Disclaimer: I personaggi sono copyright
di Amano Akira.
Prompt: “Our souls will surely meet again” (Tabella)
Note: io dovrei seriamente smetterla
di scrivere della morte di questo pg. Mi uccide tutte le volte.
Perdono
per il ritardo: la sessione estiva mi ha letteralmente sfiancata e questa
raccolta ne ha pagato le conseguenze ^^”
Ad
ogni modo sarà sicuramente completata, anche se a intervalli irregolari.
Perciò, per chi legge, vedrete la fine, parola di Shichan u_u (che magari non
suona rassicurante, ma facciamo di sì, su.)
Ringraziamenti: a chi legge e chi commenta.
Nello specifico chi ha commentato il precedente capitolo Rocker 666 e pinkstone, e
Lambo556 che ha commentato in
separata sede <3
Lui, che muore
per vivere
Our souls will surely meet again
Gokudera
esce dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle e solo quando è certo che
quella superficie in legno nasconda ogni suo gesto ed espressione azzarda a
lasciarsi sfuggire un sospiro fra le labbra.
Yamamoto
è lì, se lo ritrova quasi di fronte: poggiato al muro attende in silenzio, le
braccia incrociate al petto.
Non
sorride; persino uno come lui, può avere quell’espressione lì.
Gokudera
la guarda, e stringe i pugni. Quell’espressione è quasi uno schiaffo che lo
sveglia, che sveglia tutti loro e dice che “è così che sta andando davvero”.
Accanto
a Yamamoto, Chrome ha lo sguardo che non nasconde la preoccupazione né la
maschera, al contrario di quello che gli altri Guardiani fanno – o tentano di
fare.
Cerca
palesemente qualcosa nello sguardo di Gokudera che scuote la testa, e si morde
il labbro inferiore – Yamamoto aggrotta appena le sopracciglia, arrabbiato e
comprensivo al tempo stesso, come solo lui è in grado di essere. Quasi sente
che tipo di pensieri stia facendo il Guardiano della Tempesta.
Le
parole che Gokudera pronuncia glielo confermano, anche se non ne avrebbe
davvero bisogno.
«Se
non riusciamo nemmeno ad evitare che si riduca a quel modo… perché siamo qui?»
Tsuna
lascia che Gokudera si congedi, cercando di assumere l’espressione più rassicurante
che gli riesce; sa fin troppo bene del vizio – che lui ha comunque sempre
considerato un pregio – del suo braccio destro di preoccuparsi eccessivamente e
costantemente.
Tuttavia,
tira un sospiro di sollievo quando finalmente la porta si chiude alle spalle
dell’altro.
Sposta
il peso indietro, sulla poltrona che è dietro la scrivania e lascia che la
schiena vi aderisca: le mani sono mollemente poggiate sul ripiano in legno, che
normalmente è pieno di scartoffie.
Per
un attimo al Guardiano del Cielo sembra di vedere i fogli ammonticchiati, e di
sentire Reborn che lo minaccia di muoversi a visionarli e firmarli se non vuole
ritrovarsi pieno di piombo per sopperire alla sua pigrizia.
Oppure
gli sembra quasi di sentire le proprie lamentele in proposito, parole come “ma
non ce la farò mai, sono una moltitudine!”, e puntualmente Gokudera che si
offre di aiutarlo almeno con i documenti che Tsuna può lasciare a lui. Yamamoto
di solito ridacchia divertito e si guarda bene dall’offrirsi al pari del
Guardiano della Tempesta – Tsuna non se la prende, sa che Takeshi non è affatto
portato per il lavoro d’ufficio, anni di decodificazione dei suoi rapporti
quasi illeggibili glielo hanno insegnato.
Gli
sembra di vedere Mukuro che in un angolo fa un sorrisetto divertito, perché
dall’alto del suo sadismo il Guardiano della Nebbia come minimo si sta
divertendo del terrore che Reborn con le sue minacce gli provoca; oppure Chrome
che copre educatamente la bocca con la mano per non dargli un dispiacere
facendosi notare nell’atto di ridacchiare divertita alla scena anche lei.
A
quel punto, di solito, mentre persino lui – Tsuna – torna un po’ bambino e fa
l’offeso arriva Ryohei che lo sprona a fare del suo meglio all’estremo, oppure
Hibari-san lo minaccia di morderlo a morte come fa dagli ultimi dieci anni a
quella parte sostanzialmente.
Persino
lui che il Boss mafioso non voleva farlo, in quei momenti si chiede perché mai
se è lui il capo lì, tutti alla fine non facciano altro che divertirsi alle sue
spalle e minacciarlo – ma l’attimo dopo, è lì che ride con loro in verità.
Le
mani stringono il bordo della scrivania e Tsuna si morde il labbro inferiore.
Non
ci sarà più nessun “niisan” a spronarlo, e nessuno a minacciarlo di morderlo.
Ed è
colpa sua.
Ha
due morti sulla coscienza.
Una
sorella è rimasta senza fratello maggiore.
E
Hibari-san, che nessuno potrebbe mai sconfiggere, giace immobile in una bara di
legno che non gli si addice.
Ed è
colpa sua.
Tsuna
per anni ha blaterato di non voler essere un Boss della mafia, di non voler
avere assolutamente nulla a che fare con quel mondo e quella realtà.
Lui
voleva restarne fuori, perché prima di molti altri e meglio di tutti loro aveva
capito che non era un gioco, non era motivo di orgoglio.
Era
solo andare a morire.
Tsuna
per anni ha piagnucolato, ha pensato che non fosse giusto; si è sentito in
colpa ogni volta che qualcuno dei suoi amici – che fossero ragazze, bambini o
persino gente che nella mafia ci era nata – si è avvicinato involontariamente a
quella cosa così spaventosa.
Lui
voleva solo fare lo studente delle medie prima e quello delle superiori poi,
magari andare ad un’università di poche pretese alla sua portata e provare a
realizzare un sogno, a prescindere da quale sarebbe stato.
Una
volta Tsuna si è silenziosamente arrabbiato con Reborn, quando non ne poteva
davvero più e voleva mollare tutto quanto senza “se” e senza “ma” a fargli
cambiare idea.
Tsuna
è cresciuto, e infantilmente forse desidera ancora di andare alle medie, poi
alle superiori e infine ad un’università di poche pretese alla sua portata –
anche se ormai è cresciuto, e non può fare nulla di tutto questo.
Se
ora si guarda le mani che prima pregava di continuare a proteggere le persone
care, ora ne vede un paio sporche di sangue.
Tsuna
ha la morte di qualcuno a pesare sulle sue spalle senza possibilità di chiedere
perdono.
Per
questo ora, mentre si alza e aggira la scrivania, ed esce dall’ufficio
ritrovando i suoi Guardiani – quelli rimasti – in corridoio e sorpresi di
vederlo, Tsuna ha un’espressione seria in volto.
C’è
una cosa in cui persino lui è cambiato.
C’era
una volta un ragazzino di quindici anni che scappava dalla morte per continuare
a vivere lontano da tutto quello che lo terrorizzava e lo minacciava.
Dieci
anni dopo, c’è un uomo che sta andando a trovare la morte per dirle che
avvicinandosi a lui ha fatto un grosso errore e che non importa chi si è fatto
suo ambasciatore: gliela farà pagare ugualmente.
Se
non lo fa, non riuscirebbe a vivere.
Sawada
Tsunayoshi non era mai stato portato per il senso di colpa.
Sente
il proprio respiro affannoso, i muscoli dolere un po’ per la fatica.
Non
ha fatto altro che allenarsi tutto il giorno, come se fosse tornato il
ragazzino incompetente che era, quello che se non veniva messo continuamente
sotto pressione da allenamenti impossibili non riusciva a rendere.
Si
piega appena su se stesso, le mani sulle ginocchia mentre la schiena si alza e
si abbassa e lui riprende fiato; qualche goccia di sudore cola lungo la tempia,
scendendo fino al collo e perdendosi nella stoffa della maglia che indossa.
Sulla schiena sente il tessuto aderirgli al corpo, quasi completamente
inzuppato.
È lì
da ore, anche se non serve davvero.
È li
da ore quando dovrebbe riposarsi, ora che sono palesemente in guerra, o che
qualcuno comunque mira a distruggere la sua Famiglia.
Ma
non riusciva a calmarsi, rimanendo seduto ad aspettare.
Quella
palestra a dire il vero è un supplizio: lì si sono allenati tutti insieme
almeno una volta – persino Hibari, anche se in realtà lui si stava allenando da
solo e tutti loro si sono aggiunti senza chiedere – e ovunque si giri c’è
qualcosa che somiglia ad un ricordo e lo distrae.
Occhieggia
la porta.
Prima
ha intravisto Gokudera sbirciare all’interno convinto di non essere visto e
lui, Tsuna, non gli ha detto nulla: ha immaginato che se gli avesse parlato, il
Guardiano della Tempesta avrebbe cercato di convincerlo a riposare almeno un
po’.
Ma
Tsuna adesso non vuole riposare.
Anche
se allenarsi non ha senso ha bisogno di muoversi.
Se
non si muove, non ha nulla da fare.
Se
non ha nulla da fare, pensa.
Se
pensa, gli tornano in mente sangue, sorrisi e morte.
…scuote
la testa, si lancia contro un nemico immaginario con tutta la forza che ha: i
muscoli gridano quasi mentre si tendono al massimo e le mani vengono avvolte da
quelle fiamme che non bruciano.
Non
può permettersi di piangere.
«Ecco,
questo era l’ultimo.» decreta Lambo mentre applica un cerotto sul dorso della
mano del castano, dedicandosi quindi a rimettere a posto la cassetta del pronto
soccorso. Tsuna apre e chiude la mano quasi a fare una prova, dopodiché gli
sorride in quel modo che è sempre stato in qualche modo “suo”.
«Grazie,
e scusa per averlo chiesto a te.» dice, osservando il Guardiano del Fulmine
sistemare la cassetta in un armadietto lì nella stanza ormai adibita ad
infermeria da anni.
Quando
si volta, Lambo incurva le labbra in un sorrisetto leggero e alza appena le
spalle: «Di nulla. È strano, ma non è un problema.» assicura.
«Strano?»
«Di
solito delle tue ferite, anche solo dei graffi, se ne occupa quello scemo di
Gokudera.» spiega meglio, e rimangono in silenzio per un po’.
Tsuna,
mentre si guarda le mani senza un reale motivo, sorride a quell’appellativo che
non è mai cambiato e al quale l’altro Guardiano risponde ancora con “scemucca”
come quando Lambo era un bambino.
Sorride
anche perché Lambo è ancora un po’ fifone, ma gli scontri e il tempo hanno
cambiato anche lui e il rapporto che aveva con tutti loro: ora è capace di
difendersi consapevolmente, è capace di mettere da parte il suo lato
capriccioso, ed ha persino rispetto per Gokudera – anche se ammetterlo è
tutt’altra questione.
«Non
voglio si preoccupi, sono appunto solo graffi.» ammette.
Lambo
rimane seduto di fronte a lui, come se ci fosse qualcosa che Tsuna deve ancora
dire e che lui ha in qualche modo percepito e per la quale sta quindi
aspettando pazientemente.
«Lambo,
ascolta» esordisce quindi Tsuna: «avrei bisogno di un favore da te. Dovresti
andare a recuperare un oggetto. Non è lontanissimo da qui: puoi fare questo per
me?» gli domanda.
C’è
agitazione tra le fila dei Vongola.
Il
nemico sembra aver calcolato perfettamente i propri tempi, riuscendo persino a
far sì che non coincidessero minimamente con quelli della loro riorganizzazione
interna.
Con
disappunto di tutta la Famiglia, i funerali non si sono svolti, e chissà quando
potranno iniziare.
Tsuna
è a definire qualcosa con Reborn, cosa assolutamente non da lui mentre i suoi
sottoposti stanno facendo ciò che è comunemente e grossolanamente definito come
“guadagnare tempo”.
I
Guardiani stanno guidando il resto della Famiglia in sua vece.
Nel
momento in cui un lato è rimasto scoperto, sono delle fiamme arancioni ad
evitare il peggio, inconfondibili per tutti loro e che riescono a suscitare un
sorriso sollevato mentre intorno imperversa una battaglia che li vede più vinti
che non vincitori.
Eppure
qualcosa decisamente non va, lo notano tutti e insieme nessuno, ed il primo a
dargli un nome è Gokudera molto probabilmente; ma forse, dopotutto, lo
capiscono tutti quando la figura di Tsuna rientra nel loro campo visivo.
Non
ha niente di formale il loro Boss, come sempre: anche stavolta, quando chiunque
del suo ruolo dovrebbe avere quel qualcosa nell’aura che si porta dietro a
distinguerlo, lui trasmette quella innaturale sicurezza che tutto andrà bene.
Anche
nel vestire, le maniche della camicia arrotolate fino ai gomiti come quando si
andava a scuola e la cravatta allentata come in un’uscita informale fra vecchi
amici, qualcosa li porterebbe quasi a credere che non sono davvero in guerra e
che è stato tutto un malinteso.
Da
sotto i guanti avvolti dalle fiamme si intravedono dei bendaggi che potrebbero
allarmare.
Poi
però, quel particolare che attira la loro attenzione più delle bende rende
tutto chiaro: al braccio sinistro di Sawada Tsunayoshi, una fascia rossa con
ideogrammi dorati e l’aria un po’ consunta fa abbassare lo sguardo a qualcuno.
Lambo
lo guarda: lui lo sapeva già.
Vorrei che
andassi da Kusakabe-san.
Lui dovrebbe
ancora averla:
la fascia di
quando Hibari-san era ancora nel comitato disciplinare.
«Juudaime…»
Tsuna
avanza a testa alta, una sicurezza che forse non ha mai ostentato
volontariamente come ora.
Non
fa vagare lo sguardo sui suoi Guardiani, e al tempo stesso li abbraccia tutti
insieme con uno solo.
L’attenzione
si focalizza però sui sottoposti della fazione nemica che, quasi sconcertati da
un arrivo che non si aspettavano, si sono fermati nel momento stesso in cui il
Decimo Boss dei Vongola ha fatto la sua apparizione.
Se li
contasse, Tsuna è certo che li troverebbe troppo numerosi per giustificarne
un’ipotetica morte.
Se
ora li guardasse uno ad uno e non nel loro insieme, catalogandoli come “nemici”
e niente di più, Tsuna ha la sensazione che una parte di sé – quella che Hibari
Kyoya ha sempre definito a suo modo troppo
buona – gli impedirebbe di fare quello che si è prefisso.
Non
ci è abituato, ma è per non vacillare come suo solito che ha indossato quella
fascia che era chiusa in un cassetto da tanti anni.
Nonostante
la gravità della situazione attuale, per un solo momento Tsuna si concede una
debolezza e si morde il labbro inferiore in un gesto quasi dimenticato; forse,
se non ci fosse stato lui, Hibari-san ora sarebbe a fare chissà quale lavoro e
un suo ipotetico figlio verrebbe cresciuto per essere un giorno come suo padre,
magari anche lui a capo del Comitato Disciplinare.
Stringe
i pugni perché non ci sarà mai nessun figlio di Hibari Kyoya.
Cosa? No, non mi
serve per il funerale.
Prima… voglio
usarla per andare in battaglia.
Voglio che ci
sia anche Hibari-san.
Lambo, secondo
te si arrabbierebbe,
se sapesse che
la prendo in prestito?
Mentre
sembrano tutti forzatamente in una situazione di stallo, più di qualcuno
capisce.
Le
bende non sono per delle ferite.
Quelle
fasce bianche che sicuramente coprono anche i pugni sebbene nascoste dai guanti
che Tsuna usa come arma, hanno lo stesso significato di quella fascia estranea
alla sua figura che è sul braccio sinistro.
Probabilmente,
se denudassero interamente le mani e controllassero, scoprirebbero che le bende
sono messe nello stesso identico modo in cui le teneva anche Sasagawa Ryohei.
In
realtà nessuno se ne stupisce davvero, quasi come se tutti in fondo se lo
aspettassero.
Tsuna
è quel tipo di persona, lo è sempre stato: si carica del peso di tutti, lo
rende suo, lo poggia sulle proprie spalle e continua a camminare. Ogni tanto
vacilla, barcolla un po’ quando si fa così pressante da minacciare quasi di
spezzargli la schiena.
Tsuna
si morde appena il labbro inferiore, abbassa la testa per riprendere fiato
qualche istante, poi torna a camminare. Lui non ha mai chiesto aiuto, in
quello.
Non
ha mai permesso a nessuno di farsi carico di quella responsabilità che sentiva
solo sua.
Non
ha mai permesso a nessuno di sfiorare le sue spalle abbastanza a lungo da
percepire quel peso; lui ha semplicemente chiesto scusa tante volte perché
sapeva di far preoccupare gli altri, e poi aveva continuato a tenere tutto
sulle spalle perché altri modi di chiedere perdono per i peccati che rendeva
suoi non ne conosceva.
Non
erano poi veri peccati, o forse lo erano ma non da addossare completamente e
totalmente ad una sola persona.
Ma
Tsuna, queste cose che tutti gli ripetevano, non le ascoltava mai.
Egoisticamente,
diceva lui; forse, non era tanto errato.
I
Guardiani sono troppo impegnati nella battaglia per potersi davvero permettere
il lusso di guardare unicamente il loro Boss per tutto il tempo.
D’altra
parte i movimenti sono così veloci, che non potrebbero nemmeno volendo forse.
Con
la coda dell’occhio o con gli sguardi fugaci che riescono a lanciargli mentre
combattono, vedono solo una scena che si ripete da un avversario all’altro:
veloce e preciso si muove fra i corpi – vivi o morti – di nemici di cui
probabilmente guarda il viso il tempo necessario a riconoscerli e niente più.
Colpisce,
ma mai in maniera letale e Dio solo sa se quello non sia un errore; è Reborn a
coprirgli le spalle più possibile, perché è il più vicino.
Sawada
Tsunayoshi sta cercando qualcosa nel caos di un campo di battaglia dove balla
la morte.
Cerca
qualcosa, ma non è solo la vendetta.
Scorge
qualcuno, aumenta la velocità, e come se questo fosse un muto cenno concordato
in precedenza i Guardiani si muovono quasi all’unisono, mossi da un filo
invisibile.
Quasi
frettolosamente si liberano dell’avversario più pressante per poter voltare lo
sguardo.
Tsuna
si spinge in avanti.
C’è
un urlo fra le urla che riempiono quel campo di battaglia, l’odore di morte e
sangue si fa più forte di un po’, solo un po’.
Un
morto in più.
Se è così che
doveva finire… perché?
Perché devono
esserci dei Guardiani, Reborn?
Per essere il
Boss dei Vongola,
il requisito
necessario è forse essere il carnefice delle persone importanti?!
Non era nata per
proteggere,
questa
Famiglia?!
No.
Sono
due.
«Juudaime!»
Non
esistono nella realtà cose che rispecchino le frasi fatte dei libri come: “il
tempo sembrò fermarsi” o “sentirono gelarsi il sangue nelle vene”.
Un
urlo di solito non è “agghiacciante” nel senso proprio del termine.
Non è
vero che “le parole trafiggono come lame”.
Però…
però…
«Juudaime!
Juudaime!»
«Gokudera-kun…
mi stai rompendo i timpani così…»
È una
replica debole mentre sorride.
Gokudera
lo tiene tra le braccia quasi col terrore di potergli fare male, incurante del
sangue che sgorga troppo in fretta e troppo copiosamente.
Sente
i pantaloni umidi, caldi, appiccicaticci; lo stesso per il braccio che passa
dietro le spalle di Tsuna.
«Hayato,
portalo via!»
«Lo
so, cazzo, lo so!»
È nel
panico più totale, mentre gli altri Guardiani guadagnano tempo per lui.
Si
guarda febbrilmente intorno, alla ricerca di un fottutissimo posto in cui
mettere al sicuro il Decimo.
«Gokudera-kun…?»
Lo
sente che gli tira la manica, e lo sguardo è istantaneamente su di lui; non c’è
traccia dell’espressione di un uomo che è divenuto il degno braccio destro del
Boss dei Vongola.
Quello
è solo… un bambino terrorizzato.
«Ho
delle cose… da dirti. Mi ascolti?»
Annuisce,
ma continua a guardarsi intorno: deve esserci un punto al riparo, deve, deve,
deve.
«Pensavo
che… se sporco di sangue la fascia di Hibari-san, potrei rischiare seriamente
un attentato alla mia vita appena ci rivediamo. Puoi… toglierla?» mormora con
un sorrisetto che è la replica esatta di quando, quindicenne, l’idea di un
Hibari arrabbiato con lui non era esattamente confortante.
Gokudera
esegue come meglio può, con l’unica mano libera che non sorregge il corpo
ferito dell’altro.
«Grazie…»
«Juudaime,
non serve parlare, può dirmi tutto dopo!»
«A
me… dispiace sai? Sono un Boss che più che altro è un impiastro. Anche… a
distanza di anni, eh?» lo dice ridacchiando, e mentre lo fa tossisce e sputa un
po’ di sangue.
L’espressione
sofferente in corrispondenza dei colpi di tosse lascia ad intendere che il
corpo non apprezza tutto quel movimento.
Gokudera
guarda il viso, ora il corpo.
Non
riesce a fermare il sangue.
Scorre,
scorre, scorre e lui lo guarda e non riesce a fermarlo in alcun modo.
Fa…
tremendamente paura.
«Non
è affatto vero, Juudaime!» assicura, anche se il tono è incrinato.
Non è
per incertezza delle proprie parole, però.
«Gokudera-kun…
mh. Hayato.»
Non
pensava che avrebbe mai pregato di non essere chiamato per nome proprio da
Tsuna.
Però
lo sta facendo.
«Di
solito non mi piace… affidarti qualcosa che faccio io, ma… mi servirebbe un
favore.» ammette, osservandolo anche se lo sguardo vaga un po’ sul viso.
Il
Guardiano della Tempesta deglutisce: da quando avverte l’impulso di piangere
come una femminuccia?
«È
che… sei l’unico a cui lo posso chiedere.»
«V-Va
bene, Juudaime.»
«Dovresti,
per un po’… prenderti cura degli altri.»
Perché
proprio a lui, una condanna come quella?
«Chrome
piangerà un po’. Mukuro… lui si arrabbierà perché l’ho fatta piangere. Lambo e
I-Pin sono… giovani. Fuuta lo stesso. Kyoko-chan e Haru… loro piangeranno
tanto. E a Kyoko-chan dovrei… chiedere scusa. Per Ryohei. Non l’ho ancora…
incontrata da allora. Dovresti… dire a Bianchi di occuparsi delle ragazze. E…
aiuta Takeshi per favore. Lui cerca di… essere come Ryohei ora che lui non c’è.
Però Takeshi avrà bisogno… di una spalla. Lui sorride ma poi… ha davvero
bisogno di potersi arrabbiare ogni tanto. Poi starà meglio. E tu, Hayato… non
mostri mai le preoccupazioni che hai, specialmente a me… però con Takeshi sì. E
allora… datevi una mano fra di voi, mh? Solo… per un po’.»
È
questo che fa un braccio destro?
Per
la prima volta, Gokudera Hayato sta odiando tutto quello: la mafia, il suo
ruolo e se stesso.
Si
sforza di sorridere.
Il
Boss dei Vongola non ha bisogno di un braccio destro che gli dà ulteriori
preoccupazioni.
Che
se ne fa, Tsuna… di un amico così?
«Va
bene, ma… lo hai detto, giusto? È solo per un po’. Finché non sarai guarito.»
Gli
dà del tu per la prima volta.
Non
dovrebbe. Sembra quasi credere che sia l’ultima volta che parlano, e non è
così.
Non è
così. Vero?
«Solo
per un po’… finché non ci incontriamo di nuovo, Hayato.»
Sorride
flebilmente e la voce è solo un sussurro ormai.
«Ohi…
sembra più… un testamento, Juudaime. Non è divertente. Non parlarmi come se mi
stessi dicendo a voce le ultime volontà prima di morire, che diamine.»
Uno
sbuffo che dovrebbe essere una risata.
Chiude
gli occhi, e si rilassa appena fra le braccia dell’altro.
«Hayato,
ma… io sto morendo. È questo che sta… succedendo.»
Le
parole non “danno la nausea” davvero, letteralmente.
Eppure
Hayato sente di non stare bene affatto.
«Non…
riesco a vedere.»
«Cosa?»
«L’assassino
di Ryohei… non lo vedo.»
«È a
terra. È… morto.»
«Hayato…
piove?»
Si
morde un labbro per non singhiozzare.
Non
vuole che Tsuna pensi che è colpa sua, se persino uno come lui piange.
Ha il
tono di quando sorride, quando gli risponde.
Ma
non è affatto felicità.
«Sta
iniziando… a piovere, sì.»
Solo… finché non
ci incontriamo di nuovo.