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Autore: Rika88    07/03/2011    3 recensioni
Gennaio 1945: in una Germania devastata, Alphonse Elric, arruolato per una guerra ormai persa, lascia i figli a casa del fratello Edward. Tuttavia, come Thomas e Charlotte Elric scopriranno presto, i problemi non si limitano alla difficile convivenza tra due caratteri troppo simili, come quelli del bambino e di Ed: l'abitazione e la libreria sotto di essa sono il fulcro di un movimento incessante e, forse, anche pericoloso.
Genere: Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Alphonse Elric, Edward Elric, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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18. Nuovi orizzonti

 

Mio fratello era strano. Rimase silenzioso per buona parte del viaggio in treno, se interpellato rispondeva a monosillabi, lanciava continuamente occhiatacce a Winry – la quale, a sua volta, rispondeva con sorrisetti trionfanti. Attribuii quei comportamenti alla scoperta della sua paternità, e alla notte precedente, in cui non era tornato a dormire nel letto di fianco al mio, finché non mi resi conto che Ed stava anche facendo di tutto per non incontrare il mio sguardo.

Quando arrivammo alla stazione di Central City, riuscii ad afferrarlo per un braccio e allontanarlo leggermente dal resto del gruppetto, complice la calca di pendolari della mattina presto.

- Va tutto bene? – domandai, guardandolo dritto negli occhi.

- Certo! – esclamò, troppo in fretta. – Andiamo, stiamo perdendo di vista gli altri... –

Non lasciai andare la presa, né distolsi lo sguardo. Lui si morse il labbro.

- Cosa stai architettando? –

- Non sono io. – si discolpò. – Davvero, te lo giuro. –

- Ora mi stai spaventando: è così orribile? – chiesi, sentendo un brivido corrermi lungo la schiena.

- Temo di... –

- Ehi, voi due! –

Alzai gli occhi, vedendo il generale Mustang agitare un braccio per attirare la nostra attenzione. Winry, Alex e i miei figli erano accanto a lui, e ci fissavano con curiosità. Insieme a parecchie altre persone nella stazione. Ed approfittò della mia distrazione per allontanarsi, gridando qualche saluto scurrile all’ufficiale; io mi avviai controvoglia, sistemandomi meglio sulla spalla lo zaino che conteneva i vecchi abiti di Edward, Tom e Lotte e la mia uniforme, da riportare indietro con noi al posto dei vestiti troppo moderni che Winry ci aveva prestato. Tutti gli altri avevano almeno un bagaglio ciascuno, che però appartenevano tutti alla nostra amica: era nel bel mezzo di un trasloco, dopotutto, perciò era comprensibile che sfruttasse noi – senza valigie – per portare tutto quello di cui avrebbero avuto bisogno nel breve periodo lei e Alex. Meno comprensibile che si spostasse con mezza Resembool, ma non avrei mai fatto commenti in proposito...

Un’idea mi colpì violentemente, più forte di un pugno. E mille volte più dolorosa.

Edward. E Winry. Lo sapevo, ovviamente – anche senza la storia di Alex, c’era chiaramente qualcosa di insolito tra loro, quella mattina – ma credevo che, se mio fratello avesse preso una decisione in proposito, mi avrebbe almeno avvertito!

Resterà con lei., mi dissi. È così ovvio. Mi sembrava di avere un macigno nel bel mezzo della cassa toracica, ma in fondo lo capivo: se fosse esistito un qualsiasi mondo in cui avessi potuto stare con Caroline, ci sarei corso. Però comprendere non rendeva più facile accettare l’idea che ci saremmo di nuovo separati, e questa volta per sempre.

- Tutto bene, Al? –

Sobbalzai, sentendomi rivolgere la stessa domanda che avevo fatto poco prima a Edward. Guardai Winry, e mi costrinsi ad annuire e sorridere.

- Sì, scusate. Togliamoci da questa calca. –

 

Pranzammo in un ristorante nella parte ovest di Central City, a pochi isolati dall’ospedale. Sapevo che sarebbe stato l’ultimo pranzo decente prima di parecchio tempo, perciò mi dispiacque non riuscire a fare onore alla tavola come i miei figli; piluccai controvoglia sia la bistecca che gli spinaci, e presi il dolce al cioccolato solo perché gli altri insistettero. Quando mi ritrovai nell’enorme grotta sotto la città, di fronte al Portale, mi sembrò che fossero passati pochi minuti dal momento in cui lo avevamo varcato; il generale fugò subito quella sensazione, mettendomi in mano una cassetta metallica delle stesse dimensioni di un mattone, ma molto più leggera.

- La creatura nera. – mi spiegò, neutro.

Deglutii, abbassando lo sguardo su quel che restava del colonnello Holze. Edward mi appoggiò una mano sul braccio, e guardandolo mi accorsi che era impallidito di colpo.

– Avete detto che aveva una famiglia, dall’altra parte. – continuò Roy Mustang, grattandosi la benda sull’occhio. – Ho ritenuto meglio farlo cremare, così da essere sicuro che... beh, che nessuno lo vedesse. –

- Grazie. – disse a fatica mio fratello. Il generale annuì, stringendo le labbra.

- Di nulla. Ora vedi di risparmiarmi la scena strappalacrime, d’accordo? –

- La sola idea di piagnucolarti addosso mi disgusta. – commentò con finta allegria Ed.

Sollevai un sopracciglio. Allora, quando aveva intenzione di dire quel che aveva intenzione di fare? Non adesso, a quanto pareva. Diede una pacca sulla testa a Thomas e Lotte, poi infilò le mani in tasca.

- Andate prima voi. – disse. – Al, metti quella cassetta nella sacca, e tieni bene i ragazzi: non voglio correre rischi. -

- Bene. – sbottai, obbedendo controvoglia. – E tu? –

Appoggiò a terra la sacca di Winry, massaggiandosi la spalla con ostentazione.

- Un attimo e ti raggiungo. Prima devo... scambiare due parole con Winry. – sentenziò, a fatica.

- Prego? – domandai.

- Non vorrai anche un resoconto dettagliato, spero! Sono faccende private. – ribatté sussiegoso.

- Oh... – balbettai, sentendomi arrossire. – Io... io credevo che... –

- Che sarei rimasto? Neanche per sogno. – brontolò lui.

Desiderai prendermi a schiaffi: credevo di conoscere mio fratello, invece non avevo capito nulla. Ma com’era possibile? Non poteva dire sul serio; non poteva lasciarla davvero. E lei lo accettava con calma?

- Perché? – domandai debolmente. – Non ha senso. Lei è la donna che ami. E lui è tuo figlio. Come fai ad abbandonarli, pur sapendolo? -

Il generale fischiò, e si rivolse serafico a Winry: - Glielo hai detto tu? Non può esserci arrivato da solo. –

- Lo sottovaluti. – rispose lei, con lo stesso tono.

Ed sbuffò, ma non raccolse la provocazione.

- Potrei parlare? – chiese. – Grazie mille. Al, - riprese, - ho spiegato la situazione a Winry, e siamo giunti a un accordo. Sai quel che penso: non voglio vivere di nuovo una guerra, e trasferirmi a Drachma non è molto diverso dal finire per l’ennesima volta in un mondo che non conosco. –

- Sì, ma... –

- Potresti darmi fiducia, per una volta? – mi implorò, sorridendo. – Vai avanti con Lotte e Thomas, io definisco gli ultimi dettagli e ti seguo. -

Sospirai; la vita era sua, e aveva diritto di fare quel che gli pareva, in fondo. O, almeno, a un po’ di intimità con Winry. Mi rivolsi quindi al generale Mustang, che mi strinse la mano con tanta foga che temetti volesse maciullarmi la mano,

- Buona fortuna, generale. – dissi, sentendomi commosso al pensiero di salutare definitivamente quell’uomo.

- Anche a te, Alphonse. E ai tuoi bambini. –

- Grazie... mi saluti sua moglie. – aggiunsi, sorridendo.

Lui rispose con una risata imbarazzata; mi voltai verso la mia amica d’infanzia, baciandola sulla fronte. Come toccare una statua di marmo, pensai, da quanto era rigida: la scrutai attentamente, per cercare di capire se fosse emozionata o furiosa con me.

- Ciao. – mormorai, sentendomi un cretino. Mi sorrise calorosamente, spostandosi Alex da un braccio all’altro; il bambino tollerò di essere maneggiato con magnanimità degna di un grande sovrano, ma non smise di rosicchiare il biscotto che aveva in bocca.

- Ci vediamo presto? – domandò, rivolgendosi principalmente a Charlotte.

- Sì, sì. – borbottò in fretta la madre, senza guardare nessuno in faccia. – Saluta per bene, adesso. –

Lui agitò obbediente una mano: - Ciao Lotte. Ciao Tom. Ciao signor Alphonse. –

Non riuscii a fare a meno di ridere, nonostante tutto. Mi chinai per essere all’altezza del suo visetto.

- Me lo fai un regalo? – chiesi. Lui annuì con convinzione. – Mi chiameresti zio Al? –

- Zio Al. – ripeté attento. – Ciao zio Al! –

Gli diedi un buffetto sul naso, e mi allontanai di un passo; ma non potei fare a meno di voltarmi ancora una volta verso Ed.

- Allora... ti aspetto? – domandai, ancora incerto se crederci o meno. – Sicuro? –

- Dammi cinque minuti. – mi assicurò lui.

I bambini mi si aggrapparono alle braccia: nessuno dei due sembrava troppo tranquillo, alla vista del Portale. Vista la loro precedente esperienza, li capivo benissimo... dopotutto, neppure io ero del tutto a mio agio.

- Forza! – esclamai, stringendo le loro mani più forte che potevo. Respirai a fondo, e non distolsi lo sguardo.

* * *

 

- Credo... – borbottai. – Credo che vomiterò. –

Mio padre ridacchiò debolmente, senza alzarsi. Lotte mi assestò un calcio. Si alzò in piedi con agilità, guardandosi intorno per verificare dove ci trovavamo.

- È la stessa sala da cui siamo partiti. – esclamò, sorpresa: sospettai che, come me, non credesse davvero che saremmo ritornati nel posto giusto. Alle sue parole, sia io che papà schizzammo a sedere; la penombra era rotta dalla violenta luce del Portale alle nostre spalle, che investiva gli oggetti e noi tre rendendoci quasi opalescenti. Qualche lama di luce polverosa filtrava dalle persiane. Storsi il naso alla puzza di chiuso e muffa, appoggiai le mani per terra e mi rialzai, trovandomi i polpastrelli e i vestiti ricoperti da una patina grigia di sudiciume.

- Sì, siamo decisamente tornati indietro. – commentai.

- Sembra abbiano seguito il mio ordine di non aprire questa stanza né avvicinarsi al Portale. – disse mio padre, cercando di pulirsi le maniche impolverate. Non se n’era accorto, ma a pochi passi da lui c’era una chiazza marrone che, nonostante non ricordasse più in alcun modo la sostanza originaria, mi fece ulteriormente rivoltare lo stomaco.

- Sangue! – rantolai, indicandola. Lui trasalì e mi guardò come se non mi conoscesse, per poi voltarsi a controllare quel che stava succedendo.

- Dannazione... – sibilò. – Potevano almeno pulire! -

- Tu sai di chi è? – gli chiesi.

- Della signorina Steinglocke. – replicò asciutto.

- Della... oh. – abbassai nuovamente lo sguardo. – È morta? –

- Sì. – mi diede un’occhiata ammonitrice, indicando con il mento mia sorella, che ci fissava con gli occhi enormi.

- Chi è stato? – proseguii.

- O Ernst o Andreas. Non lo so. – ribatté, stringendosi nelle spalle. – E non mi interessa saperlo. -

Per essere sicuro che non ricominciassi a fare domande, si avvicinò alla porta e spinse la maniglia. Ovviamente, non successe nulla. Se la stanza era in quelle condizioni, voleva dire che Margarethe non era riuscita a raggiungerla... e per impedire all’irriducibile locatore di Edward di pulire da qualche parte, bisognava come minimo sprangare ogni ingresso a tale luogo.

- Come facciamo a uscire di qui? – si chiese.

- Bussiamo! – propose Lotte. Venne vicino a me, togliendomi una nuvoletta grigia di polvere che si era appiccicata alle bretelle, e io ricambiai cercando di riordinare i suoi riccioli.

- Quante possibilità ci sono che qualcuno passi proprio nell’istante in cui bussi? – le feci notare.

- Prima o poi qualcuno lo farà. – commentò, senza scomporsi.

- Beh, certo, magari tra due o tre giorni, se siamo... –

- Chi c’è? -

Cacciai un grido di sorpresa, e mio padre saltò indietro dalla porta, portandosi una mano al petto.

- Chi c’è? – ripeté la voce proveniente dall’altro lato del pannello.

- Ernst? – lo chiamò papà, avvicinando l’orecchio. – Ernst, sono Alp... il capitano Elric. –

Ci fu un momento di silenzio stupefatto, in cui si sentì un bisbiglio, seguito da un rumore di passi... poi la voce – che stavolta anche io riconobbi per quella del soldato Feuerbach – tornò a farsi sentire.

- Capitano, è lei? –

Mio padre non poté trattenersi dal ridere.

- Mi sembra di avertelo appena detto. – fece notare.

Di nuovo silenzio.

- Allora mi saprà dire chi le ha estratto la scheggia dal braccio destro, a Remagen. –

Io e Lotte ci scambiammo un’occhiata perplessa, poi fissammo papà; ci dava le spalle, ma potevo immaginare benissimo la sua espressione, con le sopracciglia sollevate. Tutto aveva pensato – derive all’interno del Portale, morte da ricoprimento di sostanza nera... – tranne che i suoi uomini non credessero che fossimo davvero tornati.

- Il mio braccio destro sta benissimo. – gli rispose, incredulo. – La scheggia era nel sinistro: me l’avrebbe dovuta togliere Andreas, ma all’ultimo ha cominciato a tremargli la mano, e ci ha pensato Klaus. Per fortuna, – aggiunse, sarcastico, - o mi avrebbe dissanguato, quel macellaio! –

Immediatamente la serratura si mosse, con un gemito acuto da animale agonizzante che mi fece portare istintivamente le mani alle orecchie. Il soldato Feuerbach emerse dal buio, grande come lo ricordavo e molto più gioviale.

- Appena in tempo! – esclamò.

- Per che cosa? – chiese mio padre.

- Non ci crederete mai... ma dov’è suo fratello? – le bionde sopracciglia del gigante si unirono sul naso, mentre si voltava a destra e sinistra per scrutare la sala. Scandagliando il vuoto alle mie spalle, i suoi occhi si spalancarono. In quel momento, una mano d’acciaio si appoggiò sulla mia spalla, facendomi strillare per la sorpresa.

- Sono così spaventoso? – domandò Ed, ridendo.

- Mamma mia... – pigolai, riprendendo fiato.

- Porca vacca. – mormorò Feuerbach, i bulbi oculari ormai grossi come piattini. I suoi due commilitoni arrivarono in tempo per sentire il commento profano, e per inchiodarsi sulla soglia come bambini timidi... o meglio, come bambini timidi a cui fosse appena comparso davanti un fantasma. Andreas Neubauer arrivò a cercare a tentoni la pistola nella fondina, per fortuna senza trovare né l’una né l’altra.

Mi girai verso mio zio per fargli un appunto sulle sue entrate ad effetto, ma mi zittii all’istante quando compresi che la causa di tanto scalpore non era affatto la sua uscita dal Portale, ma l’apparizione sovrannaturale della defunta Hedwig Steinglocke al suo fianco, con un bambino tra le braccia, quattro tra valigie e sacche ai piedi e un’espressione soddisfatta sul volto.

* * *

 

Ci vollero alcuni minuti per spiegare la situazione. Il più incredulo sembrava proprio mio fratello.

- Come hai potuto? – esalò a fatica.

- Non sono riuscito a dissuaderla. – ammisi, porgendogli una sedia per paura che avesse un mancamento.

- Non prendertela con lui, Al. – lo pregò Winry, con una delicata pacca sulla spalla. – Sono stata io a proporre l’idea e a ignorare le sue proteste. –

- Ma... – balbettò lui, fuori di sé come e più dei suo commilitoni, - ma come... tu, e tuo figlio... non vedrete mai più nessuna delle persone che conoscete. –

- Sì, mi è dispiaciuto non poter salutare mia cognata Amelia. – ammise lei, con una scrollata di spalle noncurante ma una luce triste negli occhi. – Le ho scritto una lettera. Del resto, con la guerra imminente, anche nel mio mondo sarebbe stato difficile mantenere i contatti. –

- Hai ancora la possibilità di rivederla. – le ricordai. – Tra un mese. –

Era la clausola del nostro accordo su cui non avevo voluto transigere: avrei lasciato aperto il Portale per trenta giorni, di modo che Winry e Alex potessero avere la possibilità di osservare la vita che avrebbero fatto in questo mondo e, nel caso, tornare indietro immediatamente.

- Sì, sì, certo. – concesse lei, muovendo una mano in aria con noncuranza. Guardava ogni particolare con attenzione, l’espressione concentrata identica a quella sul volto di Alex, ed era ricambiata da occhiate perplesse, curiose o apertamente spaventate. Ci eravamo trasferiti nella stanza in cui i miei nipoti e Margarethe erano stati tenuti prigionieri dalla pazza alter ego della mia signora, che non era decisamente fatta per contenere dieci persone. Clara Leitner, la cameriera, era rossa in volto, e il mio locatore se ne stava pigiata in un angolo. Era assente la padrona di casa: Frau Ilse Schneider, in effetti, nonostante avesse di certo sentito il fracasso non si era fatta vedere. Per lei doveva essere molto dura vedersi la copia della figlia morta in casa, nonostante il loro rapporto fosse stato molto difficile. O proprio per questo. All’appello mancava anche Klaus Holze: aveva ricevuto con molta compostezza l’urna e un racconto riveduto e corretto sulla morte del padre, ma subito dopo aveva annunciato l’intenzione di ritirarsi.

- Quindi, - stava dicendo Clara proprio in quel momento, - voi non sapete nulla di quel che è successo in queste settimane! –

- Nulla di nulla. – confermò Al. – Però ho notato che i ragazzi non sono in divisa: allora... la guerra è finita? -

La giovane donna annuì. – Ieri hanno firmato la resa. –

Tirai un sospiro di sollievo, e chiusi gli occhi. – Per fortuna. – sussurrai. – Per fortuna. -

- Ora bisognerà ricostruire. –

La signora Schneider si stagliò nella stanza, simile più che mai a un corvo; avanzò con lentezza, la pelle esangue in contrasto con i colori severi degli abiti. Mi fissò direttamente, con quei suoi occhi glaciali privi del sarcasmo acido che conoscevo.

- È vero, ma sapere che, nonostante tutto quel che è successo, c’è ancora qualcosa su cui ricostruire... – mi interruppi, lanciando un’occhiata veloce a Winry. – È qualcosa che non avevo creduto possibile. –

La signora grugnì, un verso piuttosto singolare, però adatto alla Ilse Schneider che ricordavo.

- Sono stata in città, l’altrieri. – mi informò. – Se avessi saputo che Fräulein Leitner guida così bene, glielo avrei chiesto molto tempo prima. L’Istituto è ancora in piedi, nonostante tutto: spero di poterlo mettere in moto il più presto possibile... le industrie chimiche prima o poi ripartiranno, no? Potrò contare su di voi, quando avrò finito? - piegò la testa verso di me e mio fratello, il quale trasalì per il tono diretto. Poveretto, non la conosceva affatto.

- Non sono più in condizione di rifiutare. – brontolai. Infilai le mani in tasca e sbuffai. – Posso anche tenere a bada Margarethe che mi chiede l’affitto, ma dovrò pur dare da mangiare a mia moglie e mio figlio, no? –

- Cosa ti fa supporre che io non ne sia in grado? – mi chiese la moglie in questione. Cercò di suonare supponente, ma era arrossita in maniera incontrollata: con un certo ritardo, mi accorsi che avevo usato per la prima volta la parola moglie, e immediatamente divenni del suo stesso colore. Per fortuna, la Schneider voltò le spalle e sparì di nuovo, con la stessa lentezza con cui era arrivata, senza ascoltare il seguito del battibecco.

- Non esistono auto-mail. – le spiegai.

- Sono un medico. Avrete dei medici anche qui, no? -

- Ci sono un paio di cose che non conosci di questo mondo: - dissi. – per esempio, il maschilismo dilagante. –

Come si sente la Schneider?, mi chiesi. Le ho praticamente portato in casa la copia della figlia morta. Potrà anche nascondere a tutti i suoi veri sentimenti, ma deve essere comunque provata. Anche se sia io che lei lo avremmo voluto, quel fatto non poteva essere ignorato. Mi scusai con un cenno con Winry e gli altri, e corsi dietro alla donna, nel corridoio; la raggiunsi in fretta, al fondo del corridoio. Sentì i miei passi e si voltò, una mano già sul corrimano della scala: mi accorsi con imbarazzo di non sapere affatto cosa dire, di non aver preparato nulla. Fu così lei a parlare per prima.

- Dunque, Herr Elric. – esordì, stirando le labbra, già sottili, in un sorriso che sembrava più un taglio sul viso. Si intravedevano i denti dietro, bianchi e perfetti come quelli di una ragazzina. – In quel mondo i bambini nascono e crescono nel giro di un mese? –

- In realtà no. – ammisi. – Funziona tutto alla solita maniera. Solo che quel mondo è abitato da alter ego delle persone di questo. – aggiunsi, fissandola. Per la prima volta, lei sfuggì il mio sguardo, controllando una macchia inesistente sulla gonna e serrando la mascella fino a quando non fu certa di avere il controllo della voce. Allora sollevò la testa di scatto:

- Uguali fisicamente, - concesse, dura, - ma molto diverse caratterialmente. –

- Già. – replicai.

- Beh, meglio per lei. E per Frau Elric. – sospirò. – Ho visto l’espressione di quella donna, quando guarda lei, signor Elric. Credo che Hedwig sarebbe stata incapace di provare qualcosa del genere per un altro essere umano. In quanto sua madre, immagino sia colpa mia. –

- Sciocchezze! – ribattei. – La gente di solito è capacissima di rovinarsi da sola, nonostante tutte le sagge raccomandazioni che riceve. L’ho fatto anche io, e non sono mai riuscito a riparare del tutto ai miei errori. –

Ilse sorrise, inaspettatamente gentile. – Dubito che abbia combinato qualcosa di così grave, signor Elric: lei è una di quelle persone che fanno sempre la dannata cosa giusta, e chi se ne importa delle conseguenze. –

- Si stupirebbe nel sapere cosa sono riuscito a combinare nella mia scapestrata gioventù. – risposi. – Però questa volta ha ragione: ho intenzione di tenere ancora chiuso il suo salotto per lasciare a Winry e Alex una via di fuga da questo mondo, se lo vorranno. Me lo permette, Frau Schneider? –

- Non sono così crudele come lei crede, signor Elric. – annuì graziosamente, con quell’aria aristocratica che Hedwig aveva ereditato, in maniera distorta. – E visto che il suo stupido idealismo la spinge così verso il masochismo, se vuole far fuggire la donna che ama che ne dice di portarla a fare un giro in città? Le presto la macchina, se lo desidera. –

Sollevai le sopracciglia, stupito per non averci pensato: toccare con mano la devastazione avrebbe fatto capire bene a Winry in cosa si stava imbarcando.

- Lo farebbe davvero? – chiesi.

- E lei? – ribatté, provocatoria.

- Certo che sì! –

Sospirò, tornando la solita arpia sarcastica. – Di nuovo, fraintende il mio pronome: non lei lei, Herr Elric. Intendo sua moglie. -

* * *

 

- Mi sento una stupida. – borbottai, senza osare alzare gli occhi dalle mie mani, abbandonate sulle ginocchia.

- Non lo sei. – mi rassicurò Ed, schivando una buca all’ultimo secondo. – Anzi, quei vestiti ti donano. –

- Anche il cappello? – lo sfidai.

- Anche il cappello. – mi assicurò lui, riuscendo a non ridere.

Cominciavo a chiedermi se non fosse tutto un subdolo trucco di Ed per spaventarmi... no, mi ripetei per la trentesima volta, impossibile. Lui non sa nulla di vestiti, non avrebbe mai compreso la necessità di una donna di trovare un vestito adatto alla gita che aveva ideato. Girava con pantaloni logori, camicia e gilet impolverati e un paio di scarpe sul punto di cascare a pezzi, e di sicuro non si sarebbe scandalizzato se gli fossi comparsa davanti con gli stessi calzoni e la maglietta con cui avevo lasciato Amestris. Io, invece, non solo avevo esaminato i vestiti delle due altre ragazze presenti, ma anche intercettato le loro occhiate perplesse, comprendendo in fretta di essere totalmente fuori posto: passare per la stramba del paese non è il modo migliore per iniziare una nuova vita. La signora Schneider, meno ritrosa della cameriera e della giovane Margarethe, mi aveva concesso di prendere in prestito un abito di sua figlia visto che sicuramente avrete la stessa taglia... un velato accenno che aveva fatto arrossire anche Edward.

Certo, se solo la signorina Hedwig Steinglocke avesse posseduto un qualsivoglia straccio adatto! Non chiedevo della tela robusta (nessuno compra un vestito pensando di metterselo per passeggiare tra le macerie), ma la profusione di organza e seta, tailleur e camicette sarebbe stata adatta giusto a un incontro con un Capo di Stato, e le dozzine di scarpette ordinatamente riposte al fondo di quell’armadio enorme non avrebbero retto neppure a un sentiero inghiaiato. Persino Clara Leitner, più avvezza di me a quel mondo in generale e a quella casa in particolare, aveva avuto delle difficoltà a trovare nell’armadio un abito che potessi indossare. Sfortunatamente, avevo dovuto dipendere quasi completamente da lei e da Margarethe.

- La mamma è bellissima! – dichiarò Alex, sporgendosi pericolosamente dal sedile posteriore per poterci guardare.

- Sentito? – commentò Edward. – La voce dell’innocenza. –

Risposi con un ringhio. Appena mi fosse stato possibile, mi sarei vendicata, fossero passati degli anni. Tanto non avrei scordato molto in fretta lo stupido vestito verde che portavo, né le scarpe nere, né tantomeno il cappellino.

Oh, soprattutto il cappellino.

- Ci sono altri bambini dove abiti tu? – stava chiedendo mio figlio.

- Sì, alcuni, per quel che ricordo. – Sterzando per evitare un tratto sconnesso, trattenne a stento un’imprecazione. Controllò che il bambino non ci avesse badato, e si affrettò a cambiare discorso: – Sei già stato su una macchina, vero, Alex? –

Lui annuì con convinzione, muovendosi sul sedile. – Su quella del signor Mustang. Ma non era così morbida. -

- Sì, credo sia molto morbida. – sorridemmo entrambi per quella buffa espressione. – In teoria, Winry, tu ti saresti dovuta sedere dietro: una signora non sta di fianco all’autista. –

- Ti sembro una signora? –

- Abbastanza. Ti mancano i guanti. –

- Lo so. La signorina Leitner me lo ha illustrato con dovizia di particolari, subito prima di passare a criticare i miei capelli: alla fine, pur di chiudere la conversazione, me li sono tirati su alla meglio... questo chignon non è di moda, vero? – chiesi, ironica.

- Non sono un’autorità in materia. – si difese. – Però Al non ha fatto commenti, e lui ne capisce qualcosa più di me. –

- È semplicemente troppo educato: non ha detto niente neppure sul cappellino. –

- Ne ho già visti di simili. -

Almeno era intonato. E non aveva la veletta che invece spuntava dagli altri. Restava però il fatto che fosse troppo piccolo per proteggere davvero dal sole, quindi ai miei occhi si trattava solo di un disco di panno cacciato di sghimbescio sulla testa.

- A proposito di Al, - dissi, tanto per cambiare argomento, - non ti sembra che il suo mal di schiena sia saltato fuori un po’ troppo in fretta? –

Ed tossicchiò ed evitò di guardarmi.

- In effetti, è una vecchia storia. –

- Nel senso che è cronico? – mi allarmai.

- No, no! – si affrettò a rassicurarmi. – Nel senso che... beh, quando lui si trovò per la prima volta da solo con Caroline, fu perché io avevo finto un improvviso mal di schiena e me ne ero rimasto a casa. –

- Oh. – arrossii in modo incontrollabile, trasformandomi in una specie di paralume verde-giallo-rosso con un ridicolo cappello in testa. – Credevo... –

- La gita era aperta anche a lui, ma deve aver deciso di lasciarci soli. Noi tre. – aggiunse, sorridendo e alzando gli occhi verso lo specchietto retrovisore.

- Capisco. Pensavo si trattasse di Clara Leitner. –

- Chi? – domandò Edward, aggrottando le sopracciglia.

- La cameriera della signora Schneider. Margarethe mi ha detto che è innamorata di Al. –

- Che cosa? –

- Già. –

- Oh. –

- Non ne sapevi nulla? –

- Non ho mai visto la signorina Leitner prima di oggi: quando eravamo qui, io ero chiuso in cantina. –

- Quella Hedwig sapeva davvero come metterti in riga! –

- Spiritosa! – dopo una smorfia, tornò serio. – Quella pettegola di Margarethe! –

- Ha qualche speranza? –

- Intendi Fräulein Leitner? – Ed espirò rumorosamente. – Al momento temo di no. Caroline è morta da meno di un anno, dopotutto... e poi così all’improvviso... lui sta cominciando a riprendersi appena adesso... –

- Comunque, - mi informai, - non esistono regole precise in questo mondo che lo vietino, no? Che so, differenze di età, o di classe sociale? I vedovi possono risposarsi? –

Ed ridacchiò: - Allora ti ho davvero spaventata quando ti ho parlato del maschilismo! -

- Niente affatto! – ribattei. – Sto solo cercando di imparare. -

E continuai a farlo per tutto il tragitto, che, per forza di cose, fu piuttosto lungo. La campagna verde brillante e semideserta cominciò a riempirsi di case... o meglio, di molti ruderi irriconoscibili, pochi scheletri di case e pochissime case vere e proprie. La città crebbe in fretta, e presto fu quasi impossibili vedere il cielo.

- È enorme! – esclamai, sorpresa. – Sembra Central City! –

- Sì, Monaco è una delle città più grandi della Germania. -

- Tu vivi qui? – chiese Alex.

- Esatto. Ora ti faccio vedere dove. -

 

Piccolo, buio e leggermente ammuffito, l’appartamento non era davvero fatto per tre persone. Neanche per una, a dire il vero. E per di più imperava il caos.

- Sono i risultati della perquisizione. – si difese Ed. – Però almeno ho ancora un tetto. Moltissime persone non sono così fortunate. –

Evitai di fargli notare che doveva scoraggiarmi, non difendersi: era la prima volta che non cercava di mettermi ansia, con storie di guerra, fame, distruzione e maschilismo imperante. Mi aveva persino lasciata sedere su una sedia discretamente comoda, mentre controllava che nessuno avesse approfittato della sua assenza per derubarlo.

- Manca qualcosa? – chiesi gentilmente quando ritornò.

- No. Anzi, c’è una serratura nuova! – si grattò la testa, perplesso. – Roba da non credersi... scommetto che c’è lo zampino di Al! –

Uno scampanellio lontano attirò l’attenzione di Alex, altrimenti impegnato a scrutare i fogli sparsi un po’ dovunque sul pavimento. Mi voltai anch’io, tenendo in mano i pantaloni che stavo piegando.

- Suonano alla porta. – lo avvisai.

- L’ho sentito. Probabilmente qualche serpe del vicinato ci ha visti e sta controllando che sia davvero io. –

- Ansiosi di rivederti? –

- No, ansiosi di arraffare quel poco che c’è... mi stai mettendo a posto l’armadio? – domandò, accorgendosi per la prima volta dell’indumento che sventolavo davanti al naso.

- Sì. Questa casa ne ha un gran bisogno. –

Scrollò le spalle, e fece per voltarsi... prima di accorgersi che Alex era sparito.

- Oh, già! – esclamai, gettandomi le braghe sul braccio e scavalcando in fretta un altro cumulo di vestiti gettati in terra. – Lui adora andare ad aprire la porta! Tutti quelli che lo conoscono lo viziano o gli portano regali. –

- Maledizione! – grugnì Ed, sentendo il rumore di una serratura che scattava. – Se lo mangeranno vivo! –

Non fu così, ovviamente; quella particolare regione di mondo poteva avere mille problemi, ma tra questi non c’era il cannibalismo. Mio figlio tornò indietro saltellando tra gli oggetti sparsi in terra, e annunciò tutto contento: - C’è il signor Mustang! -

- Il signor Mustang?? – ripetemmo noi due, in coro e con la medesima espressione sbalordita. E in effetti, la figura che entrò nella camera, chinando la testa per non batterla contro l’architrave troppo bassa (per chiunque non fosse Ed), avrebbe potuto essere il fratello gemello di Roy Mustang: le uniche differenze erano la mancanza della benda sull’occhio e... l’uniforme.

Non potei fare a meno di abbassare lo sguardo nella zona dove avrebbero dovuto esserci i pantaloni: al loro posto, non solo si trovava una specie di gonna blu a quadri, ma pure un... marsupio, immaginai, fatto con la pelle di un qualche animale – un tasso, credo – i cui occhietti sembravano proprio fissarmi. Cominciai a sentire il viso bruciare.

- Buongiorno, madam. – mi salutò l’ufficiale, portando una mano alla bustina che teneva in testa. – Capitano Robert Mustroad, dei Calgary Highlanders. – aggiunse, come se questo dovesse spiegare tutto.

- Piacere mio... – esalai, cercando Ed per averne aiuto.

- Elric! Hai parlato di me a tuo figlio? – continuò l’ufficiale, con un sorrisetto sarcastico che lo rese ancora più simile al suo alter ego, e mi distrasse parzialmente dal suo marsupio con gli occhi.

- In un certo senso. – tagliò corto lui, prima di decidersi a spiegarmi qualcosa: - Ho conosciuto il signor Mustroad... o Mustang, come gli piace farsi chiamare, - aggiunse con un ghigno a mio beneficio – cinque anni fa, mentre mi trovavo in America. È canadese, ma ha origini scozzesi, non so se si vede. -

- Non provare a fare commenti sul kilt, Elric. Fa parte dell’uniforme. –

- Non ne avevo intenzione: volevo solo chiederti di tenere i tuoi attributi lontani da mia moglie, perché la stanno fissando con troppo interesse. –

Mi alzai in piedi piuttosto velocemente, optando per una finta noncuranza. Offrii una sedia al nostro ospite, sperando che il mio sorriso fosse convincente:

- Vuole accomodarsi, mister Mustroad? – domandai, concentrandomi sulla sua giacca grigia con le mostrine dorate. - Temo di non avere nulla da offrirle da bere: siamo ritornati a casa proprio in questo momento, quindi ci trova un po’ impreparati ad accoglierla come si deve. -

Lanciai un’occhiata a Ed, che si stava sedendo a sua volta. Lui mi restituì un sorriso riluttante.

- Ti scongiuro, - brontolò, - non provare a trasformarti in una moglie devota. -

* * *

 

- Non si preoccupi, madam. Dovrei essere io a scusarmi: passavo solo per parlare con suo marito, sono partito appena ho saputo dell’armistizio giusto per venirlo a cercare. E, per la cronaca, gli amici mi chiamano Mustang. Vale anche per le loro mogli. –

- Come sapevi dove trovarmi? – gli domandai, giusto per impedire a quel farfallone matricolato di infastidire Winry con i suoi occhi dolci. O con quelli dell’animale che gli penzolava davanti alle gambe. Era sposato già quando lo avevo conosciuto, e aveva dei figli, ma non perdeva occasione per fare lo scemo con qualunque donna gli passasse davanti.

- Oh, in realtà mi ero già informato un po’ di tempo fa. – rispose, sistemandosi comodo e appoggiando le mani sulle ginocchia nude. Winry continuò ad arrossire in maniera incontrollabile. - Avevo una conoscenza, qui a Monaco, sempre nel campo della chimica, ovviamente. –

- Ovviamente. – mi voltai verso la mia signora, per spiegarle: - Il qui presente signor Mustang bazzica nel campo dell’aeronautica, per la precisione nei carburanti per velivoli. L’ho conosciuto proprio lavorando in questo campo, tramite un comune amico, il professor Goddard. –

- Lavori agli aeromobili? – domandò Alex, gli occhi sgranati per l’eccitazione.

Mustang ridacchiò. – Tale padre... – disse, allungando una mano per arruffare i capelli al bimbo. – Il tuo papà però si interessava di più ai razzi, come me. Molto meglio di un semplice aereo! –

Scrollai le spalle; quella dei razzi era un’infatuazione giovanile, però dubitavo che ci si potesse allontanare troppo dalla Terra. E poi, ora non ne avevo più bisogno.

- Beh, questa mia conoscenza purtroppo è deceduta qualche anno fa, così ho dovuto incrociare le dita e sperare che la sua vedova sapesse dove fossi finito. E lo sapeva, per fortuna. – concluse, con un sorriso sardonico.

- Ah, e chi sarebbe questa donna? – interloquì Winry, interessata.

- La vedova? Oh, si chiama Steinglocke. Ilse Steinglocke. –

- Ilse Steinglocke? – ripetei. – Ilse Schneider? -

- Non ho la minima idea di quale fosse il suo cognome da nubile. Suo marito Joseph era una specie di inventore, col pallino per tutto ciò che vola... come questo giovanotto qui, mi sembra di capire. – Alex si nascose dietro la mia sedia, vergognoso. – Purtroppo qualche anno fa è rimasto vittima di una delle sue creazioni. Un disgraziato incidente di volo. –

- Precipitato? – domandò Winry, preoccupata.

- Oh, no. Colpito in testa da una latta di pesche sciroppate a cui aveva attaccato un piccolo reattore. Voleva spararla in orbita, invece quella è precipitata... morto sul colpo. Terribile. –

Lei sembrò indecisa sulla faccia da assumere alla notizia di un tizio probabilmente suonato che aveva pensato di mettere un reattore a una latta. Alla fine optò per un’espressione partecipe.

- Comunque, ho viaggiato tutta la notte per arrivare fin qui, e fatto pesare un paio di amicizie per potermi muovere nel settore americano senza problemi. Poi ho chiesto in giro. A proposito, sai che i tuoi vicini erano convinti che fossi morto? –

- Immagino, ci hanno portati via in piena notte con un camion militare. Sei stato fortunato a trovarmi, sono qui solo di passaggio. -

- Beh, sarò breve. La mia permanenza nell’esercito finirà presto, e mi piacerebbe tornare al mio vecchio amore... – si piegò verso di me, e i nastri attaccati al suo glengarry scivolarono davanti al suo orecchio destro. – Se ti interessa, sei il benvenuto. –

Sollevai le sopracciglia. Ero tornato da poche ore, e mi avevano già offerto due lavori: meglio che negli ultimi cinque anni.

- Ci vorranno anni prima che tu riesca a mettere in moto un’idea del genere! – gli feci notare.

- Oh, negli Stati Uniti comincia ad esserci parecchio interesse per i viaggi spaziali. –

- È molto tempo che non mi occupo di razzi. Forse dovresti cercare qualcuno di più adatto... – incrociai le braccia al petto. – C’è un altro allievo di Goddard che ha continuato su questa strada. Si chiama Wernher. –

- Ah, von Braun. – Mustang annuì. – Lo so. Si è consegnato agli americani giusto una settimana fa. – le sue labbra si stirarono in un sorriso amaro. – Aveva paura degli inglesi, per via delle V-2. E per me va bene, visto che buona parte dei miei parenti sono inglesi, e in effetti non avevo molta voglia di lavorare con lui. Almeno per ora. –

Winry mosse le gambe, a disagio. Mi strinse il braccio con una mano, perplessa.

- La signora Schneider però ti ha già proposto di lavorare come direttore del suo laboratorio. – mi fece notare.

- Oh, non ti preoccupare. – commentai. – Per ora non mi muoverò dalla Germania. Non sarebbe neppure saggio. – mi voltai verso l’ufficiale. – Soprattutto visto come sono trattati i tedeschi in America al momento. –

- Lo so. – ammise Roy, alzandosi in piedi. – Volevo solo sapere se sei interessato; io devo tornare al mio reggimento, ma conto di venire a far visita a te e alla tua bella famigliola. Magari nel frattempo avrai messo a posto le tue braghe. – aggiunse, indicando con il mento quelle che Winry aveva piegato ma lasciato sul pavimento, perché non aveva avuto il tempo di scoprire l’armadio in camera mia.

- E tu ne avrai trovate un paio. – ribattei, alzandomi per accompagnarlo alla porta.

Lui rise, e sollevò le mani in segno di resa. – Ti prometto che non porterò più il mio sporran davanti a tua moglie. –

- È vero? – chiese Alex, indicando il tasso che penzolava poco sopra il suo naso. – Posso toccarlo? –

- Preferirei di no. – sbuffai. – In ogni caso, Roy: vengo solo se viene anche mio fratello. –

Ridacchiò. – Beh, perché no? Ho sentito talmente tanto parlare di lui, che non vedo l’ora di conoscerlo! -

Nonostante tutto, quando quella specie di canadese anglo-scozzese se ne fu andato, offrendo ai miei amorevoli vicini ulteriore materia per i pettegolezzi, mi sentii stranamente elettrizzato. Winry probabilmente se ne accorse, perché lasciò perdere la casa disastrata per venirmi a stringere le braccia con affetto.

- Sembra una bella cosa. –

- Lo è. Le sue ginocchia sono molto meno belle delle mie. –

- Oh, senza dubbio. Questa America è distante? -

- Dall’altra parte del mondo. -

- Quindi sarà davvero bene che Al e la sua famiglia vengano con noi. – stabilì lei.

- Ci siamo già trovati alle due parti opposte dell’Atlantico, a dire il vero. E comunque, è inutile parlarne adesso: Roy Mustang sta come al solito seguendo la sua personale utopia. – cercai di chiudere il discorso afferrando un paio di camicie buttate in un angolo, ma Winry mi tagliò la strada.

- Mi sembra che le utopie di Roy Mustang tendano ad avverarsi. -

- Manderai le persone nello spazio? – mi domandò mio figlio, guardandomi con gli occhi spalancati. Ricambiai lo sguardo, cercando una risposta ragionevole, ma trovai dannatamente difficile spegnere le sue speranze.

- Vedremo. – concessi.

Lui sorrise tutto contento, e sua madre con lui.

- Potrebbe essere un fiasco. Oppure voi due tra un mese potreste decidere di tornare a casa. - aggiunsi, visto che se ne stavano scordando.

- Oh, hai ragione. – Winry si sedette sulla seggiolina di vimini e calciò via le scarpe con soddisfazione. Allungò maliziosamente un piede nudo verso di me. – Ecco fatto. Sono tornata a casa. –

 

 

Pensierino della buonanotte: ed eccoci arrivati all’ultimo capitolo. *si asciuga di nascosto una lacrimuccia* Anzi, scusate se è stato più lungo del solito, ma non ho potuto farne a meno. Dovrei riuscire a pubblicare l’epilogo già per l’inizio di aprile, a meno di sorprese (leggersi: a meno che rileggendolo non mi faccia così schifo da cancellarlo e riscriverlo da capo). Comunque, se siete arrivati fino qui spero che gli darete un’occhiata. J

Nessuna domanda su come mi sia saltato in mente di infilare Roy Mustang in un kilt: è iniziato tutto mentre cercavo una qualche arma in cui infilare il suo alter ego, ma ero partita dall’idea di un personaggio inglese, per non ricadere nello stereotipo da film americano “americani buoni/resto del mondo cattivo”. Poi mi sono allargata al Commonwealth in generale... e qui la mia mente ha cominciato a giocare strani scherzi, e io ho dovuto seguirla. Se siete interessati a fare la conoscenza del tasso, vi consiglio di consultare questa pagina. Esiste un sito Internet dei Calgary Highlanders, altrimenti se l’argomento vi interessa potete semplicemente cercare su Wikipedia. In questo capitolo, poi, c’è stato il maggior numero di personaggi realmente esistiti citati: Goddard, ovviamente, e poi il barone Wernher von Braun, che qualche anno dopo la fine di questa storia diventerà piuttosto famoso anche in America...

Siyah: Artie ha taaaaanti difetti, è vero. Venale. Egoista. Attaccabrighe. Geloso in modo patologico. Però non ce l’ha esattamente con Alex, anzi, in linea di principio gli voleva abbastanza bene da accettare di fargli da padre: solo che, nel momento in cui si è trovato in rotta con Winry, ha usato il bambino come arma – se mi passi il termine –, colpendo lui per arrivare ai genitori. Ha detto cose che a mente fredda non avrebbe mai espresso ad alta voce.

Liris: ahimè, questo calo di recensioni fa piangere il mio cuoricino *lancia occhiate allusive allo schermo* Winry, donna crudele, sapevi benissimo che il tuo cavaliere dall’armatura scintillante era in crisi d’astinenza da almeno sei anni...

 

 

   
 
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