Capitolo 7
2010
Camila pensa di
aver fatto tre grandi sciocchezze nella sua vita.
La prima, quando
alle scuole elementari rubò un rotolo di carta igienica e due merendine dagli
zaini dei suoi compagni di classe. Aveva fame, e sua madre non comprava carta
igienica da settimane, ormai. Quel colpo di testa costò caro alla sua famiglia.
La scuola si rese finalmente conto delle loro condizioni disagiate, e anche se
allora avevano ancora un tetto sulla testa, gli assistenti sociali li tennero
d’occhio per un anno; ciò che Camila ottenne, invece delle merendine e della
carta per soffiarsi il naso perennemente gocciolante, furono una serie di
rimproveri da parte di sua madre (non per aver rubato, ma per essersi fatta
beccare) e uno schiaffo da parte del padre. Aver portato a galla la loro
povertà significava, per lui, l’obbligo di cercarsi un lavoro, e l’uomo non
voleva saperne. Finse di provarci per qualche mese, ma poi mollò. Lui e la sua
famiglia si trasferirono nella vecchia Golf, e da quel giorno Camila non toccò
più una merendina all’albicocca. Anche adesso, quando usa la carta igienica,
ripensa a quell’episodio e a ciò che ha determinato.
La seconda
sciocchezza Camila la fece quando sposò Umberto. Rimpiange spesso quel giorno,
anche quando cerca di pensare alle cose positive che da esso sono derivate. Il pensare dura poco, però, per cui il suo matrimonio resta
una sciocchezza.
La terza
sciocchezza ha avuto luogo dieci minuti fa, quando si è chiusa nella sua camera
e ha deciso di riempire due sacchi neri di vecchi giornali e di volantini
trovati nella metropolitana. La terza sciocchezza, secondo Camila, comprende
anche il momento successivo, quando ha ammesso il suo maldestro giochetto a
Davide e gli ha chiesto di andare in un posto appartato per parlare.
Cosa mi è passato per la testa? E’ un
ragazzo. E’ il ragazzo di Alessia. Cosa ho nel cervello, segatura?
Davide ha accettato
subito di parlarle, e Camila sa perché l’ha fatto: l’ha riconosciuta; sa che è
lei la ragazzina di 17 anni fa, e vuole una conferma.
“Il palazzo ha un
parco sul retro,” gli dice Camila. “Puoi
aspettarmi lì? Io devo buttare questi,”
aggiunge, prendendo i sacchi leggeri dalle sue mani.
“D’accordo,” risponde lui, annuendo senza smettere di guardarla.
“Posso prima spostare la mia macchina? E’ nel parcheggio… se la lasciò lì
Alessia capirà che non sono andato via.”
Camila non aveva
pensato a questa eventualità, e il fatto che ci abbia pensato lui le procura
una strana sensazione dentro. Come se il ragazzo sapesse che parlare con Camila
può essere pericoloso, soprattutto per la sua storia con Alessia.
Da un lato, si
sente sollevata al pensiero che lui cerchi di salvaguardare la convivenza con le
coinquiline. Dall’altro, Camila teme che Davide sia semplicemente mosso dal
bisogno di curare i propri interessi e arginare l’eventuale gelosia di Alessia.
In un modo o
nell’altro, pensa alla fine, è meglio che lui sposti l’auto dal parcheggio.
Il parco del
condominio è unico nella sua specie. Camila lo adora, e se avesse più tempo a
disposizione si occuperebbe di coltivare le aiuole piene di erbacce. Il palazzo
non ha un portinaio, e gli appartamenti sono popolati da studenti, per cui a
nessuno interessano piante e fiori.
Camila getta i
sacchi nel contenitore enorme della raccolta differenziata e, stretta in un
cardigan color lavanda, accede al parco tramite un cancelletto nero. Prima di
entrare si guarda attorno, cercando l’auto di Davide, ma non la vede.
Cammina sul sentiero
di cemento largo tre metri, approfittando della luce proveniente dalle finestre
che affacciano sul parco. Quelle del suo appartamento, per fortuna, guardano
sul parcheggio, dal lato opposto. I lampioni della strada l’aiutano a scoprire
la figura di Davide, in piedi accanto ad una magnolia.
“Ciao,” gli dice, sentendosi una stupida per il tipo di saluto
scelto.
“Ciao. Ho
parcheggiato lì,” ribatte lui con un sorriso. Indica
il muro che separa il parco dalla strada. “L’auto è in strada.
Ho scavalcato il muro,” spiega. “Non ho una macchina
invisibile.”
Lei ride
nervosamente, stringendosi ancora di più nella lana calda.
“Prima di iniziare
a parlare, posso dirti una cosa?” chiede lui.
“Sì.”
“Vorrei dirti
‘Grazie’ per aver… difeso… credo che sia la parola giusta… per aver difeso il
nome di mia sorella a tavola.”
Camila abbassa gli
occhi, ripensando per un attimo a come si è lasciata andare dopo la telefonata
di Davide. E’ in quel momento che ha deciso di parlargli in privato.
“Tu non sei come
Alessia,” gli dice. “O almeno così sembra.”
“Cosa vuoi dire?”
“Alessia è molto
superficiale. Tu non lo sei.” Gli parla senza guardarlo in faccia. “Alessia è
crudele, a volte.”
“Con te?” ribatte
lui. Il tono della sua voce costringe Camila ad alzare gli occhi. “Con te? E’ stata
crudele con te?”
“Pensa che sia
pazza,” dice scrollando le spalle. “Non è crudeltà?”
“Quella è ignoranza,” risponde Davide. “Tu non sei pazza.”
“Sì. Ma se dopo un
anno continui a farlo, pur sapendo che non lo sono…”
“Allora
è stupidità. E forse
anche crudeltà,” conclude lui.
Eppure state
assieme, vorrebbe dirgli. Hai appena detto che è ignorante, stupida e forse crudele.
“Di cosa vuoi
parlarmi?”
All’improvviso
Camila non si sente così tanto sicura come prima. A
tavola, quando Davide ha messo la parola fine alla presa in giro su Priscilla,
Camila ha visto qualcosa. Un segno, un piccolissimo segno, che le ha fatto
pensare ‘Non è come lei. Posso fidarmi. Posso dirgli la verità’.
Ma ora, ora non è
più sicura. Sembra che Davide non abbia problemi a frequentare una ragazza
superficiale, stupida e (forse) crudele.
“Niente,” gli dice con un filo di voce. “Ho sbagliato a… lascia
perdere, me ne torno dentro.”
Fa per voltarsi, ma
lui l’afferra per l’avambraccio prima e per la mano
poi.
“No!” esclama
Davide. “Non andartene!”
L’attira a sé per
costringerla a rimanere, e quando Camila si ferma lascia la sua mano.
“Non puoi fare così,” le dice. “Non puoi prendermi in giro.”
“Non ti sto
prendendo in giro.”
“Allora
parliamo. Cosa vuoi
dirmi? Siamo soli, adesso.” Si guarda attorno. Il buio
li circonda, ad eccezione di un piccolo lampioncino rotto, sommerso da un
cespuglio giallastro.
“Non so se posso
fidarmi di te.” Lo dice a voce bassa, sperando quasi che lui non l’abbia
sentita.
Quando lo guarda
negli occhi, vede un leggero sorriso sulle labbra di Davide. I capelli biondi
sono più lunghi sulla fronte. Un ciuffo solitario riposa su un sopracciglio.
“Non ho mai
raccontato a nessuno di te.” La voce del ragazzo è bassa quanto la sua, ma gli
dà i brividi. Le parla sapendo chi è. Sapendo che non ha fatto che mentire, per
tutto il giorno.
“All’inizio perché
non volevo cacciarmi in un guaio,” continua. “E poi
perché mi piaceva… mi piaceva avere un qualcosa di mio. Un
segreto importante.”
Si guardano senza
fiatare per un minuto. Forse un’ora.
“Mi dispiace di non
essere più tornata al campo.” Le prime parole ad uscire dalle sue labbra sono le
ultime che Camila avrebbe voluto dire. Aveva anche pensato ad un discorso,
mentre riempiva i sacchi di cartacce, ma ora ciò che
pensa è ciò che più l’ha segnata 17 anni prima. Il dispiacere per non essere
ritornata a dire ancora grazie. Il senso di colpa per aver preso così tanto da
quel bambino senza aver potuto dare nulla in cambio.
Ma Davide ora
sorride, e Camila non se ne spiega il motivo.
“Sei tu,” dice, senza che il sorriso lo abbandoni.
E’ proprio felice.
“Sei tu. Se la
stessa Camila. Ti ho riconosciuta subito,” dice con
una punta di orgoglio. “Camila, con una L.”
Lei si sente in
imbarazzo.
“Sono io.”
Davide sta per
aprire di nuovo la bocca, ma si blocca quando sia lui che lei sentono della
musica. Si guardano attorno, in particolar modo Davide.
Camila guarda in
alto, sapendo cosa cercare.
“Arriva da lì,” gli dice, indicando la finestra aperta di un palazzo
confinante. “Chi vive in quella casa ascolta sempre qualcosa. Quando il vento è
a favore sembra che ci sia uno stereo qui sotto.”
Si volta verso
Davide, il quale non ha smesso di guardarla. Forse non ha neppure sentito ciò
che ha detto sulla musica.
“Perché hai negato
di essere tu?” le chiede. “E’ per Alessia? Pensi che io possa dirglielo?”
“Sì.”
“Non preoccuparti,” risponde immediatamente. “Non le dirò niente. Non c’è problema.”
“Grazie,” gli dice, un peso in meno sul petto.
“Mi fa piacere
rivederti.” Il sorriso di Davide è incollato al suo viso. “Perché
non sei più tornata al campo? Che cosa hai fatto in
questi anni?”
Camila riflette per
un minuto sulla possibilità di raccontargli tutto. Gli anni in Germania, il
ritorno in Italia, gli anni con Umberto, la nuova vita a Roma.
“Siamo partiti per
“Non dispiacerti,” dice lui, allungando una mano per toccarle il braccio. “Ci
siamo rivisti, no?”
“Già…”
“Ed è di questo che
volevi parlarmi? E’ per questo che mi hai chiesto di venire qui?”
Camila annuisce. “Ida
e Alessia non sanno nulla di me, e voglio che le cose rimangano in questo
modo.”
“Anche se ti
considerano una pazza?” chiede. “Ho visto le barrette… sono
tue, vero? Erano… sono… sono come quelle che ti ho portato io al campo.”
“Mi piacciono,” sussurra Camila, vergognandosi delle sue parole.
“Piacciono anche a
me.”
La musica che
proviene dall’alto fa loro compagnia nel lungo momento di silenzio che segue.
“Ciò che loro pensano
di me…” dice ad un tratto lei. “Non importa. Non mi
conoscono, non sanno nulla di me, per cui… non sono importanti. Ciò che dicono
e che pensano non è importante.”
Ci sono altre cose
che contano, però.
“Promettimi che non
parlerai loro del mio passato.” Camila vorrebbe essere più tranquilla, ma si
rende conto che la frase suona come una minaccia più che come una richiesta.
Davide la guarda
con curiosità. “Non so niente del tuo passato,”
risponde. “Come potrei raccontarlo ad Alessia e alla sua amica? E poi ti ho già
detto che non dirò a nessuno di come ci siamo conosciuti.”
“Grazie.”
Il prego di lui è
un altro sorriso. “Perché ti sei decisa ad ammetterlo?” chiede. “Perché hai
cambiato idea?”
Camila non sa come
rispondere a questa domanda. Vorrebbe farlo con sincerità, ma ha paura di
offenderlo. Ci pensa per qualche secondo, e alla fine cede.
“Perché
quando stavamo mangiando… ho capito che non sei come lei. Che posso fidarmi di te. So che tu ed
Alessia… non voglio parlar male di lei, ma…”
“Io e Alessia ci
vediamo da poche settimane,” risponde Davide. “Siamo
amici, nulla di più.”
Sanno entrambi che
sta mentendo. Davide sa che Alessia ha smesso di considerarsi sua amica la
notte scorsa, e Camila sa che due amici non passano la notte assieme facendo
determinate cose, tantomeno ad un volume così alto.
“Adesso devo andare,” dice Camila ad un certo punto.
“Adesso? No! Perché?! Non puoi restare un altro po’?”
Davide cerca di
afferrarla ancor prima che lei si allontani, ma Camila è pronta, stavolta.
Infila le mani nel jeans e fa un passo indietro.
Vorrebbe rimanere
con lui. Parlargli ancora. Rispondere alle sue domande, genuine e curiose,
tanto simili a quelle del bambino paffutello con in
mano le ciabattine blu.
Vorrebbe, ma non
può.
“Devo andare,” ripete, senza guardarlo in faccia. “Grazie per la pizza,” sussurra. “E per le scarpe di tua
sorella. E per quel panino al prosciutto.” Ha un nodo in gola quando
finisce di parlare.
Ripensa all’acqua
fredda delle docce del campetto. Ripensa all’asciugamano grigio e alle scarpe
più grandi che indossava prima dell’arrivo di Davide.
“Non devi
ringraziarmi,” risponde lui. “L’ho fatto con piacere,
sia allora che stasera. Immagino che adesso dovremo fingere di non conoscerci.”
“Sì,” annuisce Camila. “E’ meglio in questo modo.”
“E se io volessi
parlarti di nuovo? Non ci siamo detti niente, stasera. Come
possiamo fare?”
I pensieri di
Camila vengono scanditi dal suono del pianoforte che arriva dal palazzo accanto
al parco.
Probabilmente le
sciocchezze fatte non sono tre, ma quattro. La quarta
esce dalle sue labbra poco dopo.
“Possiamo rivederci
qui, domani sera. E parlare ancora.”
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La canzone che proviene dalla finestra
aperta è No Cars Go, degli Arcade Fire.
La versione è quella di Maxence Cyrin.
So che i capitoli di questa storia sono
brevi, ma non ho in mente una storia lunga, per cui preferisco somministrarla a piccole dosi.
Grazie ancora una volta, e tanti auguri di
buone feste a tutti.