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Autore: SweetKaaos    20/10/2010    3 recensioni
Rientrai nella stanza, chiedendomi come poteva un semplice uomo alterare – se non demolire – l’intero mio modo di pensare e vivere. Forse era l’inquietante pensiero che si stava formando nella mia testa a turbarmi? Che anch’io avessi un cuore e che la mia teoria fosse vera? In tutta onestà, sì: la stavo testando sulla mia pelle: l'amore è un'emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al di sopra di tutto.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Violino'
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Un ringraziamento a Hikaru Ryu per avermi aiutato nell'adeguare i termini al periodo *_* E' una vera enciclopedia portatile quando si parla di questi due!

Mi sono accorta che questa storia è praticamente un seguito de "Il violino" e quindi ho deciso di metterle tutte in una serie con titolo, ovviamente, "Violino" ^-^

Buona lettura!
Elly


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“Per l’amor di Dio! Watson, si fermi!”

La voce dell’ispettore Lestrade attirò immediatamente la mia attenzione. Avevo appena finito di legare uno dei due aggressori con uno dei tendaggi strappatosi nella colluttazione, quando mi ritrovai a volgere il capo in direzione del mio collega. Tenendo fermo quell’uomo con il mio ginocchio puntato tra le sue scapole ed una mano sulla testa, osservai sconvolto la faccia irosa del mio amico, le nocche delle sue mani ricoperte di sangue – lo stesso sangue che scorreva sul viso dell’altro aggressore.
Mi misi immediatamente in piedi e corsi verso Watson, afferrandolo per le spalle e stringendolo subito dopo al petto, così da bloccare nella mia morsa le sue braccia e il suo busto.

“Mi lasci!”

“Si calmi, dottore.”

Non appena parlai, il mio fedele Boswell s’irrigidì e tremò violentemente contro di me. Non avevo idea di che cosa gli fosse successo, ma mi era palese che non stava affatto bene, ed ebbi il terrore che i suoi nervi stessero iniziando a ribellarsi allo stile di vita a cui l’avevo imposto dal primo giorno che c’incontrammo. Forse era arrivato il momento di liberarlo dalla mia presenza nociva…

“Lo porti via.”

La voce di Lestrade mi strappò da questi miei timori e subito trascinai Watson nella sua stanza. I due uomini erano entrati nel nostro appartamento, al 221b di Baker Street, intrufolandosi fino alla mia camera da letto. Posso supporre che fossero stati ingaggiati da qualcuno a cui la mia presenza in questa città non fosse molto gradita. Non mi soffermai molto – anzi, proprio non persi alcun secondo – a scoprire chi fosse il mandante di questo fallimentare tentativo, poiché avevo ben altri pensieri per la testa, i quali reclamavano prepotentemente tutta la mia attenzione.
Non appena ebbi spinto il dottore all’interno della stanza, chiusi immediatamente la porta, senza dargli mai le spalle. Non avevo idea di cosa fosse successo pocanzi, ed era mia intenzione scoprirlo.
Osservai le spalle del mio amico scuotersi, in controluce, davanti alla finestra. Per alcuni istanti non mi mossi da dove mi trovavo, lasciando che la mia mente memorizzasse ed analizzasse questo Watson: sembrava sconvolto.

“Watson, cosa le è-“

“Mi dispiace.”

Il mio dire venne interrotto dal suo, sommesso e tremolante. Buon Dio! Watson stava piangendo?
Percorsi a grandi falcate la stanza e, incurante di star invadendo prepotentemente l’intimità del mio amico, lo afferrai per una spalla e lo costrinsi a voltarmi. Restai di stucco nel constatare che sì, i suoi occhi erano lucidi, le lacrime erano pronte a sfondare gli argini e straripare sulle sue guance arrossate. Non ero preparato allo shock che comportò vedere il mio fedele coinquilino in questo stato. Se ero rimasto sempre indifferente alle reazioni emotive dei miei clienti, quella di Watson aveva avuto la capacità di sconvolgermi più di qualsiasi altra.
Quando gli vidi alzare il palmo per asciugare le lacrime prima ch’esse scendessero, lo bloccai per i polsi e lo trascinai alla bacinella posta sulla scrivania. Silenzioso, si lasciò posizionare le mani al suo interno, mentre prendevo la brocca e fecevo cadere lentamente l’acqua.

“Se le strofini.”

Dovetti dirglielo, dato che il dottore sembrava rimirare immobile il sangue che lentamente colorava l’acqua. Più il tempo passava, più aumentava la frizione sulla pelle, rendendola rossa per lo sfregamento e non più per la sua stessa linfa vitale mischiata a quella di quell’uomo. Quasi feci cadere la brocca per quanto veloce mi mossi, facendolo smettere dal martoriarsi in quel modo.

“Si può sapere cosa accidenti le sta prendendo?!”

Debbo ammettere che la mia calma stava iniziando a sgretolarsi troppo velocemente, rispetto al solito. Stavo perdendo il mio sangue freddo e il mio consueto distacco, e non era un buon segno; o almeno, così credevo. Senza rendermene conto, lo spinsi sulla sedia, andai alla finestra e buttai di sotto l’acqua sporca, senza curarmi nemmeno se vi fosse qualche passante. So che non avrei dovuto farlo, ma era il metodo migliore e più rapido per sbarazzarmene.
Riempii nuovamente la bacinella e v’immersi una pezzuola, la lasciai imbevere per qualche secondo, prima di tirarla fuori e strizzarne l’eccesso.
Nel momento in cui mi avvicinai, Watson si ritrasse e mi guardò sconvolto. Ripensandoci adesso, sarei dovuto essere io stesso sconvolto del mio atteggiamento, ma in quel momento mi sembrava estremamente giusto e necessario ch’io mi comportassi in tal modo.

“Sarà sempre lei il medico tra di noi, ma non può negare che attualmente ha qualcosa che non va quindi-“

“Sto bene.”

“Mente.” Lo sfidai con lo sguardo a ribattere per quasi un minuto. Quando non lo fece, annuii soddisfatto. “Si rilassi e si lasci pulire il viso. Dovrebbe cambiare anche la camicia prima di tornare di là. Se la tolga, gliene prenderò un’altra tra poco.”

Frattanto che continuavo a detergergli il viso, alternando la pulizia della pelle ad una del panno nella bacinella, non potevo far altro che tentare di capire cosa aveva provocato questa reazione del mio amico. Era sconvolto: di questo ne ero certo. Ma quale era la causa? Presi ad analizzare la situazione e, in tutta onestà, il dottore non mi era parso diverso quella sera a cena, nemmeno quando c’eravamo spostati nel salotto dove avevo suonato come al mio solito.
Riflettendoci, ero più che convinto di averlo visto molto partecipe ed euforico, attento in una maniera diversa, ma per nulla fastidiosa, al mio suonare. Avevo trovato piacevole questa novità, tanto da aver suonato tre brani in più rispetto al solito, solo per sentirmi il suo sguardo addosso e quella sensazione che strisciava lentamente sotto la mia pelle.

Sentii bussare alla porta della camera ed immaginai immediatamente chi potesse essere: Lestrade. Ovviamente non potevo lasciarlo da solo per troppo tempo, e quindi dovetti separarmi da Watson per qualche minuto, esortandolo a cambiarsi la camicia mentre io me la sbrigavo con l’ispettore.

Non ci volle molto per accordarsi con quest’ultimo: gli descrissi gli avvenimenti che portarono alla scena cui aveva assistito – appresi anche che era stata la signora della casa di fronte a chiamare gli Yarder, impensierita dagli spari uditi nel cuore della notte. Decidemmo anche di tenere segreto l’incidente del dottore, per non intaccare la sua reputazione e non compromettere il suo lavoro. Anche Lestrade convenne che, vista l’indole solitamente calma dell’uomo, avrebbe chiuso un occhio per quella volta, ma voleva che per almeno una settimana Watson non esercitasse la sua professione e rimanesse in casa a riposarsi. Crollo dovuto allo stress, aveva detto. Forse Lestrade aveva ragione; ma non eravamo noi i medici e potevamo solo azzardare qualche supposizione, poiché non ero in grado di analizzare razionalmente la situazione.

Rientrai nella stanza, chiedendomi come poteva un semplice uomo alterare – se non demolire – l’intero mio modo di pensare e vivere. Forse era l’inquietante pensiero che si stava formando nella mia testa a turbarmi? Che anch’io avessi un cuore e che la mia teoria fosse vera? In tutta onestà, sì: la stavo testando sulla mia pelle: l'amore è un'emozione, e tutto ciò che è emozione contrasta con la fredda logica che io pongo al di sopra di tutto.(*)
La logica si era frantumata nell’istante in cui avevo visto Watson aggredire ripetutamente l’uomo che aveva sparato i due colpi, deviati proprio dalla prontezza d’azione del mio amico. Senza di lui, quei proiettili mi avrebbero colpito in pieno petto, mentre invece finirono col piantarsi nella parete alla mia sinistra.

“Si sente meglio?”

Non potei far a meno di chiederlo. Il mio coinquilino era in piedi e si stava sciacquando le mani ed il viso – con della nuova acqua, notai. Ero molto scettico, nonostante il suo cenno del capo, e lo ero ancor di più quando alzò la testa e mi guardò: il suo sguardo mi diceva tutt’altro.

“Allora vorrà spiegarmi cosa le è accaduto nella mia stanza.”

Lo dissi con tranquillità, mentre mi sedevo sul suo letto. Era uno dei pochi posti dove avrei potuto accomodarmi, la camera era molto spartane e l’unica sedia era ingombra degli effetti del dottore. Colsi perfettamente i muscoli della sua schiena tendersi, ed anche la fatica che fece per rilassarli e voltarsi verso di me, mostrandomi una falsa tranquillità. Non ci credei nemmeno per un istante.

“Credo di essere semplicemente stressato: troppi casi in questo mese… troppe visite.”

Lestrade aveva torto. Il corpo del mio coinquilino mi aveva chiaramente palesato che quella non era la verità. In un angolo della mia mente – no, cuore: debbo essere onesto almeno nel mio diario – ne fui sollevato. Non era la mia vicinanza, il mio stile di vita ad averlo turbato fino a quel punto. Watson poteva ancora restare al mio fianco.
Le emozioni ammazzano proprio la mente: avrei dovuto capirlo già da quel momento. Ero felice che Watson non sarebbe andato via, ero sollevato dal fatto che avrei potuto giovare ancora ed ancora della sua presenza. Mi accorsi tardivamente che ero anche turbato dal vedere del sangue sulla sua camicia, troppo vicino al suo collo, troppo simile ad una vera ferita inferta a lui. Non appena me ne resi conto, mi accigliai.

“Le avevo detto di cambiarla.”

“Oh.” Lo vidi sbarrare gli occhi e subito dopo girarsi di schiena. “Non ne ho trovate di pulite…” Effimera bugia: sapevo che il dottore aveva sempre tutti gli abiti stirati e puliti nei cassetti dell’armadio. Non ne rimaneva mai sprovvisto. “Quando andrò a letto, metterò direttamente il pigiama. Lestrade se n’è andato? Non sento più alcun rumore venire dalla sua stanza, Holmes.”

Rimirai attentamente il mio amico. Notai che mi stava nascondendo sapientemente le mani, così come il suo labile tentativo di far passare i suoi gesti come inconsapevoli e del tutto naturali. Le conclusioni erano due: o aveva dei tagli e contusioni sulle mani delle quali non mi ero accorto quando se le stava pulendo, oppure erano scosse da tremiti dei quali non voleva farmi venire a conoscenza. Se era giusta quest’ultima ipotesi, era anche chiaro il perché non si fosse cambiato la camicia: non era in grado di afferrare i piccoli bottoni e farli passare attraverso gli occhielli.
Per la seconda volta, quella notte, invasi la sua intimità ed ignorai i suoi ‘no’, costringendolo a mostrarmi le mani. Il tremolio era eccessivamente visibile anche con la poca luce che riempiva la stanza, ed io mi ritrovai nuovamente a chiedermi quale fosse la causa.

“Watson, lei non sta bene.” Stavolta non rispose. La mia non era una domanda, e lui sapeva benissimo che non era facile mentirmi, soprattutto a questo punto. “Mi dica cos’ha. Sa benissimo che potrei scoprirlo da solo, ma mi farebbe risparmiare del tempo se me lo confessasse di sua spontanea volontà.”

Dopo molti minuti durante i quali attesi pazientemente una risposta, il dottore parlò: “Mi prenderà per pazzo.”

“Vorrà dire che per una volta invertiremo i ruoli.”

“Lei non è pazzo. È geniale.” L’osservai dirigersi stancamente al letto e lasciarsi cadere sul materasso. Pochi secondi dopo lo raggiunsi. Rimasi in silenzio, conscio che non era ribattendo a quella sua affermazione che mi avrebbe detto cosa lo turbava. Dovevo solo lasciargli il tempo di racimolare il coraggio e parlare. “Quell’uomo ha cercato di ucciderla.”

“Ne sono consapevole, e senza di lei non saremmo qui a discuterne. È questo che l’ha turbata? Ormai dovrebbe essere al corrente del rischio che corro con questo tipo di lavoro.”

“Lo sono. Ma quell’uomo non solo ha cercato di ucciderla…” Watson si chinò fino a quando non poté tuffare le dita tra i capelli, mentre i gomiti sostenevano le braccia impuntandosi nelle ginocchia. Prese un respiro profondo, prima di concludere la frase: “L’ha spezzato a metà.”

Mi dovetti prendere qualche secondo in più per decifrare le sue parole. Di certo non parlava di me: ero sano e salvo, integro e senza un graffio o un livido. Ricordavo perfettamente l’aggressione subita a mie spese ed era impossibile che mi fosse sfuggito il momento in cui quell’uomo, oramai messo in trappola da Watson, aveva afferrato il mio prezioso violino per usarlo come arma contro di me. Quando l’ebbi schivato, sentii lo scricchiolio feroce del legno che impattava violentemente sul comodino, decretando la definitiva rottura del mio adorato strumento. Pochi secondi dopo io stavo nuovamente ingaggiando un corpo a corpo con il suo collega, ed il dottore era tornato ad occuparsi di lui. Era questo che aveva scombussolato così repentinamente la natura del mio Watson?

“Il violino.” Lo dissi per precisare, ma ormai ero sicuro della mia deduzione. Watson non fece altro che confermare il tutto stringendosi ancor più i capelli tra le dita, mentre il mento ormai toccava il petto.

“Lo dica pure. Dica che sono un pazzo: lo credo anch’io.”

“L’adorava così tanto?” Non potei trattenermi dal chiederglielo. Era solo un violino, dopo tutto. Certo, un ottimo violino, uno stradivari e più di tutto mi apparteneva, ma era pur sempre un oggetto. Non vedevo il motivo per cui lui dovesse disperarsi in tal modo e, nella mia più totale schiettezza, glielo dissi. “Era già caduto più volte ed il suono non era più lo stesso di una volta. Stavo pensando da tempo di buttarlo. Quel gentiluomo mi ha risparmiato la fatica di pensarci da solo.”

Non appena ebbi finito di parlare, mi voltai verso il mio amico solo per vedere che il tremore sulle mani era eccessivamente aumentato. Era colpa mia? Ovviamente sì, solo che all'epoca non me ne accorsi.
Mi alzai e raggiunsi l'armadietto dove il dottore custodiva i suoi medicinali, andando a recuperare una bottiglia di brandy. Watson non aveva idea che fossi a conoscenza del suo piccolo segreto ma, a quanto gli avevo appena dimostrato, si sbagliava. Riempii due bicchieri: uno per me ed uno più generoso per il mio amico; in fin dei conti, era lui quello stravolto che necessitava di qualcosa di forte per riprendersi – o calmarsi.

“Se può farla star meglio, con l'alto numero di casi che abbiamo avuto questo mese sono sicuro che potremmo presto comprarne uno nuovo.” Ignorò completamente il bicchiere che gli porsi, evitò il mio sguardo e rifiutò ogni contatto con me.

Il dottore rimase in silenzio per quasi un minuto, prima di alzarsi ed avvicinarsi all'armadio, annunciando atono: “Vorrei andare a coricarmi un po'. Chiuda la porta quando esce, Holmes.”

“Do-“

“Per favore.”

Il tono del mio amico mi trafisse come una pugnalata, ma al contempo mi fece capire che dovevo lasciarlo da solo, proprio come lui aveva chiesto. “Come vuole. Me ne vado. Ma domattina verrò ad assicurarmi che lei stia bene.” Notai a stento il piccolo cenno che mi fece con il capo, e non solo perché ero impegnato a poggiare i due bicchieri sul comodino.
“Buona notte.” Attesi qualche secondo, sperando che si voltasse, sorridendomi, per elargire il mio stesso augurio. Quando non lo fece, sentii una fitta al centro del petto.
Me ne andai senza aggiungere null’altro, chiusi la porta della stanza di Watson e mi diressi verso la mia. Ero certo che non avrei chiuso occhio, quella notte. Avevo troppo da pensare ed il mio fidato amico sarebbe stato – senza ombra di dubbio – il motivo principale della mia rinnovata insonnia.









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(*) da “Il segno dei Quattro”
   
 
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