- terzo
giorno.
- C’era
troppo fumo in quello sgabuzzino di uno squallido
angolo di Los Angeles. Delilah e i ragazzi bevevano birra ascoltando le
persone
parlare, piangere, urlare. Un piccolo televisore trasmetteva in diretta
la
partita di basketball. A Delilah non piaceva molto, infatti aveva dato
appena
una rapida occhiata, giusto per notare che una delle squadre era quella
dei
Chicago Red Bulls.
- Quella giornata
era trascorsa in fretta, tra la
ricerca di un maglioncino e la decisione di mettere tutti insieme il
naso fuori
casa. Erano andati in quel posto perché ci lavorava la tipa
bionda dell’entrata
39 con cui Declan se la faceva. Per cui spinti dall’amico
più che dalla voglia
di vedere un po’ d’amore sbocciare – o
istinti sessuali primitivi – erano stati
trascinati in quel bar, dove non c’era né musica,
né birra accettabile.
Comunque, si disse Delilah, sempre meglio che rimanere a letto e
sperare che
non cadano giù i muri – quelli degli appartamenti,
quelli delle persone. Si era
messa un semplice paio di jeans, una maglietta dei Led Zeppelin e una
felpa
sopra. Quando si era guardata allo specchio si era domandata: Ma con
che occhi
mi guardavi? Non sono mai stata bella, amore.
- Respirò
profondamente.
- Una volta aveva
letto che l’olfatto era il senso
che più riportava alla mente il passato. E mentre
l’odore di fumo e alcool le
forava i polmoni, Delilah perse gli occhi nel suo boccale di birra.
-
- La notte e
l’Oklahoma. La polvere della strada già tracciata,
chissà quante volte percorsa,
da loro mai, da loro che andavano avanti macinando chilometri con quel
furgoncino della Volkswagen, con i Clash che minacciavano
l’autorità, qualunque
essa fosse, ché loro, come i Clash, erano liberi, senza
confini, senza catene,
senza nulla a tenerli coi piedi per terra se non qualche notte troppo
calda che
non li faceva dormire, e allora un po’ si tornava indietro ai
giorni che
furono, quando nessuno di loro si conosceva, quando nessuno di loro
voleva
conoscere neanche sé stesso, ma erano dei ragazzini persi
tra stati federati,
col cuore a mille miglia di distanza da casa, vagabondi sul loro stesso
letto e
nelle pieghe della mente, vagabondi senza patria né origini.
- Si erano
fermati in un bar che sembrava un saloon per riprendere fiato. Fuori,
la notte,
era ancora troppo calda.
- «Sono
la
prostituta della musica!»
- «Evitiamo
di
fare troppo casino, Razor, a meno di non voler finire sulla sedia
elettrica,
ovvio.» James fece una smorfia mentre parlava. Odiava
l’Oklahoma.
- «Non
si poteva
fare un altro giro? Dobbiamo per forza attraversare la Bible Belt per
arrivare
a New Orleans?» Fece Declan mentre si accendeva una
sigaretta. Non sapevano se
fosse vietato fumare. Ma tutti i vecchi che erano là dentro
a bere scotch
fumavano che era una meraviglia.
- «Daaai,
ragazzi.» Sospirò Johnny. «Tutto questo
odio nei confronti della Bible Belt!
Che avrà mai fatto?»
- «Non
so,
amore. Mmm. Vediamo. Ha tipo bandito il rock ‘n’
roll, cercato in tutti i modi
di uccidere i Rolling Stones, di mettere in galera i Doors e... devo
continuare?»
- «Sei
troppo
prevenuta. E vieni dal Wisconsin, il che è tutto
dire.»
- «Lascia
in
pace il Wisconsin!»
- «Senti,
amore.
Ricordiamoci che la Bible Belt ha sfornato i miti del rockabilly. Non
mi pare
un posto tanto male, no?»
- «Certo
che no.
Vendono buone droghe, giusto?» Disse Delilah con una tale
cattiveria da
lasciarlo senza parole.
- Da lasciarsi
senza parole.
- Prese fiato ma
le tremavano le mani per la rabbia.
- Prese fiato ma
si sentiva come se non le bastasse aria, ora che era affondata
nell’immagine di
lui, qualche giorno prima, vicino ad Austin, accasciato accanto al
lavandino e
polvere bianca tutto intorno, polvere bianca che ti ostruiva i polmoni
e gelava
il sangue nelle vene come la neve – e tutto era bianco,
bianco, bianco.
- Prese fiato e
si rese conto che non poteva.
- E allora
guardò Johnny per cercare un po’ di conforto.
- E allora
guardò
Johnny e le si strinse il cuore come ogni volta che lo vedeva, come
ogni volta
che lo baciava e gli sfuggiva l’anima sulle sue labbra, come
ogni volta che lo
toccava e non c’erano più confini che tenessero.
- «Questa
birra
fa schifo», disse lei abbassando gli occhi. «E sono
stanca. È tutto il giorno
che viaggiamo. Ho bisogno di dormire.»
- «Adesso
ce ne
andiamo, ok?» Annuì Jimmy.
- Ma nessuno si
alzò. Aspettavano.
- Poi
Johnny disse: «C’è un jukebox.»
- Tutti alzarono
lo sguardo verso il preciso punto che lui stava segnando. Dietro il
bancone,
ben nascosto, c’era un jukebox anni ’50. Era rosso
e color crema, la luce
creava qualche ombra e il vetro rifletteva tutto. Sorrisero.
«Dite che possiamo
usarlo?» Domandò Declan.
- Johnny
schioccò la lingua. «Ma che domande sono, New
Jersey? Siamo o non siamo i
fottuti Reckoners?» Delilah si schiarì la voce.
«Più la mia donna super sexy,
ovviamente. Possiamo fare tutto!»
- Si
alzò e
prese Delilah per mano, si avvicinarono al bancone insieme e Johnny le
chiese
scusa, le disse giuro che la smetto con questa merda, giuro che la
smetto.
- «Hey,
amico,
lo possiamo usare quel jukebox?»
- L’omone
davanti a loro che stava asciugando un bicchiere grugnì una
risposta. Sembrava
un sì. Per cui si avvicinarono, Johnny tirò fuori
una moneta da 25 cents,
quindi prese a leggere i titoli delle canzoni.
- «Oh.»
- «Cosa?»
Delilah allungò il collo per poter vedere cosa lo stesse
destabilizzando.
Probabilmente c’erano solo canzoni da chiesa.
- Johnny rise e
si rivolse ai ragazzi che li aspettavano seduti sul loro tavolino.
«Hey, non
immaginate cosa ci sia», urlò. Qualche vecchio si
voltò nella sua direzione e strabuzzò
gli occhi, forse perché a vederlo, uno come Johnny, faceva
un male cane. Forse
perché vederlo parlare di musica era una cosa che andava
oltre tutto e non
aveva definizioni.
- Johnny Razor.
Uno che se lo vedevi non ti veniva da pensare a nient’altro
se non che era la
cosa più bella al mondo. Non ti veniva da pensare se era
felice o triste o
preoccupato per il riscaldamento globale, niente. Lo guardavi e pensavi
che non
c’era nient’altro oltre.
- Elencava nomi,
in quel momento, con gli occhi chiari di metallo che sembravano
perdersi tra le
parole, un bimbo ramingo alla scoperta di mondi eccezionali.
«Elvis Presley,
Johnny Cash, le Chordettes, Little Richards, i Platters, Paul Anka, gli
Everly
Brothers... »
- «Buddy
Holly?»
Chiese Delilah.
- Lui
alzò lo
sguardo sul suo e non ci furono più niente se non i suoi
occhi che erano
musica.
- «That
will be
the day», le disse. Poi si girò dai ragazzi e
disse ad alta voce: «That will be
the day?»
- «Diavolo
sì!»
Urlò Declan facendo ridere qualcuno.
- Johnny
schiacciò il tasto 0 e poi il tasto 5.
- Well
that’ll
be the day when you say goodbye...
- Delilah
continuava a guardarlo. E si chiese: Ma come puoi? Ma come puoi
cambiare così
le persone, farle pensare a tutt’altro, cancellare ogni
impronta che hanno
lasciato sulla neve - tutto bianco, bianco, bianco, le uniche impronte
che
riusciamo a lasciare - , come puoi? Come puoi sconvolgere le persone e
creare
rivoluzioni e rompere argini che sono confini? Come puoi?
- Perse un
battito quando lui parlò:
- «Non
andartene.»
- «Come?»
- «Non
andartene. Non fare che quel giorno sia questo giorno. Non lasciarmi
adesso.»
- Delilah
respirò come si respira quando fuori
c’è tanta neve, e piano gli si avvicinò
fino ad abbracciarlo. «Non essere stupido. Non ti lascio. Ti
sto accanto. Ti
tengo la mano. Sei mio marito. E io sono tua moglie. Ti amo.»
- E Johnny la
prese per la vita e si misero nello spazio tra due tavoli di quel bar
che
poteva essere un saloon e mentre i Reckoners cantavano assieme a Buddy
Holly e
i vecchietti li guardavano divertiti, si misero a ballare. Stretti
l’uno contro
l’altro, le mani unite come in una vecchia canzone dei
Beatles, a occhi chiusi.
- Well that
we’ll be the day.
- «Sentite,
ne ho le palle piene, me ne torno a
casa.» Annuirono tutti senza neanche rivolgerle la parola,
per cui Delilah si
alzò e uscì col buio della notte.
- Camminò
veloce con il freddo che entrava dentro
la schiena e la faceva tremare e lei pensava di aver bisogno di scosse
come
quelle, per vivere, scosse del mondo, capaci di sovvertire i sistemi
della
terraferma, scosse dello sguardo che lui rivolgeva a lei, e allora
Delilah
pensava per favore, guardami, vorrei che tu potessi guardarmi solo
un’altra
volta, guardami e io saprei che è l’ultima,
guardami per farmi capire che sono
viva, che posso andare avanti, che posso togliermi queste mie stesse
manette.
- William Blake
scriveva di gabbie del pensiero.
Delilah riteneva che non ci fosse nulla di più azzeccato.
- Ricordava il
funerale, in quel momento.
Ricordava: Sia fatta la tua volontà, e allora lei pensava ma
la volontà di chi?
- Sia fatta la tua
volontà.
- Sia fatta la tua
volontà.
- Sia fatta la tua
volontà.
- Le tornava
spesso in mente.
- E quando le
tornava in mente - sia fatta la tua
volontà -, di solito si sentiva soffocare, come quando
avrebbe voluto urlare
contro sua madre, ben consapevole che lei non l’avrebbe
ascoltata, e così
parole, aria, le rimanevano incastrate in gola, con Delilah che non
poteva fare
altro se non cementare ancora di più una vita senza rami e
senza radici, una
vita che non poteva avere futuro, perché non aveva mai avuto
un passato.
Delilah si era sempre domandata, nelle notti in cui sognava di andare
via per
andarsene e basta, come sarebbe potuta germogliare quella piantina che
era la
vita se lei non aveva mai avuto il coraggio di uscire fuori che
è freddo e
piantarla, e bagnarla ogni giorno, e curarla passo dopo passo, fino a
vederla
crescere, splendere in tutta la sua bellezza. Come avrebbe potuto
averlo questo
dannato futuro senza aver piantato quel seme che era il passato?
- Erano domande
che spesso si era posta e alle
quali mai, neanche una volta, aveva trovato risposta. Per cui aveva
preferito
ignorarle. Le accadeva spesso di semplicemente dirsi di smetterla.
Certe cose
non poteva pensarle, sennò ci usciva matta.
- Ad esempio.
- Vicino casa sua,
nel Wisconsin, c’era una vecchia
stazione ferroviaria. Due soli erano i binari e due sole erano le
direzioni dei
treni. Una verso sud-est, vero Chicago, e una verso sud-ovest, verso la
California. Nessuno prendeva i treni verso la California. Tutti
andavano verso
Chicago, dove c’era lavoro, dove c’era verde, dove
c’era umanità. Tutti
andavano a Chicago perché avevano qualcosa da fare. E spesso
Delilah – che su
quei treni non ci era mai salita – si sentiva come se lei lo
sapesse, di dover
prendere quel treno verso Chicago, quel treno che tutti prendevano,
eppure di
trovarsi sul binario opposto, quello che andava verso la California,
quello che
nessuno prendeva. Non era un bel pensare. Non la aiutava in niente. La
faceva
sentire semplicemente estranea al mondo e con nessuna intenzione di
farci
parte. Ma, probabilmente, non di tutto il mondo. Del Wisconsin. Di casa
sua. Di
sua madre e suo padre che non c’era mai stato. Di sua madre
che non parlava con
lei. Dei suoi ricordi di bambina, di quei piccoli episodi quotidiani
che
avrebbe voluto raccontare alla madre, perché per lei erano
grandi avventure, ma
che non era mai riuscita ad esprimere perché veniva zittita,
o perché sua madre
non aveva tempo, aveva altro da fare, doveva mandare avanti la fattoria
di
famiglia e una bambina, tutto da sola.
- Sia fatta la tua
volontà.
- La chiesa di
quel paesino sulle rive del Michigan
era fatta in legno verniciato di un bianco da farti male agli occhi,
quando
c’era sole e l’azzurro sembrava risucchiare
pensieri felici. Delilah non
credeva in Dio. La madre di Delilah non credeva in Dio. Eppure andavano
in
chiesa perché ci andavano tutti – tutti salivano
sul treno verso Chicago, ma
Delilah sentiva di essere sul binario che andava verso la California.
- Si
inginocchiavano e a Delilah bruciavano le
carni mentre il prete parlava e loro pregavano, e le loro parole
salivano verso
quel cielo azzurro che sembrava risucchiare pensieri felici, Delilah
pregava,
parlava e per una volta non veniva zittita, ma non era con quel Dio che
voleva
parlare, senza offesa per il Dio, non era a lui che voleva raccontare
di come
aveva fatto le treccine a Jodie, che era la sua bambola preferita.
Voleva una
madre. Voleva quella madre che in quel momento diceva: Sia fatta la tua
volontà. Quella madre che tornava a casa stanca, mentre
Delilah disegnava sul
suo quadernino di scuola le pecore e ad ogni pecora metteva un numero.
Quella
madre che aveva capelli rossi che sapevano di buono e
quant’era bello potersi
accoccolare nell’incavo del suo collo durante la notte
fredda, senza stelle,
con gli incubi incastrati come nodi tra i capelli.
- Sia fatta la tua
volontà.
- Una volta era
tornata a casa da scuola, aveva
sette anni e doveva raccontare alla nuova classe del lavoro dei suoi
genitori.
Delilah aveva chiesto alla madre che lavoro facesse suo padre. La madre
non
aveva risposto.
- Ma che
cos’è un padre?
- E sua madre
aveva risposto con una parola
bruttissima, che Delilah non conosceva, ma sentiva nel suono che era
bruttissima. Per cui ogni volta che in chiesa sentiva che Dio era Padre
le
veniva sempre in mente quella parola bruttissima di cui non sapeva il
significato, ma che di sicuro a quel Dio che era Padre non sarebbe mai
piaciuta.
- Ma
d’altronde, neanche a lei piaceva la sua
volontà.
- ***
- «E’
innamorato», disse Marcus. «Io lo so. Lo
sapeva anche Razor. E’ innamorato di Delilah.»
- Declan
sospirò e si passò una mano sul volto,
stanco. «Ma cosa ne sai, Marcus. Anche io sarei corso fuori,
adesso. Non
l’avrei lasciata tornare sola a casa. Non è un bel
posto, questo.»
- «Ma
non l’hai fatto. Non ti sei alzato subito.
Non le hai chiesto se avesse freddo, quando siamo usciti di
casa.»
- «Amico,
la smetti con queste cazzate?»
- «Jimmy
è innamorato di Delilah.»
- «No
che non lo è.»
- «Dex,
senti. Nessuno ne vuole parlare, di Razor.»
- «Ecco,
bravo, hai centrato il punto.»
- «Ma ti
ricordi cos’è successo prima che...-
prima?»
- «Sta’
zitto, Marcus.»
- «Jimmy
voleva dire a Delilah la verità. A tutti i
costi. Voleva che lei sapesse.»
- «Aveva
il diritto di sapere.»
- «Già.
Eppure noi non abbiamo fatto niente.»
- «Si
trattava di Razor, merda!» L’aveva urlato.
Gli occhi chiari di Declan erano iniettati di sangue, aveva la fronte
imperlata
di sudore e gli batteva forte il cuore.
- «Appunto.
Si trattava di Razor», riprese Marcus
con tutta calma, quando qualche istante dopo lo vide buttar
già un sorso di
birra. «E noi non avremmo neanche mai pensato di andare
contro Razor. Per una
rompipalle come Delilah, poi.» Silenzio. «Ma Jimmy
voleva farlo. Jimmy stava
per andare contro Razor per liberare Delilah.»
- Declan non lo
guardava. Con un dito percorreva il
bordo del bicchiere ormai vuoto. Ricordava gli ultimi giorni, prima
della fine.
Ricordava e non poteva farci niente.
- «Ma
alla fine non è andato contro Razor», era
stato un soffio, quello di Declan.
- Marcus sorrise
sornione. «Certo che no. Si
trattava di Razor, amico. Come potevi andare contro Razor? Io non
c’andrei neanche
adesso.»
- Rimasero per un
po’ zitti. Poi Declan tossì.
Tossì ancora. E un’altra volta, dopo. Marcus ci
impiegò un po’ a capire cosa
stesse succedendo. Ma capì. Rideva.
- «Cosa
c’è?» Domandò. Si chiese se
ridesse per i
discorsi assurdi e super filosofici che era in grado di fare
quand’era brillo.
Ma non poteva essere, doveva esserci abituato.
- E infatti Declan
rispose: «Niente. Mi è venuta in
mente una cosa che quel bastardo m’ha detto.» Quel
bastardo era Razor, si rese
conto Marcus. Era Razor perché Declan aveva la voce rotta
come se volesse
piangere, come se avesse la testa infilata dentro un sacchetto di
plastica.
- «E
cosa t’ha detto, quel bastardo?»
- Dex riprese
fiato e si guardò intorno, perché a
vedere occhi – a vedere vita – non era sicuro di
farcela. «Mi ha detto –
cominciò – che avrebbe voluto rompere i coglioni
anche da morto. Mi ha
raccontato la storia di questo matematico dell’antica Grecia,
uno con un nome
assurdo, sai che nomi si davano quelli, santo cielo, come se la storia
non
fosse già abbastanza difficile senza dover imparare nomi
simili. Comunque mi ha
detto di questo matematico, che non felice di aver confuso i suoi
discepoli, in
vita, alla sua morte, sulla lapide, non si fece incidere la data di
nascita e
quella di morte. Si fece incidere un indovinello matematico per
così scoprire
l’età in cui era morto. In questo modo avrebbe
voluto rompere i coglioni,
Razor. Come questo matematico. Che per secoli ha rotto a coloro i quali
volevano scoprire la sua età.» Rise ancora e
Marcus sorrise.
- Poi
pensò bravo, Razor. Stai rompendo i coglioni
a tutti.
- ***
- La mezzanotte si
stava avvicinando. James era
tornato a casa assieme a Delilah, ma non si erano detti una parola. Lui
le
aveva detto solo: Sto invecchiando, non ho voglia di uscire. E lei
aveva
risposto solo: Benvenuto nel club.
- Erano tornati a
casa con un taxi e aveva pagato
lui.
- Poi lei era
andata nella camera di Johnny e lui
in quella che divideva con Declan. Marcus di solito dormiva sul divano,
a meno
che non fosse troppo ubriaco, a quel punto si sdraiava direttamente sul
pavimento.
- La mezzanotte si
stava avvicinando e gli venne un
pensiero, uno di quelli che gli venivano da bambino, come quella notte,
che non
riusciva a dormire. Pensò che era quasi mezzanotte e lui
sarebbe morto. Non
sapeva perché, non aveva mai trovato la ragione di una sua
improvvisa morte. Ma
era certo che, ecco, quella notte lui sarebbe morto. Non ci poteva fare
nulla.
E a nessuno sarebbe importato.
- James chiuse gli
occhi, forte, e si disse che ai
Reckoners, una volta, sarebbe importato. Perché era il loro
chitarrista. Ma
adesso. Adesso non c’era Razor. E non c’erano i
Reckoners. E nell’altra stanza
c’era solo Delilah. E lui sarebbe morto, sarebbe morto solo,
senza nessuno che
se ne accorgesse.
- Senza nessuno
che dicesse Indelebile, lui sarà
indelebile; e poi buttasse le ceneri della sua chitarra in mare. E il
mare non
si sarebbe incazzato. E il tempo non sarebbe stato sconvolto. James
sarebbe
morto senza lasciare impronte, neanche di quelle che si lasciano sulla
neve. La
neve del New England era sciolta. La sua infanzia era sciolta. La sua
giovinezza era sciolta. Lui stava per diventare adulto, ma sarebbe
morto,
perché era quasi mezzanotte, e lui era solo, e lui non
riusciva a dormire,
quindi che motivo davvero c’era di vivere ancora? Sicuramente
la sua vita
sarebbe finita lì.
- Mancava un
minuto a mezzanotte.
- E poi, mentre
sospirava – l’ultimo sospiro? –
capì.
- Era così morto da essere vivo.
- un paio di
spiegazioni, poi passo a blaterare.
sono la prostituta della musica, lo diceva il grande freddie mercury. e
il
matematico di cui parla declan è diofanto di alessandria, se
non sbaglio.
- ed ecchime qua
dopo quasi un mese d’assenza – ma
lo sapete che io ci impiego secoli ad aggiornare.
- ora. questo
capitolo, oltre ad essere stato
letteralmente un parto plurigemellare, è più
corto dei precedenti, se notate. e
babbe’, non ci posso fare niente. non sono io che controllo i
miei personaggi,
son loro che mi dicono quel che devo scrivere, non prendetevela con me.
- ultimamente,
poi, sono un po’ a corto di parole.
per cui, non so come ringraziarvi per le vostre, di parole. che per me
son
poesia.
- l’altro
giorno pensavo proprio a voi. e mi è
venuto in mente questo giochino – oddei quanto son demente.
allora. in pratica,
ad ogni fine di capitolo vi farò una domanda, poi chi ha
voglia di rispondere -
attraverso messaggio privato o recensione - e di soddisfare la mia
curiosità
bene, mi fa stra felice. chi no, pazienza, non me la prendo <3
- per cui, la
domanda di questo capitolo è: qual è
la vostra canzone preferita? okok, se non preferita, qual è
la vostra canzone
del momento?
- - ahahah, sì,
mandatemi pure a quel paese,
adesso. vi amo -