese del termine saint.
11) Polisemantor
ovvero colui che comanda su molti (sem-an-tor sarebbe letter.
‘guida, condottiero, colui che dà il segnale’) è uno
degli epiteti tradizionali di Ades. In origine è
riferito al comando che ha sui morti; nella fanfic si
riferisce al comando che ha anche sugli Spectre.
12) Aithyia è un epiteto
tradizionale di Atena riferito ad un uccello marino.
Nel mito Atena, sotto l’aspetto di una cornacchia del mare, avrebbe preso sotto
le ali Cecrope, l’uomo primordiale serpentiforme, per
portarlo da Atene a Megara.