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Autore: Shichan    02/11/2010    2 recensioni
Anno 2063: il mondo, per certi versi, non è cambiato affatto.
Qualcuno ama senza essere ricambiato.
Qualcuno trova il coraggio di dichiararsi, ma sceglie il momento sbagliato.
Qualcuno fa una scelta, e riesce ad essere felice.
Qualcuno è profondamente amato, ma non sa rendersene conto.
Qualcuno sogna. Qualcuno dorme e basta.
La gente attorno a lui si chiede il significato della propria esistenza ogni giorno.
Lui… si chiede se esiste, da qualche parte. A volte, gli sembra di no.
[In futuro il rating potrebbe variare][Per i personaggi, note all'interno]
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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File II: Polizia, mignolo, Aoba

File II: l’abito non fa il monaco (io non sono lui)

 

Perché viviamo?

Perché moriamo?

…Credevo che almeno gli adulti lo sapessero.

 

Avanzò fino al portone giusto, suonando al citofono.

Aveva indossato qualcosa di comodo, passando da casa per evitare di andare in giro con la divisa scolastica, che avrebbe forse attirato più attenzione del dovuto: aveva optato per jeans scuri, felpa un po’ larga che probabilmente era indossata sopra una maglia che restava però invisibile in quel modo.

Persino la borsa a tracolla era anonima.

Non ci fu una voce in risposta, ma il gracchiante suono del citofono che veniva riagganciato subito dopo che il portone era stato aperto.

Delle mani entrambe in tasca, una fece capolino per fare pressione sull’uscio quanto bastava per sgusciare all’interno; lasciò che si richiudesse alle proprie spalle e si mosse automaticamente verso la rampa di scale sulla sinistra, salendo gli scalini in mattonato bianco reso beidge dalla scarsa illuminazione, ignorando il corrimano in nero lucido.

Percorse un paio di rampe, voltando poi su un piccolo corridoio e raggiungendo il pianerottolo che era la sua méta: la porta era già accostata e in questo – oltre che nella targa posta subito al di sopra del campanello – si riconosceva la natura di studio medico dell’abitazione della quale varcò la soglia.

Sulla sinistra, vi era una piccola stanza divisa dal resto dell’appartamento da un arco: trattandosi del luogo in cui si trovavano la segretaria, la sua scrivania e – alle spalle di lei – dei cassettoni che fungevano probabilmente da archivio dei documenti, non vi era necessità che fosse chiuso. A maggior ragione perché i pazienti dovevano spesso e continuamente rivolgersi a lei per pagare, per i nuovi appuntamenti e via dicendo.

Alzò appena una mano in sua direzione ma la donna – sulla cinquantina e abbastanza acida per i suoi gusti, specie quando era in giornata no – era china su dei documenti e non si curò di lui.

Abituato ormai alle visite come quella, si mosse direttamente verso destra, percorrendo un altro piccolo corridoio ed entrando nella stanza sulla sinistra.

Si trattava della sala d’attesa: non grandissima, era tuttavia accogliente ed impersonale come tutte le sale d’attesa degli studi privati o pubblici.

Pianta quadrata, una decina di sedie dall’aria tutto sommato comoda, un tavolinetto in fondo con delle riviste bene impilate su di esso. La finestra – sul fondo e di dimensioni simili a quelle della porta sempre aperta – faceva abbastanza luce e ai propri piedi ospitava una delle due piante presenti. L’altra era ad un angolo opposto, vicino alla prima sedia.

Vi si sedette di fronte, senza prendere alcuna rivista: era raro che ci fosse così tanto da aspettare da aver bisogno di una lettura per passare il tempo; la cosa era dovuta anche al fatto che si trattava di andare sempre su appuntamento e che, in ogni caso, c’era un tempo limite di seduta.

E il dottore difficilmente sforava, se non di qualche minuto.

Ci volle poco, infatti, perché sentisse la porta dello studio privato del medico aprirsi e due voci provenire dall’interno: «La ringrazio, dottore. Allora ci vediamo la prossima settimana.» sentì dire, riconoscendo una voce femminile che gli parve di riconoscere, cosa che il medico confermò poco dopo quando le rispose.

«Di nulla, Kamijou-san. Mi raccomando su cosa ci siamo detti: la voglio qui sorridente e tranquilla la prossima settimana, intesi?» la incalzò affabile.

Aveva scoperto dopo alcune volte in cui andava lì, che Kamijou – di cui ignorava il nome, che non aveva mai colto – andasse lì praticamente i suoi stessi giorni e fosse quasi sempre l’appuntamento prima del suo.

Non aveva mai fatto domande, sia perché non gli interessava poi molto, sia perché il dottore in quanto tale aveva il segreto professionale da rispettare; gli pareva di aver capito però, dagli stralci di conversazione che coglieva in momenti come quello in cui Kamijou-san si congedava, che doveva essere qualcosa di simile alla depressione.

Sentì dei passi allontanarsi e poco dopo Kamijou-san – francamente non gli dava più di diciotto anni – passò davanti alla sala d’attesa: vi diede un’occhiata involontaria all’interno e parve riconoscerlo. Abbozzò un sorriso leggero e chinò il capo in sua direzione in cenno di saluto. Ricambiò dopo essersi alzato.

Quello era il massimo del contatto che lui e quella ragazza avevano avuto: un semplice salutarsi quando si incrociavano per quella manciata di secondi.

Uscì dalla sala d’attesa, occhieggiando la segretaria che si era sporta e che inquadrandolo gli fece cenno di accomodarsi dal dottore. In pochi passi fu sulla soglia dell’ufficio privato dell’uomo e bussò piano contro lo stipite per attirarne l’attenzione più che altro.

Lui, chino su dei fogli che stava evidentemente finendo di compilare e che erano probabilmente la scheda personale di Kamijou, si limitò ad un impersonale “avanti”.

Eseguì, entrando del tutto e richiudendosi la porta alle spalle; quando si voltò nuovamente, il medico era tornato attento e gli stava rivolgendo il solito sorriso cortese che riservava sempre un po’ a tutti i suoi pazienti, essendo un uomo di indole pacata di suo.

Con un cenno della mano gli fece segno di accomodarsi ed eseguì anche quello: si sedette sul divanetto a due posti dove si sistemava sempre, lasciando libera la poltrona dove in breve avrebbe preso posto l’altro. Lasciò scivolare la tracolla lungo la spalla fino a terra, dove si posò mollemente; si accomodò meglio mentre il dottore si accomodava a sua volta, una cartelletta in mano e una penna nell’altra.

Si sistemò gli occhiali con un gesto meccanico e si rivolse a lui, le labbra incurvate in un sorriso: «Allora, Aoba-kun? Cosa mi racconti questa settimana, è successo qualcosa di bello?»

«Mh, nulla di particolare, Honda-sensei.»

 

 

Aprì gli occhi lentamente, anche se non nello stesso modo in cui li apriva quando si “svegliava” la mattina: la cosa era probabilmente dovuta alla differenza tra quando era lui stesso ad andare in modalità stand by, rispetto a quando come in quel caso vi era stato quasi forzato.

Gli ci volle una semplice occhiata a destra e a sinistra per notare che non era affatto a casa col master: le pareti erano diverse e, anche solo da un secondo sguardo generale, era palese la differenza di arredamento. La casa del master, dove viveva con lui, era in stile occidentale: quell’abitazione, o almeno la stanza in cui si trovava in quel momento, aveva il tatami1 , e degli shoji2 .

Si mise a sedere, accertandosi che fosse tutto funzionante come Izaya gli aveva insegnato a fare in caso di necessità: o perlomeno, iniziò la procedura e fu interrotto quasi nello stesso istante. Uno degli shoji fu fatto scorrere, e la figura che apparve la registrò come Hanejima Yuhei, un famoso idol in voga in quel momento – così aveva imparato dalla tv.

Rimase in silenzio, osservandolo e il castano per contro non parlò subito: lasciò lo shoji aperto, sedendosi sul tatami, guardandolo privo di qualsivoglia espressione.

Psyche chinò appena il capo lateralmente, incuriosito: non aveva dati al riguardo, perciò era probabile che il master non avesse contatti con quell’uomo. Di conseguenza, il suo viso in teoria non avrebbe dovuto dire nulla al castano.

«Tu sei Orihara Izaya?» domandò, senza mutare espressione, il tono anch’esso piatto.

Psyche ne fu confuso, ma mise in pratica uno degli ordini dati da Izaya stesso: quando lo scambiavano per lui, e Psyche non li trovava nella banca dati che lo stesso Orihara aveva personalmente aggiornato, allora non doveva dire niente di troppo.

«Perché Hanejima Yuhei lo vuole sapere?» replicò invece di rimando. L’altro non parve sconvolgersi più di tanto, né impegnarsi a mentirgli: «Mio fratello ti ha trovato, e dice di conoscerti. Ma dice anche che, per qualche motivo, non gli sei sembrato tu.» spiegò semplicemente in tono piatto.

Psyche non aggiunse nulla riguardo sé: «Tuo fratello?»

«Heiwajima Shizuo.»

«Ma avete cognomi diversi.» ribatté Saike, infantilmente incuriosito sebbene non lo desse a vedere – Izaya lo aveva messo in guardia diverse volte, per occasioni come quella.

«Hanejima Yuhei è solo un nome d’arte.» chiarì il castano.

«E allora come ti chiami?»

«…Heiwajima Kasuka.»

Saike lo memorizzò immediatamente, fra quei dati di cui riportava fedelmente ogni cosa al master; ciò che lo distrasse – e che, lo avrebbe scoperto poi, lo tradì – fu l’arrivo di una seconda figura.

Alta, si trattava di un uomo: capelli biondi, pelle chiara, indossava un kimono sui colori bianco e azzurro; la figura elegante, l’espressione un po’ apatica forse, nella sinistra teneva quella che Saike aveva imparato a riconoscere come un oggetto abbastanza vecchio, del Giappone di una volta. Una pipa fine e lunga, il manico in legno, la parte per posare la bocca e per far uscire il fumo in metallo.

Vi riconobbe lo stesso Shizuo che aveva intravisto prima di perdere conoscenza.

«Shizuo?» si interrogò – eliminando il “san”, ora che era cosciente, poiché Izaya non lo aveva mai chiamato con l’onorifico.

Il biondo si accigliò appena, come se fosse perplesso da quell’appellativo; fu Kasuka il primo a rivolgersi a lui, dopo aver sostato a lungo con lo sguardo su Saike, quasi per studiarne il volto e i cambi di espressione.

«Contatterò io mio fratello, devo assentarmi adesso. Ci vediamo presto, Tsugaru.» disse, ancora una volta senza inflessioni particolari del tono di voce.

Il biondo – Saike si sentì confuso quando realizzò che Kasuka si era rivolto a lui con il nome di “Tsugaru” e non con “Shizuo” – si limitò ad annuire e a chinare appena il capo, mantenendo un modo di fare calmo e tranquillo. Si sedette quindi prendendo il posto di Kasuka, mentre il castano usciva dalla stanza.

 

 

«Al diavolo, al diavolo, al diavolo, al diavolo…» ripeté come se la cosa lo aiutasse a smaltire l’irritazione che invece si stava accumulando, mentre avanzava verso l’ufficio dove lo avevano richiamato.

Aprì la porta senza bussare, e la richiuse praticamente sbattendola: nonostante questo, l’occupante della stanza non sobbalzò, quasi fosse quella ordinaria amministrazione per lui.

«Ne, Shizuo, vorrei non dover sostituire la porta per la seconda volta in questo mese.» gli fece presente Tom, seduto dietro la scrivania e con lo sguardo che da dietro le lenti era ancora su dei documenti.

Shizuo fece schioccare le labbra in un verso stizzito, sedendosi malamente su una sedia con l’aria di uno che ha un umore decisamente pessimo.

Solo quando gli fu di fronte, Tom alzò lo sguardo su di lui, indagando sul motivo che potesse rendere il biondo così nervoso.

Tanaka Tom era uno dei maggiori dirigenti amministrativi della compagnia P-Desire – dove la “P” era naturalmente l’abbreviazione di Persocom. Una delle maggiori industrie di pc artigianali insieme al Pe-Shop (suo concorrente), vantava una struttura più grande e molti più dipendenti.

Delle due era stata la P-Desire la prima compagnia a nascere: l’organizzazione interna era gerarchizzata in tutte le sue fasi, anche le minori. Dal semplice operaio che si occupava dello “scheletro” del persocom, ai programmatori, ai dirigenti che si occupavano dei clienti costituiti da enti e società, fino a quelli che si occupavano invece della vendita al singolo, la P-Desire vantava delle entrate che superavano di molto le uscite.

Heiwajima Shizuo si occupava di mansioni diverse: alle dirette dipendenze di Tom, andava e veniva dalla società e in pochi sapevano per fare cosa. Le voci erano tante e tutte inconsapevolmente sbagliate.

C’era chi sosteneva che il biondo fosse la guardia del corpo di Tom – unica cosa esatta solo per metà in realtà – e chi invece era più che certo che si trattasse di uno dei venditori al singolo, sebbene l’indole fosse piuttosto… discutibile.

Ciò di cui in realtà si occupava Heiwajima Shizuo, era per certi versi più complesso e per altri – considerando l’indole del biondo – qualcosa di molto semplice.

«Dannata pulce maledetta, lo ammazzo, giuro che lo ammazzo quel—»

Tom sospirò rassegnato: «Cos’ha combinato questa volta Orihara Izaya del Pe-Shop?»

Un inquietante “crack” suggerì a Tom che aveva bisogno di una matita nuova: «Di nuovo a mettere quelle fottute mani nella banca dati o quello che cazzo sono quei così pieni di numeri sui computer che ci sono di sotto! Fanno tutti un fottuto casino!» sbraitò e Tom comprese che sì, i documenti per un attimo dovevano essere lasciati da parte.

Alzò lo sguardo sul biondo, dedicandosi completamente a lui: in un certo senso non era mai facile capire l’entità di un danno ai dati dell’azienda quando a fare “rapporto” era Shizuo. Il biondo non era propriamente un genio della tecnologia, nonostante i tempi fossero quelli che erano e gran parte delle azioni di un essere umano fossero ormai improntate proprio sui computer – persocom o pc “standard” che fossero.

Di conseguenza ci si ritrovava a chiedersi quali dei possibili problemi interni dovuti ad un singolo chip corrispondessero a ciò che Shizuo chiamava indistintamente “quei cosi pieni di numeri”. Potevano essere un elenco ordini di clienti come avrebbe potuto benissimo trattarsi di un grosso problema di programmazione dei persocom.

Pazientemente, Tom sospirò: «Fanno casino, eh? Quanto panico c’era da uno a dieci?» domandò cauto. Shizuo lo fissò come se avesse dovuto mangiarselo vivo – fortuna che Tom aveva imparato a riconoscere in quello sguardo un semplice “ho le palle girate ad elica” e non una minaccia di morte rivolta a lui personalmente.

«Tanto da farmi venire voglia di pestarli.» borbottò nervoso il biondo.

Il che, tradotto, significava “molto panico” e quindi “problema di una certa entità”.

«Ho capito.» replicò Tom, tornando con lo sguardo sui documenti: «Torna a casa Shizuo, e scendendo se puoi avvisa che tra poco vado a vedere di che danno si tratta.» assicurò.

Il motivo per cui, pur avendo dato un nome preciso al problema che sembrava esserci ai piani inferiori non c’era stata una denuncia, era che “Orihara Izaya” era una supposizione.

E sebbene per molti fosse una certezza più che un’ipotesi, se davvero era stato il castano a complicargli sempre la vita, era stato così bravo da non lasciare la minima traccia telematica del suo passaggio. E, tecnologia più sviluppata o meno, da che mondo era mondo non si accusava senza prove.

E nessuno voleva uno scandalo come un’accusa senza fondamenti verso un membro in vista di un’azienda altrettanto in vista nel mercato più sviluppato degli ultimi anni.

Shizuo grugnì in risposta alle direttive di Tom, facendo per alzarsi: «Ah, Shizuo» lo richiamò l’altro «come sta Tsugaru-kun?» s’informò.

Il biondo si voltò, osservandolo con le mani in tasca: «Normale. C’era Kasuka con lui stamattina.» replicò.

Tsugaru era il lavoro di Shizuo: si trattava di un persocom creato dall’azienda dopo uno dei primi simpatici attacchi del cosiddetto “hacker misterioso” – che misterioso non era poi tanto.

Si era reso necessario salvare e rendere inaccessibili le informazioni più segrete dell’azienda ed era parso quasi scontato rendere un persocom una banca dati; tra l’altro, nessuno lo diceva ma tutti lo immaginavano, o lo avevano pensato almeno una volta: come poteva un’azienda come la P-Desire – che contava ormai un numero elevatissimo di clienti tra enti privati e pubblici e delle entrate che molte aziende si sarebbero solo sognate – essere nata dal nulla?

Un progetto del genere, la produzione di persocom utilizzati non solo in altri negozi e catene degli stessi, ma anche in lavori che una volta sarebbero stati tipici solo degli esseri umani, richiedeva delle spese a dir poco enormi all’inizio.

E considerando che nessun miliardario conosciuto era – almeno ufficialmente – a capo della P-Desire… non era ovvio cosa rimanesse? Soldi sporchi.

O comunque poco puliti.

Era nato Tsugaru – più precisamente Tsugarujima Kaigyou Fuyugeshiki – non appartenente a nessuna linea di produzione poiché un pc artigianale unico nel suo genere. Si era stati a lungo indecisi sull’involucro da usare per lui, ossia quale aspetto esteriore dargli e soprattutto a chi affidarlo.

Era stato proprio Tanaka Tom a proporre Heiwajima Shizuo: il biondo, che conosceva fin dai tempi della scuola, aveva fatto lavori di tutti i generi e visto ogni ombra che Ikebukuro e la città nascondevano.

Passato dalle gang – in giovanissima età – al controllo di determinate aree, non c’era persona in tutta Ikebukuro che non lo conoscesse di fama; e soprattutto non ce ne era nessuna sana di mente che avrebbe avuto il fegato di mettersi contro di lui, specialmente se lo scontro minacciava di arrivare ad un piano “fisico”.

Heiwajima Shizuo era qualcosa di distante da un essere umano – per quanto crudele potesse essere dirlo o pensarlo – quasi quanto i persocom che andavano tanto di moda: era indubbiamente dotato di una forza sovrumana e anche i piani alti della P-Desire se ne erano convinti piuttosto facilmente.

E una volta deciso di affidare Tsugaru alla protezione di Heiwajima Shizuo non vi era stato alcun dubbio sull’aspetto da dargli: la cosa più sensata era stata crearlo ad immagine e somiglianza della persona che avrebbe dovuto proteggerlo.

In questo modo, avevano sostenuto i dirigenti dei piani alti persino al di sopra di Tom, se anche accadesse mai che Tsugarujima girasse da solo, con l’aspetto che si ritrova resterebbe lontano dai guai abbastanza a lungo da essere ritrovato dalla sua guardia.

Shizuo non era propriamente stato felice della cosa.

Grottesco, lo aveva definito – la scelta, non tanto il persocom – e nulla lo aveva convinto del contrario: né la scelta dei suddetti dirigenti di far sì che Tsugaru rispondesse ai suoi ordini come se Shizuo ne fosse il master, né l’assicurazione che come programmazione di default Tsugaru non avesse alcun input di uscire dalla casa di Heiwajima.

Nonostante quello però, Shizuo aveva accettato; non era propriamente abituato al fare di Tsugaru, al modo in cui gli si rivolgeva o era servizievole nei suoi confronti, ma Shizuo nemmeno una volta aveva minacciato di mandarlo via.

Si credeva per convenienza, in quanto veniva pagato profumatamente per quel compito ritenuto dall’azienda di primaria importanza.

In realtà – era chiaro, almeno per Tom – Shizuo non era capace di cacciare via qualcuno ritenuto “utilizzabile perché non umano”.

Probabilmente, lui era stato considerato esattamente come Tsugaru per così tanto tempo che, alla fine, la somiglianza che vi aveva scorto non era stata solo fisica.

 

 

Da quando aveva sentito la porta chiudersi, aveva riportato lo sguardo su quel ragazzo biondo che si era seduto al posto di Kasuka; questi non aveva detto nulla, portando lo sguardo quasi subito fuori dalla finestra alle sue spalle e Saike si era fatto quindi coraggio e aveva cercato di analizzarlo come poteva senza dare nell’occhio.

Però dopo venti minuti di osservazione non aveva capito granché: figurativamente continuava a rispondere alla voce “Heiwajima Shizuo” registrata nei suoi dati anche se con abiti diversi – ma gli umani se li cambiavano ogni giorno gli abiti, quindi non era nulla di indicativo per lui.

«Che c’è?» fu distolto dalla sua ricerca interna dalla voce del biondo che, pur non voltandosi, si stava evidentemente rivolgendo a lui.

Awww, ora che cosa avrebbe dovuto fare? Il master si era raccomandato di non parlare affatto ad Heiwajima Shizuo se lo avesse incontrato, asserendo che sarebbe stato pericoloso per lui – Psyche – farlo. E che il biondo avrebbe tentato di fargli del male, anche!

Eppure ora gli stava rivolgendo una domanda, perciò… perciò… perciò

«…» rimase in silenzio, cosa che sembrò – tragicamente, per lui – attirare maggiormente l’attenzione dell’altro che spostò lo sguardo su di sé.

Non sembrava però arrabbiato, nonostante nel suo database quella sembrasse essere l’emozione predominante nell’essere umano da cui avrebbe dovuto tenersi alla larga.

«Tu non sei Orihara Izaya.»

…E quella non sembrava una domanda.

Buaaah, era stato scoperto e aveva messo nei guai il master, anche se era stato attento ad ogni passo, e ogni sguardo e ogni movimento! Aveva controllato le risposte che dava a tutte le persone che aveva incrociato, allora perché aveva fatto questo guaio?

Senza accorgersene, aveva portato le mani fra i capelli, serrando gli occhi quasi fosse in arrivo chissà quale punizione corporale – non che Izaya-san le usasse, il master era buono! – che però non giunse affatto.

L’unica cosa che lo raggiunse fu la voce del biondo che, senza alcuna inflessione particolare rispetto a poco prima diede nuovamente voce ad un: «Che c’è?» al quale Saike aprì gli occhi, palesemente perplesso o abbastanza da farlo notare con un’espressione del viso assolutamente non da Izaya.

«Perché dici che non sono Orihara Izaya?» chiese, modulando l’atteggiamento in maniera che somigliasse a quello di Orihara appunto.

Il biondo allungò una mano che, quando fu in corrispondenza del viso di Saike, portò quest’ultimo a chiudere di nuovo gli occhi, istintivamente.

Sentì la maglia alzarsi all’altezza del fianco poco dopo e subito aprì gli occhi, portando le mani a fermare quelle di quello sconosciuto: ormai innegabilmente agitato e totalmente dimentico di doversi comportare in modo da non destare sospetti, piagnucolò un «Kyaaaa, non spogliare Psyche, non spogliarlo, non spogliarlo!» la cui voce era chiaramente impaurita.

Il biondo assunse un’espressione diversa finalmente, perplessa quanto quella di Saike poco prima. Tirò appena la stoffa che teneva fra le dita, quanto bastava per attirare l’attenzione dell’altro su quel punto del suo corpo.

«Hai un codice. Solo i persocom ce l’hanno.» gli fece notare, come se fosse abbastanza ovvio che l’aveva riconosciuto come pc di forma umana per nessun motivo oltre quello.

Parole alle quali Saike guardò il segno, poi Tsugaru, poi il segno.

Almeno, prima di affondare la faccia nel cuscino – o nascondere la testa sotto di esso.

«Lasciami andare via Shizuo-san, lasciami andare viaaaa!» esclamò ormai nel panico completo.

Tsugaru sospirò nuovamente.

«Non sono Shizuo.» replicò tranquillamente, calmo.

Psyche parve sentirlo chiaramente, perché spostò il cuscino quanto bastava a guardare l’altro da una presunta – per lui – distanza di sicurezza.

«…Non sei Shizuo-san?» ripeté sulla difensiva, evidentemente ancora poco convinto.

«No, Shizuo è il mio master.» chiarì.

«Psyche non ci crede!» ribatté testardo, facendosi un po’ di coraggio – ma guardandolo sempre da sotto il cuscino, in parte.

Il biondo sospirò, e Saike era pronto a rituffarsi con la testa sotto il piccolo guanciale, come se questo fosse una difesa assoluta e impenetrabile poi; non ce ne fu bisogno, perché tutto ciò che il biondo fece fu allargare appena l’apertura del kimono leggero che indossava, mostrando sul fianco – opposto rispetto a quello di Saike – un codice simile, sebbene composto da diverse lettere e numeri.

«Shizuo-san è un persocom come Psyche!» asserì tutto convinto come se quella scoperta risollevasse le sorti del mondo intero.

Tsugaru alzò un sopracciglio: «Ho detto che non sono Shizuo.»

«Allora il tizio che somiglia a Shizuo-san è un persocom come Psyche!» modificò la frase – parve non accorgersi che il punto non era comunque quello: «Ah… ma se non sei Shizuo-san allora chi sei? E perché sei uguale a lui? Anche tu sei fatto uguale al tuo master come Psyche? Perché Psyche è con te?» chiese a ripetizione, l’espressione ingenua sul volto.

«Tsugarujima Kaigyou Fuyugeshiki. Sono il persocom di Heiwajima Shizuo.» asserì: «Sono fatto così perché il master mi ha voluto così. Sei qui perché il master ti ha trovato.»

«Che nome lungo…» fu il solo commento di Psyche, il che rese chiaro quale delle quattro informazioni fosse effettivamente giunta a destinazione: «Ah, ma non è possibile che Psyche sia stato trovato da Shizuo-san! Se fosse così, Psyche sarebbe stato distrutto!» assicurò con espressione decisa.

Tsugaru parve nuovamente perplesso: «Perché il master avrebbe dovuto distruggerti?»

«Perché il master di Psyche ha detto che se Psyche avesse incontrato Heiwajima Shizuo sarebbe dovuto scappare. Shizuo-san vuole fare del male a Psyche, così ha detto il master.» spiegò, assumendo un broncio involontario.

Tsugaru parve riflettere sulla cosa, chiudendosi nel silenzio per diversi istanti.

«Ah. Deve essere perché sei uguale a Orihara Izaya, e il master cerca sempre di fare più male possibile a quella persona. Così è segnato fra i miei dati.» convenne infine.

Capì che doveva essere stata una pessima scelta di espressione quella di “fare più male possibile” quando sul viso di Psyche intravide quella che era indubbiamente l’espressione di un bambino che stava per scoppiare in lacrime.

«Ehm…» indugiò, totalmente estraneo a quel tipo di reazioni e al modo di contenerle: «Però si è accorto che tu non eri lui. Quindi non penso ti farà nulla.» cercò di rimediare.

Psyche parve sollevato solo in minima parte.

«Ti chiami Psyche?» indagò, osservando l’altro annuire appena.

«Psyche si chiama “Psychedelic Saike”. È solo il master che mi chiama Psyche-chan.» asserì con un certo orgoglio.

«Come ti posso chiamare?» fu quindi l’ovvia domanda che gli rivolse Tsugaru, sulla quale l’altro non ebbe bisogno di soffermarsi più di tanto: «Saike.» asserì, cercando di stare composto e darsi un contegno – cosa abbastanza difficile considerando il recente nascondino sotto il cuscino, ma non parve considerarlo.

«Psy—Saike quanto dovrà restare qui?» indagò quindi, correggendosi nell’usare il nome con cui gli aveva permesso di chiamarlo; Tsugaru tacque, probabilmente soppesando la cosa in base agli ordini ricevuti da Shizuo.

«Il master mi ha ordinato di non lasciarti assolutamente andare, se avessi scoperto che eri Orihara Izaya. Ma non mi ha detto nulla, nel caso non fossi stato lui.» dichiarò infine, osservando Psyche inclinare la testa lateralmente, segno che probabilmente per lui non era una risposta abbastanza chiara da permettergli una qualsiasi decisione.

«Penso tu possa andare via.» aggiunse quindi Tsugaru, alzando un sopracciglio perplesso e sperando che così fosse stato abbastanza chiaro.

Il sorriso felice di Psyche a quelle parole fu una risposta eloquente.

Il più piccolo – era di diversi centimetri più basso – si alzò quasi di scatto, rinvigorito; lo vide stiracchiarsi per poi pronunciare: «Allora Psyche può tornare dal master!» tutto felice. Tsugaru rimase nella sua posizione, le braccia incrociate e le mani nascoste nelle ampie maniche del kimono, lo sguardo su Saike.

Psyche si guardò i piedi, riscoprendoli nudi: spostò lo sguardo interrogativamente per la stanza in cui si trovava e Tsugaru probabilmente intuì cosa cercasse.

«Le scarpe sono all’ingresso, le ha messe lì Kasuka-san quando ti abbiamo messo al letto.» disse, osservandolo muoversi verso l’altra stanza e alzandosi per seguirlo fino alla porta.

Vide Saike sedersi per mettere le scarpe e Tsugaru tacque, limitandosi a guardarlo; quando il castano ebbe finito e fu in piedi per aprire la porta e andare via, si volse verso il biondo con aria interrogativa.

Indugiò diversi secondi, prima di pronunciare un: «E ora cosa fai tu, Tsugarujima Kaigyou Fuyugeshiki?»

«Rimango ad aspettare il master.»

«E tra quanto torna?» indagò Psyche.

«Un’ora e cinquantatre minuti.» replicò preciso – ma non era strano fra persocom, se il master li metteva in una qualche modalità precisa fino al proprio ritorno o se, semplicemente, li avvisava di quando sarebbe rincasato.

«Mhhh…» soppesò Psyche, con un’espressione piuttosto concentrata – e buffa.

Alla fine di chissà quali considerazioni, tolse di nuovo le scarpe e andò a sedersi di fianco a Tsugaru, che si era sistemato a gambe incrociate sul tatami dopo aver raggiunto l’altro nei pressi della porta.

Il biondo lo guardò senza capire, ma Psyche non parve preoccuparsene eccessivamente, sembrò anzi considerare tutto perfettamente normale.

«Saike aspetterà qui e ti farà compagnia fino a che non mancheranno dieci minuti. Visto che non hai fatto male a Saike e che il master mi ha insegnato che non si devono tenere favori e conti in sospeso.» concluse la spiegazione che evidentemente considerava logica.

«E non verrai sgridato se rimani qui?»

«No se non incontro Shizuo-san!» assicurò, occhieggiandolo: «Ne, ne… ma il tuo master ti lascia spesso da solo per così tanto tempo?» chiese quindi, una nota di palese curiosità sia nel tono che nello sguardo.

«Il master lavora, è normale che stia fuori casa.» osservò semplicemente con un’impercettibile alzata di spalle.

Saike si sistemò con la schiena contro il muro, portando le gambe piegate vicino al busto e rimanendo in silenzio: «Mh. Psyche non è tanto abituato, il master lavora in casa quasi sempre quindi non sta mai da solo.» asserì, ricevendo da Tsugaru un semplice annuire.

 

 

Quando tornò nuovamente a casa, facendo a ritroso il percorso, Psyche non incontrò nessuno. Una volta nell’appartamento, Izaya non lo aveva sgridato: la cosa era stata dovuta a diversi fattori probabilmente. Innanzitutto, fra gli spostamenti, l’intrattenersi a casa di Mikado per la consegna che il master gli aveva commissionato e il tempo con Tsugaru – complessivamente di due ore e un quarto – il tempo in cui era stato lontano da casa si aggirava sulle quattro ore.

Secondo, e direttamente collegato al primo motivo, era un lasso di tempo in cui era plausibilissimo che Psyche fosse rimasto con Mikado e Tengoku.

Ne conseguiva che non c’erano stati motivi per i quali Izaya avrebbe dovuto irritarsi particolarmente o preoccuparsi; tant’è che non fece domande di alcun genere, se non riguardanti il cd che aveva affidato a Saike. Quest’ultimo aveva confermato la consegna di persona a Mikado, dopodiché era stato lasciato libero di andare a riposarsi o a fare quello che preferiva; Izaya era infatti stato intenzionato ad uscire non appena Psyche fosse rientrato.

Fu una fortuna.

Specie considerando che Saike non era programmato per mentire.

Se Izaya avesse fatto domande più precise, Saike sarebbe stato costretto a rispondere anche contro la sua presunta “volontà”.

 

 

Affondò parte del cucchiaio nell’omurice3 che aveva nel piatto di fronte a sé, il rumore del metallo della stoviglia che picchiettava appena sul piatto della persona davanti a lui.

Alzò lo sguardo, incontrando quello di sua madre per un breve istante, prima che anche lei spostasse l’attenzione di nuovo sulla propria cena.

«Allora oggi com’è andata da Honda-sensei?» domandò, il tono tranquillo.

Aoba la occhieggiò per una manciata di secondi, senza smettere di mangiare; quando ebbe inghiottito, replicò con un semplice: «Tutto bene.»

Tacquero sia lui che lei, dopo quelle parole; qualche minuto di silenzio e il cellulare vibrò nella sua tasca. Abbassò il cucchiaio e portò la mano in tasca, estraendone il telefonino: pigiò un paio di tasti, aprendo la mail appena arrivata.

Aggrottò leggermente le sopracciglia, in maniera quasi impercettibile, quando lesse il mittente.

Era un indirizzo sconosciuto ma non aveva dubbi su chi l’avesse mandata; non c’erano molte altre persone che avrebbero dovuto avere interesse nello scrivergli le poche parole che la mail recitava.

 

A quanto pare anche il capo dei Turbanti Gialli ha un persocom un po’ particolare,

lo sapevi Aoba-kun? Scommetto di no~

 

Solo Orihara Izaya riusciva ad essere irritante persino mentre scriveva.

«Acchan, non leggere mentre siamo a tavola…» lo riprese sua madre.

Le sorrise riponendo il telefono in tasca: «Scusa, hai ragione, mamma.» replicò soltanto.

Odiava ammetterlo, ma gli doveva un’informazione.

 

 

Note

 

1, tatami: pavimentazione tipica giapponese.

2, shoji: porte scorrevoli in un’abitazione tipica giapponese.

3, omurice: omelette dalla forma circolare con ripieno di riso.

 

Segnalo un errore da parte mia nel capitolo precedente: ho scritto persocoN che è diventato ora persocoM (giustamente essendo l’abbreviazione di “Personal Computer” è stata una mia svista scriverlo con la “n”).

 

La frase in apertura è dell’anime di “Loveless”.

 

Ringrazio chi ha letto e mi scuso per il ritardo, nonostante avessi avvisato dell’irregolarità che ci sarebbe stata negli aggiornamenti.

Passo a rispondere quindi alle recensioni :3

 

Litachan: grazie di seguirmi, donna <3 Ecco il secondo capitolo (era pure ora XD). Non sono molto sicura della caratterizzazione di Tsugaru, perciò spero che i riscontri da parte tua mi illuminino d’immenso u_u *sfrutta Lita biecamente* *_*”

 

Fissie: ti ringrazio innanzitutto per i complimenti allo stile: non posso che essere contenta del fatto che le descrizioni ti abbiano catturato pur non entrando subito nel vivo, come tu stessa hai detto :3 Sul dove andare a parare… ti assicuro, è molto oscuro anche per me 8D Nel senso che muovere (oltre a quelli base del manga) uno Shizuo e un Izaya del genere – tramite Psyche e Tsugaru – è più “intrippante” anche per me XD

Spero che anche questo capitolo in ritardissimo sia stato di tuo gradimento :3

   
 
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