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Autore: Joseph Bell    04/02/2011    1 recensioni
Una volta si riteneva che lavorare in banca fosse un mestiere tranquillo, sicuro e senza rischi. Samuel Donovan potrebbe non essere d’accordo. Tra cassette di sicurezza, bombardamenti della Luftwaffe, intrighi internazionali e nobiluomini eccentrici, un giovane impiegato di banca inglese e la sua amata moglie scoprono cosa è accaduto a Sherlock Holmes durante il cosiddetto Hiatus. Dimenticate le Reichenbach e preparatevi a viaggiare, parecchio.
Note dell’Autore: prima di qualsiasi cosa debbo ringraziare miss Bellis, senza di lei questa opera non sarebbe mai nata. Poi debbo precisare che quella che andrete a leggere è un’opera di fantasia liberamente ispirata ai personaggi di Sir Arthur Conan Doyle. Ogni altro personaggio, luogo o situazione è frutto della fantasia di chi scrive.
Tutti i personaggi realmente esistiti citati nel racconto non hanno mai preso parte a colpi di stato, distribuzione su larga scala di sostanze stupefacenti o sovvertimenti di governi legittimi. Solamente miss Bellis ed io, alle volte, ci dilettiamo a sovvertire il vassoio del tè procurando tanto rumore ed un congruo numero di cocci rotti. Per pura curiosità, chi fosse interessato agli eventi legati al crack della Banca Romana può consultare la pagina apposita di Wikipedia.
Buona lettura.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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CAPITOLO V – Il racconto del Dott. Watson -1: Viaggio in Italia

 

Avevo ragione. Appena fui  in grado di poter leggere, misi gli occhi sul manoscritto e la situazione mi fu chiara. Cullen aveva predetto correttamente: la mia non era una eredità fortunata.

 

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Perfino la più grande metropoli del mondo con tutti i suoi innumerevoli divertimenti, può apparire tediosa allorquando la mente sia catturata e monopolizzata da un unico pensiero fisso.

Dopo la lettera del maggio 1891 non ebbi più notizie di Sherlock Holmes, lo immaginavo immerso nella sua prigione dorata alle porte di Firenze mentre i suoi concittadini lo credevano morto in una cascata svizzera.

Fu essenzialmente la mancanza d’azione, la perdita di quel pizzico di brio e la lontananza del mio amico a spronarmi nella realizzazione di un pensiero folle: andare a trovare Holmes.

Ammetto che, seppure sulle prime mi sarebbe bastato avere solo qualche notizia per lettera, con il passare del tempo, mi resi conto di avere la necessità di rivederlo di persona e di scorgere nuovamente quella sua lunga figura che portavo bene impressa nella memoria.

Verso la metà di gennaio del 1894, erano passati due anni dalla precipitosa fuga del mio amico da Londra,  mi recai, come spesso facevo, a Baker street per visitare la signora Hudson e per respirare, seduto sulla mia poltrona, quell’aria ancora carica del forte odore del latakia1. Quel giorno in particolare ricordo di essermi soffermato più del solito sul quadro che la mia vecchia padrona di casa aveva posto appena sopra la mensola del caminetto. Si trattava di un disegno a china che raffigurava le cascate Reichembach,  circondata da un drappo nero. Risi al pensiero di cosa avrebbe potuto dire Holmes di quella immagine, ma presto il mio goliardico umore venne stemperato dall’ insinuarsi di una sottile nostalgia. Tutti gli angoli di quell’appartamento mi parlavano, mi raccontavano la loro storia e mi chiedevano di ricondurli, in qualche modo, dal loro proprietario. Il mio sguardo rimbalzava dall’ attizzatoio che Holmes aveva raddrizzato nel caso del signor Roylott alla sua pipa di gesso, dall’ arpione del pirata Peter ad uno dei messaggi ricevuti dalla signora Cubitt, ancora appeso alla parete, dal cassetto che custodiva discreto il vituperato astuccio di marocchino e la fotografia di Irene Adler all’imponente schedario criminale che Holmes metteva costantemente in subbuglio.

Mi parve di vederlo nuovamente inginocchiato con i fascicoli attorno sparsi, mentre mi spiegava i risvolti artistici della sua professione, egli stesso si definiva un artista sui generis, che aveva acquisito il gusto per l’arte dal suo avo Vernet e lo aveva convogliato per un canale che si avvale del ragionamento più che delle tele.

Sorrisi pensando a quell’episodio, alla vicenda del signor Melas, frangente in cui feci la conoscenza dell’ altra mirabile mente di casa Holmes, Mycroft. Mi rividi come in un sogno nella “Sala degli Stranieri” del Diogenes club mentre osservavo i fratelli Holmes, scambiarsi battute in rapida successione in quel loro curioso gioco della finestra.

“Mycroft!”

dissi ad alta voce d’un tratto, mentre mi incamminavo giù per i diciassette gradini di Baker street.

“perché non ci ho pensato prima!”

La signora Hudson uscì dalla cucina al pian terreno e mi osservò con curiosità

“va tutto bene, dottore?”

“Benissimo mia cara signora! Se glielo chiedessi con un po’ di anticipo potrebbe preparare quel suo delizioso roastbeef?”

“Si, certo” mi rispose la gentile signora alquanto sorpresa da quella mia bizzarra richiesta

“E pensa che potrà viaggiare?”

“Chi? Io?”

“Ma no, signora! Il roastbeef!” dissi stizzito. Solo dopo mi accorsi di aver assunto il piglio del mio amico con la povera signora Hudson, la quale rimase a guardarmi inebetita sulla soglia di quello che ancora continuo a chiamare “221b” mentre mi allontanavo verso New Bond street, diretto al Pall Mall.

 

Ricordo che provai una sorta di eccitazione inspiegabile mentre percorrevo le strade verso il Diogenes. La mia mente era completamente avvolta nelle più disparate cogitazioni, cercando di far coincidere orari ferroviari, traghetti, permessi, visti, passaporti e ad un tratto mi resi conto del perché Holmes rimaneva sempre muto durante le sue indagini.

Finii per distrarmi talmente tanto che arrivai quasi a Buckingham palace, dovetti quindi tornare indietro e pensai che queste cose ad Holmes non accadevano mai, egli accendeva e spegneva il suo cervello a piacimento, non gli succedeva mai di dimenticare qualcosa perché troppo immerso in un ragionamento.

 

Incontrai Mycroft nella “Sala degli Stranieri”, era placidamente assiso sulla poltrona quando con stupore alzò lo sguardo verso di me e disse:

“Adesso capisco perché Sherlock ripone tanta fiducia in lei, il suo tempismo è encomiabile, si sieda, prego” disse indicandomi una sedia “dobbiamo solamente aspettare mio cugino Horace, le dobbiamo mostrare una cosa molto importante”

“Signor Holmes, temo di non afferrare, io sono qui per chiederle un grande aiuto”

“Come? Non ha ricevuto il mio biglietto? L’ho mandato presso il suo studio”

“No, ero uscito, ero andato…” non mi fece finire la frase

“Ah, già! Anche lei come mio fratello è un gironzolone che ama le lunghe passeggiate, ma dico io quale è il vantaggio di abitare e lavorare nello stesso palazzo se poi si va in giro ad affaticarsi camminando per strada? Io, dottore, proprio non la capisco! Se poi penso a quello che mi aspetta tra poco…!” disse portandosi una mano alla fronte. “Comunque, cosa voleva chiedermi?”

Trattenni un sorriso pensando a quando Sherlock Holmes parlando del fratello diceva: “egli è completamente privo di energie, è troppo pigro, preferisce ritenere errata una sua deduzione piuttosto che alzarsi e verificarla personalmente”.

“ Volevo chiederle se poteva aiutarmi ad andare da suo fratello!” dissi con un sorriso imbarazzato

“Mio buon dottore” rispose il paffuto funzionario “è quello che vogliamo tutti, l’ho fatta chiamare apposta! Si sieda, prenda un sigaro, dobbiamo aspettare Horace, come sa anche lui è un medico ed avrà certo avuto un’ urgenza. Nel mentre è meglio non affaticare la mente”

Se fino ad un momento prima avevo provato il furor holmesianum adesso ero tornato ad essere, o perlomeno a sentirmi, l’ottuso Epimeteo di sempre. Non capivo più nulla, quindi decisi di sedermi e di attendere il dottor Horace Teofilo Verner, il cugino italiano dei fratelli Holmes.

Egli, che più in avanti avrebbe rilevato il mio studio di Kensington, era l’ultimo discendente del ramo italiano dei Vernet, nato nel 1735, durante il periodo del soggiorno romano del celebre paesaggista francese.  A seguito di una fortunata serie di matrimoni con la nobiltà toscana, i Vernet si trasferirono da Roma per andare a vivere in un latifondo posto nelle immediate vicinanze di Firenze.

In anni più recenti, durante le invasioni napoleoniche, il nonno del mio collega, si era visto espropriato di una notevole quota del suo patrimonio fondiario. Caduto l’Imperatore, poi, aveva mutato il suo nome da “Vernet” in un più germanico “Verner”, tanto per evitare di rimanere vittima della diffusa francofobia, quanto per allinearsi con la nuova classe dirigente dei granduchi d’Asburgo-Lorena nel tentativo di riottenere almeno una parte dei  possedimenti confiscati.

Il dottor Verner, con la sua esile figura, entrò nella sala con passo silenzioso, poi, chiusa la porta dietro di se, disse:

“E’ incredibile, in questo posto si ha paura di disturbare anche i posacenere!”

“Evidentemente, cuginetto, non sei abituato alla calma tu che vieni da un paese tanto festaiolo”

“Mycroft, carissimo, anche tu vieni da un paese festaiolo, come me, per metà”

“Si, ma io ho acquisito solo la metà silenziosa” disse con un sorrisetto Holmes.

“Ah!” sospirò il mio collega “Oh! Watson!” disse  quando si accorse della mia presenza “stavamo giusto aspettando lei!”

“Che combinazione, anche io stavo aspettando lei, Verner”

“Oh, si, mi scusi per il ritardo, ma ho avuto un’urgenza… comunque… Mycroft ed io volevamo farle vedere questo, è arrivato stamane con la posta, lo manda Sherlock.”

Guardai il foglio che Verner mi porgeva ed inorridii nel rivedere gli omini danzanti del signor Cubitt.

“Questo è un codice con cui Holmes ed io ci siamo scontrati tempo fa” indugiai “dovrei andare a cercare nei miei diari la chiave per…” ovviamente Mycroft non mi fece finire la frase

“C’è scritto: “ho bisogno di aiuto per fuggire, importante. S.” Il messaggio è molto corto per limitare le possibilità di decifrarlo a chiunque non sia in possesso della chiave” disse Holmes quasi sbadigliando

“Ah, quindi lei conosce il codice degli omini danzanti!” dissi io ingenuamente ed a questa mia domanda Mycroft scosse il capo lentamente, portandosi una mano alla fronte. Per fortuna Verner venne in mio aiuto:

“No, collega, sa come sono fatti i fratellini Holmes, vero? Non esiste codice che loro non sappiano decifrare, quando l’ho visto ho pensato ad uno scherzo di mio zio, come vede, infatti il francobollo è italiano e l’annullo è di Firenze” indicando Mycroft seduto “poi quel valent’uomo che vede seduto li, mi ha detto che era un messaggio di Sherlock”.

“Oh, e quindi dobbiamo andare da lui!”

“Ma certo” disse Verner “è per questo che Mycroft è di umore più nero del solito, non l’ha capito? Solo il pensiero di farsi tremila chilometri tra andata e ritorno lo fa sentir male!”

“A quanto corrisponde un chilometro?” chiesi io

“Più o meno mezzo miglio” rispose Verner “ tutto il viaggio saranno millesettecento miglia grosso modo”

“Non è nulla, Verner! Dopo il viaggio di ritorno da Herat questa sarà poco più che una passeggiata!”

“Ottimo, Watson!” disse Verner sorridendo “e tu, cugino, che ne dici?”

Sentendoci parlare così, Mycroft guardò entrambi:

“Non potreste portare voi i miei saluti a Sherlock?”

“Perfetto, sei dei nostri, allora! Ho già preparato tutto, partiremo dopodomani, alle quattro del mattino c’è un treno per Plymouth, da li il traghetto per Calais partirà alle sei e mezza del mattino, dopodiché prenderemo il nuovo treno rapido, l’Orient Express, fino a Venezia. Da li dovremmo trovare un treno per raggiungere Bologna, prendere la ferrovia Porrettana ed arrivare a Firenze. Il viaggio durerà pressappoco un paio di giorni.” Disse Verner fregandosi le mani “Preparate i bagagli, ci vedremo alla stazione Victoria dopodomani alle tre e mezza. Watson, venga armato, non si sa mai.”

“Oh, certo, si! Ma come facciamo per i documenti? Per i passaporti?”

“Sentito il dottore, cuginetto?” cinguettò Verner all’ indirizzo di Mycroft, il quale rispose gravemente:

“L’Amministrazione Britannica non consente un uso privato delle risorse statali. Io sono un funzionario del Governo e la mia opera non è volta ad appagare le necessità dei singoli individui”

“Mycroft, capisco che non hai nessuna voglia di muoverti dal tuo club, ma si tratta di tuo fratello! Sono sicuro che se i il dottor Watson necessita di un visto sul passaporto tu saprai farglielo avere in poche ore, vero?”

Un grugnito baritonale fu la risposta, che, a posteriori, si rivelò affermativa.

 

La pernice al forno, sapientemente accompagnata da uno Chablis2 del 1879 era un lontano ricordo. Eravamo scesi da poco a Venezia, abbandonando i lussi dell’ Orient Express per salire su di un più modesto convoglio in direzione di Bologna. Al paesaggio gentile e delicato della campagna francese, che avevamo visto il pomeriggio precedente, si era sostituito un pianoro vastissimo invaso da una fitta nebbia, da cui spuntavano di tanto in tanto degli uomini vestiti con pesanti tabarri di lana cotta. Verner, il nostro Cicerone, ci spiegò che quella era la pianura emiliana, la quale d’estate sapeva essere tanto bella ed affascinante quanto fosca ed oscura d’inverno.

Arrivammo a Firenze alle sei di sera del 17 gennaio 1894, Mycroft, esausto ed ancora più indispettito dall’ enorme fatica che per lui aveva rappresentato un così lungo viaggio, cercò di convincerci che sarebbe stato opportuno dormire in città per poi recarsi da Holmes il giorno dopo. Naturalmente io ero di tutt’altro avviso, ma non avevo una confidenza tale da potermi permettere di imporre la mia opinione. Per fortuna Verner convinse il cugino della assoluta necessità di un nostro tempestivo intervento a villa Targhini così come era stato richiesto dal mio amico.

Prendemmo un fiacre, una carrozza pubblica più grande e comoda delle nostre carrozze londinesi, nella piazza di Santa Maria Novella e ci dirigemmo per la via Chiantigiana verso la nostra meta.

Era già molto scuro e se almeno nella città potevamo godere di una flebile illuminazione artificiale, nella campagna regnava il buio più pesto e le uniche luci a solcare quel mare oscuro erano i fanali della nostra carrozza. Di tanto in tanto attraversavamo borghi silenziosi ed io mi sporgevo dal finestrino per respirare quell’ aria così penetrante e per osservare qualcosa del paesaggio attorno a me. Mycroft era taciturno ed imbronciato, seduto nell’ angolo sul divano di logoro cuoio, mentre Verner, con l’entusiasmo tipico di chi ritorna dopo tanto tempo a casa propria, snocciolava i nomi delle contrade che attraversavamo, indicandomi ora questo ora quel posto, che nel buio della notte non riuscivo a scorgere.

Dopo quasi una mezz’ora fummo davanti un bel cancello di ferro battuto ai lati del quale stavano, incise su ampie superfici di marmo le parole “ VILLA TARGHINI – ZANCA”. Il nostro viaggio era appena finito, ma la grande avventura in cui ci saremmo imbattuti tutti quanti era appena agli inizi.

Il nostro movimento davanti al cancello della villa, attirò uno dei guardiani, che ci venne incontro con una poco amichevole espressione ed un fucile da caccia, imbracciato in maniera decisamente ostile. Verner ed il guardiano si scambiarono poche parole e subito il cancello della villa fu aperto. Fummo fatti entrare, Mycroft ed io  facemmo la conoscenza del barone Verner Targhini-Zanca e della sua amabile signora, nostra connazionale, la baronessa Fanny.

Durante i convenevoli e le presentazioni di rito, una lunga figura, avvolta in una vestaglia rossa, si appalesò alla nostra vista con la noncuranza del più perfetto dandy.

“E voi cosa ci fate qui?” disse Sherlock Holmes con un espressione quasi irata

“Credimi Sherlock, non sarei venuto per nulla al mondo. Avrei senz’altro preferito attenderti fedelmente sulla poltrona del mio club” rispose placido Mycroft

Guardai il funzionario con un certo disappunto e dissi “Holmes, ma non è stato lei a chiamarci?”

“Io? Watson, ma cosa dice?” rispose il mio amico avvicinandosi a noi

“Sherlock, tu ci hai mandato questo qui e noi siamo venuti!” Concluse Verner mostrando il messaggio arrivato al Diogenes “Guarda” continuò “c’era il francobollo italiano, il timbro è di Firenze… chi altri poteva essere?”

“Non io! Non io, accidenti!” urlò Holmes incrociando le braccia e mettendosi nervosamente a camminare per il corridoio. In un angolo la baronessa Fanny traduceva le parole che ci scambiavamo e le ripeteva all’ orecchio del marito, sui cui lineamenti si potevano cogliere le nostre stesse espressioni con qualche attimo di ritardo.

“Il messaggio degli omini di Cubitt.” disse Holmes sospirando “Mycroft, devi proprio avere una brutta opinione di tuo fratello per credere che io usi un codice come questo per comunicare con voi” si girò verso di me

“Dottore, come sempre devo ringraziarla di tutta la pubblicità che lei ha fatto alla mia professione con i sui racconti. Come debbo ripeterle che non deve divulgare i dettagli! Non basta aver cambiato il numero civico di dove abito, anche perché, non essendoci duecento numeri su Baker street, anche un idiota capirebbe che vivo al numero ventuno!” ci fu una pausa che parve lunga decenni “Ma al di la di questo” disse rivolgendosi a tutti con rassegnazione “siete caduti in una trappola” appallottolò il messaggio degli omini che aveva ancora in mano “ ed avete condannato a morte tutti noi”.

Una cortina di mestizia calò sugli sguardi di tutti i presenti. L’anziano barone Verner impartì un ordine alla servitù, che prontamente uscì dalla sala, poi si avvicinò ad Holmes e gli mise una mano sulla spalla chiamando a se la moglie. Anche in quel momento così tragico, in cui la vita di ognuno era appesa ad un filo, non potei fare a meno di cogliere quel quadro bizzarro in cui l’anziano nobile, per parlare con il nipote, si avvaleva della traduzione della moglie.

“Vedrai che tutto si sistemerà. I guardiani piantoneranno gli ingressi della villa ininterrottamente. Ho dato disposizione che vengano usate anche le mute di segugi che di norma usiamo per la caccia. Nessuno potrà avvicinarsi alla villa senza essere visto” Così disse la baronessa Fanny traducendo le parole del marito, ma Holmes replicò con un amaro sorriso:

“Il nostro nemico è ben più grande di un semplice sicario. Abbiamo contro tutto il Governo di questa nazione. Potrebbe darsi, che questa volta siamo veramente arrivati al capolinea. Mio caro Boswell” disse il mio amico stringendomi una spalla “ Non è colpa sua, sappia che non le serbo rancore”

 

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Londra, 6 luglio 1930

 

Caro erede,

questa mattina un colpo apoplettico ha seriamente compromesso le mie già precarie condizioni, sento che, con molta probabilità, non arriverò a superare la nottata. Non odiarmi per aver interrotto così la tua lettura, ma sappi che ti scrivo queste righe con il preciso intento di ammonirti.

Non so chi tu sia, né lo voglio sapere. Sono certo che il Caso sceglierà la migliore persona possibile. Ti devo avvertire, però, su una cosa importante, non proseguire la lettura di questa storia se ti manca il coraggio. Se vorrai leggere oltre, sappi che molte persone saranno pronte ad impedirti di farlo. Sappi che ho mentito su molte cose nella mia vita, sempre a fin di bene, ma adesso sto dicendo la verità, se vorrai leggere oltre chiedi di Horace Verner o, visto che saranno passati ormai molti anni, di suo figlio presso il Diogenes club, dì loro che sei “l’erede del dottor Hamish”. Usa queste parole ed otterrai quel che cerchi. Che Dio t’aiuti.

 

J. H. Watson

 

1, Latakia : Tabacco di origine cipriota dall’odore estremamente forte e persistente, componente della classica english mixture

2, Chablis: vino bianco francese prodotto in Borgogna

  
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