Storie originali > Soprannaturale
Segui la storia  |       
Autore: My Pride    03/03/2011    6 recensioni
Potete chiamarmi spettro, diavolo, demone o figlio delle tenebre, se ciò vi aggrada. A me non importa. Chiunque sia stato a farmi questo, fosse anche il Diavolo in persona, se lo incontrassi sul mio cammino, probabilmente, lo ringrazierei.
Forse sono stato semplicemente dannato e non me ne rendo conto adesso come non me n’ero reso conto a quel tempo, ma ciò che provai durante quei primi giorni della mia nuova esistenza non lo scorderò mai: i suoni vivi, i colori nitidi, le luci e le ombre che sembravano palpabili, quasi potessi intrappolarle fra le dita... si era rivelata una situazione meravigliosa.
[ Prima classificata allo «Yaoi Contest: Citazioni di Alessandro Baricco» indetto da Ale2 ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Originale al contest «Voglie estive di gustose letture» indetto da aturiel ]
[ Vincitrice del Premio Miglior Protagonista al contest «L'amore ai tempi di EFP» valutato da Lady Viviana ]
[ Prima classificata e vincitrice del Premio Miglior Personaggio secondario al contest «Let's talk about a Beatle» indetto da DakotaDeveraux ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Dè a tha thu_3
SCENA II: AMLETO [1] E MACBETH [2]
 
    Era sparito fra la folla così com’era apparso, l’ombra d’un pallido fantasma dissoltosi nella marea di gente che imperversava fra le strade di Londra.
    Pensai quasi d’essermelo immaginato, cercandolo ancora con lo sguardo sebbene ormai, di lui, restasse solo la sua vaga presenza sulle mie retine. Non seppi perché mi affannai così tanto nel ritrovarlo, negli attimi che seguirono, ma cominciai a vagabondare fra quelle strade sotto quel diluvio, quasi non riuscissi a darmi pace. L’avevo visto solo per un attimo, però quell’attimo era bastato. E continuai a cercarlo e a cercarlo ancora mentre intorno a me la gente diveniva man mano più rada, non capacitandomi al tempo stesso del perché seguissi quello spettro che avevo veduto e che a sua volta, per non più d’una frazione di secondo, aveva rivolto verso di me il suo sguardo.
    Cosa mai avrebbe potuto significare quella mia ossessione? Avevo trovato un’altra creatura che condivideva il mio stesso destino o, forse, volevo soltanto tentare d’illudere la mia persona, e dunque quella visione che ai miei occhi era apparsa così reale era invece stata solo un parto della mia mente stanca e annoiata? Non lo sapevo, ma passarono ore ed ore senza che trovassi più alcuna traccia. Con molta probabilità, rincorrendo i miei soliti pensieri e perdendomi nel passato, avevo involontariamente generato quell’immagine speculare, lasciando che la fantasia prendesse momentaneamente il sopravvento sulla realtà. Ma se era stato davvero così, perché non riuscivo a togliermi dalla mente quello sguardo un po’ vacuo, quegl’occhi d’un azzurro così intenso d’apparire di ghiaccio come quello d’un husky, e quei capelli ramati e arruffati che nascondevano il pallido viso? Che sorta di maleficio mi aveva fatto, quell’essere, se realmente esisteva? Più ci pensavo, più il mio meravigliarmi mi sembrava pura follia. Ma continuai a farlo anche quando raggiunsi il palazzo e mi chiusi la porta alle spalle, liberandomi distrattamente di giacca e cilindro mentre salivo le scale per raggiungere il mio alloggio.
    Non appena vi entrai, fui investito dall’odore della pittura, reso ancor più intenso dall’aria viziata, date le finestre che Henry aveva lasciato chiuse. Aprirle con quella pioggia non era l’ideale, certo, ma mettersi a dipingere senza farlo era un po’ come suicidarsi, dati i quantitativi di colore che lui era solito utilizzare. Diceva, però, d’esserne ormai assuefatto, e chi ero dunque io per impedirgli di fare ciò che voleva? Quello per me non era un problema, anche perché erano rare le volte in cui ritornavo a casa. Ero perfettamente a mio agio anche altrove. Esattamente come avevo previsto, trovai Henry dinanzi ad una delle sue tele. Attraversai quel poco spazio non ingombrato da tavoli e tavolinetti, attento a dove mettevo i piedi per non inciampare in qualche foglio svolazzante o colore. Con il disastro che c’era in giro, non mi preoccupai nemmeno del fatto che, con le mie scarpe imbrattate, stessi bagnando il pavimento.       
    «Hai fatto tardi, stasera», mi salutò Henry, senza alzare gli occhi azzurri dal suo dipinto. Intinse invece il pennello in uno dei colori della tavolozza che reggeva, riprendendo tranquillo il proprio operato come se fosse ancora solo.
    Poggiai il giaccone su una delle poche sedie libere, ritrovandomi poi a scoccargli un’occhiata di scarsa importanza. «Sono stato impegnato», ribattei, sentendo appena un suo mezzo sbuffo ilare.
    «Bugiardo», replicò difatti, mescolando il nero e il ciano per stemperarli poi sulla tela, assumendo un’espressione poco soddisfatta.
    Io, però, sbuffai. «Pensa ai tuoi quadri, pittore», lo ammonii, lasciando il cilindro dove capitava. Odiavo quando Henry si metteva in testa di fare la parte della madre appiccicosa o dell’amante geloso, e queste semplici cose sarebbero bastate per risvegliare quella natura che mi animava. Lui, pur sapendo ciò che ero - o, per meglio dire, sapendo quel poco di cui ero venuto a conoscenza anch’io -, non si faceva poi tanti problemi a sfidarmi o a fare in modo che mi arrabbiassi, per nulla preoccupato delle conseguenze.
    Si vive una volta sola, diceva, e della sua vita gliene importava ben poco per sua stessa ammissione. Io, che ero diventato quell’essere proprio a causa del mio attaccamento alla vita, non lo comprendevo. Ma d’altra parte sembravo attendere proprio il momento in cui quella sua vita si sarebbe spenta, consumandosi a poco a poco come la cera d’una candela. Era come se aspettassi pazientemente qualcosa, senza riuscire ancora a comprenderne il motivo. Forse quando quel momento sarebbe arrivato l’avrei capito, e mi sarebbe anche stata spiegata la sensazione che provavo quando lo vedevo davvero all’opera, completamente immerso nel suo mondo dove nessuno, me incluso, poteva raggiungerlo. Quelli erano attimi in cui qualcosa, dentro di lui, fremeva, premeva insistentemente per poter uscire, e io ero lì ad osservare, pronto a ghermirla non appena si fosse liberata.
    In quel momento, invece, Henry non mi trasmetteva quella stessa percezione. Era soltanto un semplice uomo che giocava distratto con i suoi colori, senza dipingere ancora nulla di concreto com’era solito fare. «Mancanza d’ispirazione?» domandai sarcastico quando mi spostai di poco per sbirciare la tela, vedendolo abbassare il pennello per poggiarlo sulla tavolozza. Mise su una sottospecie di broncio che stonava non poco sul suo viso, poi, aggrottando la fronte e incurvando le labbra all’ingiù.
    Guardò a sua volta la tela senza proferire ancora parola, come se la stesse contemplando. Era diversa da quelle che ero solito vedere, e me ne meravigliai: il tratto base dei soggetti era chiaro e sottile, quasi nullo, e le pennellate che componevano la prima passata di sfondo erano solo linee di colore prive d’un vero motivo. Sembrava quasi che fossero state buttate lì a caso, e forse era davvero così. Si scorgeva vagamente un viso, in quell’ammasso di colori e forme, ma era piuttosto difficile stabilire il sesso del soggetto rappresentato.
    «Sacrebleu, je suis un faillite [3]», mormorò infine nella sua lingua, abbandonando la tavolozza su una sedia lì accanto prima d’afferrare saldamente la tela per lanciarla con foga sul lato opposto della stanza. Andò a scontrarsi con la libreria accostata al muro, e i pesanti tomi che caddero non furono per niente pochi. Ma Henry non sembrò curarsene, alzandosi dallo sgabello che aveva occupato per dirigersi invece alla finestra, dove si accostò prima di tirar fuori un sigaro.
    «L’unica cosa di cui sono capace è dipingere, mon amie, ma se non riesco più a fare nemmeno quello, cosa potrò mai inventarmi?» quella sua domanda non sembrò diretta propriamente a me, giacché non aspettò per niente una risposta. Si accese invece il sigaro e se lo portò alle labbra, concedendosi quell’unico e piccolo piacere. «Potresti ammazzarmi», continuò poi, scompigliandosi i capelli. «Sarebbe di sicuro molto più interessante di questo mortorio».
    Sollevai un sopracciglio, prendendomi qualche attimo di silenzio, come se stessi cercando le parole adatte. C’era un lato di me che non si faceva poi tutti questi scrupoli ad uccidere, certo, ma se avessi ammazzato Henry, quali altri svaghi avrei avuto? Quel mio fantasma che mi era sembrato di vedere durante il ritorno? Davvero una bella prospettiva. Così sbuffai e, scuotendo il capo, andai a recuperare la tela. «Cercati un altro mostro per farti ammazzare, pittore», ribattei infine, chinandomi per prendere anche alcuni libri caduti. «Io e la morte abbiamo ancora un conto in sospeso», soggiunsi sarcastico, vedendolo appena con la coda dell’occhio storcere il naso prima di tirare una bella boccata dal suo sigaro. Fra le mani mi capitò uno dei tomi che tempo addietro avevo studiato nel tentativo di comprendere la mia natura, e mi ritrovai a carezzarne appena il dorso prima d’alzarmi in piedi, così da rimettere tutto a posto. «Credi ai fantasmi, piuttosto?» domandai a bruciapelo, accostando la tela contro la gamba d’un tavolino.
    Henry assunse un’aria piuttosto perplessa, dando vita ad una breve risata per nulla divertita. «Cos’è, uno scherzo?» chiese in risposta. «Sto parlando con una sottospecie di demone, mon Dieu», ci tenne a ricordarmi, come se poi ce ne fosse davvero bisogno. «Chiesta da te, la cosa è alquanto ironica».
    Tagliai corto con un gesto secco della mano, impedendogli di continuare. «Niente sofismi, gradirei piuttosto una risposta», insistetti, poiché non riuscivo ancora a liberarmi dell’immagine di quell’apparizione. Però Henry scrollò semplicemente le spalle, tirando un’altra boccata di fumo. «Se credo in ciò che vedo adesso e non sono dunque impazzito, perché non dovrei credere anche all’esistenza dei fantasmi? Non mi stupirei nemmeno se da quella porta entrasse Dracula [4] in persona, in questo momento».
    Quel suo sarcasmo, nonostante tutto, mi fece brevemente sorridere. «Temo che tu sia rimasto troppo a lungo chiuso in questa stanza, pittore», dissi. «L’odore di quei colori gioca brutti scherzi».
    «Sei stato tu ad avermelo chiesto», mi tenne presente, scombinandosi ancora una volta i corti capelli castani prima di ravvivarli alla bell’e meglio all’indietro. «Io mi sono solo limitato a rispondere. Tu, piuttosto, sei più strano del solito. E ce ne vuole, aggiungerei».
    Non risposi, limitandomi solo ad attraversare la stanza per dirigermi verso il mio piano, carezzando lievemente il legno massello con cui era stata lavorata la parte superiore che nascondeva la cassa. Mi sedetti poi al mio posto, alzando il coperchio della tastiera per sfiorare con due dita i tasti bianchi e neri. «Credo d’aver intravisto uno spettro», rivelai infine. «È stato solo un attimo, ma mi ha guardato dritto negli occhi prima di sparire».
    Henry mi fissò per una buona manciata di minuti, sorridendo poi lieve. «Oh, mon amie, e di cosa ti preoccupi?» domandò, lasciandomi un po’ basito. Ancora mi stupivo di come la vita di quell’essere umano sembrasse essersi ormai adattata alle stranezze di quel mio mondo sovrannaturale. Non ne era rimasto sconvolto come avevo creduto, bensì mi aveva semplicemente posto quella domanda. Forse, dopo dieci anni, quella sua padronanza nel gestire situazioni del genere era più che normale, chi poteva dirlo. Possibile che quello stupito fossi io che appartenevo a quel mondo e non lui? 
    «Non era questa la risposta che mi aspettavo, se me lo concedi», risposi poi, facendo scivolare l’indice sulla tastiera, vedendo di sfuggita Henry sorridere brevemente.
    Spense il proprio sigaro nel posacenere riposto su uno di quei bassi tavolini da the, rivolgendomi poi un cenno del capo. «Mon cher», cominciò. «Se permetti, dopo dieci anni che ti conosco ci sono ben poche cose che possano riuscire a farmi scappare in preda al panico», soggiunse, allargando di poco il sorriso «e il tuo aver visto uno spettro non rientra ancora tra queste, mi spiace».
    A quelle sue parole mi innervosii e, abbattendo con forza entrambe le mani sui tasti del piano, creai un suono grottesco e per nulla armonioso che si propagò intorno a noi come una lugubre melodia. «Dovresti temere un po’ di più ciò che non conosci», lo redarguii, ma lui si limitò ancora una volta a scrollare semplicemente le spalle, come se la cosa non lo riguardasse per niente.
    «Ho ben altro da fare che spaventarmi per ogni piccolezza esistente a questo mondo», ribatté semplicemente, accennando poi un inchino nella mia direzione. «Pardonne moi, monsieur [5]», soggiunse poi, scomparendo nella stanza adiacente per tornare solo svariati minuti dopo con un’altra tela immacolata, riponendola sul treppiedi occupato poco prima da una sua sventurata compagna.
    A quanto sembrava, Henry aveva intenzione di riprendere il proprio lavoro, e di questo non mi stupivo. Non faceva altro che dipingere dalla mattina alla sera, per quel che ne sapevo, e forse i pasti che consumava si riducevano appena a del porrige e a del pane di segale. L’unica bevanda poteva magari essere del whisky scadente, ma non contavo nemmeno su quello. Se non avesse conservato almeno un briciolo di buon senso, si sarebbe lasciato morire di stenti e di fame dinanzi a quelle sue dannate tele.
    Dopo quella nostra breve conversazione non parlammo più, perdendoci l’uno nel silenzio dell’altro. Lui s’impegnò su quella sua nuova opera, io continuai a pensare a quel ragazzo fantasma che avevo intravisto appena, pigiando di tanto in tanto qualche tasto dello strumento dinanzi al quale ero seduto. Mi persi ben presto, sia per mio diletto sia per non curanza, nell’intonare la Sonata in Re maggiore [6] di Mozart, di cui tempo addietro mi ero innamorato quando mi ero ritrovato ad ascoltarla. Lasciai che fossero le sue note a guidare i miei pensieri, nella vana speranza che li direzionasse presto altrove.
    Era stata un’illusione, mi ripetevo, forse timoroso che la follia che di tanto in tanto muoveva Henry stesse cominciando a divorare anche me. Ma come poteva mai essere che uno stato così umano potesse insinuarsi persino in una creatura pari a un demone quale ero io? Probabilmente era stata quella stessa trasformazione a rendermi pazzo, e gli effetti stavano iniziando a farsi vivi solo ora dopo secoli. Il mio pensarci con così tanta intensità ne era la prova.
    Interruppi di scatto la melodia che avevo cominciato ad intonare e chiusi il coperchio della tastiera, così forte che quasi temetti di rompere esso e i tasti sottostanti. Così facendo fui capace di richiamare l’attenzione di Henry, che mi osservò con tanto d’occhi senza muovere un muscolo. Lo fulminai con un’occhiataccia, nervoso per un motivo che solo io conoscevo, alzandomi poi per andare a recuperare il mio giaccone. «Non aspettarmi», dissi semplicemente in tono secco, imboccando la porta prima di richiudermela con un tonfo alle spalle.
    Scesi le scale in fretta e furia, ritrovandomi ben presto nuovamente fra le strade di Londra. Non pioveva più forte come prima, fortunatamente, ma una leggera pioggerellina continuava insistentemente a scendere, bagnando il lastricato. Anche le grondaie e i portici dei palazzi che sorgevano sui lati delle strade gocciolavano pigramente, diffondendo nell’aria quel lieve ticchettio che preannunciava una futura schiarita.
    L’ora era ormai tarda, dunque erano poche le persone che ancora si attardavano fra le vie. Decisi di spostarmi allora verso l’East End [7], dove avrei di sicuro potuto godere di qualche attimo di distrazione. Era esattamente quel che mi ci voleva, dopo tutte le reminiscenze che avevano affollato i miei pensieri per tutto il giorno. Avevo bisogno di uno svago, di un qualunque divertimento, di forviare magari qualche giovane mente come si confaceva alla mia natura stessa. Così facendo, forse, avrei anche potuto dimenticare il reale motivo che mi aveva spinto ad uscire.
    Vagai fra quelle strade e quei vicoli avvolto nel mio soprabito, silenzioso e rapido come un’ombra, evanescente io stesso come uno spettro. Quelle poche persone che incrociavo - per lo più prostitute con i loro clienti, e ad una certa distanza il protettore che li seguiva -, sembravano non badare a me o non vedermi nemmeno, quasi fossi realmente inconsistente come la notte che ci avvolgeva.
    Non arrivai mai dove mi ero prefissato, però, e la ragione non fu il mio perdermi fra i miei pensieri, stavolta: avevo udito quella stessa melodia che sembrava aver guidato i miei passi verso la città di Londra duecento anni or sono. E seppur avessi cominciato ormai a pensare che anch’essa fosse soltanto un parto della mia mente, probabilmente una rimembranza delle canzoni che mia madre, prima di morire, soleva cantarmi quand’ero bambino per conciliare il mio sonno, avevo semplicemente deciso di seguirla verso luoghi sconosciuti, perdendomi nelle note basse e cariche d’attesa prodotte da quello strumento che, forse, in realtà non esisteva
.





[1] È un’opera in 5 atti di William Shakespeare, rivista da Ambroise Thomas con il nome di Hamlet e rappresentata all’Opéra de Paris il 9 marzo del 1868.
La tragedia assume un carattere romantico: il suo senso iniziale viene stravolto, Amleto perde la sua solita e tagliente ironia, i cortigiani spariscono, il ruolo di Polonio non esiste, Gertrude sa del crimine e ne è persino complice. Il dramma si restringe sulla tensione al cuore del personaggio di Amleto, mentre i suoi aspetti bizzarri sono cancellati.
Nel corso del capitolo si capirà vagamente la scelta del titolo.
 
[2] Uno tra i più conosciuti drammi di Shakespeare, nonché la tragedia più breve.
Modello della brama di potere e dei suoi pericoli, tale opera è stata riadattata e rappresentata frequentemente nel corso dei secoli.
Per la trama Shakespeare si ispirò liberamente al resoconto storico del re Macbeth di Scozia di Raphael Holinshed e quello del filosofo scozzese Hector Boece.
Ci sono molte superstizioni fondate sulla credenza che il dramma sia in qualche modo maledetto e molti attori non vogliono menzionarne ad alta voce il titolo, riferendosi ad esso come “Il dramma scozzese”.
Nel corso del capitolo si capirà vagamente la scelta del titolo.
 
[3] La traduzione sarebbe “Accidenti, sono un fallito (O fallimento)” ed è naturalmente francese.
 
[4] Nome del protagonista di un romanzo gotico dalle atmosfere cupe e minacciose che riprende il mito del vampiro, scritto nel 1897 dall’irlandese Bram Stoker, che si ispirò alla figura di Vlad III, principe di Valacchia.
 
[5] La traduzione sarebbe “Mi scusi, signore” ed è naturalmente francese. Potrebbe essere letto, a seconda di come lo si interpreta, anche come “Mi perdoni” o “Chiedo scusa”.
 
[6] Fu composta ed eseguita a Londra nel 1765, ed è la quarta sinfonia dell’allora giovane Mozart.
Si apre con un Allegro per variare poi con un Andante e concludersi con un Presto.
 
[7] Prossimo al vecchio porto di Londra, proprio per tale motivo è il luogo in cui gli immigrati trovavano un posto in cui stare. 
La sua storia, a volte vista in chiave romantica, è fatta di umorismo e valori della classe operaia, ma anche di delitti come quelli di Jack lo Squartatore a Whitechapel, crimine organizzato, gangsters come la Banda Kray, povertà affrontata e resa sopportabile dalla tenacia britannica.
La verità, forse un po’ cruda, è che nell’East End si concentrano alcuni dei quartieri più poveri del Regno Unito, con tutti i problemi che ciò comporta
.  



Messaggio No Profit
Dona l'8% del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felici milioni di scrittori.
  
Leggi le 6 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale / Vai alla pagina dell'autore: My Pride