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Autore: Silver Pard    13/03/2011    2 recensioni
Un’ombra vuota. Un idolo vacuo.
Tu la chiami tortura, ma in cuor tuo sai che è giustizia.
Genere: Generale, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Aeris Gainsborough, Cloud Strife, Sephiroth, Un po' tutti, Zack Fair
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: FFVII, Advent Children
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(Campi Elisi) (Il raduno)





Il fuoco tremolante della coda di Nanaki si affievolisce sotto il peso dei pensieri. Il pelo che gli drappeggia le spalle e la nuca si arriccia per l’agitazione quando pensa a noi, alla nostra comparsa.

Pensa al volto severo di Sephiroth, al gioco di ombre e luce arancione sul suo viso, alla fiamma che gli riluce negli occhi. Pensa a Aeris (così giovane, sembra così giovane, lo è sempre stata?), a me (non mi conosce, ma sospetta. È per come mi muovo, per come si muove Cloud, è per come piego la testa, per come mi gratto la nuca, per il timbro della mia voce che è la voce di Cloud quando spazia con lo sguardo con una mano sull’impugnatura della Buster Sword).

Si rammenta dei fantasmi della Gi Tribe. Pensa al tocco che lo sfiorò nella notte in cui il Lifestream fluì, al sussurro con la voce di Aeris. Pensa alla donna che Vincent custodisce in una teca, e accetta che siamo reali. Non riesce ad accettare che siamo veri.

Pensa a Sephiroth, a quell’odore di sbagliato che ha imparato ad associare a lui, il tanfo di Mako e Jenova. Pensa al modo in cui si muoveva, talvolta a scatti, goffamente, come se ogni passo fosse una battaglia, a volte in un onirismo disumano che come una macchia di olio viscido si allargava e insudiciava tutto ciò che tocca – e senza un briciolo di eleganza, come in quell’istante in cui ha alzato la testa e ha chiesto, cosa vuoi che facciano i fantasmi?

Per un momento sfodera le zanne, immagina di conficcarle nella carne smorta, ma nell’attimo stesso in cui formula il pensiero, il muso gli si accartoccia dal disgusto. Sephiroth è un’infezione, mormorano i suoi sensi, e non essendo umano lui sa che è meglio non metterli in dubbio.

Pensa a me, a come sposto il peso da un piede all’altro proprio come Cloud, al modo in cui aggrotto le sopracciglia.

Sa leggere il linguaggio del corpo dal giorno in cui è nato, sa se la sua preda è forte e in salute o debole e fiacca, se attaccherà o scapperà, se è vigile o distratta; nell’eco di me stesso, del mio comportamento, scorge qualcosa che non quadra.

Alcuni gesti di Cloud, ricorda, sono stranamente forzati e innaturali – gli capita di aspettarsi che il suo corpo faccia qualcosa che invece non farà. Ma su di me quei gesti sembrano veri, sembrano giusti, e l’apprensione lo rode come un ratto famelico all’idea di una cosa tanto dolorosamente sbagliata come l’appropriarsi della personalità di qualcun altro in maniera così totale.

Pensa a Aeris, e al bagliore che la riveste, iridescente, simile alle scaglie delle ali delle farfalle, mai chiaramente visibile ma sempre presente. Pensa a come gli appare, lì, davanti al Fuoco – tanto più giovane di quanto la ricordi – con il fuoco che le brilla sui capelli e negli occhi e nessuna ferita al ventre, nessun segno che lasci intendere che un tempo sia stata una donna viva a parte l’espressione tesa e l’aria stanca con cui si tiene stretta.

Nanaki ha imparato che gli esseri umani ricordano le cose in maniera diversa da lui, ma i suoi ricordi non sono mai imprecisi. È la discrepanza tra il ricordo che ha di lei e l’immagine del suo fantasma a convincerlo più di ogni altra cosa che noi non siamo veri.

I ricordi di Nanaki consistono principalmente di odori e suoni, non visioni – Sephiroth, per esempio, rientra nell’odore del pericolo – i funghi che ogni tanto mangiavano i suoi compagni umani, indistinguibili dal bene, la fragranza di un limpido cielo azzurro con una tempesta lontana all’orizzonte e della carne congelata prima che diventi nera. Aeris è fresca acqua corrente, è il profumo denso delle foglie e della vegetazione come lo si può annusare solo all’interno dei boschi.

Ma ora è cieco, perché i fantasmi non hanno odore, e al loro passaggio lasciano solo i rumori che desiderano. Percepisce la nostra vicinanza dal prurito ai cuscinetti delle zampe, dal modo in cui i peli gli si rizzano sul collo, dal flebile brusio di voci morte, ma senza il nostro odore il suo mondo è capovolto e incompleto. Il vuoto lo disturba più di quanto avrebbe mai potuto fare un’infezione.

« Fantasma » bisbiglia fra sé e sé, le orecchie appiattite sul cranio, seminando squarci con gli artigli nella terra rossa. « Nonno » sussurra, prima di rendersi conto di averlo detto.

Si alza e va a posizionarsi con risolutezza davanti alla Candela, per scrutare il fuoco, e meditare, e decidere se parlare di noi con i suoi amici, quando anche loro verranno a posare lo sguardo sulla luce.

« Qualsiasi cosa abbiate da fare, fantasmi » dice senza voltarsi. « Vi esorto a concluderla stanotte. »



Ci dividiamo. Come loro, ci riuniremo più tardi, e nell’attesa ci separiamo per andare a visitare luoghi e persone privati.

L’AVALANCHE è come proprietà pubblica – pure gli sconosciuti li possono accostare e dire, ehi, io ti conosco (di fama) – ma i posti in cui andiamo stavolta sono privati e personali. È giusto e sacrosanto che ciascuno rispetti il più possibile la privacy degli altri due.

Credo che Aeris vada negli anfratti del Lifestream a cui noi, io e Seph, non possiamo accedere. Insomma, posti che solo i Cetra possono vedere. Io non ci posso andare perché sono umano, e Seph non ci può andare perché… beh, c’è davvero bisogno che lo dica?

Credo che Sephiroth vada a trovare ciò che rimane di “Madre” (spererei di no, ma sono una persona con i piedi per terra, e io so che Sephiroth è più svitato di un tappo e non è esattamente in grado di distinguere tra “giusto”, “sbagliato”, e “cose in cui crederebbero solo coloro dotati dell’equivalente mentale di un’ameba”).

Io vado dai miei.

Il dolore dei miei genitori è come vino maturo, stagionato per anni, serbato con cura più che altro perché tanto vecchio. Ogni sorso è carico di nostalgia e amarezza; non fa più tanto male da stenderli, come nei primi anni in cui smisi di scrivere, smisi di chiamare, semplicemente smisi. Hanno la bottiglia sempre aperta e a portata di mano, ma la consumano con rammarico.

Gli occhi fermi di mia madre sono posati sul volto di mio padre, notano l’ingrigirsi dei capelli folti, le profonde spaccature che il duro lavoro e le sofferenze gli hanno inciso sul viso. Ha l’aspetto rude e segnato di un lupo; il lutto gli ha strappato via l’imperiosa natura di re.

I lineamenti stanchi di mio padre sono rivolti alle mani di mia madre, irrigidite dai reumatismi, le mani che mi hanno stretto e mi hanno afferrato durante la mia turbolenta infanzia.

Al centro della stanza, io. Tra di loro, il bambino che ero gattona ai loro piedi.

I miei genitori non vedono un salvatore, un uomo o un SOLDIER. Non vedono l’amico del Generale o il compagno d’armi, il flagello al servizio della ShinRa o il migliore amico di nuovi cadetti lontani da casa. No. Loro vedono me. Me come nessun altro. Me.

(Ero il cocco di mamma, la spina nel fianco che non avrebbe tolto per nulla al mondo. Ero l’orgoglio di mio padre, l’esasperazione costante in cui trovava unicamente gioia.

Avevo preteso i loro cuori e loro me li avevano dati con piacere, perché erano i miei genitori e io loro figlio. Li misi da parte perché ero il tipo che pensava di più a se stesso che alla sua famiglia, perché sarei stato un signor SOLDIER – non avrei passato il resto della mia vita a faticare per la stessa piccola, miserabile (soddisfatta) esistenza di mio padre e di suo padre prima di lui e di suo padre prima di loro, fino ad arrivare alla fondazione di Gongaga. No, io facevo sogni in grande e incontenibili, ed ero gonfio di amor proprio.

Ero un bravo ragazzo, un eroe.

Sono (ero, ero) un SOLDIER. Prima Classe. Non diventi un Prima Classe con le buone maniere. Lo diventi stando alle regole del gioco, essendo quello che la ShinRa vuole – una persona che riesce a fare cose pericolose e difficili lasciando la coscienza alla porta.

Però volevo bene a tutti e due. Erano la mia estensione e io mi volevo bene, quindi certo che ne volevo a loro.

Loro riuscivano a vedere persino quello.)

Queste visite fanno male.

Sono lieto che la stiano superando, che possano sopravvivere senza di me… ma allo stesso tempo fa male che ci riescano. Come ogni figlio mi piaceva pensare di essere la luce delle vite dei miei genitori – che senza di me il mondo sarebbe stato un po’ più buio, un po’ più vuoto, per loro.

Forse è perché ho trascorso tanto tempo con persone che danno tutto un nuovo significato alla parola “morboso”, ma vedere queste persone – genitori, i miei genitori – esistere, con semplicità, così calmi, così sereni, mentre le loro vite procedono come prima, quando invece hanno perso qualcuno di importante, è… strano.

—Non ve ne frega niente? chiedo loro, che seduti accanto al fuoco si tengono le mani fiacche e rovinate dal lavoro come in una promessa di eternità.

Eh. Ipocrita, hm?

Beh, mi pare logico. Sono solo umano.



(Io ero un Prima Classe, ero il migliore, e sono caduto, sono caduto prostrato dai proiettili, dalla disperazione e dallo sfinimento. Non avevo imparato ciò che sarebbe stato determinante per la sopravvivenza di Cloud alla mia morte.

Si può mangiare il dolore.

A sette anni, trattenuto da tre bambini del villaggio più grandi e forti di lui, mentre si dimenava come un’anguilla in una rete, il braccio destro immobilizzato e girato dolorosamente dietro la schiena, Cloud ebbe questa rivelazione.

Torsioni. Strattoni. Pressione sulle giunture, le ossa sfregavano ciascuna contro la propria cavità. Il rumore attutito di ossa che raschiavano su ossa sotto i muscoli e la pelle. Gemiti strangolati e sibili di sorpresa, ma non un grido.

Si può mangiare il dolore. Non ti ucciderà.

Un pugno basso sulla spina dorsale, che sprofondava nelle reni, l’aria che veniva espulsa dai polmoni con un rantolo che lo lasciò senza fiato, e pensò nonovoinonpotetecostringermiionongriderò.

Oh sì, si può mangiare il dolore. Il sangue e l’umiliazione ti si coagulano in bocca e schegge di pensieri si infrangono l’un l’altra nella tua testa, ma sopportarlo è possibile.

Li guardò, e li vide domandarsi fin dove avrebbero dovuto spingersi, rendendosi conto che era inutile continuare, perché lui non si sarebbe spezzato, neanche se l’avessero fatto le sue ossa.

Pensò a Tifa, alla curva del suo sorriso e alla luce riflessa dai suoi capelli, pensò ai suoi occhi vivaci e alla sua camminata saltellante; pensò ai cuccioli di lupo che facevano i primi, barcollanti passi fuori dalla tana sulla guglia chiamata oude witte dalla gente di Nibelheim, al divertito disinteresse del membro del branco rimasto a sorvegliarli quando lo accoglievano con fragorose risate sotto forma di guaiti; pensò al tramonto tra le cime della montagna, al bagliore rosa e rossastro e alle venature di glorioso blu e viola sull’orlo inferiore delle nuvole e pensò

(Sopravviverò.)

Ed ecco – eccolo lì, nel momento in cui il braccio raggiunge il limite e si sloga, nel momento che precede lo schioccare delle ossa nel dito, nel momento in cui alzi la testa e mostri al mondo la faccia imbrattata di sangue con un orgoglio perverso negli occhi – è in quel momento che ingoi il dolore in un sol boccone e capisci che non può ucciderti.

Non si muore mangiando dolore. Si muore cercando di sfuggirgli.

A sette anni, Cloud capì che poteva mangiare il dolore e sopravvivere.

Io sono stato costretto a sostenere il più rigoroso regime d’addestramento che la ShinRa avesse da offrire, sono andato in guerra e ne sono uscito vivo, e non ho mai imparato a mangiare il dolore. Non so se questo abbia contribuito a farmi diventare un SOLDIER Prima Classe o meno. Ho imparato ad ignorarlo, ho imparato ad attraversarlo strisciando, e ho imparato a cedergli.

Non ho mai imparato la lezione che Cloud apprese quel giorno d’estate mentre incespicava sulla strada di casa con delle ciocche di capelli strappate e l’occhio sinistro talmente gonfio che non riusciva a tenerlo aperto e tanti lividi diffusi su tutto il corpo come un campo dove nascevano fiori di violenza.

E fu così che rimasi nella mia cazzo di cella di vetro brillante a pregare che Hojo mi lasciasse morire.

Pregavo perché tenesse i suoi neri occhi morti fissi su Cloud, e quando lo faceva, seppur indebolito dal dolore, tra profondi sospiri di ripugnante sollievo, mi veniva da vomitare per quanto ero disgustoso.

(Ovviamente poi mi dicevo di non aver mai avuto pensieri simili. Ovviamente supplicavo e mi offrivo innumerevoli volte al bisturi di Hojo quando toccava a Cloud.)

Lo guardavo, le lacrime che gli scorrevano involontariamente sulla faccia per l’agonia più totale a cui era sottoposto, lo guardavo sputare uno squallido miscuglio di sangue e muco fuso a Mako e ricacciare dentro dolore e furia e combattere anche solo per allargare le costole e immettere aria nei polmoni, e Dio, miei Dei tutti, non avevo mai visto una cosa del genere.

Era come – mai visto un uccellino volare contro una finestra di vetro? A Midgar no, poco ma sicuro, ma una volta a Junon mi è capitato. Il colpo sordo di un soffice corpicino pieno di ossa che va a sbattere a chissà quale velocità contro una barriera solida, seguito dal tonfo più sommesso di quando cade giù.

C’è qualcosa di orribile, nel guardare un uccellino tramortito a terra che agita debolmente le ali come se non sapesse perché sono unite alla sua schiena ed emette patetici cinguettii di smarrimento, c’è un qualcosa di orribile nel guardarlo risollevarsi e tornare in aria per fare dei giri a vuoto, in preda alla confusione e al panico perché non sa più dove stava andando.

Era come guardare un uccellino intrappolato in una gabbia di vetro, che si gettava contro la superficie una volta e poi di nuovo e poi ancora fino al punto che si potevano sentire le ali che cominciavano a spaccarsi, il cric-crac delle ossa che si frantumavano e dei tendini che si logoravano fino a strapparsi.

Lo guardavi che se ne rigava dritto verso il suo obiettivo, e ti rendevi conto con sgomento che non si sarebbe fermato finché non fosse riuscito a uscire, finché non fosse stato libero e in volo, o fino alla sua morte.

E Cloud pensa che l’eroe sia io.)



Questa è la notte. Lo è stata per tutto il giorno. Si raduneranno attorno alla Candela come dei bambini attorno alle fiammelle di un accampamento, in attesa, raccontandosi storie, condividendo risate, scambiandosi sofferenze, togliendosi dei pesi.

È una Riunione per lavare via le brutte connotazioni che la parola aveva assunto. È un raduno e un addio ai fantasmi, un disfarsi di fardelli.

Potrebbe perfino funzionare.

Noi rimaniamo ai margini, al riparo dalla vista percettiva di Red. Sarebbe più facile tornare a vivere che non essere qui. (Pessima scelta di parole – Sephiroth si è dimostrato incredibilmente resistente al richiamo della mortalità). Anche noi stiamo aspettando.

Yuffie è la prima a uscire dall’amata aeronave di Cid, giubilante (e un po’ verdognola), un ampio sorriso in viso e qualche Materia che luccica dai vari nascondigli nei suoi vestiti. Corre da Red con uno strillo di gioia, azionando la sua parlantina.

Marlene, che trotterella dietro Barret che sta discutendo amabilmente con Tifa, porta Cait in braccio.

La presenza di Cid, in ritardo, è annunciata dall’odore di sigarette e da un flusso di imprecazioni, e viene accolta con dei larghi sogghigni e delle bonarie prese in giro.

(Aeris sorride, un bellissimo sorriso materno, dando loro l’unico sostegno concessole. Volteggia tra i suoi amici sfiorandoli uno per uno, scacciando i pensieri di morte e tenebre che Sephiroth porta quando entra nel loro campo visivo tramite ricordi di fiori, di un vestito rosa e di una risata delicata.

Nessuno di loro pensa a me, a parte forse Tifa, di passaggio, ma a me sta bene. Io sono qui per Spikey.)

Un’ora o due dopo, Cloud mette finalmente piede fuori dalle ombre, stringendosi addosso la sua facciata di indifferenza come uno scudo contro le loro amichevoli preoccupazioni.

Non vorrebbe essere qui; si sente perso, odia le cose che loro fanno riaffiorare automaticamente. Ma li raggiunge comunque, allontanando le paure e il suo malessere col solo aiuto della determinazione.

Queste persone lo conoscono; non esiste maschera che possa aderire abbastanza in profondità da nascondere il ragazzo che ha finto di essere un SOLDIER alle persone che sanno già che lui è lì dietro. (È troppo tempo che indossa maschere: se la infila comunque.)

Vincent è l’ultimo. Di recente i suoi incubi sono peggiorati, con l’avvicinarsi dell’anniversario, e si è arrovellato su quanto fosse saggio venire qui, tra persone che li conoscono e potrebbero farli spuntare in superficie senza volerlo.

Ma queste sono le uniche persone con cui possa dividere il silenzio senza che nessuno si aspetti che dia voce a ciò che gli consuma la mente e disturba il suo precario equilibrio, e ultimamente, essere compreso ha acquisito un’attrattiva notevole, anche per un uomo che potrebbe impartire lezioni di asocialità a Sephiroth.

Scivola per ultimo nella luce, il mantello rosso si increspa come acqua a ogni suo movimento, e regala loro un rarissimo sorriso per rassicurare tutti sul fatto che ritrovarsi qui, oggi, è la cosa giusta da fare, a costo di riaprire tantissime ferite o toccare innumerevoli lividi, anche se alcuni di loro preferirebbero di gran lunga scappare dalla storia cui sono stati costretti a prendere parte.

Ciononostante, la conversazione muore, diviene artificiosa, difficile – è tutto molto più facile quando non sono faccia a faccia, e non devono leggersi negli occhi gli effetti di una vita vissuta con il passato.

Alla fine, uno di loro fa una battuta, e l’aria tesissima e le parole vuote svaniscono come se tra loro non ci fossero mai stati degli abissi di esperienza, come se la Meteora non fosse mai caduta e fossero ancora un gruppetto sparuto di persone obbligate a diventare amiche e a viaggiare insieme per salvare il mondo.

Sprofondano nei ricordi, riscoprono i piccoli desideri e i sogni che cullavano e che si stringevano forte al cuore quando sembrava che stessero perdendo tutto. Accumulano vecchie speranze e fantasie e le usano come filo, come fossero un sentiero di molliche di pane per ritrovare la strada in un labirinto di ricordi, fino a tornare alla fragile armonia che avevano raggiunto all’interno del gruppo.

È come tornare a casa, come trovare i pezzi mancanti di un puzzle che non ti eri accorto di aver perso perché la tua mente li aveva automaticamente ricollocati nel quadro generale.

(Noi ci crogioliamo nella loro memoria, assaporiamo il loro dolore, le loro risate, il loro bisogno di ricordare quasi fossero un buon vino. È inebriante, e glorioso, e per un momento siamo quasi di nuovo vivi.)

È profondamente privata, profondamente personale, questa tela che si è intessuta tra di loro. Avrebbe potuto tagliare; avrebbe potuto avere delle catene. Così non è. È la rete di appoggio che finalmente si è risistemata e ha raccolto i trapezisti che vagavano ad alta quota prima che si sfracellassero al suolo; ciò che impedisce a tutti di perdersi in una storia troppo grande per loro.

Non riescono a spiegarlo, e allora preferiscono mostrarlo – un fiocco rosso (in privato, Sephiroth ha sempre considerato un affronto quasi personale che l’oggetto in grado di prevenire gli status negativi dovesse essere un accessorio tanto femminile).

Rappresenta tantissime cose, ha un valore che va oltre le parole, ma Cloud non pensa a nessuna di queste quando se lo lega al braccio, la mente serenamente vuota. (Così stava Fenrir incatenato fino alla fine del mondo, che si è legato volontariamente con nastri di seta, per aspettare eternamente il giorno in cui verrà liberato per divorare il mondo.)

L’infinito avvolto a ogni braccio, tutti i loro legami racchiusi in una fascetta di velluto che già adorano. Cloud dovrebbe conoscerne i rischi più di chiunque altro.

(—Cosa vuoi? chiede Aeris a ognuno di loro, toccando i loro volti, spazzando via l’oscurità. Rispondono tutti a modo loro, vaghe verità che non possono dire ad alta voce per paura che perdano la loro potenza, la loro realtà.

Io voglio essere felice. Io voglio pace. Io voglio la mia libertà. Io voglio lasciarmi il passato alle spalle. Io voglio ricordare. Io voglio dimenticare. Io voglio Io voglio Iovoglio IovoglioIovoglioiovogliovoglio)

Cloud decide di rispondere di persona, usa la Mako e le cellule di Jenova nelle sue vene per scivolare vertiginosamente nel vuoto, segue la spirale dentro di sé fino al centro e si ritrova faccia a faccia con noi nel Verde.

È una pazzia, un’imprudenza, e forse un po’ di responsabilità l’abbiamo pure noi, perché vogliamo, abbiamo bisogno di vederlo, questa notte più che mai. Non lo ricorderà.

Voglio essere perdonato, ci dice senza propria definizione e forma, ancora tremendamente titubante, così insicuro, (—Veramente? chiede Sephiroth) prima che nasca un nuovo giorno e la magia si perda.

(—Anche noi. Lasciaci andare.)

Non posso. Non so come fare.

(—Io potrei perdonarti, dice Sephiroth. —Ma non ti lascerò andare. Mai.

Il suo sorriso è tagliente, gli occhi sono freddi. —Ma questo già lo sai, vero?

Non è una domanda.

Il rumore stremato e soffocato che Cloud si lascia sfuggire gli muore in gola quando Seph lo attira a sé, a noi, dentro di noi, gli stringe le braccia attorno in una grottesca parodia dell’affetto.

Presto o tardi (tardi, spero) si unirà a noi per davvero, e quando quel momento arriverà lo accoglieremo veramente. Ma per adesso, lasciamo che Sephiroth gli ricordi della sua mortalità.

Sephiroth lo stringe come se non sapesse se ferirlo o cullarlo, e allora prova a fare entrambe le cose, e Cloud si contorce tra le sue braccia, negli occhi la paura e la vitalità che li animano solo quando ti credi a un passo dalla morte. Nel nostro mondo è meravigliosamente, gloriosamente vivo, faccia quel che faccia di quell’altra sua vita, incredibilmente vivo, ed è questo che vogliamo più di tutto.

Io voglio proteggere quella vita, voglio essere il suo scudo più di ogni altra cosa, voglio che sia al sicuro. Voglio che continui a respirare, a camminare, e a sognare, e a lottare, perché è mio amico, perché un pezzo di me vive con lui, perché non voglio aver perso la mia battaglia per nulla.

Aeris vuole che viva e ami perché Aeris è questo, perché a volte è più una dea che una ragazza, perché Cloud è il suo cavaliere sul destriero bianco, il suo campione, anche se ha fallito. Vuole che Cloud sia felice, vuole che ci lasci andare più per il suo bene che per il nostro, perché sa che lo stiamo uccidendo lentamente e non avrebbe mai voluto che si comportasse così, che vivesse la sua vita ricordando dei sogni.

Sephiroth, poiché gli è stato insegnato a fare le cose meglio e più in grande di chiunque altro, vuole e desidera come una foresta che va a fuoco, vorace e insaziabile. Vuole ogni respiro che Cloud inspira, vuole scivolargli nella pelle ed espirarli per lui, perché ogni secondo che Cloud respira è un secondo che lui non ha, è un secondo che Cloud gli ha rubato per poter respirare al posto suo.

Cloud prova futilmente a divincolarsi; farebbe prima a combattere contro uno specchio.

Crolla in ginocchio, un’esausta confessione di sconfitta, una tardiva ammissione che la vittoria gli ha prosciugato le forze.

—Lasciatemi andare, sibila insistentemente, prima che i sibili diventino suppliche pietose. —Vi prego.

Non ancora. Non ancora.

—Più vicino, mormora Sephiroth. —Ancora più vicino. Liberami, e bruceremo insieme.)







NdT: a breve posterò l’ultimo :)
   
 
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