CAPITOLO CINQUE
Una villetta
rossa
Le previsioni meteo erano state
sfortunatamente precisissime e quella mattina stava fioccando ininterrottamente
da alcune ore senza dare segni di speranza in un miglioramento. Aurora aveva
preparato uno zainetto con il pranzo a sacco, una mappa e una bussola, un
binocolo, una lente d’ingrandimento, una macchina fotografica, una torcia,
delle bustine, garza e cerotti, un taccuino e la sua enciclopedia sugli uccelli
e se ne stava seduta con indosso la giacca a vento a guardare dalla finestra.
Aspettava di poter tranquillizzare Lilac che non c’era nulla di cui
preoccuparsi e che mai si era visto momento più favorevole ad un’escursione tra
i boschi. Più si ostinava ad osservarli, però, più quei maledetti fiocchi di
neve diventavano grossi e frequenti. Non voleva perdere un giorno per il
maltempo perché, come aveva letto sul libro, anche se le pernici non erano rare
ai piedi delle montagne tra cui sorgeva il suo paese, non era altrettanto
semplice avvistarne una se non dopo un lungo periodo di osservazione. Aveva
calcolato che poteva impiegare perfino una settimana prima di avere la fortuna
di imbattersi in quell’uccello, poiché non si sentiva sicura di montare una
tenda nei boschi, restando lì da sola tutta la notte. Le escursioni sarebbero
state di mezza giornata, finché non fosse calato il sole, decisione che fu
accolta con non poco sollievo da Lilac. Tutta questa cautela, d’altra parte,
rallentava molto i tempi con cui la ragazza avrebbe voluto procedere e un
intoppo del genere la preoccupava e irritava parecchio. Si lasciò scappare uno
sbuffo contrariato e si allontanò dalla finestra. Si erano fatte quasi le dieci
e il progetto era ormai in fumo. Era decisa, comunque, a ricavare qualcosa da
quella mattinata, così diede un’occhiata alla cartina del paese e decise che la
casa di Mietta, a sole quattro fermate di pullman, sarebbe stata la sua
prossima meta.
Si avvolse una lunga sciarpa di lana
attorno al collo cercando di coprire anche la bocca e il naso, s’infilò il
cappellino, tirò su la zip della giacca e uscì. Non c’era nessuno per le
strade. Arrivò in meno di dieci minuti e dopo una ventina di metri a piedi
suonò il campanello di una villetta rossa a due pieni con davanti un giardino
poco rigoglioso per via della stagione, ma nonostante ciò curato, e un alto
cancello in ferro.
«Mietta?» disse alla donna che venne
ad aprirla. La ricordava decisamente diversa.
«Sì?» rispose gentile quella. Aveva
il capelli corti, gli occhi castani vivaci e svegli e una lunga casacca color sabbia
con una collana etnica.
«Sono Aurora» continuò con la stessa
incertezza nella voce.
«Sì, cara, starai cercando mio
nipote. Entra, fa così freddo! Un attimo solo, te lo chiamo»
La ragazza entrò, spinta con
affabilità dall’anziana signora, anche se sospettò ancora più fortemente che
quella nonna che non l’aveva riconosciuta non fosse la fata che stava cercando.
Congelata e imbarazzata sfregò le mani l’una con l’altra e allentò la sciarpa.
Doveva venirle in mente all'istante una scusa credibile per l’equivoco.
«Alessio! È venuta una tua amica»
chiamò a voce alta.
Un ragazzo in jeans e con ancora
indosso la maglietta del pigiama, tutto spettinato, raggiunse Aurora
all’ingresso. Oh, pensò lei
riconoscendo quel viso, non sarà troppo
difficile spiegare la mia presenza qui.
«Ciao! Che ci fai qui?» le sorrise
un po’ confuso ma contento.
«Volevo solo ringraziarti. Ti ho
reso partecipe di una stravagante circostanza» non mentì del tutto, desiderando
davvero l’occasione per chiarirgli l’accaduto. Anche se non poteva rivelargli
la verità, doveva fornirgli una versione accettabile dei fatti.
«Figurati» si grattò dietro la nuca «Stai
bene ora?»
«Sì, grazie. Non è stato niente»
«Prendile il cappotto, e non farla
restare lì nell’atrio!» rimproverò la nonna dall’altra stanza.
«Sì, sì, certo» ascoltò il ragazzo
appoggiando la giacca sull’attaccapanni assieme alla sciarpa e il cappello e
facendo strada all’amica verso la cucina.
«Ti preparo un tè, mia cara?»
propose la nonna, cominciando ad aprire gli sportelli dei mobili mentre i
ragazzi si sistemavano sulle sedie attorno al tavolo.
«No, la ringrazio»
«Io una cioccolata, nonna. Ancora
non ho fatto colazione» chiese il nipote. Negli occhi della giovane si accese
un brillio.
«Anche Aurora vuole la cioccolata»
aggiunse Alessio.
«Se non le creo troppo disturbo»
accettò lei.
Mentre la donna stava ai fornelli,
si parlò di quanto freddo facesse fuori e di quanto le strade fossero già tutte
imbiancate dalla neve. Alessio sperava che la scuola restasse chiusa ancora un
po’ a causa del cattivo tempo. Dopo qualche minuto Mietta lasciò due tazze
fumanti davanti ai ragazzi e si spostò in salotto per guardare la tv, lasciando
che cambiassero argomento a loro piacere.
«Mi sono da poco trasferita qua»
attaccò Aurora «Hanno spostato mia zia sul lavoro. Io vivo con lei».
«Ho capito» disse soltanto lui.
«Potrei aver detto che sono venuta
con te alla festa» ammise con l’aria un po’ colpevole «Era l’unico nome che
conoscevo e non potevo ammettere davanti alla ragazza che ha dato la festa che
mi ero presentata senza invito!».
Alessio rise, prendendo in simpatia
quel miscuglio di ingenuità e risolutezza della ragazza. «Tutto apposto» la
rassicurò, «hai fatto bene». Poi, tornando serio, le chiese «Ah, quindi hai già
conosciuto Giada?»
La ragazza fece un cenno con la
testa. «C’è bisogno che ti avvisi sulla gente che conoscerai qui. Non vorrei
che frequentassi le persone sbagliate» suggerì semiserio. «Ad esempio Giada.
Non dovresti avere niente a che fare con lei».
«Perché? Mi è sembrata così amabile»
«Ha solo un sacco di vestiti» concesse
«In realtà è egoista, competitiva, arrogante, maligna e sprezzante. Immagino
tutto quello che ti ha detto su di me».
«Non ha detto proprio niente. Ha
soltanto alluso a una fine ben peggiore dello svenimento che una ragazza potrebbe
fare in tua compagnia e forse devo darle credito. Una ragazza potrebbe essere
denigrata con le accuse peggiori dalla tua lingua!».
«Fidati, la conosco da una vita»
confermò lui «Hai sicuramente bisogno di una guida turistica come me, si vede che da sola riusciresti a credere
amabile chiunque».
Così cominciò a descriverle tutti i
più folkloristici abitanti del paese e tutti i più tipici studenti del liceo.
C’era il barbone Geremia, un po’ pervertito ma innocuo; la professoressa Semenza,
che sembrava uscita da un romanzo ottocentesco; il professor Bino, che allevava
fagiani; un gatto rosso con la coda bruciacchiata che tutti chiamavano Lincoln;
la signora Simonetta, la pettegola più informata di una spia russa; Ottaviani,
detto Ottaviano Augusto, che un giorno sì e l’altro pure finiva dal preside per
qualche diavoleria; Lena, la “portaborse”di Giada; il Mostro dell’Ultima Aula,
che gorgheggiava da una stanza sempre chiusa a chiave; e ne ebbe da raccontare
fino all’ora di pranzo, quando la nonna Mietta decise che nevicava troppo forte
perché Aurora potesse mangiare altrove se non a casa loro.
*
A tavola si unì nonno Leonardo, che
fino ad allora aveva silenziosamente letto il giornale sulla poltrona del
soggiorno. Aveva i capelli bianchi leggermente scompigliati, un grande paio di
occhiali dalla montatura in osso e una statura eccezionalmente alta per la sua
età. Era tranquillo e pacato di carattere, dai modi galanti e un po’
all’antica, e aveva una eccellente memoria. Aveva trovato in Aurora la più piacevole
uditrice e spesso esordiva con “durante i miei verdi anni…” per raccontare
qualche aneddoto della sua gioventù, in particolare episodi della sua carriera
di pilota militare, che la ragazza ascoltava con vivo interesse. La nonna ogni
tanto gli lanciava qualche battuta ironica su quanto ricordasse meno gloriose
ed eroiche le sue gesta e così si aprivano dei comici battibecchi. Alla fine
nonno Leo concludeva ogni discussione esclamando «Mietta, ricorda che conservo
ancora il fucile!» e dopo una risata generale nonna Mietta scuoteva la testa e
prendeva la saggia decisione di introdurre nella conversazione su un argomento
più neutrale. Aurora non aveva mai avuto un nonno e una nonna, né aveva mai
avuto un momento di familiarità così intimo e piacevole con i suoi genitori.
Si venne a sapere cha ad Aurora
interessava molto la natura e che desiderava fare proprio un’escursione tra i
boschi.
«Alessio, tu sei stato uno scout!
Dovresti accompagnarla» intervenne prontamente la nonna.
«Ti prego…» mugolò il ragazzo, non
volendo ricordare l’estate più infame della sua vita. Era stato punto dalle
api, aveva toccato piante urticanti, aveva sofferto il freddo di notte, era
stato costretto ad avvicinarsi agli escrementi degli animali e aveva mangiato
malissimo.
«Hai anche conquistato quattro
spille! Devi rendere onore ai tuoi riconoscimenti scortando questa signorina»
insistette il nonno con solennità.
E infine si decise che appena il
tempo fosse stato clemente una passeggiata nel bosco non avrebbe fatto male a
nessuno. Aurora non poteva esserne più felice e non vedeva l’ora di
avventurarsi tra le montagne. Alessio avrebbe preferito portarla al cinema, ma non
si poteva dire che fosse del tutto scontento di avere quella gita in programma.