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Autore: Leia    28/10/2005    2 recensioni
Un'attesa fatta di vetro, notte e pioggia, per proteggere dei sogni. Voglia di guardare, di restare e partire, seduti di fronte ad un fiume che scorre... [fic velatamente slash, o forse una semplice real person. Lascio ai lettori ogni interpretazione. Maggiori dettagli nella premessa]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Orlando Bloom, Viggo Mortensen
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa fic è nata nella stazione di Paris Montparnasse, durante una lunga giornata d’attesa. Era pieno luglio, ma nonostante ciò il tempo era nuvoloso, e faceva un freddo assurdo :P io ho spostato la storia a settembre (almeno idealmente), e ho fatto qualche altro cambiamento (da Montparnasse in teoria non partono treni per l’Inghilterra, ehm). Le sensazioni provate quel giorno, però, le ho riportate in modo quasi identico. Soprattutto l’idea dell’attesa senza fine, del tempo che non passa, e che resta immobile, come se fosse rimasto imprigionato in un’altra dimensione…

Credevo che non avrei più scritto un’altra Viggorli, e invece… beh, mai dire mai ;) ma volendo si potrebbe leggere questa storia anche come una semplice real person, non necessariamente slash. Tutte le interpretazioni e le scelte sui punti di vista, comunque, le lascio ai lettori ;P all’inizio doveva essere una specie di drabble, davvero brevissima, ma per quanto mi sforzi se c’è una cosa che proprio non ho è il dono della sintesi…

 

Ovviamente non ho idea se Viggo e Orlando siano mai stati a Parigi e bla bla bla… ma ho cercato di basarmi sui dati ricavati dalle biografie degli attori (nel 1995, a 18 anni, Orlando *dovrebbe* aver vinto davvero la borsa di studio per British American Drama Academy, e così via) e da alcune loro interviste.

Un grandissimo grazie a Tao e Celebel che mi hanno illuminata sull’origine del nome di Orlando :D e per ogni altro eventuale errore sfuggitomi, chiedo scusa. In particolare a proposito di Maurice Maeterlinck: la spiegazione di Viggo sulla sua raccolta di poesie “Serres Chaudes” l’ho ‘elaborata’ basandomi sulla prefazione di Ruggero Jacobbi presente nel volume dedicato al poeta nella “Collezione Premi Nobel”, 1967, Arnoldo Mondatori Editore. Non sono una studiosa di letteratura, per cui chiedo venia per ogni castroneria che potrei aver affermato…

 

Ultime chiacchiere (più o meno) inutili:

- non so bene perché, ma nelle mie fic metto sempre in mezzo, in un modo o nell’altro, dei fenomeni atmosferici… soprattutto la pioggia :P ma non lo faccio apposta, giuro! Mi sta venendo pure la mezza idea di fare una trilogia sulla pioggia, composta da Arizona Rain, questa fic e una terza storia, lol (la “trilogia bagnata” suona molto male, vero?)

- al povero Stuart Townsend, che fu scelto in un primo momento per interpretare Aragorn, chiedo umilmente scusa! Non so in realtà se sia simpatico o antipatico, ma mi serviva che fosse stato un po’ odioso per la riuscita del dialogo con Dom e per l’ultima parte… e già che ci sono, mi scusi anche Christopher Lee!!

 

E infine,

dedico questa fic ad Ewyn, perché è la mia fangirl preferita… ;)

 

Leia

 

 

~

 

Dreaming Tomorrow

 

~

 

 

Autunno 1995, Parigi

 

 

La pioggia scendeva fitta. Le porte scorrevoli dell’uscita continuavano ad aprirsi e chiudersi con un sibilo, attivate dalla fotocellula davanti alla quale era fermo. Lo investivano ventate di aria fredda ad intervalli regolari, ma anche se sotto la t-shirt di cotone rabbrividiva, rimase immobile a lungo.

Non sembrava sereno, ma sul viso giovane e imberbe comparve più volte l’ombra di un lieve sorriso. Malinconico, o forse no. La luce grigia che penetrava dalle vetrate opache gli riempiva gli occhi nocciola, dolci, dalle lunghe ciglia scure. Guardavano lontano.

Quando finalmente si mosse, fu solo perché una coppia lo urtò. Captò un “pardon” mormorato con voce annoiata, e quando abbassò lo sguardo fece appena in tempo a scorgere un’esplicita occhiata d’apprezzamento nella sua direzione da parte di una bella ragazza bionda. Il compagno, un uomo più grande di lei di almeno dieci anni, la strinse a sé. Con tono indispettito le disse qualcosa in francese stretto, poi la trascinò bruscamente sotto la pioggia. Un grande ombrello rosso si aprì sopra le loro teste, e in un attimo scomparvero.

Le porte si sigillarono per l’ennesima volta. Lui, fissandole, sospirò, inalando l’ultimo soffio di aria pungente nei polmoni. Spostò gli occhi sulle borse posate accanto a sé, sul pavimento dove la polvere continuava a correre, poi sull’orologio al polso. Le lancette segnavano le 20.45. Dubitava che avrebbe trovato una stanza d’albergo prendendo a vagare a quell’ora per Parigi, ed in ogni caso dubitava anche che ne valesse la pena.

Si voltò. I tanti treni soppressi avevano creato una notevole confusione nella stazione di Montparnasse. Centinaia di viaggiatori si trovavano nella sua stessa situazione. Per tutti si prospettava una lunga notte, ed ogni sala d’attesa – come aveva avuto modo di vedere curiosando tra i vari livelli – era strapiena di gente e bagagli. Aveva rinunciato da tempo a sperare di trovare un sedile vuoto, puntando piuttosto a sistemarsi in un angolo, per terra. In realtà, nonostante il freddo che filtrava dall’ingresso, non voleva allontanarsi da lì. Voleva poter osservare la pioggia da dietro i vetri, o almeno sentirla. Gli ricordava casa.

Assurdamente però, se glie l’avessero chiesto in quel momento, non avrebbe saputo dire se più gli mancava o più lo spaventava. Perché per la prima volta nella sua vita, lo sapeva, l’adrenalina non gli sarebbe salita per un semplice salto da un elicottero a cinquecento metri di quota. Questa volta sarebbe stato diverso, completamente diverso.

 

*

 

No, non era un sogno. Qualcuno gli stava parlando. In inglese. Aprì gli occhi.

« … emo qui?».

Una sagoma alta, davanti a lui, contro il chiarore delle luci al neon.

«Co… ». La voce non gli usciva. Se la schiarì. « … come?».

L’altro sembrò chinarsi un po’.

«Allora avevo indovinato. Non sei francese. Ti dispiace se mi sistemo qui? Non volevo disturbarti, ma questo sembra l’unico posto vicino all’ingresso dal quale si possano tenere d’occhio i tabelloni delle partenze. E dove i sorveglianti non fanno storie, se ci si siede per terra».

Il ragazzo cercò di mettersi seduto in un modo un po’ più composto. Era intontito dal sonno, e la voce sembrava non voler tornare in modo convincente. La gola, in effetti, gli faceva un male terribile. Forse lo stendersi sul pavimento senza tirar fuori dalle valigie nemmeno una felpa da mettersi addosso non era stata una grande idea.

«Oh… uhm, certo. Accomodati», disse con difficoltà, allargando un braccio e sfregandosi gli occhi con l’altra mano. «Scusa… scusami, ma a quanto pare ci vorrà un po’ prima che riesca a tornare a parlare in modo normale».

Lo sconosciuto fece una breve risata. Nonostante l’inusuale sfumatura roca che aveva nella voce, a differenza di lui sembrava scoppiare di salute. Il giovane lo osservò con attenzione mentre si sedeva, abbassandosi prima sulle ginocchia per buttare il borsone che aveva a tracolla contro il muro. E mentre seguiva quei movimenti il suo sguardo si posò sul singolare profilo del viaggiatore, dai lineamenti decisi e sorprendentemente eleganti, ma soprattutto sui suoi grandi occhi chiari circondati da alcune, lievi rughe d’espressione. Doveva avere all’incirca quarant’anni, ed era decisamente un bell’uomo.

«Avresti dovuto metterti qualcosa di più pesante addosso. Credo che stanotte, qui, si gelerà», proseguì quest’ultimo, gettando un’occhiata alla t-shirt del ragazzo e chiudendo la zip della propria maglia fino in cima.

«Oh, sì. Ora prenderò qualcosa dalla borsa», rispose l’altro, sbattendo le ciglia più volte nel tentativo di far cadere il velo sfocato che, nonostante tutto, aveva ancora davanti. «Quando mi son seduto ho iniziato a guardare la pioggia che scendeva, e mi sono addormentat… ».

Finì la frase con un filo di voce. Gli occhi dell’uomo erano fermi sui suoi, magnetici, e sembravano volergli passare attraverso. Non aveva mai visto uno sguardo così. Solitamente non si sentiva a disagio se qualcuno prendeva a fissarlo con insistenza, ma questa volta… non sapeva spiegarlo. Assomigliava alla sensazione di sentirsi improvvisamente incapace di stare in mezzo alla gente. Senza più difese, sicurezze, argomenti intelligenti da proporre. Come nei peggiori incubi che si hanno da adolescenti.

«Anche a me piace la pioggia». Il viaggiatore appoggiò la schiena contro la borsa, e non sembrò accorgersi dell’imbarazzo del suo interlocutore. «La trovo… ispirante».

Con grande sollievo del giovane l’uomo proseguì voltandosi un attimo, per sistemare alla bell’e meglio accanto a sé una specie di valigetta. C’erano anche due grosse custodie di pelle.

«Quelle sono macchine fotografiche?», gli domandò allora il ragazzo osservandole, improvvisamente curioso. «Sei un fotografo? Un artista?».

L’altro si girò di nuovo verso di lui, e per un attimo non disse nulla. Dopodichè le sue labbra si allargarono in un grande sorriso. Era gentile, in perfetta armonia con le iride limpide.

«Artista… mh. Forse potrei definirmi così, e forse no», commentò con voce quasi bassa. «E sì, sono macchine fotografiche. Sto girando la Francia in cerca di soggetti interessanti. Domattina riparto verso sud». Fece una breve risata. «Ad essere sincero, non sono capace di stare fermo troppo a lungo nello stesso posto».

Appoggiò un gomito sul ginocchio piegato, tendendo invece il braccio destro. Mostrò lo stesso, rassicurante sorriso di poco prima.

«Sono Viggo. Scusa, dovevo presentarmi subito».

Il ragazzo dai capelli scuri allungò istintivamente le labbra a sua volta. Il senso di disagio era ormai completamente sparito. Strinse le dita affusolate dell’uomo, sentendole ruvide ma salde intorno alle proprie, e pensò che Viggo era un nome decisamente bizzarro. Ma non lo disse.

«Figurati, avrei dovuto fare lo stesso. Io sono Orlando».

«Orlando? Come il protagonista di quel poema cavalleresco italiano?».

Il giovane ridacchiò. Effettivamente anche il proprio nome non era qualcosa che poteva esser definito ‘comune’. Tendeva spesso a scordarselo. Quando osservava le facce puntualmente fra il divertito e lo stupito di chi gli stringeva la mano per la prima volta, ci metteva sempre qualche secondo per capirne il motivo. Ma forse è così per tutti quanti, si disse. Il tuo nome diventa parte di te, e per quanto curioso sia si ha sempre la sensazione che soltanto quello, fra miliardi, avrebbe potuto essere il modo in cui ti saresti chiamato…

«Sì, anche se… beh, la letteratura non c’entra. Lo pensano sempre in molti, però. In realtà viene da Orlando Gibbons, un compositore inglese del 1600. Sai, mia madre lo adorava».

Viggo inclinò un po’ la testa, realmente colpito. Parlò ancora con quella sua strana intonazione, bassa e calda.

«E’ un bellissimo nome. Davvero… un bel nome».

Orlando attenuò di colpo il sorriso. Non era il genere di commento che si sarebbe aspettato. E non era per niente preparato a dover distogliere lo sguardo così, in un modo quasi impacciato, mentre un calore del tutto nuovo gli saliva su per le guance. E poi… lui imbarazzato per un banale complimento, fattogli da un uomo?

Si voltò verso la borsa farfugliando un “grazie”, deciso a concentrarsi sulla ricerca della felpa. Adesso aveva freddo sul serio. O meglio, adesso sentiva davvero il bisogno di coprirsi. Con qualcosa, qualsiasi cosa. Un piccolo scudo contro gli occhi color cielo terso di Viggo, che sentiva fissi sulla propria nuca. Era terribilmente tentato di chiedergli qualcosa di più sul suo di nome, ma l’uomo lo anticipò.

«Anche il mio deve suonare piuttosto strano, per un inglese».

Orlando udì un fruscio. Viggo si doveva essere riappoggiato contro il muro.

«Beh… sì, un po’ sì. E’… particolare».

«Il fatto è che sono danese. Per metà. Mia madre invece è americana».

«Ah».

Purtroppo, la felpa spuntò fuori molto presto. Il ragazzo fu costretto a rigirarsi.

«Adoro questa parte dell’Europa», riprese l’altro. «Paesi come la Francia, la Spagna, l’Italia… hanno un passato così ricco di storia. C’è talmente tanto da vedere. Qui si respira un’aria nostalgica e decadente, che negli Stati Uniti non esiste. La pioggia non è così bella, a New York».

All’ultima frase dell’uomo, Orlando non poté fare a meno di risollevare la testa. Lo vide chiudere gli occhi, e fare un profondo respiro mentre allungava una gamba sul pavimento grigio della stazione. L’altra invece la piegò, facendo increspare la stoffa dei jeans tra la coscia e il polpaccio. Sopra il ginocchio, la bella mano dalle dita magre era abbandonata mollemente. Aveva però spalle larghe, solide. Ed un profilo che, inspiegabilmente, era impossibile non restare ad osservare.

«Anche in Inghilterra la pioggia è bella. Molti inglesi dicono di odiarla, ma io la amo».

Trascorse un attimo prima che il ragazzo riconoscesse la propria voce.

«Questa le assomiglia molto. O forse sono io che voglio che le somigli».

Viggo mosse lo sguardo dai vetri, posandolo nuovamente sugli occhi liquidi di Orlando. Erano i suoi quelli persi, adesso, nel cielo nuvoloso di Parigi.

«Stai tornando a casa?», gli domandò, con un mezzo sorriso.

Il giovane raccolse le ginocchia al petto. Sollevò un angolo della bocca, andando all’indietro fino a risentire l’intonaco freddo contro le scapole.

«Sì… cioè, no. Sono di Canterbury, ma vivo da due anni a Londra. E per me quella è casa».

«Capisco. Allora c’è qualcosa di importante per te, laggiù». L’uomo tacque un attimo. «Una…  ragazza?».

Orlando gli gettò una piccola occhiata, e rise con lui.

«No… no. Anche se di ragazze interessanti ce ne sono. Ce ne sono sempre tante, in effetti. Spesso troppe. Spesso… beh, confondono».

Le vetrate richiamarono un’altra volta la sua attenzione. Erano un po’ sporche, opache, a tratti coperte di segni dovute al maltempo di anni. Ma anche per questo gli piacevano. Avevano osservato il cielo di Parigi per tanto tempo, e l’avrebbero fatto in futuro. Sia col sole, che con la pioggia, che con la neve. Sarebbero rimaste lì. E ogni nuovo graffio sarebbe diventato un altro ricordo, un altro istante fuggente catturato. In qualche modo.   

«Un sogno». Continuava ad ascoltare la propria voce vibrare nell’aria, senza capire esattamente perché stesse dicendo certe cose ad un perfetto sconosciuto. Perché si stesse confidando con quello strambo americano di origine nordica, che pareva più che altro un romantico esploratore d’altri tempi piombato sulla terra nel secolo sbagliato. «E’ un sogno, che mi aspetta a Londra. Lo inseguo da tanto. E domani… beh, potrei farcela. A raggiungerlo. Un primo passo. Sì, potrei fare il primo passo, domani».

Forse ne aveva bisogno, di confidarsi con qualcuno. Forse ne aveva un disperato bisogno. Tutto era lì, annidato in fondo al suo stomaco, e glielo serrava, glielo contorceva. Un coltello nella pancia, di sicuro, sarebbe stato molto meno fastidioso.

«E’ da due anni che studio per diventare attore. Al National Youth Theatre di Londra. Soltanto… solo cinque ore fa ho saputo di aver vinto una borsa di studio per la British American Drama Academy. E adesso… ». Rise, o almeno tentò di farlo. Per sdrammatizzare, perché odiava sentirsi perso e perché solo in quel momento l’aveva capito. Il suono che uscì dalla sua gola, però, risultò ben poco convincente. « … e adesso sono qui, in questa stazione, dopo aver lasciato gli amici con cui ero in vacanza per… precipitarmi a prendere un treno che non sapevo di dover prendere, e… e ora c’è da aspettare un’intera notte, e io non so cosa pensare, come prepararmi, ci sarà sicuramente un esame di recitazione preliminare e credo di aver… dimenticato improvvisamente mesi di teatro, e sai, tutto finalmente è a portata di mano dopo tanto tempo, io sono il più felice del mondo, ma finora era stato solo un gioco, era più facile, quasi non ci speravo più, e questa attesa è così… così strana, e… ».

Incontrò lo sguardo rasserenante di Viggo, o più probabilmente lo cercò. Riprese fiato.

«… e credo anche… di avere paura. Una fottuta… paura».

Restarono il silenzio. L’uomo non stava sorridendo, ma la sua bocca era piegata in un modo indefinito. Enigmatico, magari, sarebbe stato il termine perfetto. Ad Orlando però non dava fastidio, anzi. Niente di quell’uomo sembrava capace di infastidirlo. Anche se a volte quel senso di disagio tornava, come in quell’esatto istante, con i loro occhi fermi alla stessa altezza. Gli uni negli altri.

«E di cos’è, che hai paura?».

Sopra di loro, voci metalliche e confuse iniziarono ad annunciare in francese delle comunicazioni ai viaggiatori. Ormai nella stazione non c’era più molto movimento, e il tempo sembrava stare rallentando, i suoni farsi attutiti, lontani, poco importanti. Anche il ticchettio regolare della pioggia contro le vetrate era diventato un semplice brusio di fondo, leggerissimo.

Orlando si morse l’interno del labbro, poi l’inumidì con la lingua.

«Di sbagliare tutto. Di buttare via degli anni, e di… stancarmi, di mollare. Al primo ostacolo. Di non esser all’altezza. O al contrario, di diventare come tanti altri attori. Fino a non riconoscermi più. Si, credo sia questo. Tutte queste cose».

Gli annunci terminarono e nell’aria, per una manciata di secondi, aleggiò quella specie di eco che precede il ritorno del silenzio. Sembrò il rumore più forte fra tutti quelli intorno a loro, sempre meno nitidi.

«Uhm». Viggo abbassò lo sguardo, distogliendolo da quello di Orlando. Fece aderire la schiena al borsone, e alzando un braccio si passò le dita tra i lisci capelli castani. Li portava un po’ lunghi, scompigliati. Quando posò nuovamente il braccio sulla coscia, il viso era rivolto verso l’alto, ed i suoi pensieri fermi tra i vetri, circondati dai rivoli di pioggia che continuavano a scorrervi sopra, trasparenti, veloci e, dietro, la sera nera. «Sotto l’acqua del sogno che zampilla, l’anima ha paura, l’anima ha paura. E la notte mi splende nel cuore, tuffata nelle fonti del suo sogno*».

Recitò quella strofa piano, con attenzione, come se stesse leggendo parole ricamate nell’aria. Il ragazzo schiuse la bocca, e dopo aver incrociato le gambe si sporse verso l’americano. Lo fissò, senza parole. Lui, allora, distese finalmente la linea delle labbra, rimasta spezzata e ambigua fino a quel momento.

«Maeterlinck. Uno stralcio di una sua poesia. Me l’hai fatta venire in mente», mormorò. La sua voce parlava con gentilezza morbida, discreta, in piacevole contrasto coi toni freddi ed impersonali della stazione, col metallo arrugginito delle strutture che reggevano le vetrate, con le correnti d’aria che ogni tanto li sfioravano. «I suoi versi nascevano spesso dall’immagine di un fiume. Un canale, forse, davanti al quale lui si sedeva, e aspettava. E quell’attesa era sempre trasfigurata in altre forme. Ampiezza d’orizzonte, stagnante calma, nervosismo segreto, sgomento di fronte all’universo. Timore, ma anche sogno, e sete di esplorare».

Si appoggiò con la testa alla parete, e muovendola di poco tornò ad incontrare il viso di Orlando, pallido sotto le luci artificiali.

«A differenza di lui, tu stai invece seduto in una stazione, e aspetti che sul tabellone delle partenze compaia il tuo treno. Non sai esattamente dove ti porterà, temi e ami la prospettiva del viaggio. Ti attira, ma una parte di te vorrebbe che questa attesa non finisse mai. Questa notte, e la pioggia che scende. Una dimensione quasi fuori dal tempo. Sembra fatta per proteggere i sogni, non è vero?».

A quell’ultimo tono interrogativo, il ragazzo si scosse. Aveva quasi cominciato a credere - a sperare - che Viggo non avrebbe mai smesso di parlare. Di poesia, di quel fiume, di lui seduto lì per terra a contemplare desideri. Il suono della sua voce gli piaceva. E quello che diceva non era scontato. No, decisamente non lo era.     

«Già. Ma se non li vivo non saprò mai come davvero andranno a finire, immagino», rispose. Subito dopo, socchiuse le palpebre. D’un tratto si sentiva intorpidito, assonnato. Forse si era fatto molto tardi. Per controllare l’ora avrebbe potuto dare una semplice scorsa all’orologio della stazione, fisso sul tabellone delle partenze sopra di loro, ma non volle farlo. Non si chiese perché.

Viggo scostò appena gli occhi dal ragazzo, posandoli sulla vernice scrostata alle sue spalle.

«Sai… », disse. «Ho un amico… che fa l’attore. Lo fa da tanto tempo. Non è conosciuto, ma è l’ultima cosa che gli interessa. Nonostante la lunga gavetta, e le paghe basse, non si è mai stancato. Dice che gli basta avere l’occasione di esprimere qualcosa in cui crede, non importa se attraverso gli occhi e le idee di qualcun altro. E’ sempre una conquista, una lezione».

Orlando raddrizzò la schiena. Nonostante il sonno, era deciso a non perdere nemmeno una parola dell’uomo. Si strinse nelle braccia, infreddolito, e notò che Viggo stava ancora sorridendo.

 «Non recita soltanto. Adora cambiare, per vedere le cose attraverso prospettive diverse. Mi dice sempre che chi si stanca di guardare, smette di amare. E credimi, se lui adesso fosse qui, penso che ti direbbe di non preoccuparti per il tuo futuro. Sia che tu debba impiegare anni per conquistare una parte importante, o che diventi di colpo famoso».

L’inglese, dopo un attimo di sorpresa, ridacchiò.

«Il tuo amico deve aver conosciuto parecchi giovani aspiranti attori. Ma io non credo proprio che… ».

«Non è questo». Il fotografo accompagnò quelle parole con un movimento dolce della testa. «Te l'ho detto, tu sembri quel poeta. Temi ciò che ancora non puoi vedere, quello che sta al di là il fiume, ma allo stesso tempo ti affascina. E ti spinge alla ricerca. Lo so, praticamente non so nulla di te... ma di una cosa sono certo. Non importa quanti saranno i tuoi dubbi, perchè nei tuoi occhi c'è voglia di guardare. Chi ti conosce, certamente già lo sa. Non passerà molto prima che te ne renda conto tu stesso, e chiunque incontrerai».

Viggo concluse la frase con un altro sorriso, ed una lunga occhiata. Il ragazzo riuscì a ricambiare solamente il primo, accennandolo appena con le labbra sottili. Questa volta, però, l'imbarazzo non c'entrava. Semplicemente, adesso, per Orlando la figura dell'americano era diventata un'immagine dai contorni confusi, offuscati, e sempre più buia. Con fatica lo vide voltarsi verso le custodie di pelle, dandogli le spalle.

Aprì la bocca, schiudendola di poco.

«Grazie… ».

Lo stato di torpore in cui era caduto gli rendeva impossibile, ormai, continuare a tenere gli occhi aperti. Sentiva il sonno sempre più vicino, e sempre più invitante. Ma non avrebbe voluto addormentarsi…

«… di’ al tuo amico che spero… di poterlo conoscere… ».

Avrebbe voluto continuare a parlare con Viggo, per ascoltare la sua voce ancora per un po'… e poi…

«… magari… sullo stesso set…  ».

… poi capire perchè, improvvisamente, avesse avuto la netta sensazione di averlo già visto, prima di quella sera…

«… un giorno… ».

… forse domani avrebbe potuto chiederglielo, forse…
L'uomo finì di sistemare il nuovo rullino. Chiuse con attenzione lo sportello posto sul retro della grossa Nikon nera che teneva tra le mani, e dopo aver controllato l'obbiettivo si girò nuovamente verso il ragazzo.

«Penso che sarebbe davvero felice di… ».

Si bloccò. Accanto a lui, Orlando dormiva. Accoccolato tra le borse, aveva la testa reclinata da un lato, le braccia incrociate sul petto. Una gamba era piegata sotto quella destra, raccolta invece contro lo stomaco. In quella posizione sembrava quasi un bambino, caduto in uno stato di sonno profondo nel giro di pochi secondi.

Viggo sollevò gli angoli della bocca, divertito ed intenerito al tempo stesso.

«… conoscerti. Ma, in un certo senso, è come se l'avesse già fatto… ».

Rimase un istante fermo a guardarlo dormire, in pensieroso silenzio. Alla fine scosse piano la testa, quindi accostò la macchina fotografica al proprio volto. Si premurò di togliere il flash per non disturbare il dormiente, e scattò.

L'apparecchio emise un breve ronzio. L'uomo lo riabbassò sulle ginocchia, ma senza mai staccare gli occhi azzurri dall'espressione serena di Orlando. Li socchiuse, con dolcezza.

«Non preoccuparti, young dreamer», sussurrò. «Sono sicuro che ci rivedremo, prima o poi».

 

 

 

Autunno 1999, Wellington

 

 

«Quindi è già arrivato?».

«A quanto pare sì. Elijah mi ha detto che l’ha visto parlare con PJ».

«Mh, son proprio curioso di conoscerlo… oddio, spero sia più simpatico di Stuart».

«Billy, non credo ci voglia molto per essere più simpatici di Stuart».

«In effetti…».

«Di che si parla, hobbit?».

A quella domanda i tre ragazzi si girarono all’unisono, posando momentaneamente sul tavolo della mensa forchette, tovaglioli e bicchieri. Un giovane alto, vestito con una bella casacca dai colori del sottobosco, stava avanzando velocemente verso di loro. Aveva lunghi capelli biondi, raccolti in una bandana verde, e curiose orecchie a punta. Quando giunse accanto alle panche, fece loro un grande sorriso. Quello dei tre più in carne, dai folti capelli castano chiaro, sollevò allora una mano in segno di saluto.

«Ehilà, Orli. Ti unisci a noi?».

«Grazie, Sean, ma ho già mangiato prima. E tra un po’ devo tornare dai truccatori. Voi? Scommetto che state ancora prendendo in giro il povero Townsend, eh Dom?».

Il giovane seduto sul lato esterno del tavolo fissò il nuovo arrivato con espressione seria, fintamente offeso.

«Noooii? Ma quando mai!».

«No, no… cioè, più o meno», continuò uno degli amici, alzando le spalle. Prese a grattarsi con impegno il mento appuntito. «E’ che finalmente è arrivato quello nuovo. Sai, il nuovo Aragorn. Ci stavamo chiedendo che tipo possa essere. Tu l’hai già visto, per caso? Ho sentito dire da Philippa che l’avrebbero messo con te e Beanie… ».

Orlando Bloom sollevò le sopracciglia, sorpreso.

«Sul serio? Non mi hanno detto niente. Comunque è da stamattina che non torno al trailer… ».

«Uhm, magari si è già trasferito là con tutte le valigie». Dominic Monaghan si portò alla bocca l’ultimo pezzo di bistecca rimastogli nel piatto, poi puntò la forchetta contro lo stomaco del ragazzo. «Se fossi in te, mio caro elfo, correrei a controllare che non si prenda troppo spazio o che sposti qualcosa. Ha un nome assurdo, questo tipo… non riesco proprio a ricordarmelo. Ma ho letto che ha fatto un sacco di film. E sai le pretese che hanno certe star… un po’ come il vecchio Christopher!».

Gli altri risero. Orlando fece solo una breve, debole risata.

«Esagerato. Vedrai, sarà soltanto molto più serio di noi… », commentò, guardando i tre. Gettò un’occhiata all’uscita della mensa. «Ma vado lo stesso a vedere. Meglio conoscersi prima fuori dal set che in scena. E almeno così preparo Beanie».

 

*

 

Il ragazzo avanzò nella roulotte. All’apparenza, il trailer sembrava esattamente come sempre, ed era deserto. Passò accanto al letto di Sean Bean, praticamente immacolato, poi arrivò al proprio, ancora sfatto da quella mattina.

«Forse dovrei mettere un po’ in ordine», si disse. Affondò le mani tra le coperte, recuperando calze e camicie rimaste imprigionate sotto il groviglio di lenzuola. «Giusto per non fare troppo una cattiva impressione con il neocollega… ».

Raccolse da terra una ventina di cd, mettendoli uno sopra l’altro in una precaria pila. Scorse un paio di jeans abbandonati oltre l’angolo formato dalla parete del bagno, ma voltandosi per tornare indietro si trovò costretto a fermarsi. Sotto la finestra era infatti comparsa una branda, ed un nuovo materasso. Ai piedi del letto, un’infinità di borse. Sul tavolino poco distante, quaderni e libri. Oggetti rettangolari che sembravano tele. Portapennelli, due cofanetti in legno. Macchine fotografiche, chiuse in belle custodie di pelle scura.

Orlando percorse con lo sguardo quella lunga sequenza di oggetti, attratto senza sapere come da ogni loro, singolo dettaglio. E alla fine, con lentezza, alzò la testa.

Tutt’intorno allo specchio che troneggiava un paio di metri più avanti, spesso utilizzato sia da lui che da Sean per le prime fasi di trucco, decine e decine di foto erano state attaccate con meticolosa cura. Il giovane si avvicinò per osservarle meglio, incuriosito.

Certe rappresentavano semplici paesaggi, altre dettagli che non riusciva a decifrare, altre ancora persone, ma immortalate dalle angolazioni più strane. Anche se non le capiva completamente, così come alcune particolari scelte di luci, contrasti, colori, gli sembrarono tutte ugualmente bellissime.

Fece quindi per tornare verso l’ingresso, deciso ad andare a cercare il nuovo, eccentrico ospite del trailer direttamente sui set, ma all’ultimo momento la sua attenzione fu catturata da una foto relegata in alto, sul lato destro dello specchio. Si accostò al muro, prendendo a fissarla con addosso una sensazione strana, di inspiegabile familiarità. Poi, d’un tratto, un brivido gli percorse la schiena. Si allontanò di colpo dalla parete.

L’immagine era in bianco e nero, e al centro c’era un ragazzo. Dormiva, raggomitolato su se stesso colme un gatto. Era circondato da alcune borse, lo scenario sembrava quello di una stazione, ma a parte questo non c’era nient’altro di rilevante. Una striscia bianca di forse un centimetro circondava la foto, a mo’ di cornice. E nello spazio in basso si notava una piccola scritta, tracciata in penna nera: Dreaming Tomorrow.

Orlando si portò una mano alla bocca. La aprì, ma dalla sua gola non uscì alcun suono. Un rumore, invece, venne dalle sue spalle.

«Peter mi ha mostrato tutte le vostre foto, e un po’ di girato… ».

Il giovane accompagnò con le dita un ciuffo di capelli biondi dietro l’orecchio, deglutendo. Una voce calda, rasserenante, dalla strana sfumatura roca…

«Sai, ho capito subito che eri tu».

Silenzio. Per un solo, lunghissimo secondo.

«Quegli occhi. No, non potevo sbagliarmi… ».

L’attore inglese si voltò, piano. A pochi passi dallo specchio, il nuovo collega lo stava osservando. I capelli lunghi, appena mossi, erano di un lucido castano scuro. Una leggera barba incolta gli copriva metà del viso, confondendosi coi baffi radi. Addosso aveva il costume completo di Grampasso, e ad Orlando bastò quell’unica occhiata per capire che Aragorn avrebbe potuto essere soltanto lui e che PJ, questa volta, aveva fatto un centro impeccabile.

Gli bastò uno sguardo, per capirlo. E solo poche parole per rendersi conto che da quella sera, a Parigi, niente era cambiato. O forse tutto. O forse, entrambe le cose.

«Alla fine, allora, quel fiume l’hai attraversato».

Viggo Mortensen inclinò la testa, appoggiandola al muro insieme al braccio sollevato. Sorrise, e anche quell’esatta immagine sembrò provenire direttamente da una strana, lunga notte di pioggia, fredda ma infinitamente più confortante di qualsiasi giornata estiva. Il giovane vestito da elfo, invece, strinse un labbro tra i denti, senza riuscire a non allungare a sua volta la linea della bocca. Mando giù un piccolo nodo alla gola, inaspettato.

«Già», disse, e gli occhi risero con lui. «L’ho attraversato».

 

 

- the end –

(e poi, beh, il resto è storia… ;P)

 

[* dalla poesia “Riflessi”, dalla raccolta “Serres Chaudes”, di Maurice Maeterlinck]

 

 

Piccola nota finale: non ho avuto la possibilità di inserirla nella storia, ma se potete ascoltatevi la meravigliosa “Holes” dei Mercury Rev durante un’eventuale rilettura. E' a a dir poco perfetta per l’atmosfera, gli ambienti e i temi della fic. Mentre scrivevo l’ho ascoltata fino allo sfinimento, e adesso la associo così tanto a questo primo, ideale incontro fra Viggo & Orlando che sempre, quando la risento, mi viene un magone assurdo… (ma credo che la reale, principale causa di tutto ciò sia in realtà il mio fragile equilibrio emotivo dell’ultimo periodo, lol :P). Comunque, qui sotto ecco riportate le lyrics di questo piccolo grande capolavoro, a mio parere unico nel suo onirico, incredibile genere… (parole non totalmente comprensibili ;P ma la musica è in primo piano, per me)

 

 

HOLES

by Mercury Rev

(from Deserter’s Songs, 1998)

 

 

Time, all the long red lines, that take
Control, of all th smoke like streams that flow into yr
Dreams, that big blue open sea, that can't be
Crossed, that can't be climbed, just born
Between, oh th' two white lines, distant gods an' faded
Signs, of all those blinking lites, you had t' pick the one tonite…

Holes, dug by little moles, angry jealous
Spies, got telephones for eyes, come t' you as
Friends, all those endless ends, that can't be
Tied, oh they make me laugh, an' always make me
Cry, til they drop like flies, an' sink like polished
Stones, of all th' stones i throw, how does that ol' song go
how does that ol' song go…

Bands, those funny little plans, that never work quite right…

  
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