Sei mesi dopo
Il
processo al sergente Diane Harrison per l’omicidio del colonnello Albert
Gatwick si era concluso in fretta. Nel giro di tre settimane l’imputata era
stata riconosciuta colpevole e condannata in primo grado a vent’anni di carcere.
Successivamente, il suo contributo nel processo a chi aveva permesso il
massacro di un intero villaggio a dieci chilometri da Kandahar aveva convinto i
giudici a ridurre la sua pena. Per tutto il tempo, Gibbs aveva evitato il
tribunale, come se stesse cercando di dimenticare quel caso.
Ma
non c’era riuscito, e ora si trovava nel parlatorio del carcere femminile di
Gladesville*. Una guardia scortò il sergente nella stanza. Gibbs notò che aveva
tagliato i capelli. Gli dispiacque: gli piacevano i capelli del sergente.
“Buongiorno,
sergente Harrison.”
“Buongiorno,
agente Gibbs. Mi chiami solo Diane, per favore.”
“E
allora mi chiami solo Jethro.”
“Perché
è qui, Jethro?”
Gibbs
esitò. “Volevo sapere come… come stai.”
Diane
sorrise. “Sto bene. Nessuno ha ancora cercato di accoltellarmi, e mi lasciano
frequentare la biblioteca. Direi che è quasi meglio della marina. Perché è
qui?”
“Te
l’ho detto, per vedere come stai. E credevo avessimo stabilito di darci del
tu.”
“Voglio
il vero motivo, Jethro.”
Gibbs
abbassò gli occhi, poi li rialzò e li puntò in quelli della donna. “Sai che
cosa dicono dei sogni?”
Lei
scosse la testa.
“Dicono
che chi non sogna non sta bene. Beh, io non sogno mai.”
“Non
capisco.”
“Ho
iniziato a sognare soltanto negli ultimi sei mesi.”
Rimasero
in silenzio per qualche minuto. “E che cosa sogni?”
“Un
sorriso.”
Diane
cercò di reprimerne uno, abbassando gli occhi.
“Ho
visto le fotografie sulla pen drive. La password era molto semplice.”
“Lo
so.”
“Ma
immagino l’avessi fatto apposta.”
“Non
avrei caricato quelle fotografie, se non avessi voluto fartele vedere.”
Gibbs
si guardò le mani. “Era una bella bambina.”
“Non
sbagliavo sul suo sorriso, vero?”
“No,
non sbagliavi. Non mi meraviglio che continui a sognarlo.”
“Lo
sogni anche tu?”
Gibbs
evitò la domanda. “Sai qual è la frase che mi ha colpito di più, nella tua
deposizione riguardo il massacro?”
Diane
scosse la testa.
“Rubi un rossetto e ti becchi trent’anni, fai
a pezzi il mondo e ti danno la medaglia.” Fece una pausa. “Sei quella che
ci ha rimesso di più, lo sai?”
Diane
annuì. “L’ho fatto per il mio Paese” aggiunse, con un sorriso beffardo. “Semper fidelis, no?”
“Già.
Semper fidelis.” Un’altra,
lunghissima pausa. “Potresti uscire con tre anni d’anticipo per buona
condotta.”
“Lo
so. Non ti fidi di me, per caso?”
“No,
non è questo. E’ solo che… beh, volevo solo dirti che non sarai sola, quando
uscirai.”
“Ti
ringrazio, ma…”
“No,
niente ma. Condivido quello che hai fatto. Hai avuto il coraggio di denunciare
un’ingiustizia, anche se prima hai dovuto uccidere. Hai la mia ammirazione.”
Diane
annuì. “Quello che mi servirebbe è un amico.”
“Non
vorrai farmi credere che non hai amici?”
“Quei
pochi che ho non hanno alcuna intenzione di venire a trovarmi.”
Una
lunga pausa. “Lo farò io. Verrò a trovarti” rispose lui. D’istinto, allungò le
mani sul tavolo, posandole su quelle di Diane. Erano morbide e calde. Fece
scorrere i polpastrelli sulla pelle liscia del sergente, poi le strinse le dita
tra le sue.
Lei
non si tirò indietro, ma lo fissò con curiosità. “Che cosa significa questo,
Jethro?”
Gibbs
sorrise e scosse la testa, senza lasciarle le mani. La guardò. “Non è il
sorriso di Samira, quello che ho sognato negli ultimi sei mesi.”
*Gladesville – purtroppo (o per
fortuna?) non conosco molti nomi di carceri statunitensi, quindi ho inventato.