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Autore: Valpur    07/03/2011    4 recensioni
Come nelle fiabe, no? "C'era una volta"...
Ma anche no. Niente principesse, niente elfi, fatine, cavalieri, niente bei tenebrosi o unicorni o draghi. Niente. Nada de nada.
In compenso nell'iperuranio c'è chi si annoia di brutto. Anzi, magari si annoiasse.
E così succede che le frustrazioni degli Immortali vanno a riversarsi su qualcuno di molto, molto sfigato e inadatto.*Storia scritta in occasione del NaNoWriMo 2010*
Genere: Avventura, Comico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sara alzò lo sguardo, atterrita, e vide anche troppo da vicino un naso arrossato e coperto di venuzze in mezzo a una faccia piena di peli. Gli occhi erano acquosi sotto sopracciglia folte. E l’odore era davvero poco tollerabile: il fiato sapeva di cipolle e di stantio come se fosse una cantina chiusa da sempre. Insieme all’afrore dell’alito le arrivò quello della pelle, sudore vecchio e panni non lavati.

“I-io…”
“Stai mendicando, eh? Lo sai che ai signori non piace?”

In quel momento un’ombra scura passò alle spalle dell’uomo.

“Suvvia, Clodio, caro fratello. Non ricordi le parole di Nostro Signore? ‘Beati i poveri perché...’”
Sara si addossò al muro e cercò di vedere chi avesse parlato. Lo aveva visto sull’altare ma ora lo distingueva più da vicino. La testa presentava un anello di capelli grigio topo attorno a una chiazza rasata e lucida. Nel viso grassoccio e pallido, gli occhi erano gentili e un po’ bovini, le labbra grasse e pendule.

L’altro uomo sbuffò.

“Mph. Sì, padre Felino. Io… ecco… andrei…”

Il frate sorrise.

“E la pace sia con te, figliolo. Su, tua moglie ti sta aspettando”.

Clodio si infilò le mani in tasca e, ingobbito, si allontanò strusciando i piedi sul selciato davanti alla chiesa.

Sara rimase lì, gli occhi sgranati, mentre i dolori si attenuavano lentamente.

“Come ti chiami, figliola?” le chiese il frate, congiungendo le mani dentro le ampie maniche della tunica nera. Anche lui aveva un odore penetrante e sporco.

“Io… G-Guinevere. Mi chiamo Guinevere. Guinevere Absinthe Sidhe”.

Fra’ Felino inarcò le sopracciglia.
“Un nome insolito. Non sei di queste parti, vero? Non credo di averti mai vista alla funzione…”
Sara raddrizzò le spalle e finalmente riuscì ad alzarsi, sentendosi più padrona di sé.

“Io non seguo questo genere di buffonate! Seguo la vera fede, quella nella nostra unica, grande Madre!”
“Ah, mi fa piacere sentirti professare una simile devozione a Nostra Signora. Le preghiere a Lei sono sempre ascoltate, poiché è Madre di tutti noi”.

“No, forse non mi sono s-spiegata”. Un violento capogiro la costrinse a chiudere gli occhi e a riappoggiarsi al muro da cui era appena riuscita a staccarsi.

“Devi aver avuto sfortuna”, osservò il frate. “Sei stata derubata?”
“Io… io… ecco… potrei anche dire che… insomma…”

Le si riempirono gli occhi di lacrime. Stupida! Che stupida era stata a non prepararsi una scusa plausibile, a non impararsi un discorso da fare a chi l’avesse interrogata. Ma il buon frate fraintese la sua confusione.

“Ah, non temere, non è necessario che me ne parli qui. Puoi andare alla foresteria del monastero, ti daranno da mangiare e potrai riposare. E poi, se lo vorrai, ascolterò la tua confessione”.

Sara si accigliò.

“Confessione?”
“Certamente: se sei stata violata da qualche malfattore ti darò la mia assoluzione senza indugio, e il Signore non sarà più in collera con te”.

“Quindi tu credi che se una donna viene violentata il… il peccato sia suo?”
“Ovvio! Le caste vergini di Roma preferirono morire piuttosto che sacrificare la propria virtù, e così dovrebbe fare ogni buona donna devota. Ma ora coraggio, vai a farti dare qualcosa da mangiare”, concluse. Stese il braccio destro e indicò l’edificio alle spalle della chiesa. Sara si incamminò in quella direzione, al fianco di Fra’ Felino. Si sentiva ribollire di rabbia e frustrazione davanti a tanta ottusa cecità, ma si sforzò di tenere la bocca chiusa fino a che non avesse potuto usarla per ingurgitare del cibo.

Dopo pochi passi giunsero a un portone alto due volte lei, di legno scurito da anni di intemperie. Con uno scatto rasposo su uno dei battenti si aprì uno spioncino orizzontale.

“Oh, abate, che la pace sia con voi”, disse una voce, appartenente a un uomo con occhi scuri e infossati.

“E con il tuo spirito, caro fratello”.

Un rumore sferragliante annunciò la rimozione di un pesante chiavistello e la porta si aprì. L’uomo dietro allo spioncino –un altro frate, con il saio nero e un cappuccio calato su una testa rasata e un viso pallido e vizzo- si fece il segno della croce e fece passare Felino e Sara.

La ragazza continuò a seguire il frate in maniera stolida come una pecora, guardandosi blandamente attorno. Passarono sotto un basso architrave di legno ed entrarono in quello che –Sara se lo ricordava, sua mamma glielo diceva sempre durante quei noiosissimi, lunghissimi viaggi in giro per chiese e abbazie in Francia- era evidentemente un chiostro. Piccolo, angusto, piuttosto buio. Il prato al centro era mal tenuto e pieno di chiazze di terra nuda. Qualche pollo dalle zampe lunghe e tutto spennachiato razzolava in giro, poco convinto.

L’abate svoltò a destra e mise la mano su una maniglia.

“Ehm… figliola, non puoi seguirmi, quest’ ala è riservata ai confratelli”.

“Eh, e allora?”
“E allora le donne non sono ammesse ovviamente!” esclamò allargando le narici inorridito.

“Perché?”
“Ma come perché? Che domande fai? Perché siete tentatrici e infide e portate con voi il peccato originale trasmessovi da vostra madre Eva, mentre l’uomo discende direttamente da Dio Padre! Su, vai alla foresteria. È lì”, e indicò una porta nell’angolo in fondo a sinistra.

“Io non sono infida! Questo è puro e semplice sessismo immotivato!”
L’abate la guardò con aria vacua, abbassò la maniglia e sparì oltre la porta.

Sara fece spallucce. L’erba ispida le dava fastidio alle piante dei piedi nudi. La porta che le era stata indicata era aperta e dall’interno proveniva un sommesso chiacchiericcio.

Esitò qualche istante ferma sulla soglia. All’interno era piuttosto buio, soprattutto perché ormai anche il cielo andava scurendosi in un tramonto sempre più uggioso. La sala aveva il soffitto basso e lungo il pavimento vide correre un ratto marrone scuro. Si tese e sollevò l’orlo della gonna indietreggiando.

“Allora, tu sulla porta, entri o rimani lì a guardare la porta?” berciò una voce sgarbata dall’interno.

Sara appoggiò un piede all’interno. Anche il pavimento era di terra battuta, ma decisamente più freddo di quello all’esterno. Deglutì quasi a vuoto, terrorizzata all’idea di dover condividere il pasto con altri ratti.

Oltre la porta il soffitto era basso, quasi invisibile nella penombra (e l’immancabile fuliggine sicuramente non aiutava nell’opera). La sala, lunga una ventina di metri, ospitava tre lunghi tavoli disposti longitudinalmente rispetto al muro principale; ai due lati dei tavoli le panche erano occupate da poche persone. Sara si addentrò nella stanza; la voce che aveva sentito proveniva dalla persona in piedi dietro al tavolo perpendicolare a quelli più lunghi.  Un altro frate, basso e secco tranne che per una pancia flaccida che cascava sopra alla corda del saio, nascondendola alla vista.

“Eccoti qui. Trovati un posto e poi vieni qui a prendere un po’di brodaglia”. La voce era annoiata e acida, come di chi detesti fare il lavoro che sta facendo.

Sara si girò. Le panche erano semivuote, ma le persone che le occupavano rendevano la cosa solo un vantaggio: i poveri, si disse, in quell’ epoca erano persino peggio che nel terzo millennio. Puzzavano pure più di tutte le altre già maleodoranti persone che aveva incontrato in quei due giorni interminabili, ma erano anche vestiti di nulla più che stracci, bende zozze arrotolate attorno a mani scarne e piedi incrostati di sangue rappreso.

Ma non era quella la cosa peggiore. Ormai si era quasi rassegnata (non propri abituata, mai) al livello pessimo di igiene in cui era capitata. Ma gli sguardi… no, quelli non riusciva a tollerarli.

C’era una donna. Era magra come se fosse stata fatta di legno e paglia. E non poteva essere vecchia, a giudicare dai capelli ancora scuri che sfuggivano dal fazzoletto consunto e sporco che aveva legato in testa. Ma gli occhi erano infossati in un viso smagrito e segnato da rughe profonde, la pelle giallastra, le labbra esangui, lo sguardo vuoto e perso nel nulla. Sembrava non essere interessata al piatto di cibo fumante (ancorché non particolarmente appetitoso) o tanto meno al fagotto che stringeva al petto. Per un attimo Sara fu certa che fossero solo vestiti: era qualcosa di troppo informe e inerte per essere altro. Forse era così povera da temere che quei pochi stracci fossero i suoi soli averi e che fosse necessario proteggerli, mica che eventuali altri straccioni lì vicino potessero pensare di portarglieli via. Poi si accorse di qualcosa che un vestito non avrebbe mai potuto o dovuto avere.
Un piede. Piccolo, scarno e grigiastro. Penzolava molle come se fosse stato fatto di gomma. Sara trattenne un singulto. Quel piccolo arto  era immobile.

Prese mentalmente nota di non sedersi neanche per sbaglio lì vicino. Si accorse che un’intera panca contro la parete opposta all’ingresso era vuota, priva degli sguardi truci e disperati delle persone scarne che cercavano la carità.

Prima di sedersi però pensò fosse il caso di procurarsi da mangiare. Si avvicinò al frate con la pancia pendula e si fermò a qualche passo, incrociando le mani dietro la schiena e grattando il pavimento sudicio con la punta del piede.

“Salve. Io… io vorrei…”
“Lo so cosa vuoi. Vuoi riempirti la pancia, come tutti i disgraziati qui dentro”, rispose il frate sgarbatamente. Prese una ciotola di terracotta che, Sara se ne accorse, era decisamente unta: la superficie era liscia e un po’ troppo lucida. E puzzava di grasso rancido. Sollevò poi una mestolata di un qualcosa di marrone e liquido e la versò senza troppi complimenti nella ciotola.

“Ecco, tieni, e che Dio ti benedica”, bofonchiò molto poco incoraggiante.

Sara prese la ciotola e la squadrò con sospetto. Il contenuto era una sorta di brodo marrone chiaro con grossi occhi di unto che galleggiavano in superficie insieme a pezzi di carne dall’aspetto filaccioso. Una piccola zampa con cinque dita e minuscoli artigli fece capolino dalla superficie.

Represse un conato, questa volta non dovuto al malessere di prima.

“Io… no, ecco. Non… non mangio c-carne…”

Il frate, che si era girato, la guardò di sbieco.

“Che, hai fatto un voto? Bah, sei proprio una sciocca, ma rispetto la tua scelta. To’, e buon appetito”, e nel dir ciò le schiaffò in mano una fetta di pane duro come cemento. Sara lo annusò: sapeva di umido e vagamente di muffa. Che, effettivamente, punteggiava qua e là la crosta bruna.

“Potrei avere anche qualche cosa da bere, per favore?”
“In cortile c’è un lavatoio, l’acqua è abbastanza buona. Confido che tu possa arrangiarti, o no?”
Così dicendo le voltò le spalle e prese a ignorarla.

Sara, col tozzo di pane raffermo stretto al petto, si sedette sull’angolo più lontano della panchina.

Quel pane aveva un aspetto orrendo ma si decise a dargli un morso. Sapeva di muffa, in effetti, e quasi lasciò gli incisivi in quella che un tempo era mollica ma che ora somigliava più a una mattonella di granito. Però era quasi mangiabile, così si tappò il naso e ne prese qualche altro morso.

Mentre mangiava guardò meglio la foresteria. Poiché la porta era collocata nella parte anteriore della parete che racchiudeva la sala, non si era accorta di tutta quella parte in ombra oltre i tavoli e le panche.

C’erano dei pagliericci e della gente distesa sopra. Li sentiva tossire e gemere e non osò pensare che tipo di malattie potessero avere quelle persone.

Sara fece rapidamente mente locale: sono vaccinata contro il tetano, l’epatite e credo qualcos’ altro. Speriamo di non ammalarci!

Tra i malati c’era gente che camminava. Avevano la testa coperta da un velo, ma non indossavano gli abiti neri che Sara era abituata ad abbinare alle suore. Soprattutto perché se quello era un convento di frati non sarebbe stato probabile trovarci delle suore. Donne, per giunta.

“Oh”.

Sara trasalì e quasi saltò su dalla panca su cui sedeva. Si voltò di scatto alla propria sinistra e vide che le si era seduto vicino un vecchio. Una zazzera incollata dallo sporco di capelli grigi sgusciava fuori da un cappuccio tutto rosicchiato. Dai topi, a giudicare dallo squittio che regnava vicino alle “brande” di paglia dei malati.

“S-sì?”
“Non lo finisci?” chiese il vecchio indicando la mezza fetta di pane che Sara stringeva ancora tra le dita. La ragazza abbassò lo sguardo e notò un cagnotto bianco e grassoccio sbucare da un foro nella mollica.

“No”, sussurrò mentre un conato di vomito le stringeva la bocca dello stomaco.

“Ti scoccia se lo finisco io allora?”
“Tieni, tieni”, rispose in tutta fretta tendendogli il pane.

L’uomo allungò una mano con le dita incrostate di sudiciume, le unghie lunghe e spesse e piene di terra. Sorrise, e in mezzo alla barba arruffata e tutta tarlata sbucarono pochi denti gialli e orlati di residui marroncini. Ghermì il pane e se lo infilò in bocca senza aggiungere una parola, riempiendosi la barba di briciole. Quindi si leccò la punta dell’indice e le raccolse una ad una.

Sara distolse lo sguardo e tornò a fissare le donne. Non aveva decisamente più fame.

Erano in due, piuttosto ben tenute rispetto agli altri poveracci.

“Chi sono quelle?” chiese al suo  vicino di panca senza guardarlo, non distogliendo lo sguardo dalle due figure che si aggiravano tra i pagliericci e che porgevano acqua e qualche parola di conforto.

“Chi, quelle lì?” le chiese il vecchio indicandole con la testa. “Ah, gente ricca, quelle due sono mogli di mercanti o qualcosa del genere, comunque vivono su nel borgo e vogliono aiutare le loro anime ad andare a finire in paradiso quando le loro ossa marciranno sotto terra”.

“Ah, ok”.

“Eh?”
Sara lo guardò brevemente.

“Ho detto ok”.

“E che vuol dire?”
Sara sollevò le sopracciglia.

“Ma sei sordo?”
“No! Ci sento benissimo, solo non so cosa sia ‘ochei’”.

“Ah… ecco… volevo dire che ho capito, grazie”.

“Ma lo sai che sei carina?”

“Mhm”.

“Bella in carne… e hai tutti i denti!”

E così dicendo allungò la mano lercia e le palpeggiò un seno.

Sara strillò e si alzò di scatto. Quasi tutte le teste nella stanza si voltarono verso di lei, tranne quella della donna che stringeva il bambino presumibilmente morto.

Con un gesto rapido e non preventivato Sara tirò uno spintone al vecchio, facendolo cadere dalla panchina.

“Non mi toccare, brutto porco! Tieni giù le tue manacce!”

Il vecchio la guardò sconvolto, quindi si rialzò appoggiando le mani e gemendo e si allontanò, accomodandosi su una panca più distante, vicino ad altri due uomini.

Sara si rese conto di avere le guance in fiamme e il respiro affannoso.

“Figliola, ti sei spaventata?” chiese una voce femminile.

Sara si voltò. Era una delle due donne, alta qualche centimetro meno di lei e con i seni cascanti nella scollatura castigata della veste grigio chiaro.

“S-sì… io… non sono abituata a… a…”

“Vuoi bere un sorso d’acqua per riprenderti?”
Sara guardò fuori dalla porta e rabbrividì. L’idea di uscire da sola, ora che era buio, la terrorizzava. La donna sembrò capirlo.

“Ti posso accompagnare, qui ormai ho finito”.

“Grazie”, rispose investita dalla gratitudine.

Si affrettò verso la porta, la sconosciuta alle calcagna, grata di poter abbandonare quel luogo di miseria e l’odore stantio dell’ambiente chiuso.

Effettivamente il frate antipatico aveva detto il vero. Di fianco alla foresteria, contro il muro, c’era una vasca di sasso con un piccolo rivoletto d’acqua che andava a riempirla. L’acqua era gelida ma non aveva sapori strani, quindi Sara bevve dalle mani a coppa fino ad essere soddisfatta. Si pulì il viso col dorso della mano e si sedette sul bordo della vasca.

“Grazie”, ripeté. “Sei stata gentile”.

La donne sorrise. Le mancavano un incisivo inferiore e due denti nell’arcata superiore, e sorridendo mise bene in vista gli spazi vuoti.

“Sono Leonetta, la moglie del siniscalco. Io e mia sorella, che non ha marito, veniamo spesso ad aiutare la povera gente qui al monastero. I frati ci sopportano perché credo abbiano bisogno di noi”.

Sara chinò il capo e annuì.

“Tu però non sei una poveraccia, vero?”

La ragazza sollevò la testa e sbatté le palpebre.

“Da cosa lo hai capito?”
“Non sei pelle e ossa, E poi ho visto come hai reagito al vecchio Malachia. Chi vive in strada è abituato a queste cose, ma tu no. Che ti è successo?”

Sara esitò. Deglutì e si guardò le mani giunte in grembo.

“Io… io…”
Il suo cervello cominciò a lavorare a grande velocità, imbastendo una storia a casaccio.

“La mia… la mia famiglia era in viaggio. Non ricordo dove stavamo andando, ma dovevamo fare tappa qui. I miei genitori sono…”

Cazzo mi serve un mestiere adeguato a quest’epoca!
“… sono… mercanti. Vendono stoffe. O forse, a questo punto, vendevano…”
La donna le si sedette di fianco e le posò una mano sul braccio.

“Oh, povera cara. Siete stati aggrediti?”
“Sì. Dei briganti, a un giorno di cammino da qui. Non so che fine abbiano fatto fare alla mia famiglia, ma sospetto siano morti. Mio padre ha cercato di combattere, di reagire, eppure non… non…”
Le venne da piangere e non fermò l’istinto. Si prese il viso tra le mani e si lasciò andare a singhiozzi disperati.

Per qualche istante regnò un doloroso silenzio. La donna sospirò.

“È strano, il conte dice sempre che le strade qui sono sicure, e non ci sono giunte notizie di attacchi… fino ad adesso, almeno. È per questo che sei scalza e…”
“Sì, sì, sono fuggita nel bosco e ho perso le scarpe, ma non ho osato tornare indietro a cercarle!”

“Povero tesoro, che storia tragica! Ma non hai un marito che ti possa proteggere?”
Sara tirò su col naso ed emise un risolino umido.

“Un marito? Alla mia età? Ah! Ma ho solo diciotto anni!”

Leonetta si accigliò.

“’Solo’? Io quando mi sono sposata ne avevo tredici, e ora ho solo due anni più di te. I miei figli hanno sei e quattro anni. Ma forse non ti sei sposata perché vuoi una dote troppo alta?”
Sara si sentì avvampare. Quello era un passo falso.

“Io… è solo che… non ho ancora trovato nessuno che… che…”
“Tu? Ma tuo padre non ha contattato nessuno che… oh, scusami, sono stata indelicata, ti chiedo perdono. Forse ti mantieni casta per prendere il velo, un giorno?”

“No, non credo. Ma ora non ho comunque modo di sposarmi, sono in miseria!”

Si mise le mani tra i capelli, sospirò e si accasciò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia.

Leonetta la fissò a lungo.

“Cosa sai fare?”

“Eh?”

“Sai tessere e filare, immagino, no?”
“Ecco… no, non proprio, mio padre non voleva che… insomma, che lavorassi. O qualcosa del genere”.

Leonetta scosse la testa con disapprovazione.
“Ah, questa è una sciocchezza. Ogni donna per bene deve saper tessere e filare! Ma sai fare qualcosa, no?”

“Oh sì, un sacco di cose! So leggere e contare e…”
“Cosa? Tu sai leggere e far di conto? E come mai?”
“Be’, diciamo che aiutavo nell’impresa di famiglia, ecco. Aiutavo… mh… mia mamma a tenere in ordine i conti del negozio, ecco. Sì”.

“Questo non è adeguato per una donna, almeno secondo me. Comunque è decisamente insolito. E poi?”
“Poi… bho, immagino di saper cantare e di saper truccare ed acconciare i capelli, diciamo. Mi capitava spesso di farlo per le sorelle di mia madre o per lei stessa”.

Un groppo le serrò la gola. I suoi trucchi, la spazzola, la piastra per i capelli… le mancavano, se ne rendeva conto solo ora. E le mancavano persino i suoi genitori, coi loro difetti… Ora che ne parlava come se fossero morti capì che era davvero così. Anzi, peggio ancora: non erano mai nati!

Un dolore sordo le colpì lo stomaco. Si strinse le braccia al ventre e pianse disperata. Persino Tommy, quell’ inutile piccolo moccioso coperto di brufoli, le mancava!

“Su, su, piccola cara… coraggio, la vita va avanti”, disse Leonetta. Le mise un braccio attorno alle spalle e le diede dei colpetti incoraggianti. Sara si rese conto che, seppur vestita con abiti puliti e intrisa di profumo, anche quella donna era sporca. Sentiva la puzza di sudore. Alzò lo sguardo e la osservò con cura. Non poteva avere solo vent’ anni! I capelli, la cui attaccatura sbucava da sotto il velo, erano abbondantemente striati di grigio, c’erano rughe agli angoli degli occhi e del naso. Non era decisamente una bellezza.

“Cosa farò ora? Dove andrò? Non mi è rimasto nulla al mondo!”

“Su su”, ripeté. “Hai dove dormire, questa sera?”
Sara scosse il capo.

“Chiederò alla contessa di ospitarti. È molto buona, e non rifiuta mai alloggio a chi ne ha bisogno. Soprattutto se ti presenterò io… oh, ma io ancora non so il tuo nome!”
“Guinevere Absinthe Sidhe”, mormorò Sara tirando su col naso.

“Gu-Guinevere? Che razza di nome è?”
“È… mio padre lo ha sentito mentre viaggiava nelle terre d’oltremare, oltre la… ehm… le terre dei Franchi, credo. E gli è piaciuto molto”.

“E che santa porta questo nome?”
“Oh sono certa che lassù, in Britannia, ci sia una santa del genere. Me ne parlò mio padre quando ero bambina”.

“Bene allora, saluterò la consorella e ti accompagno. Tu aspettami qui”.

   
 
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