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Autore: Herit    28/12/2010    1 recensioni
In una Midgar troppo sporca e macchiata dalla piaga della droga vive Cloud. Poliziotto che non fa altro che sopravvivere senza combattere o affrontare quelli che sono i fantasmi del suo passato. Nella stessa Midgar c'è una ragazza, Tifa, che l'aspetta paziente da troppo, troppo tempo, ma che non ha il coraggio di lasciarlo andare. Due persone tanto vicine da risultare tremendamente distante. E quando Tifa viene rapita, lui è costretto a fare i conti con il passato, con il presente, ed anche con il suo futuro.
Dal racconto:Vive da solo. Un fantasma di se stesso e di quello che era stato. La vita frantumata a soli ventitré anni. O per lo meno così si sente. Preda di sensi di colpa non suoi. Per cose che lui non ha fatto. Ed è forse per questo che si ritiene ancora più responsabile. [...] Con il braccio che non sorregge Denzel va ad avvolgere il collo del biondino, costringendolo a posare il capo chino sulla sua spalla. Lo stesso capo contro il quale lei appoggia il proprio. -Profumi di gigli. Sei stato alla chiesa.- Non è una domanda, quella della ragazza, ma una semplice constatazione. Lui la lascia fare. Gli piace quel contatto.
Genere: Azione, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cloud Strife, Denzel, Marlene Wallace, Sephiroth, Tifa Lockheart
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Track 1. I'm Still Here...

                      Waiting For You


Gesti automatici. Prende una cioppa dalla cesta del pane. Prende un barattolo di marmellata dalla credenza e per finire, afferra il contenitore del burro andando a posare tutto quanto sul tavolo sgombro. Vuoto, se non fosse per quel coltello che lo guarda, troppo poco affilato e con la punta troppo rotonda perché possa farsi del male utilizzandolo. Beh, se davvero volesse compiere una pazzia, avrebbe diverse armi da poter utilizzare. Vive da solo. Un fantasma di se stesso e di quello che era stato. La vita frantumata a soli ventitré anni. O per lo meno così si sente. Preda di sensi di colpa non suoi. Per cose che lui non ha fatto. Ed è forse per questo che si ritiene ancora più responsabile.

Gesti automatici. Afferra quel povero coltello ingrigito che si adatta perfettamente al suo umore. Quello stesso umore che negli ultimi tre anni ha pensato bene di peggiorare drasticamente finendogli esattamente sotto i tacchi, talmente in basso da risultare impossibile riportarlo a galla anche con una gru. Che si adatta perfettamente all'umore di quella città terribilmente decadente. L'osserva attentamente, come se ancora stesse valutando un'ipotesi presa in considerazione talmente tante volte, da essere ormai un rituale che esegue ogni mattina. E il riflesso sull'argento ossidato della sua superficie l'osserva di rimando. Due occhi di un tono particolare di azzurro che rimangono immobili ed impassibili in un'apatia che non si è più spezzata, se non in occasioni più uniche che rare. Poi eccolo ferire il burro per tagliarne un pezzo.

Ma il burro non soffre.

Non muore.

Il burro è qualcosa di inanimato.

Forse è per questo che non gli fa male vederlo sfaldarsi sotto la lama smussata della posata. Troppo codardo per affrontare quella barba incolta, segno che da un paio di giorni sembra fregarsene di sé stesso. Troppo codardo per affrontare quelle occhiaie che gli segnano il volto da tre anni a quella parte.

“Possiamo fare a meno del burro ma, nonostante tutto il nostro amore per la Pace, non possiamo fare a meno delle armi. Non si può sparare con il burro.” Chissà perché gli è tornata in mente quella frase. Forse per tormentarlo un altro po', visto che in quegli anni non si è dannato abbastanza l'anima. La voce che si fa spazio nella sua testa è calda e pastosa, con una nota vivace e divertita, come il suo proprietario, dopo tutto. Se lo rivedeva davanti, seduto dall'altra parte del tavolo, mentre cenano. Loro due assieme a Tifa e Aerith. Un quartetto affiatato, con i problemi che hanno tutti i quartetti composti da due ragazzi e due ragazze con caratteri tanto differenti e che non riescono ancora a far chiarezza nei loro sentimenti.


-Dai, Claud, buttati. La conosci solo da una vita!- Zack capiva sempre tutto di lui, nonostante il suo silenzio e la sua riservatezza. Nonostante il suo essere distaccato e dall'espressione intellegibile. Nonostante solo la giovane Cetra riuscisse a farlo sorridere spontaneamente con la sua dolce solarità. Nonostante le promesse mai mantenute. Il SOLDIER sapeva la direzione che aveva però preso il cuore del giovane Strife. I SOLDIER, erano un dipartimento distaccato della polizia locale e lui aveva giurato fin da piccolo che sarebbe riuscito ad entrarci. Allora era solo all'inizio e la strada sembrava impervia. Ma con Fair come esempio, era sicuro che ce l'avrebbe fatta. Oltre tutto, il loro capo squadra era Sephiroth. Uomo intelligente, senza dubbio. Dotato di grande forza e perspicacia. Tutti i casi che avevano affrontato fino a quel momento erano stati risolti in tempi record. Il loro gruppo era l'orgoglio della centrale, tanto che non l'aveva più sciolto da che si era formato, nonostante il regolamento prevedesse un rimescolamento dei ruoli e che le squadre fossero composte da quattro elementi, non da tre come la loro.

-Ma...- Proteste mai pronunciate, quando ancora il mondo conosceva la voce del biondino dalla pettinatura improbabile. Dai capelli ispidi, capaci di quel naturale disordine che di tanto in tanto il collega si divertiva a modificare arruffandoglieli ulteriormente.

-Suvvia. Altrimenti me la prendo io, la nostra “Cuore Chiuso”. Sei avvertito.- “Cuore Chiuso”. Aveva la mania di chiamare Tifa così. Non era altro che la traduzione del suo cognome, alla fine. Ma la ragazza sembrava particolarmente suscettibile alla cosa, soprattutto se a chiamarla così era Zack e c'era lui nei dintorni. Non l'aveva mai capita. Non in questo almeno. E lei non aveva mai voluto confidarsi. Non che lui fosse bravo a fare domande, in realtà. Semplicemente, quando si aspettava che la giovane dovesse dirgli qualcosa, si sedeva lì, davanti al bancone del 7th Heavens e aspettava che lei parlasse. Che facesse domande a cui solitamente otteneva blande risposte da parte dell'aspirante poliziotto. O che fosse lei per una volta ad aprirsi. Ma questo non accadeva quasi mai. Sapeva bene, comunque, che l'amico non avrebbe mai potuto mettere in atto quella minaccia. Lui e Aerith erano troppo affiatati. Troppo perfetti assieme perché lui potesse anche solo sognarsi di tradirla. Forse era anche per questo che Cloud continuava a procrastinare.

Gesti automatici. La fetta di pane è lì, imburrata, che ricambia il suo sguardo mogio pronta ad essere addentata e a lui è passata la fame. Quei ricordi bruciano ancora con la loro suadente dolcezza. Lascia lì tutto, abbassando le braccia lungo il corpo, per poi posarsi le mani sulle gambe, spingendo indietro la sedia con i piedi per allontanarsi dal tavolo: gli si è chiuso lo stomaco. Ed è in quel momento che suona il cellulare. Fastidioso quel suono. Lo stesso suono che gli ricorda perché è ancora in vita. Che gli ricorda che ci sono persone che nonostante tutto ancora pensano a lui. Lo lascia suonare, ma non risponde. Aspetta. Aspetta così tanto che finalmente parte la segreteria telefonica e lui par quasi rilassarsi. Le spalle che si abbassano in un moto più tranquillo. China gli occhi sull'apparecchio telefonico posato sul tavolo ed attende. Attende che la voce del suo interlocutore gli arrivi alle orecchie. Attende e finalmente qualcuno si mette a parlare.

E' una ragazza.

Parla da sola.

E' lei.

Ne accoglie la voce con sguardo colpevole. Lo stesso che probabilmente avrebbe se fossero faccia a faccia. Vergognoso. Timoroso, seppure tutto si nasconda dietro quell'apatia che di nuovo si fa presente sul suo viso chiaro, macchiato solo da qualche lentiggine sotto gli occhi.

Seppure si nasconda dietro quella forza che in realtà non ha più.

Ha chiamato Reno. Aveva una voce strana. Parlava di un morto nel decimo quartiere. Ha detto che presentava strani ematomi sparsi per il corpo. Credono che sia ancora quella droga. Vuole che tu vada da loro.” Scende un breve silenzio, ma lei è ancora lì.

Ci spera.

Spera che lui le risponda.

Ci spera, ma sa che non lo farà.

E allora sospira piano piano, impercettibilmente a non volersi far sentire. Ma lui è ben conscio del fatto che quel sospiro è lì, presente. A pronunciare tante cose mai dette. “Stai attento, Claud, okay? E vieni a trovarci. Marlene e Denzel hanno voglia di vederti. Fallo almeno per loro.” Mari e Den. Se li immagina ad aiutare Tifa a mettere a posto la casa. A fare la lista di quello che potrebbe servirle per il bar. Ad imparare come aiutarla una volta diventati un po' più grandi e consapevoli. Se li immagina davanti al suo studio.

Dentro al suo studio a giocare agli investigatori privati con quel poco che ha lasciato lì, visto che spesso passava dal 7th Heavens fermandocisi per la notte e dove alla fine, lui e Zack avevano istituito una sorta di base solo per sé. Il loro angolo di quiete dove mettere in ordine le idee e dove Tifa gli lasciava quelle poche informazioni che riusciva a carpire ai clienti. Nelle loro conversazioni oppure perché un po' alticci parlottavano di questo o quello spacciatore e di questa o quella loro bravata.

Il loro pensiero. Di quelle tre persone che aspettavano il suo ritorno. Di quelle tre persone da cui fare ritorno. Quello lo faceva andare avanti, nonostante le volte in cui si facesse vedere da loro fossero davvero poche e sparse, scaglionate durante l'anno. Durante quei tre anni. La voce metallica della segreteria graffia l'aria e lui richiude velocemente il cellulare, zittendola. Scacciandola dal suo piccolo spicchio di pace.

Gesti automatici. Si alza lentamente, indossando la giacca di ordinanza e silenzioso come un gatto se ne esce di casa. Rimane tutto sul tavolo, ma è certo che una volta tornato, quel tutto sarà scomparso, lasciando il tavolo adorno solamente di quel coltello e di un biglietto. “La colazione è il pasto più importante. Mangia. T.” E' così, tutti i giorni, in un tacito accordo che non era mai stato stipulato, ma dovuto ad un vincolo che tra lui e Tifa era innato ed immortale. Talvolta si chiedeva come lei potesse ancora prendersi cura di lui.

Talvolta si chiedeva come lei potesse ancora raccomandargli di stare attento.

Talvolta si chiedeva come lei potesse ancora amare qualcuno così... così come lui.

Sempre che l'abbia mai amato. Zack ne sembrava tremendamente convinto. Aerith anche. Parla poco, Cloud, ma il cervello, specialmente per i drammi adolescenziali, va ancora come un treno in corsa e senza una meta ben precisa. Lo porta distante da lei? Lo porta da lei?

Gesti automatici. Monta sulla moto andando a controllare che spade e pistole siano ancora al loro posto. La pistola d'ordinanza è obbligato a portarla con sé. Ma lui continua di gran lunga a preferire le spade, come arma. Accende la Fenrir e parte lungo la strada.

Vive nell'estrema periferia della città. Lì c'è una chiesetta abbandonata. Ad Aerith piaceva particolarmente quando era in vita, tanto che, dove nessuno andava più da anni. Dove uno spiraglio di terra era ancora visibile e capace di dare frutto, lei era riuscita a creare un piccolo angolo di paradiso, imperlato dalla candida bellezza dei gigli. Da brava “ragazza dei fiori” li aveva fatti crescere e seguiti con amore. E' lì che si dirige per prima cosa. E' lì che si ferma. La porta ben chiusa. L'osserva per qualche istante prima di lasciare la moto al proprio destino per quei dieci minuti in cui si assenta ed entra.

Entra per ricordarla.

Entra per chiedere un perdono che lui stesso non sa imporsi.

Entra, perché è l'unico modo per sentirla ancora vicina.


   
 
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