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Autore: Diana Abigail    05/02/2011    15 recensioni
Ho sempre pensato che la colonna sonora sia la vera chiave di tutto. Di un film, di un sentimento, di una storia, di una vita.
A volte una canzone può parlare tanto di te, a volte può parlare tanto di voi.
Ciao, io sono Ilaria, da poco diciottenne e, purtroppo, infognata in una storia senza sbocchi.
A vedermi non si direbbe, lo so bene. Amo lo studio, amo prendermi cura di me stessa e amo girare le città d'arte. Feste e alcool non fanno affatto per me, ma a quanto pare le storie di sesso si.
Non giudicatemi, non so bene come ci sono finita in questo casino, sta di fatto che sono alla prese con una tesina d'esame e un compagno di classe che mi spoglia appena può.
Ilaria e Alessandro, compagni di classe da tre anni, non hanno niente in comune. Eppure capita che a volte si ritrovino nello stesso letto. Ma c'è Alice, bionda e bella, che è il vero obiettivo di Alessandro. Come si può sopportare una relazione così? 
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Vivo per lei - Ilaria e Alessandro'
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Capitolo 5 – Fare a meno di te

Ilaria

Non posso credere di essermi davvero lasciata andare con Andrea. È fantastico, senza dubbio, ma mi sembra di fare qualcosa di sbagliato. Non voglio prenderlo in giro, gli voglio bene e se soffrisse a causa mia probabilmente mi sentirei davvero male, soprattutto ripensando alle sue parole.
Il vicepreside entra in classe e tutti quanti ci alziamo in piedi, seguendo la regola che ci è stata imposta.
“Seduti ragazzi. Allora, sono venuto qua per portarvi le autorizzazioni per la gita della prossima settimana. Dovrete consegnarle entro giovedì, compilate e firmate dai vostri genitori. Sì, Walter, anche se siete maggiorenni. Ah, la scadenza per il bollettino è entro dopodomani, perciò chi ancora non ha pagato, veda di sbrigarsi. Ad esempio tu, Riccardo. Devi muoverti, te l'ho già detto la scorsa settimana. Bene, vi lascio qui le autorizzazioni. Buon proseguimento” dice, uscendo dalla classe e lasciandoci qui come degli imbecilli.
“Castoldi, distribuiscile” mi dice la prof, porgendomi i fogli.
Odio consegnare fotocopie, schede e quant'altro. Non mi dicono mai grazie e non mi guardano nemmeno in faccia.
Consegno le autorizzazioni e Alessandro mi rifila un'occhiata da cane bastonato che mi dà sui nervi, così cerco di finire il prima possibile per tornare al mio posto.
“Pronti per la gita?” chiede la prof, ma ovviamente Vanessa deve prendere parola.
“Io sono contenta di non andarci. Non so manco dov'è l'Ungheria, figuriamoci andare fino lì! Ma che lingua parlano? L'ungaro?” chiede, guardando la sua vicina di banco e sghignazzando.
“L'ungherese, ignorante” commento.
“Come scusa?” mi chiede, sfidandomi. Odio quel suo modo di fare!
“Parlano l'ungherese, ma visto che sei così ignorante da non sapere neanche dov'è l'Ungheria, figuriamoci se conosci la lingua e sai che valuta hanno” le dico, guardandola negli occhi.
Walter, credendosi simpatico, fa il verso del gatto, ma cerco di ignorarlo, visto che me la prenderei volentieri anche con lui.
“Hanno l'euro, no?” mi dice, facendomi pure il verso.
“No, veramente hanno il fiorino. Complimenti, hai appena confermato la mia teoria” le dico, voltandole, poi, le spalle.
“Sta secchiona del cazzo” commenta, a bassa voce per non farsi sentire.
“Basta ragazze. Come ha detto Ilaria, in Ungheria c'è il fiorino, perciò vi porteranno a cambiare i soldi. Ragazzi, cercate di comportarvi come si deve, ma soprattutto di adattarvi. Non mangiano quello che mangiamo noi, non parlano come noi e hanno una cultura diversa dalla nostra. Cercate di rispettarli come loro rispetteranno voi” ci dice l'insegnante.
Non mi piace il tono dell'insegnante, andremo in un Paese straniero, non in mezzo ad una mandria di bufali. Forse ha ragione Walter quando dice che la Bertone è razzista.
“Prof. ma come saremo divisi?” chiede Valentina.
“Ma nessuno vi ha dato l'itinerario e le sistemazioni? In linea di massima sappiate che i primi giorni saranno in campagna, quindi nelle case, mentre gli ultimi due saranno a Budapest e dormirete una notte in hotel. Sabato vi diranno in quale paese sarete, con paese intendo proprio un piccolo paesino, ma sappiate che ci sarà una sola persona per ogni famiglia e solamente due persone per ogni paese. Ad eccezione per quelli che saranno in città” spiega l'insegnante.
Ecco, questa non la sapevo!
Fantastico, almeno non sarò costretta a convivere con una delle mie compagne, mi sembra quasi che stia andando tutto per il verso giusto. Niente Vanessa, niente coinquilina, niente strana relazione con Alessandro. In fondo sono solo cinque giorni, no?

***

“Ragazzi, sono qui per comunicarvi le ultime sulla gita. Allora, Cinzia passami il registro per favore” chiede il vicepreside, rivolgendosi alla professoressa di francese.
“Perfetto. Allora... Mmh.. Iniziamo con chi rimarrà in città. Riccardo, Beatrice, Annarita, Eleonora, Silvia, voi sarete a Kaposvár, una delle città più importanti. Cinzia, segnali. Con la «a» accentata. Sì, sì, così” dice, iniziando a stilare una lista.
Va avanti così per un po', finché non arriva, finalmente, a me. Il paese si chiama Kutas.
“Castoldi con te non sappiamo chi ci sarà. Barone, mettiamo te a Kutas? Può andarti bene?” chiede Andretti, il vicepreside, appunto.
“Ma che mi cambia? Mica devo stare con lei, no?” chiede Walter, indicandomi.
Speriamo che la risposta sia no.
“No, Walter. Però pensavo di metterti a Jákó con Valentina. Chi manca all'appello?” chiede il prof.
Altri cinque miei compagni di classe alzano la mano, tra di loro c'è anche Alessandro. Il mio stomaco inizia a brontolare, avrei dovuto mangiare durante l'intervallo.
“Sa, chi di voi ci vuole andare? Non è un brutto posto, un paesino tranquillo, circondato dalle pianure. Fate voi” decide infine.
Il silenzio pervade la classe e capirne il motivo non è poi così difficile. Chi vorrebbe entrare in contatto con la sfigata di turno?
“Prof. segni me” sento dire.
No. No, posso contestare?
“D'accordo De Angelis. Anche tu sarai a Kutas. Quindi Barone ti segno in Jákó. Lì c'è pure una famiglia con origini torinesi, magari riuscirai a farti capire” scherza il prof., ignaro del mio stato di malessere.
Credo l'abbia fatto apposta. Deve averlo fatto apposta.


Alessandro

Okay, d'accordo, non so perché ho chiesto ad Andretti di mettermi nel suo stesso paese.
Quel silenzio era imbarazzante e giuro di essermi dispiaciuto per lei. In fondo non si merita il trattamento che le rifilano i nostri compagni, sono esagerati perché non la conoscono davvero.
Andretti esce dall'aula e Ilaria si gira verso di me, guardandomi in modo truce.
Iniziamo bene.
Durante l'ora di italiano mi ignora come suo solito, ma al suono della campanella mi raggiunge. È decisamente seccata.
“Perché lo hai fatto?” mi chiede, cercando di non farsi notare.
“Fatto cosa?” le chiedo, facendo il finto tonto.
“Lo sai bene cosa. Cerca di non rovinarmi la mia unica gita scolastica, per favore” mi dice, girando gli occhi al cielo.
“Sempre colpa mia, eh?” le chiedo, uscendo dal portone e prendendo il pacchetto di sigarette.
“Sempre. Always. Toujours” mi risponde, allontanandosi.
“Ciao, eh!” le grido, mentre mi avvio verso la macchina. Si gira e scuote la testa, poi sparisce in mezzo alla folla.
Mi farà diventare pazzo, quella ragazza.

***

“Hai preso tutto? Sei sicuro?” mi chiede mia madre.
“Soldi, sigarette, vestiti, preservativi. Sì ma', ho tutto” le dico, sorridendo alla sua brutta faccia.
“Non fare cazzate Ale, non posso venire a recuperarti in Ungheria. E fai attenzione alle note disciplinari, per favore” dice, seccata.
“So badare a me stesso” le dico, chiudendo il borsone.
“Sì, certo” borbotta, uscendo dalla mia stanza.
Finalmente si parte, sinceramente non so che cosa aspettarmi da questi giorni, ma dal momento che Alice non ci sarà, cercherò di riavvicinarmi ad Ilaria.
Mi manca, da morire.
Bacio mia madre e scendo in macchina, caricando il borsone e il trolley e parto, con un brontolio nello stomaco.
Sono le cinque e mezzo, si viaggerà tutta la notte in pullman, ma non credo che potrei reggere tanto tempo.
Parcheggio di fronte alla scuola e scendo portandomi i miei bagagli: c'è già qualche compagno nel cortile.
“Ehy, Ale!” mi saluta Valentina, tutta sorridente.
Ma che vuole questa?
“Ciao” dico salutando i presenti.
“Ci stavamo chiedendo se andrai a soccorrere la povera Castoldi, se avesse bisogno” dice Beatrice, facendo ridere anche gli altri.
Cosa dovrebbe significare la sua frase?
“Non capisco cosa intendi” le chiedo, prendendo una sigaretta.
“Ma no, scherzavamo sul fatto che ti sia proposto per qualcosa che comprendesse lei” mi dice, sghignazzando. Manco parlasse Tyra Banks, che cazzo.
“Che cazzo ti ridi. Intanto lei me la farei, a te non mi ci avvicinerei neanche se mi pagassero” le dico, mentre accendo. Rimangono tutti stizziti e mi guardano come fossi un alieno.
Beatrice, in compenso, mi rifila lo sguardo più cattivo del suo repertorio. Sembra un carlino, la razza più brutta di cane in circolazione.
“Bella battuta” dice Riccardo, scoppiando a ridere.
Inspiro e lo guardo seriamente, capisce che nessuno stava scherzando e smette subito.
“Oh, guarda, c'è la tua ragazza laggiù” dice Beatrice, indicando Ilaria al cancello.
Ha una valigia enorme, azzurra. È piegata tutta di lato, dev'essere bella pesante. Ma cosa ci devono mettere le donne in valigia? Probabilmente ha un bazooka, per me ovviamente.
“Non vai ad aiutarla?” chiede Valentina, seria.
Le odio ste galline, tutte, dalla prima all'ultima. Sì che ci vado, ci vado subito.
Mi incammino verso Ilaria che, appena si accorge che mi sto avvicinando, sbuffa spazientita. È in trappola per colpa di quella valigia enorme.
“Ti serve aiuto?” le chiedo, abbastanza vicino.
“No, grazie” mi risponde seccamente.
“Dai, dammi sta valigia” le dico, facendogliela appoggiare.
“Ti stanno guardando e tu stai parlando con me. Con me, non so se riesco a farmi capire. Io, la sfigata, la racchia, la bruttona, la secchiona e tutti gli altri nomignoli che ancora non conosco” mi dice, indicandosi.
“Beh, dopo quello che ho detto loro, non si meraviglierebbero neanche se ti infilassi la lingua in bocca, perciò questa la prendo io” le dico, prendendo la valigia da terra.
“Ma quanto cazzo pesa?!?” esclamo, cercando di tirarla su.
“Sei uno smidollato, dalla a me” mi dice, fermandosi.
“Ma cammina...” commento, accelerando il passo verso l'autobus, un bel bestione a due piani.
“Ale, cosa hai detto ai nostri compagni? Perché ci stanno guardando?” mi chiede, con la voce acuta.
“Niente di cui ti dovresti preoccupare” commento, appoggiando quella valigia spacca schiena a terra, stiracchiandomi subito dopo.
“No, seriamente, già mi odiano, non fare in modo che mi rendano la gita un inferno” mi chiede, incrociando le braccia.
“Non ti preoccupare, ci sono io con te, non può essere un inferno” le dico, accarezzandole una guancia. Lei si scansa.
“Smettila di comportarti così. Hai una doppia personalità o mi prendi per il culo?” mi chiede, incazzata.
“Ti ho già chiesto scusa, so di averti detto cose che non stavano né in cielo né in terra, ma sono impulsivo, ciò che penso, dico” cerco di scusarmi. Non sono convinto neanche io di quello che ho detto.
“Sei troppo grande per dar sfogo ai tuoi pensieri senza filtrarli, Ale. Se l'hai detto è perché volevi dirlo, tutto qui. Dopo avermi messa in imbarazzo di fronte a tua madre, hai ancora avuto il coraggio di insultarmi” mi dice, seria.
Non credo di essermi mai sentito così stupido in vita mia.
“Hai ragione, che altro ti posso dire?” le chiedo, allargando le braccia.
“Niente, non c'è più niente da dire. Comunque non ti aspettare che le cose tornino come prima, perché esco con un'altra persona e, io, non ferisco le altre persone, non volontariamente almeno” mi dice, innervosendomi.
Un riccone come lei si è trovata. Non venitemi a dire che quello non ha un conto corrente almeno uguale a quello di suo padre. Non ci credo, ma neanche se mi portassero la dichiarazione dei redditi.
“È un tizio come voi, vero?” le chiedo, buttando il mozzicone.
“Cosa vuol dire come noi?” mi chiede, aggrottando le sopracciglia.
“Ricco” commento, guardandola negli occhi, lei sbuffa.
“Non è una cosa fondamentale” dice, girandoci intorno.
“Rispondi” le dico, appoggiandomi contro il fianco del pullman.
“Sì, è ricco, ma non c'entra niente” dice, guardandomi negli occhi.
“Magari per te non è importante, ma credo lo sia per i tuoi. Tua madre mi odiava e tuo padre... Credo che se avesse potuto farmi sparire dalla faccia della Terra, lo avrebbe fatto” commento, grattandomi il braccio destro.
“Ci avevano visto giusto, eh?” scherza, calciando una pietrolina.
“Quindi è finita definitivamente?” le chiedo, quasi a bassa voce.
“Perché c'è mai stato qualcosa?” mi chiede, spiazzandomi.
Sì, certo che c'era qualcosa. A meno che in quel momento lei non fosse presente mentalmente, in genere c'era qualcosa. Qualcosa di bello.
Sono ufficialmente un coglione.
“Credevo di sì”
“Non era quello che dicevi a me” mi dice, spostandosi un ciuffo dietro l'orecchio.
La fisso per un momento, ma poi sorrido amaramente e distolgo lo sguardo.
“Le cose erano cambiate ultimamente” commento, guardando la mia macchina.
“Lo pensavo anche io, prima che mi insultassi. Mi hai dato della puttana, poi però mi hai anche detto che sarebbe stata meglio una professionista piuttosto che una rompipalle come me” mi dice, alzando il tono.
“Beh, sappi che non è vero. D'accordo, i tuoi modi sono esasperanti, ma una prostituta fissa non me la posso permettere” dico, sorridendo. La sua faccia diventa paonazza.
“Tu! Lurido bastardo” sibila e capisco che non ha capito l'ironia.
“Stavo scherzando, Ilaria!” le dico, scostandomi dal pullman.
“Ti sembra una battuta da fare?” mi grida.
“Non urlare, non voglio che sappiano i cazzi nostri. Dai, scusa, stavo scherzando. No, seriamente Ila, la smetto” le dico, avvicinandomi.
“Mi dai sempre dell'infantile, ma non è che tu sia tanto adulto” mi dice, facendo un passo indietro.
“Già” commento, sentendomi un idiota. Non vuole che mi avvicini. Perché?
“Non c'è più niente tra di noi, Ale. Non posso e non voglio. Non più” mi dice, con gli occhi lucidi.
“Ma perché?” le chiedo, con voce esasperata. Devo darmi un contegno.
“Perché ora c'è Andrea e lui mi vuole davvero bene e non mi tratta come... Come hai fatto tu” mi dice, parlando come una bambina indifesa.
“Io non ti ho costretta a fare nulla, mai. E non puoi dire il contrario” le dico, serio, calmo.
“Non intendevo questo” mi dice. Stiamo quasi sussurrando.
“E cosa intendevi allora? Ti sei sempre, diciamo, concessa? A me sembrava che la situazione ti andasse bene” dico, confuso.
Le alza gli occhi e inizia a piangere, un pianto di quelli che si fanno in silenzio, con un singhiozzo ogni tanto.
“Non l'hai mai capito, probabilmente. E mi sento di dire che non avevo capito neanche io. Eri l'unico che si fosse accorto di me, che evitasse di farmi sentire la persona peggiore del pianeta. Mi sentivo meno sola e speravo che... Che qualcosa sarebbe cambiato prima o poi” mi dice, con la voce leggermente incrinata.
“Speravi mi innamorassi di te?” le chiedo, infilando le mani in tasca.
“Qualcosa del genere” dice, voltandosi per asciugarsi le lacrime. Scuote la testa e si dà della stupida.
Okay, ho mal di pancia.
Anzi, no, sto male, perché in tutto questo tempo ho perso tempo a pensare ad altro e, davvero, non me ne ero reso conto. Cioè, forse ci avevo pensato, ma spesso era più rivolto a me stesso il pensiero. Qualcosa tipo “ma mi sto innamorando?” oppure “perché mi fa piacere?”, ma non credevo che lei ci sperasse. Non credevo si aspettasse quello da me.
“Mi dispiace, Ila” le dico, fissando a terra.
“Non è colpa tua, le cose non sono andate come speravo. Mi sono sempre sentita una... beh, la tua puttana, perlomeno. È davvero avvilente, ma da quando le cose avevano preso un'altra piega, mi sentivo meglio. Non mi sentivo usata, cioè, era tutto più bello” dice, continuando a piangere.
Voglio piangere anche io.
Vedo un gruppo di altri compagni che arriva con uno dei pullman di linea. Si avvicinano tutti agli altri nostri compagni, lontani abbastanza da non accorgersi di noi.
Prendo la mano di Ilaria e la porto dietro il pullman.
“Ale, c'è la valigia lì” mi dice, mentre si oppone leggermente.
Riesco ad allontanarla da occhi indiscreti e l'abbraccio, stringendola forte. Questo, forse, è il nostro primo vero abbraccio. Niente goffaggine, niente gesti imbarazzati.
“Mi dispiace. Mi sono spesso sentito meschino, ma non credevo che tutto questo ti avesse portato ad avere una bassa stima di te. Non ti ho mai reputata davvero una facile, se questo può esserti d'aiuto” le dico, sentendo le sue unghie sulla schiena.
“Mi ero ripromessa di non guardarti neanche in faccia. Ti odio, non dovrei essere qui” mi dice, mentre singhiozza. Le do un bacio sulla testa e vorrei tornare indietro. Vorrei non aver mai fatto l'amore con lei, vorrei che potesse non ricordare nulla.
“Lo so e hai ragione, odiami quanto vuoi, ma scusami” le chiedo, senza lasciarla andare.
“Non puoi essere così? Sempre? Ti voglio così, non il bulletto incazzato con il mondo che mi insulta” mi dice, con la testa appoggiata contro il mio petto.
“Piacerebbe anche a me, davvero. Dobbiamo andare, stanno facendo l'appello” le dico, sciogliendo l'abbraccio.
“Chi facciamo, andiamo laggiù insieme? Mentre io piango e mentre la tua felpa è umida?” mi chiede, alzando un sopracciglio.
“A me non interessa cosa pensano. Non più. Ti dà fastidio se si fanno domande?” le chiedo, aggiustandomi la felpa. Ha ragione, è umida.
“No. Cioè, sì, ma non è una cosa grave. Non sono fatti loro, fino a prova contraria” mi dice, asciugandosi gli occhi.
“Appunto. Chi se ne frega” commento, aggirando il pullman per raggiungere la nostra classe. Walter si gira a guardarci e la sua faccia mi fa venire voglia di prenderlo a pugni una volta per tutte.
“Barone che cazzo ti guardi” gli dico, avvicinandomi.
“Bello, stai calmo” mi dice, cambiando espressione.
“Se hai problemi hai solo da dirlo, invece di fissare le persone” aggiungo, attaccandolo. Magari è la volta buona che se le prende.
“Oh, ma chi cazzo ti ha detto niente!” grida. Buffone, ha già paura.
“Signori ci sono problemi? Se qualcosa non va, potete rimanere qui a parlare” ci dice la professoressa.
“No prof, tutto okay” dice Walter, dandomi le spalle.
Bravo, meglio così.
Ilaria mi sfiora la schiena con la punta delle dita, so che vuole che mi calmi. Mi volto per guardarla e le sorrido.
Ti prego, perdonami.
Finito l'appello, ci fanno salire sul pullman. Una vera e propria corsa per la sopravvivenza. I ragazzi di quinta intimidiscono quelli di seconda, convinti di potersi sedere nei sedili superiori. Saliamo tutti e prendo posto vicino al finestrino, davanti. Non mi va di stare con gli altri. Ilaria si siede qualche sedile più indietro.
Dopo il secondo appello partiamo. La professoressa ci spiega qualcosa al microfono, ma io accendo l'mp3 e non l'ascolto. Non so come, ma mi addormento per una mezzoretta, risvegliato dal cellulare che squilla. È mia madre.
“Siete partiti?” mi chiede, apprensiva.
“Tranquilla, siamo già in autostrada. Ma' le chiavi della macchina te le ho lasciate nell'entrata, sopra il termosifone” le dico, già che ci sono.
“Sì, le ho viste. Tutto bene?”
“Tutto a posto” rispondo.
Un'ora dopo ho già voglia di mangiare, o almeno di fare qualcosa. Ho sempre odiato i viaggi in pullman, sono di una noia mortale, se contiamo poi che ci vogliono più o meno dalle dodici alle quattordici ore, mi verrebbe voglia di ammazzarmi.
Dopo due ore di viaggio scendiamo al primo Autogrill e corro in bagno. Ovviamente c'è la fila.
Appoggiato contro il muro, guardo Ilaria girovagare nel reparto caramelle. Prende un sacchetto con delle Haribo a forma di coccodrillo. Quelle caramelle dolcissime e gommose con la parte bianca morbida sotto. Buone, mi piacevano da piccolo.
Finalmente riesco ad entrare in bagno e l'odore mi colpisce come un pugno allo stomaco. Insopportabile l'odore di pipì.
Cerco di uscire il più in fretta possibile, giusto in tempo per prendermi un caffé.
Ovviamente c'è la coda anche lì.
“Cosa hai preso?” mi chiede, arrivandomi alle spalle. Le sorrido.
“Un caffé. Sono da suicidio gli Autogrill” sono positivo stasera.
“Oh, beh, io ho un cappuccino, siamo lì” mi dice, appoggiandosi al bancone.
Vorrei farle mille domande per non far cadere lì il discorso ma mi sembrano così stupide che preferisco star zitto.
“Posso sedermi vicino a te?” mi chiede improvvisamente, voltandosi verso di me.
“Quando?” le chiedo.
“Dopo. Sul pullman” mi risponde, arrossendo.
“Va bene” le dico, senza pensare a qualcosa in particolare. Non mi dispiace e questo l'ho capito.
Riusciamo a prendere le nostre ordinazioni e ci avviamo verso il pullman, pronti per due ore almeno di viaggio.
Mi siedo al mio posto e Ilaria si siede accanto a me, imbarazzata. Effettivamente è strano stare insieme davanti ad altre persone.
“Tranquillizzati, sei tesa” le dico, sfiorandole il ginocchio.
“Ma sono tranquilla. Tranquillissima” dice, cercando qualcosa in borsa.
Tira fuori le caramelle e apre il pacchetto.
“Guarda che ti fanno venire la carie ai denti” l'avverto, sorridendo.
“Se ne vuoi una, basta chiedere” mi dice, porgendomi il sacchetto.
“Non era quello il mio intento, ma grazie” le dico, prendendo un coccodrillo rosso.
“Non potevi prendere quello verde? O quello giallo?” mi chiede e sghignazzo.
“Ti offendi per una caramella?” le chiedo, tirando la coda del coccodrillo per dividerlo.
“Sì” risponde, cercando attentamente un altro coccodrillo rosso.

***

Presto diventa notte e, dopo una seconda sosta in Autogrill, chiedono all'autista di poter spegnere le luci più forti. Nonostante la prof non fosse totalmente d'accordo, riusciamo ad avere una luce più soffusa.
Inizio a sbadigliare e mi tolgo le cuffie dalle orecchie. Non ne posso più di ascoltare musica.
Mi volto verso Ilaria e vedo e sonnecchia, o almeno sembra. Cambia posizione e vedo che è scomoda.
“Ila?” la chiamo, a bassa voce. Spalanca gli occhi e mi guarda.
“Appoggiati se stai più comoda” dico, serio.
“No, è peggio. Mi viene mal di schiena. L'unica sarebbe sdraiarsi su due sedili, ma qualcuno laggiù ha avuto la stessa idea e non ci sono più posti liberi” dice, cercando di mantenere la voce bassa.
“Se non sei così tanto arrabbiata da odiarmi e se non ti interessa davvero quello che pensano, ti prendo in braccio” dico, parlandole all'orecchio.
“Poi stai scomodo tu” dice, scuotendo la testa.
“No, mi cambiano soltanto cinquanta chili in più” dico sorridendole. Le professoresse sono cinque sedili davanti a noi.
Si siede sulle mie gambe ma quando si accorge di essere troppo in alto si abbassa, rannicchiandosi. Non posso fare a meno di sghignazzare.
“Non posso, mi vedono!” mi dice, moderando la voce.
“Allunga le gambe sull'altro sedile, così ti abbassi” le dico, facendo un cenno in direzione del sedile. Ci prova ed effettivamente si ritrova alla mia stessa altezza, ma con la schiena verso il finestrino.
“Così è pure peggio” commenta, guardandosi le scarpe.
“Vieni qui” le dico, abbracciandola. Appoggia la testa sulla mia spalla e nasconde il viso contro il mio collo.
“Mi vergogno da morire” sussurra, piegando le gambe.
“Non devi” le dico, appoggiando la mia testa contro la sua.
“Buonanotte. E grazie” mi sussurra piano.
“Buonanotte” le rispondo.
Chiudo gli occhi e mi addormento piano, con il suo fiato sul collo.

Vi chiedo umilmente scusa! Lo so, cinque mesi sono tantissimi, ma non ero riuscita a scrivere niente di niente. Riscrivevo e cancellavo. Così  vi ho appena pubblicato ben 7 pagine e un intero capitolo, sperando di farmi perdonare. Mi dispiace se il loro comportamento in questo capitolo può sembrare totalmente inadeguato, infatti non doveva essere così, però mi piaceva l'idea di un viaggio in intimità, un fregarsene di tutti e chiedersi solo scusa. In fondo dovrebbe essere un'intera settimana senza Alice e Andrea. Fatemi sapere che ne pensate del loro comportamento, potrei aggiustare tutto nel capitolo 6. Prima di tutto non voglio deludervi!
Bene, ora vi saluto e, se avete un po' di tempo, leggete qualche altra mia storia ^^
Non so dirvi quando riuscirò ad aggiornare di nuovo, ma spero di avervi dimostrato che la storia non l'ho abbandonata, tutt'altro!^^
Buona serata

P.S. Risponderò ai commenti per messaggio privato

   
 
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