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Autore: emily colburn    07/04/2011    2 recensioni
Perché erano insieme. E tutto il resto del tempo non contava.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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terzo giorno.





C’era troppo fumo in quello sgabuzzino di uno squallido angolo di Los Angeles. Delilah e i ragazzi bevevano birra ascoltando le persone parlare, piangere, urlare. Un piccolo televisore trasmetteva in diretta la partita di basketball. A Delilah non piaceva molto, infatti aveva dato appena una rapida occhiata, giusto per notare che una delle squadre era quella dei Chicago Red Bulls.
Quella giornata era trascorsa in fretta, tra la ricerca di un maglioncino e la decisione di mettere tutti insieme il naso fuori casa. Erano andati in quel posto perché ci lavorava la tipa bionda dell’entrata 39 con cui Declan se la faceva. Per cui spinti dall’amico più che dalla voglia di vedere un po’ d’amore sbocciare – o istinti sessuali primitivi – erano stati trascinati in quel bar, dove non c’era né musica, né birra accettabile. Comunque, si disse Delilah, sempre meglio che rimanere a letto e sperare che non cadano giù i muri – quelli degli appartamenti, quelli delle persone. Si era messa un semplice paio di jeans, una maglietta dei Led Zeppelin e una felpa sopra. Quando si era guardata allo specchio si era domandata: Ma con che occhi mi guardavi? Non sono mai stata bella, amore.
Respirò profondamente.
Una volta aveva letto che l’olfatto era il senso che più riportava alla mente il passato. E mentre l’odore di fumo e alcool le forava i polmoni, Delilah perse gli occhi nel suo boccale di birra.
 
La notte e l’Oklahoma. La polvere della strada già tracciata, chissà quante volte percorsa, da loro mai, da loro che andavano avanti macinando chilometri con quel furgoncino della Volkswagen, con i Clash che minacciavano l’autorità, qualunque essa fosse, ché loro, come i Clash, erano liberi, senza confini, senza catene, senza nulla a tenerli coi piedi per terra se non qualche notte troppo calda che non li faceva dormire, e allora un po’ si tornava indietro ai giorni che furono, quando nessuno di loro si conosceva, quando nessuno di loro voleva conoscere neanche sé stesso, ma erano dei ragazzini persi tra stati federati, col cuore a mille miglia di distanza da casa, vagabondi sul loro stesso letto e nelle pieghe della mente, vagabondi senza patria né origini.
Si erano fermati in un bar che sembrava un saloon per riprendere fiato. Fuori, la notte, era ancora troppo calda.
«Sono la prostituta della musica!»
«Evitiamo di fare troppo casino, Razor, a meno di non voler finire sulla sedia elettrica, ovvio.» James fece una smorfia mentre parlava. Odiava l’Oklahoma.
«Non si poteva fare un altro giro? Dobbiamo per forza attraversare la Bible Belt per arrivare a New Orleans?» Fece Declan mentre si accendeva una sigaretta. Non sapevano se fosse vietato fumare. Ma tutti i vecchi che erano là dentro a bere scotch fumavano che era una meraviglia.
«Daaai, ragazzi.» Sospirò Johnny. «Tutto questo odio nei confronti della Bible Belt! Che avrà mai fatto?»
«Non so, amore. Mmm. Vediamo. Ha tipo bandito il rock ‘n’ roll, cercato in tutti i modi di uccidere i Rolling Stones, di mettere in galera i Doors e... devo continuare?»
«Sei troppo prevenuta. E vieni dal Wisconsin, il che è tutto dire.»
«Lascia in pace il Wisconsin!»
«Senti, amore. Ricordiamoci che la Bible Belt ha sfornato i miti del rockabilly. Non mi pare un posto tanto male, no?»
«Certo che no. Vendono buone droghe, giusto?» Disse Delilah con una tale cattiveria da lasciarlo senza parole.
Da lasciarsi senza parole.
Prese fiato ma le tremavano le mani per la rabbia.
Prese fiato ma si sentiva come se non le bastasse aria, ora che era affondata nell’immagine di lui, qualche giorno prima, vicino ad Austin, accasciato accanto al lavandino e polvere bianca tutto intorno, polvere bianca che ti ostruiva i polmoni e gelava il sangue nelle vene come la neve – e tutto era bianco, bianco, bianco.
Prese fiato e si rese conto che non poteva.
E allora guardò Johnny per cercare un po’ di conforto.
E allora guardò Johnny e le si strinse il cuore come ogni volta che lo vedeva, come ogni volta che lo baciava e gli sfuggiva l’anima sulle sue labbra, come ogni volta che lo toccava e non c’erano più confini che tenessero.
«Questa birra fa schifo», disse lei abbassando gli occhi. «E sono stanca. È tutto il giorno che viaggiamo. Ho bisogno di dormire.»
«Adesso ce ne andiamo, ok?» Annuì Jimmy.
Ma nessuno si alzò. Aspettavano.
 Poi Johnny disse: «C’è un jukebox.»
Tutti alzarono lo sguardo verso il preciso punto che lui stava segnando. Dietro il bancone, ben nascosto, c’era un jukebox anni ’50. Era rosso e color crema, la luce creava qualche ombra e il vetro rifletteva tutto. Sorrisero. «Dite che possiamo usarlo?» Domandò Declan.
Johnny schioccò la lingua. «Ma che domande sono, New Jersey? Siamo o non siamo i fottuti Reckoners?» Delilah si schiarì la voce. «Più la mia donna super sexy, ovviamente. Possiamo fare tutto!»
Si alzò e prese Delilah per mano, si avvicinarono al bancone insieme e Johnny le chiese scusa, le disse giuro che la smetto con questa merda, giuro che la smetto.
«Hey, amico, lo possiamo usare quel jukebox?»
L’omone davanti a loro che stava asciugando un bicchiere grugnì una risposta. Sembrava un sì. Per cui si avvicinarono, Johnny tirò fuori una moneta da 25 cents, quindi prese a leggere i titoli delle canzoni.
«Oh.»
«Cosa?» Delilah allungò il collo per poter vedere cosa lo stesse destabilizzando. Probabilmente c’erano solo canzoni da chiesa.
Johnny rise e si rivolse ai ragazzi che li aspettavano seduti sul loro tavolino. «Hey, non immaginate cosa ci sia», urlò. Qualche vecchio si voltò nella sua direzione e strabuzzò gli occhi, forse perché a vederlo, uno come Johnny, faceva un male cane. Forse perché vederlo parlare di musica era una cosa che andava oltre tutto e non aveva definizioni.
Johnny Razor. Uno che se lo vedevi non ti veniva da pensare a nient’altro se non che era la cosa più bella al mondo. Non ti veniva da pensare se era felice o triste o preoccupato per il riscaldamento globale, niente. Lo guardavi e pensavi che non c’era nient’altro oltre.
Elencava nomi, in quel momento, con gli occhi chiari di metallo che sembravano perdersi tra le parole, un bimbo ramingo alla scoperta di mondi eccezionali. «Elvis Presley, Johnny Cash, le Chordettes, Little Richards, i Platters, Paul Anka, gli Everly Brothers... »
«Buddy Holly?» Chiese Delilah.
Lui alzò lo sguardo sul suo e non ci furono più niente se non i suoi occhi che erano musica.
«That will be the day», le disse. Poi si girò dai ragazzi e disse ad alta voce: «That will be the day?»
«Diavolo sì!» Urlò Declan facendo ridere qualcuno.
Johnny schiacciò il tasto 0 e poi il tasto 5.
Well that’ll be the day when you say goodbye...
Delilah continuava a guardarlo. E si chiese: Ma come puoi? Ma come puoi cambiare così le persone, farle pensare a tutt’altro, cancellare ogni impronta che hanno lasciato sulla neve - tutto bianco, bianco, bianco, le uniche impronte che riusciamo a lasciare - , come puoi? Come puoi sconvolgere le persone e creare rivoluzioni e rompere argini che sono confini? Come puoi?
Perse un battito quando lui parlò:
«Non andartene.»
«Come?»
«Non andartene. Non fare che quel giorno sia questo giorno. Non lasciarmi adesso.»
Delilah respirò come si respira quando fuori c’è tanta neve, e piano gli si avvicinò fino ad abbracciarlo. «Non essere stupido. Non ti lascio. Ti sto accanto. Ti tengo la mano. Sei mio marito. E io sono tua moglie. Ti amo.»
E Johnny la prese per la vita e si misero nello spazio tra due tavoli di quel bar che poteva essere un saloon e mentre i Reckoners cantavano assieme a Buddy Holly e i vecchietti li guardavano divertiti, si misero a ballare. Stretti l’uno contro l’altro, le mani unite come in una vecchia canzone dei Beatles, a occhi chiusi.
Well that we’ll be the day.
 
«Sentite, ne ho le palle piene, me ne torno a casa.» Annuirono tutti senza neanche rivolgerle la parola, per cui Delilah si alzò e uscì col buio della notte.
Camminò veloce con il freddo che entrava dentro la schiena e la faceva tremare e lei pensava di aver bisogno di scosse come quelle, per vivere, scosse del mondo, capaci di sovvertire i sistemi della terraferma, scosse dello sguardo che lui rivolgeva a lei, e allora Delilah pensava per favore, guardami, vorrei che tu potessi guardarmi solo un’altra volta, guardami e io saprei che è l’ultima, guardami per farmi capire che sono viva, che posso andare avanti, che posso togliermi queste mie stesse manette.
William Blake scriveva di gabbie del pensiero. Delilah riteneva che non ci fosse nulla di più azzeccato.
Ricordava il funerale, in quel momento. Ricordava: Sia fatta la tua volontà, e allora lei pensava ma la volontà di chi?
Sia fatta la tua volontà.
Sia fatta la tua volontà.
Sia fatta la tua volontà.
Le tornava spesso in mente.
E quando le tornava in mente - sia fatta la tua volontà -, di solito si sentiva soffocare, come quando avrebbe voluto urlare contro sua madre, ben consapevole che lei non l’avrebbe ascoltata, e così parole, aria, le rimanevano incastrate in gola, con Delilah che non poteva fare altro se non cementare ancora di più una vita senza rami e senza radici, una vita che non poteva avere futuro, perché non aveva mai avuto un passato. Delilah si era sempre domandata, nelle notti in cui sognava di andare via per andarsene e basta, come sarebbe potuta germogliare quella piantina che era la vita se lei non aveva mai avuto il coraggio di uscire fuori che è freddo e piantarla, e bagnarla ogni giorno, e curarla passo dopo passo, fino a vederla crescere, splendere in tutta la sua bellezza. Come avrebbe potuto averlo questo dannato futuro senza aver piantato quel seme che era il passato?
Erano domande che spesso si era posta e alle quali mai, neanche una volta, aveva trovato risposta. Per cui aveva preferito ignorarle. Le accadeva spesso di semplicemente dirsi di smetterla. Certe cose non poteva pensarle, sennò ci usciva matta.
Ad esempio.
Vicino casa sua, nel Wisconsin, c’era una vecchia stazione ferroviaria. Due soli erano i binari e due sole erano le direzioni dei treni. Una verso sud-est, vero Chicago, e una verso sud-ovest, verso la California. Nessuno prendeva i treni verso la California. Tutti andavano verso Chicago, dove c’era lavoro, dove c’era verde, dove c’era umanità. Tutti andavano a Chicago perché avevano qualcosa da fare. E spesso Delilah – che su quei treni non ci era mai salita – si sentiva come se lei lo sapesse, di dover prendere quel treno verso Chicago, quel treno che tutti prendevano, eppure di trovarsi sul binario opposto, quello che andava verso la California, quello che nessuno prendeva. Non era un bel pensare. Non la aiutava in niente. La faceva sentire semplicemente estranea al mondo e con nessuna intenzione di farci parte. Ma, probabilmente, non di tutto il mondo. Del Wisconsin. Di casa sua. Di sua madre e suo padre che non c’era mai stato. Di sua madre che non parlava con lei. Dei suoi ricordi di bambina, di quei piccoli episodi quotidiani che avrebbe voluto raccontare alla madre, perché per lei erano grandi avventure, ma che non era mai riuscita ad esprimere perché veniva zittita, o perché sua madre non aveva tempo, aveva altro da fare, doveva mandare avanti la fattoria di famiglia e una bambina, tutto da sola.
Sia fatta la tua volontà.
La chiesa di quel paesino sulle rive del Michigan era fatta in legno verniciato di un bianco da farti male agli occhi, quando c’era sole e l’azzurro sembrava risucchiare pensieri felici. Delilah non credeva in Dio. La madre di Delilah non credeva in Dio. Eppure andavano in chiesa perché ci andavano tutti – tutti salivano sul treno verso Chicago, ma Delilah sentiva di essere sul binario che andava verso la California.
Si inginocchiavano e a Delilah bruciavano le carni mentre il prete parlava e loro pregavano, e le loro parole salivano verso quel cielo azzurro che sembrava risucchiare pensieri felici, Delilah pregava, parlava e per una volta non veniva zittita, ma non era con quel Dio che voleva parlare, senza offesa per il Dio, non era a lui che voleva raccontare di come aveva fatto le treccine a Jodie, che era la sua bambola preferita. Voleva una madre. Voleva quella madre che in quel momento diceva: Sia fatta la tua volontà. Quella madre che tornava a casa stanca, mentre Delilah disegnava sul suo quadernino di scuola le pecore e ad ogni pecora metteva un numero. Quella madre che aveva capelli rossi che sapevano di buono e quant’era bello potersi accoccolare nell’incavo del suo collo durante la notte fredda, senza stelle, con gli incubi incastrati come nodi tra i capelli.
Sia fatta la tua volontà.
Una volta era tornata a casa da scuola, aveva sette anni e doveva raccontare alla nuova classe del lavoro dei suoi genitori. Delilah aveva chiesto alla madre che lavoro facesse suo padre. La madre non aveva risposto.
Ma che cos’è un padre?
E sua madre aveva risposto con una parola bruttissima, che Delilah non conosceva, ma sentiva nel suono che era bruttissima. Per cui ogni volta che in chiesa sentiva che Dio era Padre le veniva sempre in mente quella parola bruttissima di cui non sapeva il significato, ma che di sicuro a quel Dio che era Padre non sarebbe mai piaciuta.
Ma d’altronde, neanche a lei piaceva la sua volontà.
 
 
***
 
«E’ innamorato», disse Marcus. «Io lo so. Lo sapeva anche Razor. E’ innamorato di Delilah.»
Declan sospirò e si passò una mano sul volto, stanco. «Ma cosa ne sai, Marcus. Anche io sarei corso fuori, adesso. Non l’avrei lasciata tornare sola a casa. Non è un bel posto, questo.»
«Ma non l’hai fatto. Non ti sei alzato subito. Non le hai chiesto se avesse freddo, quando siamo usciti di casa.»
«Amico, la smetti con queste cazzate?»
«Jimmy è innamorato di Delilah.»
«No che non lo è.»
«Dex, senti. Nessuno ne vuole parlare, di Razor.»
«Ecco, bravo, hai centrato il punto.»
«Ma ti ricordi cos’è successo prima che...- prima?»
«Sta’ zitto, Marcus.»
«Jimmy voleva dire a Delilah la verità. A tutti i costi. Voleva che lei sapesse.»
«Aveva il diritto di sapere.»
«Già. Eppure noi non abbiamo fatto niente.»
«Si trattava di Razor, merda!» L’aveva urlato. Gli occhi chiari di Declan erano iniettati di sangue, aveva la fronte imperlata di sudore e gli batteva forte il cuore.
«Appunto. Si trattava di Razor», riprese Marcus con tutta calma, quando qualche istante dopo lo vide buttar già un sorso di birra. «E noi non avremmo neanche mai pensato di andare contro Razor. Per una rompipalle come Delilah, poi.» Silenzio. «Ma Jimmy voleva farlo. Jimmy stava per andare contro Razor per liberare Delilah.»
Declan non lo guardava. Con un dito percorreva il bordo del bicchiere ormai vuoto. Ricordava gli ultimi giorni, prima della fine. Ricordava e non poteva farci niente.
«Ma alla fine non è andato contro Razor», era stato un soffio, quello di Declan.
Marcus sorrise sornione. «Certo che no. Si trattava di Razor, amico. Come potevi andare contro Razor? Io non c’andrei neanche adesso.»
Rimasero per un po’ zitti. Poi Declan tossì. Tossì ancora. E un’altra volta, dopo. Marcus ci impiegò un po’ a capire cosa stesse succedendo. Ma capì. Rideva.
«Cosa c’è?» Domandò. Si chiese se ridesse per i discorsi assurdi e super filosofici che era in grado di fare quand’era brillo. Ma non poteva essere, doveva esserci abituato.
E infatti Declan rispose: «Niente. Mi è venuta in mente una cosa che quel bastardo m’ha detto.» Quel bastardo era Razor, si rese conto Marcus. Era Razor perché Declan aveva la voce rotta come se volesse piangere, come se avesse la testa infilata dentro un sacchetto di plastica.
«E cosa t’ha detto, quel bastardo?»
Dex riprese fiato e si guardò intorno, perché a vedere occhi – a vedere vita – non era sicuro di farcela. «Mi ha detto – cominciò – che avrebbe voluto rompere i coglioni anche da morto. Mi ha raccontato la storia di questo matematico dell’antica Grecia, uno con un nome assurdo, sai che nomi si davano quelli, santo cielo, come se la storia non fosse già abbastanza difficile senza dover imparare nomi simili. Comunque mi ha detto di questo matematico, che non felice di aver confuso i suoi discepoli, in vita, alla sua morte, sulla lapide, non si fece incidere la data di nascita e quella di morte. Si fece incidere un indovinello matematico per così scoprire l’età in cui era morto. In questo modo avrebbe voluto rompere i coglioni, Razor. Come questo matematico. Che per secoli ha rotto a coloro i quali volevano scoprire la sua età.» Rise ancora e Marcus sorrise.
Poi pensò bravo, Razor. Stai rompendo i coglioni a tutti.
 
***
 
La mezzanotte si stava avvicinando. James era tornato a casa assieme a Delilah, ma non si erano detti una parola. Lui le aveva detto solo: Sto invecchiando, non ho voglia di uscire. E lei aveva risposto solo: Benvenuto nel club.
Erano tornati a casa con un taxi e aveva pagato lui.
Poi lei era andata nella camera di Johnny e lui in quella che divideva con Declan. Marcus di solito dormiva sul divano, a meno che non fosse troppo ubriaco, a quel punto si sdraiava direttamente sul pavimento.
La mezzanotte si stava avvicinando e gli venne un pensiero, uno di quelli che gli venivano da bambino, come quella notte, che non riusciva a dormire. Pensò che era quasi mezzanotte e lui sarebbe morto. Non sapeva perché, non aveva mai trovato la ragione di una sua improvvisa morte. Ma era certo che, ecco, quella notte lui sarebbe morto. Non ci poteva fare nulla. E a nessuno sarebbe importato.
James chiuse gli occhi, forte, e si disse che ai Reckoners, una volta, sarebbe importato. Perché era il loro chitarrista. Ma adesso. Adesso non c’era Razor. E non c’erano i Reckoners. E nell’altra stanza c’era solo Delilah. E lui sarebbe morto, sarebbe morto solo, senza nessuno che se ne accorgesse.
Senza nessuno che dicesse Indelebile, lui sarà indelebile; e poi buttasse le ceneri della sua chitarra in mare. E il mare non si sarebbe incazzato. E il tempo non sarebbe stato sconvolto. James sarebbe morto senza lasciare impronte, neanche di quelle che si lasciano sulla neve. La neve del New England era sciolta. La sua infanzia era sciolta. La sua giovinezza era sciolta. Lui stava per diventare adulto, ma sarebbe morto, perché era quasi mezzanotte, e lui era solo, e lui non riusciva a dormire, quindi che motivo davvero c’era di vivere ancora? Sicuramente la sua vita sarebbe finita lì.
Mancava un minuto a mezzanotte.
E poi, mentre sospirava – l’ultimo sospiro? – capì.
Era così morto da essere vivo.
 
 
 
 
 
 
un paio di spiegazioni, poi passo a blaterare. sono la prostituta della musica, lo diceva il grande freddie mercury. e il matematico di cui parla declan è diofanto di alessandria, se non sbaglio.
 
ed ecchime qua dopo quasi un mese d’assenza – ma lo sapete che io ci impiego secoli ad aggiornare.
ora. questo capitolo, oltre ad essere stato letteralmente un parto plurigemellare, è più corto dei precedenti, se notate. e babbe’, non ci posso fare niente. non sono io che controllo i miei personaggi, son loro che mi dicono quel che devo scrivere, non prendetevela con me.
ultimamente, poi, sono un po’ a corto di parole. per cui, non so come ringraziarvi per le vostre, di parole. che per me son poesia.
l’altro giorno pensavo proprio a voi. e mi è venuto in mente questo giochino – oddei quanto son demente. allora. in pratica, ad ogni fine di capitolo vi farò una domanda, poi chi ha voglia di rispondere - attraverso messaggio privato o recensione - e di soddisfare la mia curiosità bene, mi fa stra felice. chi no, pazienza, non me la prendo <3
per cui, la domanda di questo capitolo è: qual è la vostra canzone preferita? okok, se non preferita, qual è la vostra canzone del momento?
- ahahah, sì, mandatemi pure a quel paese, adesso. vi amo -

  
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