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Autore: Rika88    14/12/2010    2 recensioni
Gennaio 1945: in una Germania devastata, Alphonse Elric, arruolato per una guerra ormai persa, lascia i figli a casa del fratello Edward. Tuttavia, come Thomas e Charlotte Elric scopriranno presto, i problemi non si limitano alla difficile convivenza tra due caratteri troppo simili, come quelli del bambino e di Ed: l'abitazione e la libreria sotto di essa sono il fulcro di un movimento incessante e, forse, anche pericoloso.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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17. Il tempo di sapere

 

Resembool. Il luogo idilliaco di cui mio padre, Ed e Winry parlavano come se si trattasse del Paradiso in terra, con occhi sognanti e un sospiro nostalgico appena trattenuto.

Resembool, il paese più noioso in cui abbia mai messo piede. Un buco che contava più pecore che abitanti, e dubito che la situazione sia cambiata: sembra uno di quei posti in cui tutto si mantiene sempre invariato. Potevo capire perché Winry volesse andarsene. L’avrei fatto anch’io.

- È normale che la pensi così. – mi disse mio padre con pazienza, il giorno che tornavamo dal cimitero in cui era seppellita mia nonna Trisha. – Sei nato e vissuto in una città enorme. –

- Anche Lotte, - ribattei – ma lei non sembra contrariata. –

Per mia sorella, quei prati sconfinati erano il più grande parco giochi che avesse mai visto, e Alex il suo compagno ideale; per buona parte del giorno sparivano dalla circolazione, e sapevamo che si trovavano ancora nei dintorni solo grazie alle risate e agli strilli che sentivamo chiaramente nel silenzio appena rotto da belati e scampanellii di greggi, oppure perché tra l’erba alta si intravedeva una testa dorata che sfrecciava. Infatti, mi sorpresi quando li vidi tutti e due seduti ai piedi di Edward, calmi e zitti come non lo erano da giorni, gli occhi sulle sue mani.

I movimenti di mio zio erano più facili da prevedere: da quando era uscito dall’ospedale, due settimane dopo il terribile incidente, e tutti quanti eravamo arrivati a Resembool, si era limitato a brevi spostamenti dentro e intorno alla casa di Winry, per quanto gli permettevano le sue ossa doloranti e rotte in più punti. La padrona di casa gli aveva vietato categoricamente di aiutarla a impacchettare i suoi averi per il trasloco a Drachma, e dopo avergli riparato gli auto-mail danneggiati continuava a tenerlo d’occhio come e più che Alex per controllare che mio zio non cominciasse a strafare come suo solito. Cautela che condividevamo tutti, in realtà, ma alla fine eccessiva: Ed se n’era rimasto buono, anche perché si stancava facilmente e i muscoli atrofizzati dall’inattività dovevano ancora rinforzarsi. Quel pomeriggio, comunque, se ne stava davanti all’officina ad osservare quello che da lontano mi parve un uccello con un’ala rotta. Era invece uno dei tanti giocattoli volanti di Alex, con corpo di cavallo. A quanto pareva, perché qualcosa interessasse il bambino doveva potersi sollevare da terra, equini compresi.

Non ero sicuro che mio zio fosse bravo nei lavori manuali, finché non mi ricordai dell’alchimia. Difatti, in un battito di ciglia (e di mani!) il giocattolo fu di nuovo intero, e persino con una criniera più fluente di prima e alcuni dettagli a dir poco raccapriccianti, come sella e finimenti borchiati e alcuni inquietanti spuntoni che coronavano la coda. Mio padre e Winry sospirarono, ma non fecero commenti; i bambini lo osservavano ammirati, e non sembrarono neppure accorgersi delle modifiche. Persino Arthur Stonebridge, seduto su una sedia vicina, aveva smesso di leggere per osservare l’operazione con aria dubbiosa.

- Sei sicuro che quell’affare volerà? – gli chiese. Mio zio non lo degnò di una risposta. Invece raddrizzò la schiena, sollevò il cavallo volante e lo osservò da ogni angolazione, con la cura di un orologiaio, prima di consegnarlo ai due bambini.

- Eccolo qui. – disse. – Trattatelo bene! –

- Diamogli un nome! – esclamò Alex, eccitato.

I due corsero via per provare il nuovo giocattolo, discutendo sul battesimo dell’aria del loro gioiello, sotto gli occhi divertiti degli adulti presenti. Winry sembrava la più felice. Appoggiata allo stipite della porta d’ingresso, in una salopette logora e impolverata, teneva le braccia incrociate al petto e gli occhi sulla testa di suo figlio, sorridendo tra sé.

- Non l’ho mai visto così felice. – dichiarò.

- La sua passione per tutto ciò che vola sfiora l’ossessione! – rise Arthur.

- Se non diventerà un meccanico, - disse mio padre – potrà sempre essere un ottimo pilota! –

- Non dirlo neppure per scherzo, Al! – protestò la madre apprensiva.

L’unica cosa che mi piaceva di Resembool era l’aria distesa che si respirava in casa, nonostante la presenza sotto lo stesso tetto di Arthur e Winry. Lei non scattava appena l’ex-marito apriva bocca, e lui era più educato, anche se questo probabilmente era dovuto al fatto che, con Ed fuori gioco, si sentiva l’unico galletto del pollaio, il solo in grado di aiutare Winry con scatoloni e mobili pesanti. Per qualche motivo, non vedeva mio padre come un rivale, e non lo infastidiva che lui fosse d’aiuto. All’epoca non capivo il perché: del resto, sapeva che mio padre era vedovo, quindi, tecnicamente, un potenziale rivale… non ci pensai troppo a lungo. Riuscii persino ad avere un paio di conversazioni costruttive con il signor Stonebridge, che come me amava molto leggere, ma il fatto che non conoscessi uno solo dei capolavori della letteratura di quel mondo gli fece assumere in fretta un tono supponente che infastidiva me e mise a dura prova la pazienza di mio padre, il quale quanto ad apprensione non era secondo a nessuno.

- Oh, a proposito… - Winry si schiarì la gola – ho finito di fare i bagagli. –

Il clima si raffreddò di colpo. Ed e papà si scambiarono un’occhiata: quello era il segnale che aspettavano. Era arrivato il momento di andarsene. Lo avevano procrastinato con le scuse che Ed era convalescente, Winry andava aiutata nel trasloco, che non sapevamo se la guerra nel nostro mondo fosse finita… ma il tempo era davvero scaduto. E poi tutti sapevamo che il povero Klaus Holze era di certo in pena per la sorte di suo padre: la verità sarebbe stata dura, ma logorarsi nel dubbio non poteva essere tanto meglio.

- Domani torniamo a casa. – dichiarò mio padre. La sua voce non era né allegra né triste. Semplicemente piatta.

- Oh, aspettate almeno un giorno in più! – protestò Winry. – Domani sarà il compleanno di Alex! –

- Winry, - disse pacatamente Arthur, - Alex compirà cinque anni, sa a malapena cosa vuol dire una festa di compleanno. Non obbligare i tuoi ospiti a restare, se non vogliono… -

- No, certo. – si corresse in fretta la donna, arrossendo. – Solo, credo che gli farebbe molto piacere se lo passerete con noi! Non abbiamo mai invitato nessuno, per una volta che ha un’amica... – si interruppe e ci lanciò un’occhiata implorante.

Ed e papà si guardarono.

- Beh, - iniziò lo zio – in effetti sarebbe carino... lui e Lotte sembrano inseparabili. E poi potremmo dare una mano per fare una festicciola carina, visto che ci hai praticamente impedito di aiutarti a impacchettare i mobili. –

Mio padre mi interrogò con lo sguardo.

- Buona idea. – commentai. Uno o due giorni in più non mi avrebbero di certo ucciso di noia. E poi era l’ultima occasione che avevo per fare una scorpacciata della buonissima torta di Winry, prima di tornare alla solita dieta di guerra.

- Allora è deciso. – annuì Ed. Winry lanciò uno strillo di gioia, e io non riuscii a fare a meno di guardare la faccia di Arthur Stonebridge. Il suo sorriso sembrava più un rictus.

* * *

 

Alex non aveva mai avuto una festa di compleanno in senso stretto. Del resto, aveva imparato da poco il giorno del suo stesso compleanno: quando era più piccolo, semplicemente un bel giorno si alzava e tutti gli facevano gli auguri, ma aveva un’idea vaga del perché. Senza contare che tutti includeva me, Artie e la zia Amelia, quindi non era neppure una festa degna di questo nome. Perciò, mi impegnai perché il sette maggio di quell’anno potesse essere epocale: grazie a Lotte, mio figlio fu distratto abbastanza a lungo da permettere a noi altri di preparare addobbi casalinghi… e piuttosto stentati, ma ci dovemmo arrangiare con quel che c’era in casa.

- Comincio a sentire le dita insensibili! – scherzò Arthur ad un certo punto del pomeriggio. – Non pensavo che le catene di anelli di carta fossero così faticose da costruire! –

- La colla è pessima. – mi scusai. – Non la uso mai, deve essere anche secca. –

- L’abbiamo allungata con un po’ d’alcol. – mi tranquillizzò Al, senza neppure alzare gli occhi dalla creazione che gli scivolava dal ginocchio fin sul pavimento, come una coda multicolore.

- Stasera la cucina sembrerà un carcere. – ridacchiò Ed.

- Qualcuno ha altre idee? – lo rimbeccai.

- Passo. – si arrese lui. – E comunque, davanti alle tue torte è difficile notare le decorazioni della stanza. –

Accettai il complimento, e tornai a lavorare sul dolce in questione, canticchiando. Era una bella giornata. L’avrei resa ancora più bella per Alex, e poco importava che l’avrebbe scordata presto, come capita ai bambini.

 

Non la scordò, anche se torta e decorazioni c’entrano poco. Ogni tanto me ne parla ancora, e so per certo che l’ha raccontata ai suoi figli. Non so in che termini: se come una fantastica barzelletta o in toni da tragedia… più probabile la prima. Alex ha un senso dell’umorismo particolare, ereditato da suo padre, direi, perché nessuna persona sensata è in grado di capirlo. Mi piace considerarlo l’unica vera eccentricità di mio figlio. Beh, a parte gli aerei.

La causa della trasformazione di un semplice compleanno in una data memorabile è di Ed, ovviamente. È sempre colpa sua. Però a iniziare fu Arthur – e anche questo è piuttosto scontato.

All’inizio, fu un commento sgradevole davanti al regalo degli Elric: un aquilone che tutti gli Elric avevano contribuito a creare, senza alchimia. Ed lo aveva costruito con bacchette di legno e carta, poi Al e Thomas l’avevano decorato, colorandolo e aggiungendo una bella coda con della carta crespa che non ricordavo di avere in soffitta. Lotte aveva aggiunto un grosso fiocco rosso e legato dei bottoni, che pendevano tutti intorno come perline: suo padre non aveva avuto il coraggio di fermarla, e io non avrei voluto che lo facesse.

- Tratta bene i tuoi regali. – disse Artie. – Se questo nuovo aquilone si rompe, nessuno te lo riparerà. –

Edward gli lanciò un’occhiata che avrebbe steso un elefante. Alex, fortunatamente ignaro di tutto, annuì e basta.

Sul momento non ci badai, e non ritenni neppure che il mio ex marito parlasse per invidia. Il suo regalo – un aeromobile, neppure a dirlo – era più bello e costoso del giocattolo di legno, e questo soddisfaceva gli standard di Arthur. Inoltre, Alex aveva mostrato lo stesso entusiasmo per entrambi. Doveva essere solo una frecciatina velenosa rivolta a Edward, però a sbottare fui io:

- Artie, eviteresti di rovinare la festa al bambino? – sibilai.

- Ah, è sua la festa? – replicò lui, velenoso.

Trattenni una rispostaccia solo perché i bambini erano tutti a portata di orecchio. Mi rivolsi proprio a loro, facendo notare che era ora di andare a letto.

- Ha ragione. – disse Alphonse, spegnendo sul nascere le proteste di Thomas, che senza aggiungere altro si alzò e si accomiatò al pari degli altri. Mi chiesi, con trepidazione, se un giorno sarei stata anche io in grado di farmi obbedire così da Alex, come riusciva a fare Al. Avevo una gran voglia di chiedergli come facesse, ma lui avrebbe di sicuro risposto che non era nulla di speciale…

E poi, non c’era tempo. Se ne sarebbero andati tutti la mattina dopo. Io e Alex avremmo preso il treno nel pomeriggio. Stava finendo tutto velocemente.

- Mi aiuti a portare su Ala di Cartone? –

- Cosa, amore? – chiesi, interdetta. Lui alzò l’aquilone. – Oh, certo. Si chiama Ala di Cartone? –

- Sì. E lui è Ala di Ferro. – puntualizzò, sollevando nell’altra mano l’aeromobile.

Portammo a letto i bambini e Ala di Cartone. Ala di Ferro sarebbe rimasto sveglio tutta la notte per fare la guardia, spiegò seriamente Alex, così se gli aeromobili di Aerugo fossero arrivati avrebbe potuto mandarli via prima che bombardassero Resembool. Ovviamente Ala di Cartone non poteva, perché non era un vero aeromobile e non l’avrebbero riconosciuto.

- Allora, - suggerì Ed, - è meglio metterli entrambi vicini alla finestra, così se Ala di Ferro si addormenta il suo amico può svegliarlo. –

Questo lo convinse definitivamente. Spensi la luce della sua cameretta, e chiusi la porta. Mi accorsi di sorridere ancora perché vidi la stessa espressione sul volto degli altri.

- Se ora dorme davvero, - dissi – e non si mette a giocare, questa sarà una giornata memorabile. -

- Propongo di finire la birra e poi imitare i piccoli. – suggerì Al.

- Ottima idea. – approvai. - Voi andate pure, io vado un attimo a togliermi queste scarpe, mi stanno uccidendo! –

- Te l’avevo detto di tenere le pantofole. – mi prese in giro Artie.

- Le tenevo in serbo per un’occasione speciale. – risposi, volutamente ambigua. Solo con lui dovevo sempre pesare le parole.

Andai in camera mia, e calciai quelle stupide décolleté sotto il letto, maledicendo chi le aveva costruite male fino alla quarta o quinta generazione; mi sedetti sul letto a massaggiarmi i piedi indolenziti, e lo sguardo mi cadde sul libro vicino al comodino. Lo aprii e recuperai la foto che usavo come segnalibro.

Io, Ed, Al. Una vita prima. Prima di tutto. Chissà se Alex sapeva chi rappresentava quella fotografia, se aveva capito di averli conosciuti entrambi in quei giorni…

Quando qualcuno aprì la porta, non alzai neppure gli occhi per controllare chi fosse.

- Hai bisogno di qualcosa, Artie? -

Lui si schiarì la gola.

- Mi piacerebbe accompagnarti alla stazione, domani. – dichiarò.

- Grazie, sei molto gentile. – risposi, neutra. – Però non è il caso che ti disturbi. Domani avevo comunque intenzione di accompagnare Ed, Al e i bambini a Central City, avremmo preso lo stesso treno. –

- Non vedo che bisogno ci sia di partire al mattino, se la coincidenza è al pomeriggio. Non puoi restare ancora qui? Quei quattro saranno in grado di trovare il treno da soli, se davvero hanno vissuto qui per anni! –

- Ti sembra carino mettere alla porta degli ospiti? –

Lui si sedette di fianco a me, e gli cadde lo sguardo sulla foto che tenevo in mano.

- Winry… - sospirò. – Sei sicura che sia gente di cui ti puoi fidare? –

- Sciocchezze! – sbottai. – Li conosco da sempre. E in ogni caso, ora non ha più molta importanza, no? –

- Lo dico per te. Se davvero li conosci da così tanto tempo, dovresti sapere che Edward Elric è un disertore che l’Esercito cerca da anni. -

- Lo so. – risposi con naturalezza.

- Lo sai? – esclamò lui, sbigottito.

- Non alzare la voce. Certo che lo sapevo, e da molto più tempo di te… - socchiusi gli occhi, mentre un sospetto si faceva strada nella mia mente: - non sarai stato tu ad andare a denunciarli, vero?? –

Strinse le labbra e si voltò.

- Come hai potuto, Artie? – gridai.

- Era mio dovere, in quanto cittadino ligio alle leggi. – si difese, gonfiando il petto. – Non è che hai intenzione di andare con loro in qualunque posto siano diretti, vero? –

- Ora non far sembrare che sia tutta una macchinazione ai tuoi danni! Non ho mai pensato nulla di simile. –

- Guarda che a me non interessa. –

- Davvero? Allora questa non è una scenata di gelosia? – lo punzecchiai.

- Perché dovrebbe esserlo? – replicò, incrociando le braccia al petto. – Sei tu che ti sei praticamente buttata tra le mie braccia, quattro anni fa, per colpa di quell’imbecille. Sei libera di farti di nuovo usare, ma stavolta non venire a cercare consolazione da me! -

In quel momento esplosi.

* * *

 

Disposi le candeline abbandonate sul tavolo in modo da formare un sole a cinque raggi. Alex aveva soffiato con tutte le sue forze, ma all’inizio ne aveva spente solo quattro.

Di sopra, nessun accenno ad una fine della discussione. Anzi, peggiorava. Alzai lo sguardo per incontrare quello di Al, sopra il boccale. Dannazione a lui e alle abitudini che aveva preso nell’Esercito! Se avesse avuto meno birra, avremmo potuto fingere di andare fuori a prendere una boccata d’aria, ed evitare di restarcene in ascolto! Senza neppure parlare, entrambi bevemmo più in fretta, continuando a scambiarci sguardi ansiosi.

- Ma certo! Certo! Adesso che hai trovato qualcun’altro che mantenga te e quell’alienato di tuo figlio, non hai più bisogno di me, non è vero? -

Sentii le guance bruciare, questa volta per la rabbia. Alex era in camera sua, e di certo capiva perfettamente quel che veniva detto.

- Non osare mai più parlare così di Alex! -

Povero bambino. Forse era impegnativo, con quel suo modo di fare così fuori dagli schemi, ma questo era indice di un’intelligenza vivace, e chiunque l’avrebbe capito, anche senza essere un medico. Avevo l’impressione che Stonebridge odiasse tutto quel che è fuori dall’ordinario: un bimbo troppo sveglio, due uomini che saltano fuori dal nulla, estranei in casa sua... tutto ciò su cui non avesse il controllo lo infastidiva, perchè ne aveva paura. Chissà allora come aveva fatto a innamorarsi di Winry, che è fuori dal comune sotto molti punti di vista. Forse gli piaceva l’idea di fare la parte del buon samaritano che consola la fanciulla afflitta, appena mollata da un cafone che non la merita. Mi sembrò di risentirlo, alcune settimane prima, quando mi aveva detto Spero non ti dispiaccia se, quando mi hai lasciato campo libero, ho tentato di infilarmici. Converrai che, vista la donna, ne valeva la pena... l’ho conosciuta alla vostra festa della tosatura, la primavera dopo che te n’eri andato. Il discorso di uno spaccone. Scossi la testa tra me e me, e avvicinai di nuovo il bicchiere alle labbra.

... alla vostra festa della tosatura...

Imbecille. Che diavolo ci era venuto a fare, poi, alla festa della tosatura? È un medico, non un veterinario!

... la primavera dopo che te n’eri andato...

Che enorme cre...

Aspetta un attimo.

Al aggrottò le sopracciglia, vedendo che mi ero immobilizzato.

- Tutto bene? - mi chiese.

Lo ignorai.

Primavera??

- Ed? -

Appoggiai il bicchiere. Dato che, quando glielo avevo chiesto, Alex mi aveva detto di avere quattro anni, era plausibile che Artie fosse comparso sulla scena intorno alla primavera del ‘34, in tempo per metterlo in cantiere.

Però Alex aveva cinque anni. Lo aveva detto proprio Arthur. Avevo visto cinque candeline sulla torta.

Contai sulle dita, freneticamente.

Una volta. Due volte. Tre, per maggior sicurezza. Il volto di Alphonse ormai era una maschera di preoccupazione.

- Ed! -

Ero sempre stato bravo con i calcoli. E capivo qualcosa di gravidanze: sapevo benissimo che la nascita di solito avviene circa duecentosessantasei giorni dopo il concepimento. Più o meno nove mesi.

Ergo, dal sette di maggio del ‘34, cioè del 1940, si doveva tornare indietro fino al quindici agosto del 1939, giorno più, giorno meno.

Quel giorno, Arthur non poteva essere con Winry: non solo perché non si conoscevano ancora, ma perché c’ero io.

L’estremità di uno dei festoni appeso tra di noi, una catena di stelle filanti che Alphonse e Thomas avevano incollato con pazienza per metà pomeriggio, si staccò e cadde tra noi, oscillando pigramente senza raggiungere il tavolo. Mi attraversò il campo visivo un paio di volte, prima di fermarsi davanti al mio naso, dividendo perfettamente a metà il volto di mio fratello.

- Al! - ansimai. - Alex... Alex è mio figlio! -

Alphonse irrigidì le spalle. Aprì la bocca, ma non riuscì a trovare nulla da dire, e se ne rimase a ripetersi mentalmente - lo sapevo - gli stessi calcoli che avevo fatto io.

- Oh, per la... - balbettò fiaccamente, - per la miseria! -

Si passò una mano tra i capelli, scompigliandoli, poi tornò a fissarmi con gli occhi sgranati. Gli stessi occhi scuri di Alex. Come avevo fatto a non accorgermene? Erano gli occhi di mia madre.

Mi scolai quel che restava nel bicchiere.

- Devo andare a parlare con Winry. - dissi.

Certo, il momento non era proprio dei migliori. Sembrava che quei due dovessero arrivare alle mani da un momento all’altro. Ciononostante, decisi che avevo il sacrosanto diritto di sapere, e salii le scale deciso ad aspettare il momento buono per interromperli.

Persi tutta la mia grinta appena arrivai davanti alla porta. Me ne rimasi come un idiota dietro l’uscio chiuso, aspettando un momento di quiete.

- Continua pure a giocare con i tuoi aggeggi metallici. - stava dicendo Stonebridge, la voce ovattata dietro il pannello di legno, ma comunque così forte da rimbombare in tutta la casa. - Quando sarai in mezzo ad una strada, io non ti aiuterò di certo! -

- E chi li vuole i tuoi soldi! - strillò Winry. - Possibile che tu non sappia pensare ad altro? Giudichi il mondo in base al costo! -

- Certo, perchè è su questo che il mondo si basa! -

- Per fortuna Alex non ti è rimasto abbastanza vicino da essere contagiato dalle tue ossessioni! -

Sbirciai istintivamente verso la camera di Alex. La porta era socchiusa. Cominciai ad avvertire il sangue rombarmi nelle orecchie, mentre una furia sorda cresceva dentro di me, come una creatura viva che cercasse di uscire. Strinsi i pugni per trattenerla.

- È immune dalle mie ossessioni, come le chiami, perché vive fuori dal mondo. Diventerà un disadattato, e sarà solo colpa tua! -

La creatura diede una codata da qualche parte vicino al mio stomaco, e non ci vidi più dalla rabbia. Afferrai la maniglia ed entrai, così inaspettato che i due trasalirono e si fermarono come burattini. Winry era praticamente di fronte a me, mentre Arthur aveva voltato la testa per guardarmi. Mi avvicinai a lui e, senza dire una parola, gli sferrai un pugno che lo fece rovesciare a terra. Scordai i muscoli doloranti, il fatto che Stonebridge fosse molto più grosso di me, la presenza di tutte le altre persone in casa. Guardai Artie rovesciarsi a terra emettendo uno squittio sorpreso, per poi portarsi una mano alla guancia e alzare uno sguardo sbigottito su di me.

- Fuori. - dissi, indicando la porta.

Una parte di me avrebbe desiderato che si ribellasse e mi aggredisse, almeno avrei avuto la scusa per dargliene ancora. Lui invece non fiatò né si oppose, ma saltò in piedi e si eclissò; non mi curai neppure di controllare, ma rimasi immobile, a testa bassa, ansando per lo sforzo e la rabbia.

Ascoltai i suoi passi scendere pesantemente le scale, arrivare al piano terra e percorrere il corridoio, dove incrociò Alphonse e lo spintonò – a giudicare dall’esclamazione di protesta di mio fratello. Quando la porta d’ingresso si chiuse con uno schianto, alzai lentamente il viso. Anche Winry era rimasta pietrificata, e incrociando il mio sguardo parve afflosciarsi sul letto, stringendo ancora tra le dita il pezzo di carta che avevo intravisto prima, ma non avevo considerato... in quel momento, mi accorsi che si trattava della foto che Alex mi aveva mostrato a Central City, la sera in cui eravamo arrivati.

Sei tu il bambino della foto? mi aveva chiesto. E io avevo confermato, chiedendomi il perché di tanto interessamento.

- Hai detto ad Alex che suo padre era il bambino della foto? – domandai.

Winry sollevò la testa di scatto, arrossendo.

- Come lo sai? –

Scossi la testa, e andai a sedermi di fianco a lei, prendendo in mano la fotografia e guardandola con occhi nuovi.

- Ecco perché me lo ha chiesto... – sussurrai. Un pensiero mi fece rabbrividire: - Ha saputo che ero suo padre prima ancora che io scoprissi di avere un figlio. –

- Dannazione ad Artie e alla sua boccaccia! – sibilò Winry.

- Per una volta gli devo essere grato, invece. – ribattei. – A quanto pare, tu non avresti avuto intenzione di dirmelo. –

- E cosa sarebbe cambiato? – sbottò lei, e dalla stizza la sua gamba ebbe uno scatto e sbatté contro il mio ginocchio d’acciaio. – Ora lo hai scoperto. Domani tornerai nel tuo nuovo mondo, e non lo vedrai più. Non sarebbe stato meglio non sapere? -

Strinsi le labbra. Forse sì. Forse sarebbe stato meglio non aver generato un figlio, in generale, vista la situazione in cui ci trovavamo noi due. Però Alex c’era, e dopo averlo conosciuto non riuscivo a desiderare completamente che sparisse.

- No, non sarebbe stato meglio. – decisi. – Sono felice di averlo visto. Sono felice... – mi interruppi, imbarazzato. – Sono felice di aver contribuito a farlo esistere. –

Chissà quando era stato, esattamente. Sperai che non si trattasse né della prima né dell’ultima volta in cui io e Winry avevamo fatto l’amore: entrambe difettavano di romanticismo, avevamo addosso troppa foga, per motivi diversi. Le volte intermedie erano andate meglio: dopo aver aspettato per decenni, ci eravamo presi il nostro tempo... non avevamo più fretta.

- Ti somiglia. – disse Winry. – Non riuscivo a credere che non lo notassi. –

- Non è vero! – protestai. – Ha lo stesso colore di occhi di Al e della mamma, ma per il resto è identico a te. –

- I lineamenti sono i tuoi. Ha persino il tuo stesso naso! –

Ripensai al volto di Alex. Non avevo notato nulla di particolare che potesse essere ricondotto a me, ad essere sincero: avrei dovuto guardare meglio. L’avrei fatto il giorno dopo, nel viaggio in treno. Almeno sarei stato sicuro di imprimermi a fondo nella memoria il viso di mio figlio...

Il viso che aveva a cinque anni, mi corressi. Se fossi tornato a Monaco, non lo avrei mai visto compiere i sei. Né i sette. Né i diciotto. Non avrei mai saputo quando gli sarebbe caduto il primo dente, quando avrebbe iniziato la scuola...

- Devo tornare indietro con Al. – mi dissi, parlando ad alta voce. – Lui ha lasciato Amestris solo per seguirmi. –

- Ed, sono sicura che Al capirà se tu volessi... – si interruppe, e io mi voltai a guardarla. C’era una luce nei suoi occhi... di speranza? Possibile?

- Tu vorresti che restassi qui? – le domandai. – Dopo che me ne sono andato e ti ho lasciata sola? Dopo... aspetta, com’era?... che ho fatto i miei comodi? –

- Devo ammettere che te li ho lasciati fare. – ribatté lei con dignità. – E mi sono piuttosto divertita. –

Sorrisi, ma non mi lasciai sviare.

- Non devi decidere ora. – stabilì Winry, appoggiando la foto sul comodino per non dovermi guardare. – Fallo domattina, e poi... -

- Winry, no. – decisi. – Sul serio, non credo che ce la farei a cambiare di nuovo tutta la mia vita. E per di più rischiare di passarla a scappare dall’esercito. –

Fu sul punto di insultarmi. O di colpirmi. O entrambe. Lo vidi chiaramente, ma non potevo farci niente. Non avevo la forza di ricominciare un’altra volta da capo, in un mondo che ormai riconoscevo a fatica. Non riuscivo a pensare di dover rientrare in una guerra, ora che speravo di essermela lasciata alle spalle. Allo stesso tempo, non aveva senso seguire Winry a Drachma: oltre alle difficoltà che le avrei fatto ricadere addosso (attraversare la frontiera con un disertore? Temo sia reato...), sarebbe stata solo un’altra forma di esilio, e io ero stufo.

- Voglio un posto da chiamare casa. – dissi. Lo volevo disperatamente. Lo cercavo da trent’anni, da quando avevamo bruciato la prima casa.

- E questa cos’è? – ribatté Winry.

- Questa è un’abitazione che domani si svuoterà. – risposi. – Era casa mia solo perché c’eri tu. –

Lei si morse il labbro inferiore e si alzò di scatto, per allontanarsi da me. Afferrò uno scatolone che giaceva in terra ancora aperto e finse di guardarci dentro.

- Molto bene. – esordì appena recuperò il controllo sulla sua voce. – Vuoi salvare capra e cavoli, e così facendo scontenti tutti. –

- Sembra il riassunto della mia vita. – sospirai.

- Già, ma se questa volta ascolti me prima di gettarti a testa bassa e combinare disastri, potremmo limitare i danni. – Si sedette di nuovo vicino a me, incrociando le braccia al petto.

- Hai una soluzione? –

Ce l’aveva, come temevo. Era la possibilità a cui non avevo mai voluto pensare.

- No. – decretai.

- È l’unica strada percorribile. – fece notare lei.

- Maledizione, ho detto no! Con che faccia lo racconterei ad Al?? –

- Promettimi almeno di prenderla in considerazione! –

- L’ho già fatto sei anni fa, e l’ho scartata! –

- Fallo di nuovo, e stavolta mettici più impegno! –

- Bene, passerò tutta la notte a trovare dei motivi per non seguire il tuo piano strampalato. –

- Ottimo! –

 

Ehm...

No.

Non passai tutta la notte a cercare motivi. Non ci pensai affatto. Quella donna terribile mi trovò altro da fare.

- Qualche idea? – mi domandò Winry la mattina dopo, fingendosi interessata. La sua voce arrivava ovattata alle mie orecchie, visto che parlava con la bocca appoggiata alla mia spalla nuda.

Grugnii, e me la strinsi più vicina.

- Nessuna. Stavo pensando a quando uscirò da quella porta e guarderò in faccia mio fratello. – borbottai.

- Ah. –

- Gli dirò che siamo rimasti a giocare a scacchi fino a tardi. –

- Sai giocare a scacchi? –

Aprii gli occhi, e la trovai che mi guardava con aria innocente. Sgusciò dal mio abbraccio e appoggiò la testa sulla mano, puntellandosi con il gomito per osservarmi dall’alto in basso. I capelli sciolti scivolarono a coprirle le spalle e i seni, eliminando una fonte di distrazione non indifferente.

- Allora? – mi domandò.

Sospirai.

- Facciamo a modo tuo. – mi arresi. – Però poi non dire che non ti avevo avvertito! –

 

 

Pensierino della buonanotte: ohi, voi due! Rivestitevi all’istante, che se no mi tocca alzare il rating!

Eccomi qui, in ritardo mostruoso come avevo preannunciato: era mia intenzione pubblicare dopo la tesi, ma visto che questa è stata ritardata fino al venti, e io ho continuato a scrivere nei buchi di tempo, sono riuscita ad organizzarmi un po’ prima. E a dare libero sfogo alla mia sensibilità EdWin, non so se lo avete notato.

Oh, e vi ho già detto che adoro Alex? Ecco, nel caso non si fosse capito, lo ribadisco. Adoro Alex. È una questione genetica, credo, perché adoro pure il suo papà...

bacinaru: grazie mille per i complimenti! Sì, questo è – ufficialmente – il penultimo episodio. C’è ancora l’ultimo e l’epilogo: inizialmente mi ero data come termine l’addio ad Amestris (se no sarei andata avanti in eterno!), ma alla fine mi sono concessa un mini-episodio che spieghi che fine hanno fatto i nostri amati Elric... sempre ufficialmente, in realtà volevo scrivere dei pargoli cresciuti! Sono la prima a non seguire le mie stesse regole, lo so.

Leuconoee: oddio, grazie per l’appunto sul colore degli occhi di Alex!! Che vergogna... nella primissima stesura, Alex aveva anche gli occhi azzurri di Winry: ho cambiato in seguito, un po’ per dare a Ed una qualche prova della paternità, e un po’ perché io stessa volevo che Alex avesse anche qualcosa del notevole papà... però la parte della liberazione del bambino l’ho presa parola per parola da questa stesura (cosa strana, perché di solito rimaneggio tutto), e mi son scordata di ricontrollare! Che mi serva da lezione.

La frase sull’argilla e il cemento purtroppo non era un proverbio cinese...veniva da Per un pugno di dollari, è una delle frasi celebri di Clint Eastwood: quindi, un anacronismo enorme. Mi salvo pensando che non sia un pensiero dell’Ed degli anni Quaranta, ma dell’Ed che sta raccontando, che quindi ha già visto quel film.

Concordo sul fatto che Holze ha fatto una fine molto peggiore di Hedwig (arso vivo... mamma mia!). Mi sarebbe piaciuto il contrario, però ho incontrato parecchi problemi: Hedwig non era stupida, non si sarebbe buttata in un Portale sapendo quel che era successo al Presidente che l’ha preceduta; Holze non aveva motivo per uccidere Ed una volta che l’arpia se n’era andata; soprattutto, volevo che Edward tornasse da Winry senza rimorsi di coscienza nei confronti di Hedwig, per non complicare ulteriormente la loro situazione sentimentale con un’ex fidanzata sosia ammazzata involontariamente...

E per rispondere al tuo dubbio amletico: la bellezza è un’arte. Hedwig l’ha coltivata per anni, mentre Winry se ne frega e gira per casa in salopette, bandana e chiave inglese sporca di grasso. È per questo che mi è simpatica.

Liris: concordo, Ed fa la sua porca figura sempre e ovunque. Sconfigge i cattivi, salva gli innocenti, e soddisfa carnalmente le donne, praticamente un eroe da romanzo! L’unico difetto è la fedeltà assoluta ad una sola donna... ma va beh, lo adoro anche per questo.

Siyah: la tua anima EdWin è soddisfatta da questo episodio? :) Non ti preoccupare, lo so che la mia fanfic è scivolosa è fugge subito sul fondo del fandom. È timida.

 

 

   
 
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