Ventiquattro
Thomas si svegliò di soprassalto a causa
del rumore del telecomando che cadde sul pavimento del suo loft, mentre lui era
addormentato sul divano. Intorno a lui, soltanto le stampate delle fotografie
della stanza delle torture e poi della camera imbottita. “Cristo… che sogno.
Sembrava troppo realistico…” pensò, strabuzzando gli occhi per cercare di
vedere meglio. “Ho trovato la soluzione del caso…? Ma che cavolo ho sognato…?”
prese in mano una delle stampe, che non erano cambiate per niente. Le solite
fotografie, con quelle stupide lettere scritte sui muri e sulla porta. Cosa
cavolo stavano a significare…?
Una volta, durante la sua carriera
universitaria, si era trovato a risolvere quiz criminologici di una certa
difficoltà. Era riuscito a risolverli tutti, ma il più difficile era
sicuramente quello dove l’assassino firmava (consciamente o inconsciamente) i
propri delitti con un qualche segno. Ricordava che l’assassino tracciava un
piccolo triangolo rosso su una parte del corpo dell’assassino, oppure un’ape, o
qualcosa di simile. Lì il mistero stava nel cercare di mettere in relazione i
vari segni, fino a giungere ad una conclusione piuttosto sensata. La soluzione
del suo test era in un nome, Diogene Triapecchi. L’aveva risolto con grande
sforzo mentale, e si era pure stupito di quanto le menti che non funzionano
riuscissero ad essere così labirintiche e machiavelliche. Criminali, appunto.
Questo gioco con le lettere, era una cosa simile. Si trattava solo di trovare
la chiave, che lui stava appunto cercando di … ma dov’era finito il suo
bloc-notes? Frugò con la mano sotto di sé, senza risultato. Andò a cercare
sotto i cuscini e lo acchiappò finalmente.
“Dunque… qui mancano alcune lettere. Nel
mio sogno…” sbuffò, cercando di rimetterne insieme i pezzi “…Nel mio sogno
c’erano alcune lettere che si formavano. Ma quali?” Guardò ancora una volta il
taccuino, grattandosi i voluminosi capelli rossi. Mormorò un suono
inarticolato, prima di portarsi le dita alle tempie, in una sorta di strana
posizione meditativa. Incrociò le gambe e si concentrò per liberare la sua
mente.
Ciò che stava per fare era una cosa molto
difficile imparata da un maestro di arti marziali che aveva avuto in passato:
meditazione per ricordare i sogni. La tecnica era semplice, bastava meditare un
po’ per sgombrare la mente e poi ripercorrere a ritroso tutto il sogno,
ricreando l’ambientazione, la situazione, i fatti. Proprio la natura inconscia
dei sogni rendeva il lavoro difficilissimo, ma evidentemente i grandi filosofi
orientali avevano previsto anche una disciplina per ricordarli (logico,
altrimenti come facevano a trarre le loro massime così piene di saggezza?
Sicuramente lo zampino di qualche folletto onirico ci doveva essere per
forza!). Respirò a fondo, cercando di cogliere ogni minimo ricordo del suo
sogno. Ricreò l’ambiente circostante, ovvero una cella imbottita. Accanto a
lui, nell’ombra, un individuo che gli parlava con una voce che a lui sembrava
profonda, dandogli una sensazione di paura. Serrò i denti, cercando di scacciare
il pensiero di Alberto che lo baciava, un sogno che ultimamente era ricorso
anche fin troppo spesso. Non gli ci voleva proprio il sentimentalismo in quel
momento delicatissimo, quindi spinse con viva forza Alberto ed il suo ricordo e
si concentrò sul suo sogno, cercando di cavarne quanto di buono poteva. Pensa
che ti pensa, spremendo le meningi, qualcosa stava iniziando ad emergere dalla
sua mente, anche se parecchio offuscata. Oltre all’ambiente, gli parve di
tornare indietro nel sogno, fino a vedere se stesso che prendeva… Una lettera…
due…. Tre.
A…
R… D…
Tre lettere. Nulla di più. Oltre a quello,
non riusciva più a ricordare nulla.
Ripreso il contatto con la realtà,
respirando piano e riaprendo lentamente gli occhi, Thomas trascrisse le tre
lettere sul taccuino, belle in grande. Gli altri fogli contenevano un sacco di
altre combinazioni, ma la prima cosa che saltava all’occhio, era che le lettere
comparse nel suo sogno, erano tutte e tre mancanti.
“Aspetta aspetta… E se…?”
Prese un’altra fotografia, questa era
proprio quella della cella. Con un grandissimo sforzo, era riuscito a ricavare
tutte le lettere presenti sulle superfici, e le aveva trascritte, in ordine,
sul taccuino, differenziandole per ambiente. Se in un ambiente mancavano quelle
tre lettere, allora nell’altro…
“Ci sono!”
Ebbe i brividi per la sua scoperta. Un
capogiro fece la sua comparsa, provocandogli quasi una sensazione di
svenimento. Dalle sue elaborazioni così accurate, venne fuori un nome. Un nome
che peraltro conosceva solo per sentito dire. Si morse il labbro, non sapendo
bene cosa fare. Prese il telefono e fece per comporre il numero di Alberto. Con
molta titubanza schiacciò il pulsante di chiamata, ma purtroppo… Il cellulare
di Alberto, unico suo mezzo di comunicazione, era spento. “Merda!” pensò,
saltando giù dal divano. “Come faccio adesso? Cosa devo fare…?” il respiro si
fece sempre più affannato, non sapendo bene come comportarsi. Improvvisamente,
gli venne un’idea. Andò al suo computer e compose una e-mail.
*****
Era incredibile. Per la prima volta dopo
due anni, Alberto si sentiva appagato. Con Filippo era stata la notte d’amore
più bella della sua vita, almeno dopo Nathan. Una lunga notte di sesso, nel
quale Filippo aveva dato una brillante performance di sé, che Alberto aveva
apprezzato più e più volte. Se solo l’avesse scoperto prima, forse si sarebbe
risparmiato un sacco di problemi. Ora erano entrambi lì, sul divano del padrone
di casa, Alberto che guardava il soffitto, con la mano che accarezzava i
capelli di Filippo, mentre questi sonnecchiava sul suo petto. Lo osservò,
pensando che fosse veramente molto dolce mentre si riposava. “Tanto dolce
quanto selvaggio.” Pensò Alberto tra sé e sé. Contrariamente alle aspettative,
c’era anche qualcosa di più. Avrebbe voluto rivederlo. Iniziare ad uscire con
lui, provare una relazione. Beh, e cosa c’era di male? Per quanto ne sapeva,
Filippo era single, e forse avrebbe acconsentito ad incominciare una conoscenza
nel vero senso della parola. “Sì” pensò, decidendo “Sono rimasto solo per troppo
tempo. Filippo mi aiuterà, comincerò una nuova vita, andrò da Fabrizio e
chiarirò tutto quanto, e andremo insieme al suo party di fidanzamento.
Finalmente la fortuna mi sorride!” disse, sorridendo. Poi però ripensò a Nathan
e Daniele. Entrambi scomparsi, finiti chissà dove. Entrambi lo amavano,
soprattutto Daniele, ma lui era stato così cieco da perderli… E pensò anche a
Thomas.
Thomas, quel ragazzetto che sembrava appena
uscito dal liceo con quei capelli rossi ed i jeans strappati e le dita piene di
anelli, che in realtà era un laureato in giurisprudenza nonché un aspirante
scrittore che picchiava forte quando lo voleva. Lo stesso ragazzetto che si era
innamorato di Alberto, ma che da questi era stato respinto. “In fondo ha scelto
lui di non aiutarmi più, ammesso che l’avesse mai voluto.” Si fece coraggio
Alberto, fino a che un’altra voce, forse quella della sua coscienza buona, lo
interpellò. “Ah sì? È così che si fa adesso? Si liquida tutto con il cinismo?
Dove andremo a finire… Se fossi in te lo chiamerei per sentire se sta bene, o
quantomeno per comunicargli la buona novella.”
-Quale buona novella?- domandò Alberto a sé
stesso.
-Hmh…- mormorò Filippo, strabuzzando gli
occhi. Alberto gli carezzò una guancia, ma Filippo non rispose. Sembrava praticamente
una bambola di pezza, che non rispondeva allo stimolo. Delicatamente, Filippo
prese la mano di Alberto e la tirò via dalla sua guancia, alzandosi dal divano.
Stralunato, Alberto si mise a sedere, guardando Filippo come se fosse stato un
alieno. Il suo profilo molto ben formato si delineò alla luce fioca
dell’illuminazione stradale che filtrava dalle finestre, mentre il ragazzo
prendeva un pacchetto di sigarette e ne tirava fuori una con la bocca, per poi
accenderla subito dopo.
-Filippo…? Amore?-
Filippo si girò, cacciando fuori una
boccata di fumo bluastro. –Dimmi, Alberto.- disse, in modo abbastanza freddo.
Con la visione del sedere del ragazzo, Alberto pensò bene di coprirsi le
vergogne, senza però capire bene perché il ragazzo l’avesse chiamato col suo
nome anziché con l’appellativo “amore”.
-Io… volevo dirti che…-
-Cosa?-
-Che…
che ho passato una bella notte con te.-
-Ah-ha…- Annuì Filippo, continuando a
tirare fumo dalla sua sigaretta.
-…E… vorrei che … insomma, vorrei che noi
due potessimo conoscerci meglio.- sembrò concludere, ma poi aggiunse –Penso…
penso di amarti. Vorrei averti come fidanzato.- concluse infine Alberto, un po’
titubante. Con ancora la sigaretta in mano, Filippo tirò una lunga boccata,
annuendo più volte… -Alberto- attaccò –Tu … Tu devi sapere una cosa.-
-Che cosa?- domandò Alberto, leggermente
allarmato.
Titubante, Filippo cercò le parole dentro
di sé, non sapendo bene quali e quante dosarne per non urtare Alberto. –Io… Non
voglio un fidanzato.- portò la sigaretta alla bocca e diede un’altra boccata,
cacciando fuori il fumo anche dalle narici, mentre Alberto lo guardava… -Non
posso avere un fidanzato. È nella mia natura di ragazzo libero. Mi piace
divertirmi e non disdegno nessuno, però questa mia particolarità ti renderebbe
infelice. Tu sei un bravo ragazzo… dolce… premuroso… gentile… Io sono tutto il
contrario.- Scosse la testa, mestamente -…Ti farei soltanto male, lo capisci?
Tu… tu sei destinato ad una persona migliore. E quella persona non sono io.-
Se gli ultimi due anni non erano bastati a
fargli crollare i nervi, bastò quella dichiarazione. Nella sua vita non aveva
ricevuto molti rifiuti, più che altro perché non aveva mai provato più di
tanto. Di solito era lui a rifiutare, e anche con Nathan non aveva dovuto decidere
se rifiutare o meno, dal momento che con il suo Nathan si trovava bene ed il
loro fidanzamento era stato quasi un atto consensuale, frutto dell’evoluzione
di una splendida amicizia. Mestamente, Alberto raccattò i suoi indumenti e li
indossò, senza dire una parola, ma sentendosi ferito nel suo cuore. Ecco cosa
aveva provato Daniele prima di scomparire, con il suo rifiuto. Filippo rimase
lì seduto sulla poltrona, a finire di fumare la sua sigaretta, guardando un
punto imprecisato nel vuoto. –Chissà quanti cuori hai spezzato prima d’ora,
eh?- domandò ad un certo punto Alberto, con una voce talmente bassa che si
faceva fatica a sentirlo. Il tono era leggermente sibilante, come la sintesi di
una rabbia trattenuta.
-Più di quanti immagini- rispose Filippo,
sospirando –Non è facile essere belli, te lo assicuro.-
-E pensare che mi eri sembrato tutto un
altro tipo di persona…- Ora Alberto era in piedi nell’ombra, accanto alla porta
d’entrata dell’appartamento.
-Mi dispiace. Che altro posso dirti? Non
saresti felice con me, renditene conto.- concluse freddamente Filippo,
lasciando ampio spazio di replica al suo interlocutore. Alberto restò zitto per
qualche minuto, poi la sua voce sibilata e roca si fece di nuovo sentire –Spero
soltanto che ti sia divertito anche stavolta. Un ragazzo con il cuore a pezzi
fa molto più gola di qualcuno a cui spezzare il cuore per primo, credo.-
Filippo non rispose, ma Alberto continuò
–Da ora in poi, tu per me non esisti più. Guai a te se ti fai vedere in giro
nell’area degli uffici all’Università. Lasciami in pace, non cercarmi mai più.
Buona notte.- concluse, e con molta calma aprì la porta, per poi richiuderla
dietro di sé. Rimasto solo, Filippo spense la sigaretta nel posacenere, quindi
sospirò e guardò il vuoto avanti a sé.
*****
Seconda fase del piano. Siccome non poteva
aspettare Alberto, Thomas si era recato direttamente a casa sua, nel palazzo.
Siccome la sua auto era ancora in riparazione presso il gommista, ora girava
con una Fiesta a noleggio. Arrivò allo stabile dove viveva Alberto,
preparandosi mentalmente a qualsiasi cosa il ragazzo gli avrebbe potuto dire.
Parcheggiò l’auto e scese, correndo verso il piano del ragazzo. Suonò il
campanello, ma questi non aprì. Suonò una seconda volta, ma non ci fu niente da
fare. Pervaso da una strana eccitazione, dovuta al fatto di sapere chi si
celava dietro i delitti, si mise a correre avanti e indietro per un po’ di
tempo, intervallando le sue corse a momenti in cui si scaldava le mani per il
freddo. Improvvisamente, a quell’ora, il portone si aprì, e ne uscirono alcuni
ragazzi allegri, che parlavano di una festa. Bloccò il portone che si stava
chiudendo con una spallata, quindi salì velocemente le scale per raggiungere il
piano di Alberto.
Arrivato a destinazione, si attaccò al
campanello, che suonò con un “Driiiiiiiiiiiiin” veramente squillante, tanto che
forse avrebbero potuto sentirlo anche i due inquilini del pianerottolo e forse
anche quelli del piano inferiore.
“Ma dove cazzo è? Possibile che non…”
Portò di nuovo la mano al campanello e fece
per suonare nuovamente, quando all’improvviso… un dolore lancinante prese a
corrergli dalla testa ai piedi. Qualcosa di lungo e spesso aveva colpito la sua
nuca, facendolo crollare sul pianerottolo. Negli ultimi istanti di coscienza,
vide una faccia nascosta dall’ombra del pianerottolo, un paio di jeans neri… ed
un paio di scarpe a scacchi bianchi e neri, come quelle della serie “Vans”.