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Autore: Hazel DM    01/04/2011    2 recensioni
Trovi rifugio nelle memorie del nostro passato e ti illudi di essere stato felice.
Questo è il tuo errore, Sirius.
I Malandrini non erano affatto come li ricordi.
Sirius e Remus si ritrovano dopo 12 anni, entrambi cambiati. Ora devono fare i conti con il proprio passato.
Genere: Dark, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, Yaoi | Personaggi: I Malandrini | Coppie: James/Lily, Remus/Sirius
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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STAMBERGA

***


Due brevi passi attraverso l'angusto corridoio, ed eccolo lì.
Quel pensiero macabro, quell'amico ingannatore che mi rende sospettoso nei confronti di tutto e di tutti.

Forse è la trama consumata del tappeto muffito che ricopre il pavimento; forse gli specchi ovali appesi alle pareti: nelle incrinature del vetro c'è racchiusa l'ombra dei nostri volti, l'ombra di quello che eravamo. Mi fa rabbrividire.
Tutto è opprimente, immutabile. Tutto è ripetizione.
Ci sono stati dei momenti, in cui ho trascorso il mio tempo proprio qui, in queste stesse stanze con le stesse persone. Facce, facce, facce. Le vedo dappertutto, prigioniere in ogni riflesso, in ogni anfratto.

Entro nel freddo salone rettangolare che un arco divide in due parti disuguali e mi accascio in un angolo buttando uno sguardo sui brandelli informi di tende color cremisi. Come se anche il più debole spiraglio di luce potesse infiltrarsi e intaccare quest' oscurità opprimente.
Mi sento nuovamente come un topo in trappola, in uno spazio troppo stretto per le mie maledette ossa.
Cerco di pensare a qualcosa che non sia il macabro silenzio della cella, così simile a quello che aleggia qui dentro, e aspetto seduto contro la parete scalcinata. Ma la cella è lì, come sempre nella mia mente.
Non so ancora come diavolo mi sono convinto a tornare in questa schifosa baracca.

Non c'è nessun lampadario, solamente dei lumi infissi alle pareti. Ne accendo distrattamente un paio, cercando di trovare lo stoppino delle candele ormai quasi completamente consumate. Diffondono una luce mediocre che a malapena riesce a rischiarare la metà del salone in cui mi trovo; l'altra metà, oltre l'arco, rimane immersa in un'ombra nera.
A stento distinguo la forma oblunga del vecchio pianoforte.
Un ricordo vago mi strappa un sorriso amaro.

"Che inutilità ... occupa solo spazio e suoni da schifo."
"Non posso farci nulla. Anche se non so suonarlo mi rilassa passarci le dita sopra."

Il mio sorriso si spegne non appena prendo consapevolezza del fatto che in realtà non c'è niente di vago in questo ricordo, al contrario: è di una solidità disarmante che mi innervosisce terribilmente.
Laggiù, dietro quella tenda, era lì che si nascondeva Remus.
Il moto di disgusto profondo nel ricordare quelle mensili urla strazianti crea un fastidioso nodo nella mia gola, e devo appellarmi a tutte le mie forze per non cedere alla disperazione.
Esco, scendo i gradini di legno della scala; una calma mortale invade queste vecchie assi mangiate dalle tarme.
L'aria fuori è fredda e immobile.

In alto alla mia destra, su una trave malconcia, è attaccato uno stuolo di ragnatele sparpagliate che in punti si raccolgono e in altri si riallontanano con caduta molle. Un ragno immobile e secolare mi scruta.
E' come se la natura intera rabbrividisse.

Constatando che fuori la sensazione di soffocamento sembra addirittura peggiorare, decido di rientrare.
Passo passo, appoggiandomi alla parete, percorro tutta l'area della catapecchia. Ogni passo mi da l'impressione che il pavimento sotto di me ondeggi e mi sfugga sotto i piedi.
Anche le altre parti della Stamberga sono totalmente abbandonate, tanto che in certi punti la polvere è così alta da attaccarsi alle pareti.

C'è una grande poltrona di raso marrone scuro tutta buchi, proprio lì, a destra. Mi ci siedo pesantemente e raccolgo la testa tra le mani: il vago fluttuare dei ricordi mi è insopportabile.
"Non c'è nessun mezzo per far cessare questo terribile mal di testa?" penso stancamente.
Avverto il vago desiderio di abbandonarmi, di annientarmi in questa mobilità delle cose e chiudo gli occhi; non penso a nulla, ma resto con le palpebre serrate per un tempo indefinito.
E avverto qualcosa.

Passi.
Passi incerti di chi non conosce il tracciato: sono vicinissimi a me, li sento rimbombare nella mia testa come una cacofonia irruente e insopportabile. E un respiro sommesso.
Prima che la mano estranea possa toccarmi mi avvento sull'intruso misterioso con un ringhio, serrandogli la gola con il braccio, e prima che possa aprire bocca, la mia bacchetta è già puntata implacabile sul suo viso.
Remus Lupin è intrappolato nella mia presa folle, le mani sottili che si artigliano al bavero del vecchio cappotto che indosso.
“Sono io ...” tossisce cercando di divincolarsi “Sono io ...”
Il suo volto è contratto in una smorfia terrorizzata, ma non appena allento la presa (con un certo imbarazzo, lo ammetto) ecco che ritorna impassibile, come il Remus Lupin di sempre.

Ha i capelli sottili leggermente striati di grigio, occhi stanchi e profondi e il volto pallidiccio. Una lunga cicatrice gli ricopre gran parte del volto per obliquo, ma non pare profonda. Il pastrano che evidentemente portava sul braccio gli è caduto a terra, e sembra, se possibile, più logoro e rattoppato che mai.
Anche lui è piuttosto logoro, sempre più magro ed emaciato, ma in fondo non è così cambiato.

Remus è una strana persona: fino a nemmeno ventiquattr'ore fa sembrava che non attendesse altro che incontrarmi da solo, con la frenetica curiosità e impazienza di chi non vede una persona cara da anni. Adesso invece mi guarda mesto, con quel sorrisetto incerto che lo fa sembrare un ebete stampato sulle labbra e l'espressione di un professorino saccente che sorride benevolo al preferito della classe.
"Dovresti stare più attento a come usi quella bacchetta, Sirius". dice spolverando via la polvere dalla camicia e risistemandosi il colletto.
"Mi hai spaventato" rispondo semplicemente.
L'abitudine agli orrori della cella, mi ha resto sospettoso, crudele e insofferente. Mi sento smarrito e non posso evitare di pensare a quanto debba trovarmi cambiato.
"Sono soltanto io Sirius" dice lui con un sorriso meno rassicurante di quello che probabilmente voleva sfoggiare; mi fissa come se davanti a lui non ci fosse il vecchio compagno di sempre, ma un Molliccio raccapricciante, che tanto per gradire puzza di Wiskey Incendiario.
Non sono così toccato dal suo disgusto, anzi, non lo sono minimamente.
Caccio un lungo sospiro e faccio qualche passo incerto, lui segue i miei movimenti con sguardo indagatore, senza togliermi un istante gli occhi di dosso.
"Sai, non avrei mai pensato che saremmo arrivati fino a questo punto" dice sottovoce.
"Quale punto?"gli domando bruscamente.
"Io e te, qui, ... cielo grigio fuori, polvere e ricordi dentro"

Irruppo in una risata innaturale, senza gioia, simile a un latrato. Remus non mi guarda affatto negli occhi, spaventato forse dal fatto che potrebbe non trovarvi più un minimo barlume di vita. Guarda fisso davanti a se, serio.
Con la mia risata voglio dimostrare una sicurezza, una fiducia che non possiedo; rido, e il disgusto che provo per me stesso aumenta ogni istante di più.
Percepisco la preoccupazione del mio falso amico, e provo un piacere sadico che mi scuote dentro.

"Ora basta, Sirius".
Il tono della sua voce non è quello pacato di sempre, è nervoso, incerto.
La mia risata si spegne rapidamente, ritorno il vecchio imbronciato di pochi attimi prima.
"Io non ho ricordi, Moony" dico poi aggrappandomi al suo braccio scheletrico. Mi fa uno strano effetto il chiamarlo con il suo vecchio soprannome di Malandrino: con enorme disappunto, infatti ho già capito la triste realtà:a Remus Lupin di Malandrino non è rimasto proprio un bel niente.

"E' per questo che sono qui ... " replica lui inarcando un sopracciglio, badando bene di scansare gentilmente il mio braccio ossuto dalla sua camicia immacolata "... che siamo qui."

Lo guardo inespressivo. Ognuno di noi due sta provando la stessa identica sensazione: la nostra sopravvivenza è in gioco, parlare di solidarietà potrebbe sembrare fuori luogo e l'unica cosa che adesso conta è farsi largo con le unghie e con i denti per trovare un punto d'incontro, in cui noi due potremmo stabilire un accenno di comunanza e d'intesa.

Come non siamo mai riusciti a fare in tutti questi anni...

Camminando attraverso i corridoi imputriditi, arriviamo alla fine dell'edificio, dal quale si scorge un pezzetto di mondo esterno, grazie alle pesanti assi malmesse della parete.
La stanza, circolare e leggermente più fresca delle altre, presenta quattro grosse sedie di vimini dalle alte spalliere ricurve quasi completamente sfondate, disposte a semicerchio.
Sembra che indichino un mondo in cui la vita di noi quattro è scomparsa per sempre, e le cose non sappiano che urlare della nostra assenza.
Remus si abbandona pesantemente su una di esse, e la sento cigolare lievemente. Fruga nella tasca del pastrano grigio cenere ed estrae la sua bacchetta magica. Mormora una formula che non ricordo di aver mai imparato ad Hogwarts, e riesce ad evocare una bacinella semi evanescente nella quale si agita un impalpabile liquido argenteo.
"Scusami, Sirius" dice in tono spiccio scostandosi una ciocca di capelli ingrigiti dal viso "Ci ho messo tutto quello che ricordo, anche ciò che mi avevi raccontato su di te prima di conoscerti. Se sei stato onesto non dovrebbero esserci problemi e potrò aiutarti”.
Ascolto a malapena quello che dice. Io devo ricordare, a costo di strappargli la bacinella dalle mani e tenerci la testa infilata dentro per settimane.

Mi inarco sul Pensatoio e contemplo inebetito il dolce flusso di fumo fittizio che si contorce all'interno. L'aroma è lieve, leggero. Rimango piacevolmente colpito dalla quantità dei ricordi di Remus. Gli rivolgo uno sguardo avido e lui mi ripaga con una domanda silenziosa.
Mi sento come in una galleria di specchi, dove un numero illimitato di ricordi si rincorrono, si infrangono, si moltiplicano.

"Si, Remus, cominciamo".

  
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