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Autore: ISI    13/10/2010    2 recensioni
"Mi passai le mani sulla faccia per poi ficcarmele tra i capelli, ogni singolo muscolo del mio corpo scosso da un tremito che, ne ero sicuro, un giorno avrebbe finito per contrarmi tanto e tanto forte il cuore da farmelo scoppiare.
“Se spera che io faccia davvero ciò che voleva l'uomo che l'ha accompagnata, allora, può benissimo girare sui tacchi e fare dietro-front: mi è bastato l'Afghanistan per giocare a fare l'assassino e sinceramente non ne ho più alcuna voglia, quindi...” ma prima che potessi finire quella minacciosissima frase la ragazza scoppiò il lacrime ed esausta quanto me, senza più un briciolo di forze in quel suo corpicino magrissimo e scarno che un'indesiderata maternità aveva reso leggermente più morbido, si lasciò scivolare piano lungo la parete dell'ingresso."
Genere: Avventura, Azione, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Dall'altra Parte


Si guarda intorno sospettosamente e poi esce allo scoperto...

Pensavate di esservi liberate di me, non è così?!

E invece no, sono ancora qui, ma la concomitanza di una serie inimmaginabile di novità e catastrofi e anche catastrofiche novità ha rischiato di spazzarmi via... la ciliegina sulla torta è stato il trojan (il virus) che mi ha fatto “bubusettete” un giorno in cui riaccendevo il pc dopo settimane di astinenza da questo...

Volevo anche scusarmi con Bellis e con Nonnapapera, ma anche con tutti gli altri per tutto quanto riguarda il contest su Sherlock Holmes ed i Beatles, del quale saranno presto annunciati tutti i dati necessari nell'apposita discussione...

Spero davvero che possiate perdonarmi, ma tutto quello che è successo non è davvero dipeso dalla mia volontà, anche perchè se così fosse sarebbe molto preoccupante...

Pregando che possiate aver pietà dell'anima mia vi lascio al quinto capitolo di “Dall'altra parte”...

Ma prima un enomre grazie ad

-Alchimista: Ah! Sono di nuovo rimasta indietro con gli aggiornamenti, ma ancora peggio, mi sono persa i tuoi di aggiornamenti e quelli di Anne London! Ma adesso è giunto il momento di rimettersi in pari, quindi volo a leggere il contenuto del messaggio cifrato!

-Anne London: Ce l'avrà fatta la piccola Christine a tornare nel suo tempo o avrà scelto di rimanere al 221/b di Beker street per mettere al mondo la prole di Holmes? Sarà sbocciato l'amore con l'algido investigatore oppure dobbiamo segnare un altro punto a favore di Watson, che ha già fatto strage di mille e mille cuori? Non lo so, ed è questo il problema, schizzo a leggere tutto quello che è successo o morirò di curiosità!

Grazie anche a Bellis e a Sihaya10!

E ora, a tutti voi, buona lettura!


Capitolo V – Vecchi demoni, vecchie ferite


Dalle memorie del dottor John H. Watson


Mi bloccai sull'uscio immobile, le mie iridi si dilatarono per l'incredulità, mentre un senso di gelo si diffondeva veloce tra tra le mie carni, correndo sottopelle come un agghiacciante e tacito brivido, scivolando pian piano sino alle ossa, intorpidendo i muscoli, desensibilizzando i nervi, sfiorando, come in un'atroce carezza i più esili tra i capillari.

“John, cosa diavolo fai lì impalato, cosa aspetti, vieni a darci una mano, avanti!” mi urlò allora Silvio, ma ad onor del vero, devo ammettere che quasi non lo udì neanche e la sua voce mi arrivò lontana come una eco sbiadita, trascorso troppo tempo a rotolare da una roccia all'altra, da un cielo all'altro.

“John, santo cielo, ti ha dato di volta il cervello? Vieni qui, aiutaci, questo uomo sta per...” altre parole al vento, altre parole che in seno loro portavano una grave svista perchè quell'uomo non stava per quell'uomo, ormai, aveva già compiuto l'ultimo fatale passo verso il baratro, spinto da una mano sconosciuta quanto ignobile.

Ormai non c'è più nulla...

Quante volte nella veglia e nel sonno, che gli occhi miei fossero aperti o chiusi, quell'incubo mi aveva assalito con le sue immagini raccapriccianti, con i suoi osceni particolari?

Quante, quante volte nella mia fantasia avevo visto quell'espressione folle deformargli il volto dagli occhi spalancati, rivolti all'indietro,alle nere case di Ade, immemori del sole e della sua luce e le labbra contratte, ricoperte di schiuma, a guisa delle fauci di un cane rabbioso?

Quante volte Holmes era moto a quel modo, portato via dalla sua cocaina, strappato alla vita da una siringa, tra le braccia delle mie paure più grandi?

Da fare.

Smettetela...”mormorai appena, mentre lo stomaco, chiuso all'inverosimile, mi si contorceva doloroso come una serpe in seno “E' morto.”

Pensavo di aver visto tutto, ma quando la mia attenzione si posò su quell'indizio, lasciato lì in bella posta solo ed esclusivamente per me, fu allora che provai una tra le sensazioni più sgradevoli e disgustose della mia intera esistenza e dovetti rimanere esangue in volto, mentre le rapide stille dei sudori freddi mi attraversavano le tempie tremanti, perchè sia Henry che Silvio, una volta lasciato perdere, come avevo detto loro di fare, il vecchio bibliotecario e voltatesi nella mia direzione mi si avvicinarono piano, tendendomi entrambi una mano, sconcertati per quella mia tanto tacita, quanto incomprensibile reazione.

“Hey, John... hey, amico mio, ti senti bene?” mi domandò il rosso, scambiando un'occhiata preoccupata con il moro che tacque, fermandomisi silenziosamente accanto.

“Quella...” balbettai a stento, deglutendo a vuoto ed indicandogliela con un debole cenno del capo “Quella era la siringa di Holmes... la siringa della cocaina...”

“Aspetta, 'ome puoi esserne 'osì sihuro?” intervenne l'italiano insinuando un dubbio che per quanto lecito fosse non aveva la benchè minima ragione di esistere “Ci sono tanti tipi di siringhe, e per quanto alcune possano essere simili a 'odeststa ve ne sono anche alcun'altre di molto diverse, può darsi 'he tu sia in errore, può dar si 'he...”

E mi sarebbe piaciuto potergli dare ragione, ma quella volta non potei... quella volta non potei proprio.

“Quell'astuccio di marocchino...” cercai di spiegargli, ma le parole di colpo mi morirono in gola, quando d'un tratto, superato lo sbigottimento di quell'attimo d'assoluta incredulità il circuito di quel caso nel caso si chiuse, almeno in parte, e realizzai che la cosa era più grave di quanto, fino ad allora, non avessi voluto ammettere.

“Henry, per l'amor di Dio, svelto, prendi quella la siringa, riponila immediatamente in quell'astuccetto di marocchino e dammelo: dobbiamo correre a Baker Street, non abbiamo un secondo da perdere!” e detto questo tirai il lenzuolo che l'avvolgeva sin oltre il volto del vecchio bibliotecario e mi precipitai, con in mano l'arma del delitto, nei corridoi, ancor per poco deserti, del Saint George, seguito dai miei due fedeli soci.

Non so per quanto tempo corsi prima di riuscire a fermare, quasi buttandomici sotto, una carrozza di piazza, facendo venire un mezzo infarto al povero vetturino di turno, già sufficientemente provato dalla stanchezza per la gelida notte passata insonne, ma ricordo che quando riuscì, con un balzo di quelli felini che mi sarebbe costato dolori atroci alla schiena per giorni e giorni, a metterci piede avevo i polmoni in fiamme ed il cuore che minacciava di schiantarmi nel petto, mentre a fatica reprimevo i conati che mi stavano contorcendo le viscere.

Holmes l'avrebbe prevista una cosa del genere...” mormorò d'un tratto una vocetta nella mia testa strappandomi un sussulto che pur essendo andato a confondersi con la confusione provocata dal vorticare delle ruote della nostra vettura, non sfuggì agli occhi vigili degli amici.

“Vedrai, staranno bene...” cercò di tranquillizzarmi Henry con una bonaria pacca sulla spalla, così come Silvio, ma dai loro sguardi adombrati, dai loro sorrisi forzati senza la benchè minima esitazione si deducevano le loro paure, i loro dubbi a proposito.

La carrozza d'un tratto prese a rallentare e prima ancora che potesse fermarsi del tutto ne ero già fuori, completamente incurante del fatto che avessi lasciato ai miei due colleghi l'onere di pagare il povero vetturino.

Come avevo immaginato trovai l'uscio aperto e non appena varcai la soglia del salotto la disperazione più nera mi travolse lasciandomi quasi senza fiato: tutti i mobili erano stati scaraventati da una parte e dall'altra, i cassetti aperti, frugati, svuotati a terra di tutto il loro contenuto, le piccole vetrine tanto amorosamente spolverate dalla padrona di casa ridotte in mille pezzi e neppure la pendola aveva trovato scampo dall'indicibile violenza che s'era scatenata tra quelle quattro mura.

“Signora Hudson!” urlai volgendomi freneticamente da una stanza all'altra senza una mèta ben precisa, quando d'un tratto, per poco, non mi ritrovai faccia a terra.

“Sta attento John, non muoverti!” mi ordinò d'un tratto Silvio ed io mi bloccai e guardando sotto, o forse sarebbe meglio dire accanto, ai miei piedi scorsi con orrore l'esile profilo di una caviglia: tutto il resto di quelle membra giaceva inerte sepolto sotto un'indicibile orda di fogli e scartoffie un tempo proprietà dell'ormai defunto detective, con il quale avevo condiviso i migliori anni della mia vita.

“Mi occupo io di Eleanor!” scattò immediatamente il Roccaverde, disotterandola da quello scartafaccio, portandole subito indice e medio alla giugulare costatando senz'ombra di dubbio, il suo orecchio al petto di lei, che era ancora viva “Ci penso io a lei, ma tu, per l'amor del cielo, ritrova la piccola Roxanne, perché giuro che se dovessero averla catturata... se dovessero essersi rifatti su quella creatura innocente io li ammazzer...”

“Trovata la signora Hudson!” esclamò Henry di punto in bianco dalla cucina interrompendo il ringhiare tutt'altro che minaccioso, quanto più profetico, dell'italiano “Tranquilli, stava giocando a fare la bella addormentata, ma non credo che s'io fossi anche tanto ardito e sfacciato da baciarla potrei in qualche modo smorzare gli effetti del cloroformio...” e con fatica lo vidi comparire sull'uscio della stanza con la donna sottobraccio, quindi scattai in piedi anch'io e mi diressi verso le scale.

Con i polmoni in fiamme e la gola secca scalai i gradini due a due, un po' aggrappato al muro un po' alla ringhiera, ritrovandovi innanzi lo stesso identico caos che mi ero lasciato alle spalle.

Presi ad aprire porte e a guardare sotto i letti; a frugare tra le cianfrusaglie ed i ricordi arrabattati di qua e di là; rivoltai a terra quel poco che i nostri tanto sgraditi quanto sconosciuti ospiti avevano lasciato all'interno di mobili e cassapanche; mi immersi nell'immane mescolanza di abiti, libri, fogliacci, cocci e chi più ne ha più ne metta che aveva inondato il pavimento per uscirne a mani vuote, sconfitto nell'animo e nel corpo, scosso da una frenesia nervosa che parve congelarsi solo allorquando mi ritrovai immobile davanti alla porta della sua camera...

La camera di Holmes.

La mano tesa, quasi incartapecorita, sciolto quell'atroce sentimento, si accasciò tremante sulla maniglia e la stanza in cui da tempo non aveva più neanche osato mettere piede mi si dischiuse innanzi.

Lei non c'era.

Holmes avrebbe previsto tutto questo!” tornò allora la voce nella mia testa a farsi viva per torturarmi. Come un tarlo nel cervello la consapevolezza della mia schiacciante inferiorità rispetto a quello che era stato il mio coinquilino mi consumava corrodendo tutte le mie forze e le mie convinzioni, mostrandomi la mia più che lecita sete di verità come la sciocca ostinazione di un folle e tutti i miei tentativi di miglioramento, in qualsiasi campo essi vertessero, come il peregrinare frenetico ed insensato di un ratto cieco.

Lui non avrebbe permesso a chicchessia di far loro del male, anche solo di torcere loro un capello... Lui li avrebbe protetti... avrebbe portato qui il vecchio bibliotecario, l'avrebbe sistemato in una stanza ed avrebbe lasciato qui qualcuno di abbastanza forte ed abbastanza fidato da poter proteggere mentre lui scompariva per seguire, come fanno tutti i buoni segugi, la pista o forse no, forse gli sarebbe bastato starsene mezz'ora seduto sulla sua poltrona preferita, in perfetto silenzio, i polpastrelli delle dita giunti e la pipa di gesso fumante come una ciminiera tra le labbra, per poter giungere ad una conclusione più che ovvia che, come le più semplici e basilari delle cose, io non avrei mai concepito, neppure lontanamente.

Discesi gli scalini lentamente, uno per uno, la destra stretta al corrimano come se da un momento all'altro le mie ginocchia avessero dovuto abbandonarmi e sciogliersi come quelle degli antichi eroi greci, cosa che fu provvidenziale, allorquando la mia vecchia ferita, che già s'era fatta sentire strappandomi più di qualche tacita imprecazione, mi costrinse ad accosciarmi lì, contro la balaustra, seduto, agonizzante come poche volte in vita mia lo ero stato e non solo per quel liquido scarlatto che quasi con disgusto, nonostante io fossi un medico, vidi affiorare dalla stoffa dei miei pantaloni.

Miliardi di pensieri mi affollavano il capo, alcuni erano come sussurri, altri come grida, taluni avevano il tono della derisione, tal altri suonavano più sinceramente disgustati del mio fallimento e in tutta quell'enorme confusione, il cui sottofondo era quel bel dilaniarsi delle carni del mio polpaccio io di una sola, terrificante cosa avevo l'inconfutabile certezza: chiunque fosse entrato nel 221/b di Baker Street ora aveva tra le proprie, viscide, e, vogliate passarmi il francesismo, schifose mani, la piccola Roxanne.

Costui l'avrebbe utilizzata per i suoi sporchi comodi e la causa di tutto ciò altro non era stata che la mia stupida ostinazione nel voler inseguire vecchi demoni ormai morti e sepolti quando già di nuovi ormai mi davano bella mostra del loro profilo ferrigno nella tenue dolce luce dell' incoscienza.

Già in essa avevo preso a scivolare quando dallo studio una voce conosciuta, incrinata dal pianto e dallo sgomento, una voce di donna, una voce di madre, si levò gridando il nome della propria prole e fu in quell'attimo che desiderai più d'ogni altra cosa d'esser morto, raccolto tremante tra le ombre chiare sulla bagnarola di Caronte, scelto il mio castigo dalla coda del giudice di tutti i giudici.

Che cosa le avrei detto?

Come le avrei spiegato?

Con quali parole avrei potuto mai...?

“Tana pe' i' dotto' Watton!”

Furono queste le testuali parole che, pronunciate con tono allegro dalla sua vocetta argentina ed esuberante, dettero il colpo di grazia ai miei poveri nervi scossi, tanto che mi ritrovai a sobbalzare spingendomi addietro, salendo almeno un paio di scalini da seduto e piantandomene, con sommo dolore, uno nel bel mezzo della schiena.

Innanzi ai miei occhi, più che mai sgranati, la sua figurina vivace e sorridente tentennava leggermente, un po' per la più che acerba età, un po' per la candida camicetta da notte di lana piuttosto pesante, a causa del freddo che certe volte neppure le fiamme del camino riuscivano a debellare, ed ingombrante che ne minava non poco il già precario equilibrio.

“Mi lasci!” strillò Eleanor e la vidi comparire nel corridoio, mentre cercava di divincolarsi dalla presa in cui l'aveva bloccata l'italiano, avendo ritenuto questi, da buon medico, che la donna fosse ancora troppo debole per potersi alzare e per poter camminare “Mi lasci!” urlò ancora lei e come la disperazione spinge a fare molti passò dalle parole ai fatti, lasciando sul volto del Roccaverde i segni delle proprie unghie, facendogli così male da costringerlo a liberarla.

La madre, in lacrime, corse dalla bambina stringendosela forte al seno e, quasi, raggomitolandosi attorno ad essa proprio là, nel bel mezzo del corridoio, incurante della nostra presenza, dei nostri sguardi, perchè nulla per lei, neppure la sua stessa vita, neppure il suo stesso onore, sarebbe valso più di chi stringeva tra le sue braccia.

Con passo cauto, il più cauto di tutti fu indubbiamente quello di Silvio, i miei due colleghi mi si fecero incontro ed una serie di muti sguardi sconvolti fu l'unica cosa che riuscimmo a scambiarci per un qualche non ben definito istante, ma alla fine Henry trovò il coraggio, o forse la forza, viste le condizioni in cui tutti versavamo, di spezzare quell'angosciante silenzio.

“La bambina sta bene?” mi domandò Henry più per scrupolo che per altro, avendo potuto benissimo vedere da sé che l'adorabile creaturina, senza neanche l'ombra di mezzo graffio addosso, si faceva coccolare dalla mamma, allegra perchè inconsapevole come solo possono esserlo gli stolti ed i bambini, della gravità di ciò che era accaduto, di quanto, effettivamente, avesse rischiato.

Provai a rispondergli, ma d'un tratto, come se fossi uscito dal mio corpo, come se in un qualche strano modo per quegli interminabili attimi avessi perso il contatto con esso e mi fossi ritrovato solo in quel preciso istante a rientrarvi a guisa di uno sconosciuto, ecco che solo allora mi accorsi di essere rimasto senza fiato, senza voce, quasi senza più né sangue, né lacrime, asciutto di ogni mia forza e d'ogni mia volontà.

Mi limitai ad annuire.

“E tu stai bene?” ecco un'altra domanda difficile: anche a quella avrei voluto far segno di sì, ma ponderai che forse sarebbe stato meglio dire le cose come stavano e come a tutti i lì presenti erano più che palesi, quindi scossi il capo ed i miei occhi sgranati vagarono sofferenti dall'uno all'altro dei miei amici, soffermandosi sulla faccia stravolta del rosso e sulla guancia destra, insanguinata di Silvio.

“Dobbiamo darci una calmata.” asserì secco quest'ultimo, il volto funereo, la sopracciglia destra che tremava incontrollabilmente, l'orgoglio ribollente d'italiano, che a torto, nella confusione dell'attimo, dedussi lacerato “Henry, metti su il tè e apri quella bottiglia di brandy di cui, per l'appunto, ci stava parlando John qualche ora fa.” ordinò al rosso come fosse a casa sua, prendendo in mano una situazione che io non avrei saputo da che parte cominciare a rimettere in sesto “credo che ne avremo un gran bisogno, io intanto prendo la morfina e do una ricucita a questo gentile paziente prima che mi muoia dissanguato sulle scale...”

Il consiglio dell'italiano fu forse il più saggio della serata ed era ormai giorno pieno quando ci ritrovammo tutti faccia a faccia, tutti più o meno tranquillizzati e o rammendati, tutti desiderosi di saperne di più su cosa fosse accaduto.

“La piccola Roxanne non voleva proprio saperne di dormire...” cominciò la signora Hudson torcendosi le mani in grembo e prendendo a rabbuiarsi ad ogni parola che pronunciava “Avendo riposato tutto il pomeriggio non voleva saperne di prender sonno e dato che questa giornata non aveva provato, almeno fino a quel momento, s'intenda, neanche noi due decidemmo di impegnare in qualche modo il nostro tempo, così, anche con l'intento di stancare la piccola per poterla mettere sotto le coperte ci siamo messe a fare dei biscotti tutte assieme... Roxanne sembrava ormai sul punto di crollare quando, una volta infornati i biscotti, si è ripresa miracolosamente e a cominciato a dire che voleva giocare a nascondino! Per quanto Eleanor abbia cercato di farla ragionare, di negarle quel piccolo, alla fine ingenuo, svago, vista l'ora tarda che s'era ormai fatta, ditemi voi come si può dire di no ad una faccetta come quella... Io non ci riesco proprio a dirle di no, sapete? Eleanor dice che gliela vizio, ma io le rispondo sempre che questo è il compito di tutte le nonne che si rispettino e perciò...”

“Aspetti, signora Hudson, aspetti un attimo...” fui costretto ad interromperla allora “Non è che trovi noioso o inutile quello che ci sta dicendo, ma non è che potremmo, come dire... non è che potremmo tornare al discorso originario?”

“Oh? Oh, accidenti a me, vogliate perdonarmi, ma sono ancora così confusa, così sconvolta! Dov'ero arrivata, dunque? Ah, sì, a quando io ed Eleanor, una volta sfornati i biscotti, ci siamo messe a giocare a nascondino con la piccola... da qui in poi poco rimane da raccontare, dato che mentre cercavo quella peste ho sentito solo una mano premermi sulla faccia ed un odore nauseabondo e poi... poi più niente... non ho neanche avuto il tempo di realizzare che cosa stesse accadendo...”

“Q... quindi...” balbettai incredulo e più che grato alla benevolenza della sorte “Roxanne si era nascosta nel sottoscala ed è stato solo per questo che i farabutti che sono entrati questa notte non l'hanno presa...”

“Ma avrebbero potuto benissimo prendere in ostaggio la signorina Eleanor!” sbottò d'un tratto Silvio, allontanando immediatamente il proprio sguardo da quello della donna e parlando, con cipiglio sospetto, come se lei non fosse lì con noi, nella stessa stanza, in braccio la bambina finalmente addormentatasi.

“E' vero... Avrebbero potuto prendere lei, ma non l''hanno fatto...” ci tenne a sottolineare l'ovvio Henry “Che senso ha? Nessuno mette su una cosa del genere per poi fermarsi a metà dell'opera...”

“Forse qualcosa li avrà interrotti...” lo precedetti io in quella rapida , quanto azzardata deduzione “Forse qualcuno o qualcosa li avrà risolti a darsela a gambe... qualcosa o qualcuno che non avevano previsto...”

“Una domanda veramente senza risposta è tuttavia un'altra...” esalò la signora Hudson immergendo uno dei famosi biscotti nella sua tazza di tè “Perché anche sforzandomi di capire, davvero non mi riesce di comprendere che cosa stessero cercando quei manigoldi... nulla o poco più di nulla vi è in questo posto di valore e quindi...”

“La ringrazio signora Hudson, il suo resoconto è stato più che esaustivo...” asserì sbrigativo troncando di netto il suo ragionamento e senza volgermi verso pregai le signore di andare, vista la nottata passata a riposarsi un poco, giacchè alla loro colazione e alla nostra avremmo pensato noi.

Fu difficile persuadere la padrona di casa ad abbandonare i suoi doveri, specialmente con tutto il disordine che i nostri sconosciuti visitatori avevano sparso per tutto l'appartamento, ma le parole di Henry riuscirono infine a dissuaderla, cosicché rimanemmo finalmente soli.

Il rosso mi fissava con curiosità, mentre l'italiano, pallido in volto come un morto, con la mascella contratta e la guancia destra ancora rigata di sangue, si volse a guardarmi invece solo in un secondo momento, solo dopo che dal suo punto di vista furono scomparse le due signore del 221/b di Baker Street.

“Dove l'avevi nascosta?” mi chiese infine quest'ultimo ed io mi volsi al mio vecchio e fido bastone.

  
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