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Autore: Ofelia di Danimarca    22/03/2011    1 recensioni
Due persone, due mondi lontani un abisso...ma, forse, lo stesso sguardo disincantato verso il mondo...e una strana pressante voglia di far parte della vita dell'altro. Claudio Rizzo e Monica Morucci
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Claudio si infilò in silenzio la giacca nera ed osservò il suo riflesso nello specchio a tutta parete della sala. I capelli castani erano in ordine, la camicia gessata liscia al tatto, priva di pieghe.
Gli sembrava di essere tornato indietro nel tempo, tutto un tratto.
Erano mesi che non metteva più piede in una discoteca.
Era sempre stato il suo habitat naturale… e stasera ci avrebbe fatto ritorno.
 
Mentre suo zio gli camminava alle spalle, avanti e indietro, attaccato al telefonino come una conchiglia sullo scoglio, si rese conto che non era poi così ansioso di fare questo ritorno alle grandi vecchie abitudini del passato. Non era eccitato, non era nervoso… era solo contento.
Contento di passare una serata con vecchi e nuovi amici, una serata di vero svago, di svago per la mente.
 
 Incredibilmente, suo zio smise di parlare e lanciò via il telefono con un gesto liberatorio.
- Non ne posso veramente più… pensano che io, qui, non abbia nient’altro da fare che risolvere i loro stupidi problemi di promozione del prodotto. Che se la vedano da soli, sono pagati per farlo e stiano zitti!
Claudio si trattenne dal sospirare. Non disse nulla. Era abituato a quelle sfuriate.
- Tu che fai, esci? Dove vai? Beato te guarda….
 
Senza neanche dare a sé stesso il tempo per ascoltare la risposta, il signor Rizzo svanì dalla stanza a grandi passi, sbuffando. Claudio ipotizzò che fosse diretto alla sala bar, e poco dopo un netto tintinnio di cubetti di ghiaccio e vetro gli confermò che ci aveva preso.
 
- Ah comunque io vado fuori, prendo la mia macchina, non aspettarmi eh?
Aveva alzato la voce, ma sapeva bene che suo zio non aveva sentito nulla.
Nella sua mente ora sostavano di sicuro solo i tre seguenti soggetti: lavoro, lavoro, lavoro… un discreto assortimento.
 
Afferrò con un gesto unico portafogli, chiavi della macchina e chiavi di casa.
Mise tutto nella tasca della giacca, e diede un’ultima controllata alla sua faccia nello specchio prima di varcare la soglia.
Sempre l’usuale, impassibile, imperturbabile espressione.
 
Solo quando fu con la Mini oltre il cancello della villa, si sentì libero di abbozzare un sorriso.
Aveva voglia di arrivare.
Gli avevano assicurato che il locale avrebbe pienamente incontrato i suoi gusti… almeno era ciò che gli aveva giurato il suo compagno di banco quando gliel’aveva proposto… “non troppo caotico, musica un po’ commerciale un po’ house ma non di quella che ti annoia dopo cinque minuti, ottimi cocktail, tavolini e divanetti per sostare a fare due chiacchiere”.
Ma la cosa che più gli premeva era la compagnia. Oltre ai suoi nuovi compagni di sventura della IIA, con cui suo malgrado stava iniziando a legare, nonostante l’apatia generale di quella sezione, ci sarebbero stati anche Schifani, Petrucci, e soprattutto Valerio.
Mentre accendeva l’autoradio, si rese conto che non aveva più parlato con Valerio da quel litigio che avevano avuto in classe. Non aveva ancora avuto l’occasione di chiedergli scusa per il modo aggressivo con cui gli era saltato al collo.
Forse, se sapesse cos’è che mi ha provocato … capirebbe perché l’ho attaccato con quella veemenza.
 
Appena giunto lo colpì la coda leggera, ma soprattutto ordinata, che si era formata alla porta del locale. Era abituato a spintoni, urla, tentativi maldestri di attirare l’attenzione dei Pr o dei buttafuori… no, niente di tutto quello gli si presentò, e non poté fare a meno di congratularsi mentalmente con il suo nuovo amico che si era occupato dell’organizzazione.
 
Lo fecero entrare subito – facile quando sei su una lista e hai un tavolo prenotato – e, una volta a tu per tu con l’interno, non rimase deluso.
Gli arredi, dai tavolini ai divanetti, finanche il bancone del bar erano tutti in stile minimal, colorati di bianco o nero, linee pulite e semplici, ma raffinate. Le luci non erano invadenti o traumatizzanti come quelle delle usuali discoteche… erano soffuse, calde ma soffuse. La musica, dato che era ancora piuttosto presto, era a un volume ragionevole, e le persone che giravano sembravano tutte un po’ più avanti con l’età rispetto a lui e ai suoi compagni.
 
- Ecco il maestro!!! Grande!!!
L’accoglienza di Petrucci fu quasi soffocante. Abbracci e pacche sulle spalle a tutto andare.
- ‘Sto locale è veramente una figata, o no? E soprattutto è il posto ideale per rimorchiare qualche tipa più grande! Da sguazzarci!
Seguirono a ruota tutti gli altri… Schifani fu l’unico a salutarlo con entusiasmo flebile, tutto preoccupato com’era a parlare dell’ennesima “infamata” che a suo dire gli aveva fatto Lucia con il bambino. Claudio però non aveva voglia di stare a sentire i suoi problemi quella sera.
 
- Valerio dov’è?
Nessuno pareva averlo sentito. Le notizie su di lui scarseggiavano. Avrebbe dovuto essere già là, a detta di Petrucci.
 
Mentre la musica cominciava a farsi sempre più intensa e le luci più concentrate verso la pista, Claudio avvertì il suo cellulare vibrare. D’istinto lo estrasse dalla tasca.
Era un messaggio.
 
Si passò una mano tra i capelli ancora perfettamente intatti. Il pollice era lì lì per trasmettere al suo telefono l’ordine di rivelargli testo e mittente dell’sms, ma qualcosa lo faceva esitare.
- Eh no, Rizzo, non ti puoi attaccare al cellulare stasera, non se ne parla!
 
Ignorò del tutto il monito di Petrucci.
Si passò la lingua sul labbro inferiore, completamente secco. E si decise a vedere chi era.
 
Non appena lesse le prime parole del messaggio ebbe la pressante tentazione di scagliare quell’aggeggio a casaccio sulle pareti candide della discoteca, e guardarlo perdere vita.
Maledetto suo zio, maledetto il telefono, maledetto il suo cervello.
 
- Che hai, che ti prende?
Ora era Antonio, il suo compagno di banco, a cercare di capire che gli passava per la mente.
- Niente, niente… andiamo a prendere da bere, che dici?
 
Cercò di fare del suo meglio per non lasciar trasparire la cocente delusione che l’aveva sopraffatto.
Suo zio si era preso il disturbo di avvisarlo che anche lui se ne sarebbe uscito, quella sera. Di non preoccuparsi se non l’avesse trovato in casa una volta finita la serata. “Sarò al club”.
Vaffanculo.
 
- Long island o gin lemon?
Fece un cenno per promuovere il primo. Ma che importanza aveva il cocktail da mandar giù in quel momento?
Nessuna.
 
Monica non gli aveva risposto.
Aveva sperato con tutto sé stesso che fosse suo quel messaggio.
Era alquanto patetico, sì, ma non appena aveva avvertito il vibrare del telefono, subito si era convinto che lei si fosse finalmente decisa a rispondergli.
Magari, con una spiegazione su quanto era successo quella mattina.
Sul motivo per cui un momento prima era là alla finestra con Pregoni, e un momento dopo non c’era più e addirittura non era più rintracciabile a scuola.
Claudio aveva come il sentore che c’entrasse lui in tutto quello… che fosse lui il responsabile…
 
In quell’istante una mano calda e affusolata si tuffò nella sua libera dal cocktail, delicatamente ma allo stesso tempo con decisione. Un profumo sottile gli colpì le narici.
- Ciao, Claudio.
Si voltò e vide la testa di Gaia appoggiarsi contro la sua spalla.
 
 

 
 
Quando fu il momento di risalire sulla Mini per mettere fine a quel sabato sera, Claudio lanciò un’occhiata a Gaia e si stupì di vederla così sobria.
Non doveva aver bevuto più di un paio di cocktail – e questo era rarità allo stato puro, per la sua esperienza.
Le aprì comunque la portiera, facendole segno di entrare.
Lei obbedì infilando le mani nelle tasche del cappotto nero. Il freddo era più pungente che mai, in effetti.
Mentre metteva in moto, Gaia gli ripeté l’indirizzo a bassa voce.
Conosceva quella zona, non era lontana dalla palestra di scherma. Un discreto quartieruccio, avrebbe detto suo padre.
 
Di Valerio, in quella serata, neanche l’ombra.
Si chiese dove potesse essere finito, o perché avesse deciso all’ultimo di non venire.
Sperava ardentemente che non l’avesse fatto per evitare la sua faccia.
 
Un mugolio soddisfatto provenne dall’altro lato dell’auto.
A quanto pare, la ragazza gradiva l’amichevole calore che il sedile aveva cominciato a sprigionare da qualche secondo.
 
Tutto sommato, era stata una serata gradevole.
Claudio lo riconobbe mentre faceva manovra ed usciva dal parcheggio ormai semivuoto.
Avevano ballato… non troppo, ma avevano ballato…. si erano fatti un bel giro di chupiti - gli altri, lui si era fermato al primo long island - e avevano riso, ed erano stati per un po’ sereni. Anche Schifani era riuscito ad abbandonare temporaneamente la sua faccia da funerale.
 
Si voltò e vide Gaia con il capo leggermente inclinato verso sinistra, le mani ancora nel calduccio del cappotto.
Cercò di capire cosa aveva provato nel momento in cui se l’era vista sbucare al fianco, dal nulla, quasi come se si fosse materializzata. Sorrise… dopotutto era stato lui, quella mattina, a dirle che con tutta probabilità avrebbe passato la serata in quel locale, e che se avesse voluto, avrebbe potuto trovarlo lì.
Ma non si aspettava certo che la ragazza decidesse davvero di passare la serata dove era lui.
- Sicura che le tue amiche non ci rimarranno male che non sei rincasata con loro?
Gaia lo guardò sorridendo.
- No, non credo, anzi, penso che saranno contente...
- Contente?
- Contente per me.
 
Cercò di capire cosa voleva dire quella frase. Era un tentativo di approccio?
Probabilmente sì.
Eppure, non c’era stata nemmeno una sola mossa della ragazza che lo avesse infastidito o che gli fosse sembrata troppo, quella sera. E per lui, che era uno che con le donne si sentiva in gabbia piuttosto facilmente, era una grossa novità.
 
Pochi minuti e giunsero a destinazione.
Ormai in macchina c’era un clima quasi torrido, e Claudio spense il riscaldamento con un gesto deciso.
Gaia girò il corpo nella sua direzione, cercandone gli occhi con lo sguardo.
- Sai, è stata una bellissima serata. Non credi?
Lui cercò le parole appropriate per rispondere. Di certo non era stata bellissima…ma aveva avuto un suo perché, quello sì. Si limitò ad annuire.
La vide abbassare gli occhi e recuperare la borsa dal sedile posteriore.
Iniziò a sentirsi in colpa per non aver detto nulla.
 
- Mi ha fatto piacere che sei venuta… hai fatto bene.
Malgrado la sua discreta esperienza con il sesso femminile, la frase gli era uscita di bocca un po’ goffa…quasi da sfigato, pensò tra sè. E in effetti, non era quello un commento che faceva parte del suo abituale repertorio.
 
Dall’altra parte Gaia parve illuminarsi.
Si spostò una ciocca dal viso, e con un movimento fluido, si sporse in avanti, appoggiandosi con una mano sul bordo del sedile del guidatore.
Claudio fu colto di sorpresa: il bacio, non lo attendeva, non lo attendeva affatto. Eppure, non oppose resistenza.
Prima che potesse anche solo porsi la questione sul ricambiare o meno il bacio, lei si era staccata e aveva già spalancato la portiera.
La udì gridare “chiamami” prima di intravederla sparire dietro a un cancello dalle inferriate in ferro battuto.
 
 
 
 
 
 
Tornare a scuola, quel lunedì, fu un trauma.
Aveva passato il giorno prima sui libri e ora gli pareva di non sapere nulla. Si sentiva il cervello completamente privo di qualsivoglia nozione – tabula rasa, arido e desolante deserto dei Tartari.
 
Desiderò con tutto sé stesso di non essere chiamato da Cicerino per l’interrogazione.
Per sua fortuna, il prof sembrava molto più interessato a dedicarsi a uno strano monologo sul perché dell’esistenza della sofferenza nel mondo.
I soliti argomenti di Cicerino, leggeri e piacevoli come una tazza di tè appena zuccherata.
 
All’uscita, una volta terminate le cinque ore, si sentiva come se l’avessero liberato da un gigantesco peso. Mentre camminava, pensò che se il suo cervello gli avesse fatto quel medesimo scherzo il giorno dell’esame alla Normale, sarebbe stato completamente fregato.
Fottuto completamente.
 
Passò di fronte al bar adiacente la scuola. Gettò una fugace occhiata al bancone, per vedere se per caso ci sostasse uno dei suoi prof ad affogare i dispiaceri dell’insegnamento in un bicchiere di Frascati – come aveva visto fare più volte al suo preferito in assoluto, l’esimio Cavicchioli, il re indiscusso di tutte le versioni di greco e latino.
No, niente prof quella mattina.
Ma qualcun altro attirò la sua attenzione.
 
Seduta a un tavolino, da sola, con un libro spalancato davanti e un cucchiaino tenuto a mezz’aria, Monica sembrava completamente estranea al caos che le turbinava veloce tutt’intorno.
Carpe diem, venne in mente a Claudio pensando per un attimo ai moniti di Cavicchioli.
Entrò.
 
Le si parò davanti con decisione.
- Come va?
La vide sussultare e alzare gli occhi.
- Che vuoi?
 
Senza aspettare che lo invitasse a farlo, prese un’altra sedia e le si accomodò di fronte.
Si mise a fissarla con aria seria. Erano tre giorni che le voleva parlare.
- Non mi hai risposto al messaggio, Morucci…
La vide annaspare, e non potè fare a meno di provare un’istintiva e impertinente soddisfazione.
- E che cosa ti rispondevo, scusa? E poi, come hai avuto il mio numero?
 
Ora era lei che lo fissava seria. I suoi occhi verdi erano là e non si sarebbero schiodati finchè non avessero ottenuto una risposta.
- Me l’ha dato Pregoni.
Le pupille di Monica erano dilatate al massimo. Sembrava nel panico.
 
Claudio mise una mano nella tasca dello smanicato. Ne tirò fuori un rotolo di banconote tenute insieme da un elastico.
- Cicerino mi ha detto di darti questi, l’altro giorno. Te li avrei dati sabato all’uscita… ma non c’eri.
L’espressione di Monica era cambiata di nuovo. Ora sembrava quasi… stupita. Sinceramente stupita.
Lo guardò per una manciata di secondi, poi allungò la mano e prese i soldi senza proferir parola.
 
Claudio giudicò quello il momento opportuno per attaccare.
- Perché sabato te ne sei andata a casa?
Lei chiuse il libro che stava leggendo con un gesto di stizza.
- Non sono affari tuoi.
- Allora perché sei andata via correndo quando ho salutato te e Pregoni dal cortile…
- Cos’è, il terzo grado?
Lui annuì senza staccarle gli occhi di dosso.
Monica accarezzò la copertina del libro.
- E comunque a te non te ne dovrebbe fregare.
- E se me ne fregasse, invece? Che succederebbe?
Non aveva intenzione di mollare la presa.
 
Monica si alzò bruscamente, abbandonando una moneta da due euro accanto al piattino del caffè.
- Non mi prendere per il culo, Rizzo.
Si fece strada tra i tavoli ed uscì senza nemmeno infilarsi  la giacca. Lui la imitò.
- Che fai, ora mi segui?
Claudio sorrise divertito.
- Perché ti sto così sul cazzo, Morucci?
 
Lei bloccò la sua marcia improvvisamente. Pareva turbata…e parecchio.
- Io so chi è Claudio Rizzo. So che sei abituato ad avere tutto quello che desideri senza alcun tipo di sforzo, so che tutto quello che vuoi fare, si realizza, che le cose vanno sempre a modo tuo…quindi non fare finta che ti importi di quello che faccio solo per far vedere quanto sei figo e bravo ad averla sempre vinta. Perché tanto lo so che è una farsa.
Il tono cercava di essere gelido, ma si sentiva che era scosso.
Claudio lo percepiva chiaramente.
Solo non capiva il perché di tutto quell’astio… di quell’amarezza.
 
- Tu in realtà non sai un cazzo, però ti piace pensare che sia così perché è la tua scusa per trattarmi da schifo.
Si infilò le mani nelle tasche dei jeans, fissandola.
Monica lentamente sollevò gli occhi da terra. Si sforzava di reggere il suo sguardo. Non rispose.
 
- Uno di questi giorni, vieni da me a studiare – fece lui, dopo una pausa – così ci prepariamo per l’esame alla Normale.
Il tono di Claudio ora era gentile, inoffensivo.
Avanti, dì di sì.
 
- Non so… tu di solito quando studi?
Ora Monica si stava contorcendo le mani.
- Puoi venire quando vuoi.
Ci fu del silenzio, come se l’ultima frase avesse bisogno di essere soppesata con cura.
- Quando voglio? Come sarebbe a dire? Che vuol dire?
La ragazza pareva non capirci più nulla. Era spaesata.
 
Ma Claudio decise che era meglio tagliare corto.
- Che io sto là, a casa… e che se ti va, puoi passare. Semplice.
Le gettò un’ultima occhiata sperando di incontrare il suo sguardo, ma non fu possibile.
Lei era persa a fissare qualcosa di lontanissimo, dietro di lui.
Carpe diem…spero di averlo colto bene questo attimo.
 
Con le mani ancora in tasca, si allontanò.
 
 
 
 
   
 
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