Questa
storia la dedico ai 50 membri del
mio gruppo su facebook,
ma
soprattutto ad Atopika, perché è persona saggia, buona e afrikaans.
Grazie a tutte.
Le storie di ieri
I poeti, che strane
creature,
ogni volta che parlano è
una truffa.
I
Matto
[Dietro ogni scemo c’è un villaggio]
Silenzio,
solitudine, pace: ecco com’era il suo piccolo caffè prima dell’apertura. Non
che dopo fosse frequentato, ma da tempo Eloisa aveva notato che i posti a
sedere diminuivano e i computer si riempivano di parole. Nulla la saturava di
tripudio come il rumore dei tasti, decisi e quasi stanchi, la vista delle
pagine bianche affollate di parole e di una frase ben scritta, una frase nata
dal cuore e concepita con la speranza. Qualcuno diceva che gli scrittori erano
gente stramba, con le loro manie; alcuni erano persino ubriachi e scrivevano i
loro best-seller con un bicchierino di vodka sul tavolo, macchiato in
precedenza da un buon piatto di spaghetti con il sugo, perché l’Italia era la
patria di poeti, di santi e di navigatori, e quindi aveva un filo logico, tutto
ciò, scrivere con l’Italia e per l’Italia, magari sperando che essa portasse
più fortuna del dovuto e di quanto in realtà loro si meritassero.
Eloisa aveva imparato,
a sue spese, che non era affatto semplice la strada per il successo; gli
agguati erano all’ordine del giorno e i raccomandati erano una razza assai
famosa all’interno dell’editoria. Eloisa aveva una forza diversa, una forza che
le impediva di fare il salto successivo. Eloisa, prima di tutto, era una donna
con poca pazienza e molta rabbia. Eloisa
aveva gli ingredienti essenziali per essere una brava scrittrice, ma aveva un
unico problema: non seguiva la massa.
Non parlava
d’amore – o forse non sapeva parlarne –
e aveva un’umiltà talmente umile da far raccapricciare anche i contadini.
Era Eloisa,
semplicemente una donna, una femminista,
una scrittrice. Perché lei non aveva smesso di scrivere, lei lo faceva per se
stessa; storie di ieri, storie
normali, storie che forse non interessavano a nessuno, storie che avevano un
loro perché; la mamma che culla suo figlio; il padre che si spacca la schiena
per portare il pane a casa; il bambino che corre nei prati, ancora ignaro della
morte e della fame; il neonato che strilla perché vuole la pappa, ma che poi
strillerà per uscire il sabato sera.
Dipendeva da
tante cose, persino lei stessa voleva ritoccare le sue abitudini, rendendole
magari più caratteristiche, fuori dal comune, ma il tempo era sovrano,
purtroppo, come cantava de André; ma più
ancora del tempo che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo.
Indugiò un po’,
prima di cambiare il cartello del suo caffè e aprirlo alla gente. Indugiò
perché voleva dedicare qualche minuto a se stessa.
E alle storie di ieri.
“Ci vuole qualcosa, ho bisogno di qualcosa, il
mio stato d’animo deve risollevarsi”,
e parlava da sola, come una pazza, perché dietro
ogni scemo c’è un villaggio.
Solitamente,
per risollevarsi intendeva trangugiare un’intera torta caprese;
quella con le uova, lo zucchero, il burro, le mandorle e il cioccolato – il fidanzato ufficiale delle
donne, che fossero depresse o no, non importava, il cioccolato era il cioccolato,
una leggenda e il balsamo per eccellenza, qualunque fosse la natura dell’emergenza,
il cioccolato l’avrebbe sempre risolta
– ecco, lei fissava la torta caprese, con sguardo laconico: il cioccolato non merita indugi né remore.
S’incamminò
verso la vetrinetta dei dolci, quasi saltellando, per quel giorno poteva
sgarrare: chi se ne fregava della dieta,
quando non si aveva un uomo a cui provvedere?
La estrasse e
ne tagliò una buona parte, posandola sul piattino, che teneva sempre bene in
vista – era un pezzo antico della collezione di sua nonna – dopodiché si
sedette sul suo divano, perché ogni scrittore – che si rispetti – aveva un suo
personale posto a sedere, nel suo caffè: questa era una delle tante stranezze.
I computer erano già accesi, i tasti erano in visibilio, la sua mente già
correva veloce, la concentrazione si
stava concentrando in un vortice di concentramenti.
[…] Ogni bene materiale di una persona rimane,
dopo la morte, ma i ricordi? Se li dimenticassimo? Se per sbaglio il nostro
Magazzino dei Ricordi – come lo chiama Stephen King – prendesse fuoco e a noi
non rimarrebbe nulla se non tentare di acchiapparli? Oggi ho
conosciuto una donna. Suo marito era morto, sua figlia si era persa, e lei era
demente. Che cosa ricorda questa persona? Un’intera vita cancellata. Vorrei
scriverci una storia, ma non posso speculare dietro le spalle di chi ha
sofferto tanto e molto, di chi ha perso davvero tutto, di chi ha smesso di
credere contro la sua volontà… […]
[…] La tristezza mi ha preso – perché?
Neppure la musica oggi mi consola – è già notte tarda, e non ho voglia di
dormire; non so cosa mi manca – e ho già più di vent’anni. Per chi non se lo
ricorda, questo è un pezzo della “Vita di Chopin attraverso le lettere”. Se
dovessimo descrivere la nostra vita attraverso le lettere, quale utilizzeremmo?
Lettere scarlatte? Saprebbero fare il loro dovere? Io credo di sì. Componiamo
lettere su lettere, dalle lettere nascono delle frasi, dalle frasi nasce un
romanzo – che a volte può non definirsi tale. Ma quando la tristezza ci
afferra, costringendoci a naufragare con lei, qual è l’alternativa valida? Che
cosa potrebbe salvarci? La vita non è altro che un susseguirsi di azioni già
viste, lettere già proferite, frasi usate… nessuno sa inventare, per questo
l’ultima spiaggia è rappresentata dal verbo “copiare”. Ecco, mi piacerebbe
parlare delle lettere. Ma dove le trovo ventiquattro persone costrette a
raccontarmi i loro cavolfiori solo per farmi sfondare? Appunto. Invento. A come
Atopica, la malattia. B come brutti, i sintomi. C come crudele, la vita. […]
[…] Vagli a spiegare che è primavera, e
poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera. De André. Un
poeta? No. Lui stesso definisce i poeti dei truffatori – ed io credo che abbia
ragione da vendere – semplicemente De André è un uomo che sa il fatto suo, che
nelle sue canzoni parla della realtà, vera o cruda, perché la realtà spesso non
è né una fan fiction né uno di quei bei romanzi a lieto fine, quelli che ti
danno speranze e poi te le rubano non appena riponi il libro in un vecchio
scaffale, perché poi, dopo aver bramato la stessa affinità tra i due pollastri,
devi fare i conti con qualcos’altro: la realtà. Lo dice anche il termine: ciò
che ha un’esistenza reale – complesso di ciò che è reale, vero e materiale.
Supponendo ciò, la vita è da accostare al termine realtà. Nella realtà è tutto
diverso. Puoi agguantare la felicità, cercarla per una vita intera, provarla
per pochi istanti. Ma ti renderai conto che dopo averla trovata, in fin dei
conti, non è altro che uno stato d’animo. E, come tutti gli stati d’animo,
passa, prima o poi. […]
Un rumore
sordo, un bussare sofficemente, la distolse dalla sua scrittura.
“Ma chi diamine
è, a quest’ora, mancano ancora quarantacinque minuti all’apertura!”, esclamò,
imbufalita.
Salvò i suoi
lavori – i suoi pensieri – e si avvicinò alla persiana, ancora abbassata, delle
finestre, ma vide chiaramente un uomo; doveva essere molto alto, più del suo
normalissimo 1,70 cm, perché non riusciva a scorgere la sua testa.
“Dannazione”,
solo in quel momento si ricordò del cartello che aveva appeso non poche ore fa;
aveva bisogno di un cameriere, qualcuno che si occupasse della clientela quando
lei aveva altro da fare.
Certo, Eloisa
non pensava che quello che si sarebbe ritrovato davanti, una volta aperta la
porta, fosse poco più che un ragazzino, un ragazzino che dimostrava molti più
anni di quanto lei stessa si aspettasse mai di contare.
“Buongiorno!
Sono qui per il lavoro di cameriere”.
Certo, Eloisa
non credeva minimamente che esistesse una voce talmente dolce da farle desiderare immediatamente una dose d’insulina,
possibilmente con un buon caffè amaro nelle vicinanze, tanto per raddoppiare la
dose e farle scordare quel fremito che oltrepassò il suo corpo quando udì miele su miele, una scorpacciata
involontaria di dolci.
S’infastidì
persino quando lui le tese la mano, mostrandone apertamente un palmo morbido e
ben curato, le unghie perfettamente limate e una pelle delicata che si otteneva
solo dopo aver passato chili di creme anti-età.
Eloisa pensò
che lui fosse gay, in effetti.
“Posso
entrare?”, le chiese, mordicchiandosi le labbra, abbastanza carnose.
“Certo”,
rispose, facendo una smorfia di disgusto.
Il ragazzo si
guardò intorno, rimanendo estasiato dai particolari ricercati con cui Eloisa
aveva basato l’intera esistenza del suo caffè; vi erano fotografie normali, gente
che s’incontrava per strada, ovunque, non una foto di signori benestanti, non
un ritratto di gente perbene, accanto a uno strano divanetto vi era addirittura
la foto di un carcere, forse di massima sicurezza, e lui si limitò ad annuire.
Poi lo vide; un
occhio gatteggiante, di un colore indefinito, arancione, castano, una sfumatura
cangiante e leggermente ipnotizzante.
Eloisa rimase
in silenzio, squadrandolo; preferì quasi infliggersi le pene più macabre,
anziché pensare a ciò che stava pensando spodestando i pensieri che lei avrebbe voluto pensare.
“Molto carino,
quell’occhio, riflette abbastanza quello di Sauron”.
Ironico, tagliente, velenoso, pungente; a Eloisa piaceva elencare degli
aggettivi quando conosceva una persona, ma quelle qualità che lei ritrovò in
lui – a parte l’ironia, salvo che non fosse autoironica – non le apprezzò.
“E’ il mio
occhio”, gli riferì, destreggiandosi tra alcuni scacciapensieri che teneva in
negozio – che evidentemente non funzionavano – e si diresse verso il bancone,
agguantando una delle Marlboro che teneva sempre bene in vista.
Lei era una fumatrice che non si
vergognava del suo status.
Accendendosela,
fregandosene altamente dell’opinione altrui, guardò il suo nuovo cameriere non ancora assunto – ma contò di farlo, ne aveva bisogno, lei odiava dipendere da qualcun
altro, ma Eloisa guardava in faccia la
realtà, ed essa era chiara e cristallina: necessitava di qualcuno. Punto.
“Nome, cognome,
anni, indirizzo, sii sincero, non avrai più di vent’anni”.
“Fabrizio
Jhonson, ventuno, abito qui vicino, non molto lontano da Hampstead, ma perché
vuoi il mio indirizzo?”, corrugò la fronte, maliziosamente, sbeffeggiando la
sfrontatezza di Eloisa.
Lei si avvicinò
piano, come un leone prima del balzo, giocando con la sigaretta tra le dita
senza farla cadere: odiava immensamente quando succedeva.
Fabrizio avvertì
quasi il fiato della donna sul suo collo; caldo e voglioso, lo incentivava a restare immobile, non
era possibile attuare un piano di fuga. Per un attimo, pensò di essere finito
in uno di quei film dove nei caffè vengono uccise le persone, dove quei
cartelli servono solo ad attirare poveri diavoli che cercano un lavoro,
onestamente.
Ma lui non era un ragazzo dabbene.
“Perché se
sparisse qualcosa, saprei dove trovarti”, soffiò Eloisa, schioccando la lingua
e guardandolo negli occhi; verde, le piaceva il verde, era libertà, prati
ancora non violentati, prati illibati, che aspettano una coppia di ragazzini
alle prese con le prime tempeste ormonali.
Fabrizio riuscì
a mascherare perfettamente il sarcasmo, che invece avrebbe voluto far
trasparire dal suo viso, ma era dedito al dandismo
– ostentava eleganza e raffinatezza, nonostante lui stesso fosse molto
restio a seguire le orme della sua famiglia – e ognuno dei suoi parenti gli
aveva insegnato che non era certo una buona idea mostrarsi apertamente a una
donna, specialmente a quelle che possedevano
le palle, e non da tennis né da golf.
“Allora, uomo
di lettere, dimmi qualcosa di te, perché io dovrei assumerti, ad esempio”, lo
spronò, indicandogli uno dei divani dove poter adagiarsi; la gente sproloquiava
meglio se seduta su un comodo e puffoso divano.
Fabrizio rimase
leggermente interdetto, anzitutto non sapeva spiegarsi l’accostamento a uomo di lettere – riferimento casuale a
Pinocchio? – quella donna parlava per enigmi, una datrice di lavoro più pazza
non poteva certo che trovarla lui; denudato
dai suoi fiori preferiti, adesso varcava le soglie di un nuovo giardino,
lussureggiante, forse, ma certo non migliore, apparentemente bello, ma si sa
che ciò che è bello fuori, può essere marcio dentro.
“Ho fatto il
factotum per un paio di mesi, ma mi sono reso conto che non mi apparteneva; ho
provato a studiare, ma mi sono reso conto che lavorare dà più soddisfazioni; mi
diletto in tutto, voce del verbo dilettare”,
tono ardente e gradevole, forse quel
ragazzo sprecava parole, ma erano parole ineccepibili,
proferite nell’esatto istante in cui dovevano fuoriuscire dalle sue turgide
labbra.
“Di tutto e di
più, in poche parole… sai servire ai tavoli?”, domandò, cominciando a
mostrargli l’intero locale, “qui, in questa vetrinetta, ci sono i bicchieri di
cristallo, mi raccomando”, lo fissò
intensamente, sperando di infondergli un po’ di fiducia ma al contempo anche un pizzico di severità – Eloisa odiava
i lavativi – “non sono ammessi bicchieri rotti. Odio i bicchieri rotti. Odio i
pezzi frantumati. Odio ripararli, perché non sempre le crepe possono
riaggiustarsi, non sempre basta la colla, e neanche il cemento armato”, concluse,
con gli occhi leggermente scuri e umidi; il problema di una ferita è che più
cerchi di disinfettarla, più ti duole, più cerca di ucciderti; il problema di
una ferita è che se non estirpi il veleno in tempo, lei ti annienta, e il veleno diverrà parte di te, facendoti desiderare di
rimanere zitella, fino a non
riconoscere il confine tra acido e normale.
Fabrizio – pur
essendo un essere di sesso maschile – comprese che c’era qualcosa che non
andava; rotti, pezzi, frantumare, quella donna doveva essere un po’ delusa dalla vita, a parere suo.
“Mi hanno detto
che in questo locale si scrive, è una bella trovata per fare soldi a palate”,
osservò.
Eloisa scosse
veementemente la testa, poi disse: “No, io non lo faccio per i soldi. Potrei
chiudere domani, ma ciò che mi dispiacerebbe è lasciare tutte le persone che
non hanno un minimo di fiducia in sé, per questo motivo rinunciano e
abbandonano il loro sogno, dopodiché dimenticano persino l’esistenza dei sogni;
vedi, i sogni sono come gli oggetti che riponiamo in soffitta, non ricordiamo
neanche di averli, li lasciamo lì, a prendere polvere e a essere divorati dai
tarli, è uno spreco, per questo tengo le sigarette bene in vista; potrei
dimenticarmi di fumare, ma non potrei mai dimenticarmi di essere stata una
fumatrice, in passato, lo stesso vale per i sognatori”.
Fabrizio
comprese che Eloisa era davvero matta.
La osservò meglio, quasi pensando di rigirarsela tra le mani, chissà qual era
il suo odore, il suo alito sapeva di caffè;
una fumatrice e bevitrice di caffè, pensò, non era davvero il suo ideale di
donna. Fisicamente forse sì; di sicuro
tra quei seni vi era un mondo da scoprire, e tra quei fianchi vi era una morbidezza
da baciare.
Si maledì da
solo per aver pensato sessualmente riguardo
alla sua – ancora incerta – datrice di lavoro; ma amava il sesso, come tutti
gli uomini, lo venerava, era nella sua lista delle cose da fare settimanalmente, come vedere il calcio e assistere
alla partita di golf di suo padre e del vicino sordomuto.
“Immagino che
tu non abbia mai lavorato in una caffetteria; scoprirai presto che questa non è
una normale caffetteria. C’è lo
scrittore delle nove, che pretende il
suo whiskey con ghiaccio, c’è quello delle dodici, che necessita del piatto di spaghetti con il sugo. C’è la scrittrice
bambina, che scrive favole e adora la cioccolata calda con le praline sopra, ma
anche la vecchietta rincoglionita che tenta ancora la fortuna; anche lei è da
stimare, la adoro, scrive delle lemon assolutamente
eccentriche, vagamente porno, ma con uno stile poetico, dovresti leggerne una”,
gli riferì con sguardo vacuo e sognante, conscia di voler riempire le sue
giornate con quella gente matta; dietro ogni scemo c’è un villaggio, Fabrizio
de André aveva sempre ragione.
“Uhm…”, Eloisa
arcuò entrambe le sopracciglia, spalancando la bocca, ma questo Fabrizio non lo
vide, poiché era intento a fissare gli oggetti d’antiquariato con cui doveva avere a che fare, “sei di origini
italiane, se non sbaglio, Fabrizio”.
Lui si girò, mostrandole
un aperto sorriso; dentatura bianca, perfetta, schifosamente curata dal
dentista almeno due volte il mese; che
spreco di soldi, pensò Eloisa, lei si
passava il tempo a lavarli tre volte il giorno, ma fumava – tantissimo, a
volte anche trenta sigarette – e beveva litri di caffè, l’unico eccitante che riusciva a eccitarla davvero, ormai.
“Mia nonna
aveva una vera e propria passione per il cantante, de André, e così mia madre
ha voluto farle questo dono”, le raccontò, passandosi una mano tra i capelli
biondo sporco, spettinandoli; affascinante,
forse quello era un tic, ma
assolutamente affascinante, di un fascino che ammalia e distrugge, che
danna e risolleva, che spazza e illustra
il tragitto esatto per il sesso.
Un antipasto d’alta classe, insomma.
“E tu ascolti diligentemente
le sue canzoni?”.
“Penso che il
Faber sia cantante di realtà, non di sogni, mi ha aiutato a comprendere molti
errori e ha rivoluzionato completamente il mio concetto di libertà e verità”.
Un uomo che ama il Faber, un uomo che ama
il Faber in Inghilterra, ma
allora perché lei sentiva odore di bruciato?
“Già,
concordo”, ansimò un attimo, prima di riprendere fiato e scacciare via i
pensieri infimi e blasfemi che il suo
cervello aveva partorito da quando Fabrizio aveva varcato la soglia del suo
caffè.
“Una settimana
in prova, dimostrami che vali ed io ti assumo; una settimana, non un giorno di più né uno in meno, l’importante è che tutti i cristalli di mia
nonna siano ancora vivi fino a lunedì prossimo, per favore”.
Lui si limitò a
fare un cenno disinteressato con il capo: aveva un lavoro e avrebbe fatto di
tutto pur di tenerselo.
“Vado a
scrivere qualcosa, prendi pure confidenza con il negozio, tra mezz’ora provvedi
a cambiare il cartello, metti quello con la scritta lascio ogni speranza a voi che entrate”, dopodiché Eloisa,
ancheggiando un po’, si sedette sul suo divano; sul suo tavolino vi erano delle tazzine vuote, con un tenue fondo di
caffè, e dei piattini che presentavano delle macchie – o tracce – di torta
caprese: i vizi di uno scrittore rimangono tali fino alla morte, l’ispirazione
nasce, l’ispirazione muore.
Fabrizio appurò
che quella donna non era solamente matta, ma anche ossessionata dalle sue stesse manie – allarmanti, forse – lo capì
perché lui era un ottimo scrutatore e un eccellente osservatore; amava approfondire la sua conoscenza
attraverso gli sguardi, con i baci non ci faceva molto, finiva a letto e il
sesso non era sempre come lo s’immaginava; sempre un gradino in meno di ciò che
bramava.
Eloisa, invece,
si strofinò gli occhi con il suo maglioncino giallo paglierino e affrontò
l’ennesimo tema spinoso e delicato.
[…] Il cielo riserva un posticino per chi
prega, cantavano Simon & Garfunkel, nella loro splendida Mrs Robinson. Io
penso che ognuno di noi dovrebbe rispettare tutte le religioni, ma anche chi
effettivamente non riesce a spingersi oltre e pregare; non è da tutti ricevere
l’assoluzione divina, comunque chi finisce all’inferno ha sempre un peccato da
scontare e chi finisce in paradiso ha sempre un rancore da serbare; in realtà
dopo la morte ci si annoia e basta. Credo che Dio non punisca se un giorno non
preghi, né il diavolo ti frusta se un giorno invochi il bene, ogni azione richiede
una buona dose di domande; da che parte vogliamo stare? Qual è il nostro posto?
Nella vita, ovviamente. Dopo la morte non c’è niente; unicamente peccati da
scontare e rancori da serbare. V’immaginate che quotidianità? Non c’è pace
sotto a un albero di fico, figurarsi da fantasmi. […]
[…] I maschi sono tutti dei figli di
puttana. Predicano bene, benissimo, ad asserire la verità, perché ti ammaliano,
ma noi dovremmo farli sudare, per conquistarci, non dargli campo libero, gambe
aperte e letto scoperto; nossignore, io mi rifiuto di essere etichettata come
ragazza semplice, e nessuna donna – che si rispetti, ovviamente – dovrebbe
seguire questo stupido esempio; fare sesso non è la strada giusta per
innamorarsi – anche se del buon sesso è la strada giusta per rimanere estasiati
e camminare su una nuvola rosa per almeno una settimana, fin quando lui non ti
scaricherà con un sms – la strada giusta per innamorarsi non esiste, forse
neanche parlare, serve, perché spesso capita di non comprendersi e di riuscire
difficilmente a connettere il cervello – causa magari un bel paio di tette
categoricamente finte o un paio di pettorali scolpiti da Michelangelo in
persona – quindi armatevi di buona pazienza, in fondo, ognuno di noi sa la
strada giusta, bisogna solo scoprirla. Ma non consigliatela alle altre, nessuno
è uguale, tutti abbiamo un gusto diverso. Ma i maschi rimangono dei figli di
puttana. Questa è la mia ultima parola sull’argomento. […]
“Ehi! Non sei
equa! Come fai a dire che noi siamo tutti dei figli di puttana, questa non è
scrittura, questo è sputare veleno!”, esclamò Fabrizio, sconcertato.
Eloisa scosse
la testa, scettica e piena di dubbi in merito; dov’era la parità tra uomini e
donne nel 2011?
“Noi siamo
sullo stesso livello, carne e sangue, non puoi giudicare gli uomini dei figli
di puttana, siamo composti dalla stessa sostanza!”, regredì leggermente quando
lei si alzò dalla sedia; aveva uno sguardo assassino,
simile a quello della bambola, solo ancor più inquietante.
“Io sono una femminista attiva”, sibilò
Eloisa.
“Io sono un
uomo, punto. E merito rispetto. Che
significa la tua risposta?”, infuriò un tornado di scambi di fiati a un
centimetro del suo naso.
“Che se ti
azzardi ancora a rivolgerti a me come a una stupida
esemplare di ochetta femmina, ti stacco le palle a morsi e le spedisco a un serial killer che se ne intende, di
organi”, diretta e abbastanza stronza e
concisa.
Lezione appresa. Senza aprire bocca o
fiatare.
Lo scampanellio
della porta interruppe quella che – disgraziatamente – sarebbe stata l’ennesima
discussione tra femmine contro maschi;
una guerra, una lotta che era iniziata miliardi di anni fa e che non si sarebbe
mai e poi mai – purtroppo – conclusa.
Christian
McQueen era un soggetto davvero unico, no, non raro, unico davvero; ricordava
Bob Marley, era un uomo devoto alla pace e all’amore libero – eterosessuale o
omosessuale – e rispettava con profonda riverenza gli stati che avevano
accettato di legalizzare le droghe leggere; emancipatevi
dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente.
Eloisa non
sapeva dire se lo facesse apposta, se avesse programmato in qualche modo il suo
carattere oppure se fosse davvero così; conosceva il metodo di scrittura di
Christian – era altamente improbabile che lui sfondasse e valicasse la soglia
degli scrittori stimati – ma le piaceva
leggere i suoi scritti, perché implicavano delle emozioni vere, non finte,
parole sincere, non ricercate, ideali liberi, non moralisti; Eloisa odiava gli
scrittori che tentavano di inserire una morale nel loro racconto, per questo lei
aveva imparato a scindere le due cose: opinione e manoscritto.
“Eloisa, cara,
un whiskey con ghiaccio”.
Quella scena si
ripeteva tutte le mattine, ma variava qualcosa; il tono della voce, poiché
anche Christian aveva i suoi momenti “no”, perché era umano, non era mica
un robot, quindi si comportava con lui seguendo la sua scaletta; tono secco –
fretta – tono buono – calma.
Ma, quel giorno,
fu Fabrizio a prendere le redini della situazione. Non lo conosceva, per quanto
poteva saperne, lui avrebbe potuto essere un assassino alla ricerca di donne docili, ma lei aveva fortunatamente
imparato qualcosa da suo padre; nessun
uomo devoto agli omicidi porterebbe un’orrida cravatta viola.
Quando la notò,
prima credé di ritrovarsi in uno di quei gialli di Agatha Christie, poi
cominciò a capire di doversi disaffezionare dagli ideali che suo padre le aveva
inculcato; se quell’uomo si fosse rivelato un assassino – un assassino degno del suo lavoro, però, non uno che provava
a imitare il rimpianto e defunto Freddy Krueger – avrebbe sicuramente
perseguitato suo padre dall’oltretomba, fino allo sfinimento.
Scorse il suo nuovo cameriere in giro per la sala,
districarsi perfettamente tra gli scacciapensieri, per poi fare un buffo giro
su se stesso, continuando verso la sua meta: il tavolo di Christian.
Era un
giocoliere? Era anche un giocoliere?
Aveva una doppia personalità o soffriva di bipolarismo?
Le storie di ieri, il caffè di Eloisa
Sparks; lei, la scrittrice con il deficit dell’attenzione, lui, il cameriere
bipolare: un’accoppiata certamente vincente.
“Tu! Ragazzo,
come ti chiami? Che diamine, Eloisa, un giorno e ti ritrovo qui un matto, ma ti ricordi, cosa diceva de
André, vero? Dietro ogni scemo…”.
“…c’è un
villaggio, signore. Mi chiamo Fabrizio. Il piacere è tutto mio, voi scrittori
siete l’anima del mondo, confido in voi e nel vostro buonsenso; sono stanco di
leggere di amorazzi e robe del genere, io voglio la gente che incontro per
strada…”.
“… che parla di
noi. E di com’è realmente che va la vita”, concluse Eloisa, leggermente basita.
Christian batté
le mani, felice, poi, in vena di complimenti, ripeté: “Sento molta energia
positiva, oggi credo di poter scrivere molto e molto bene, grazie del whiskey,
figliolo”, osservò attentamente il bicchiere, per poi rimanerne quasi estasiato, “come facevi a sapere dei
miei tre cubetti di ghiaccio?”, domandò, come se stesse assistendo a qualcosa
di paranormale.
Fabrizio fece
spallucce.
“Intuito, ma
non credo che c’entri qualcosa lo spiritualismo o cose così; mi capita spesso
di intuire ciò che desidera la gente”.
“E’ un dono,
ragazzo, un dono davvero raro, usalo con coscienza”, replicò Christian; i suoi
capelli, solitamente poco curati, erano stranamente lisci, quel dì, che avesse
un appuntamento con una donna?
Eloisa doveva
indagare, amava rapportarsi con altri scrittori; si scoprivano sempre dei nuovi
stili, perché ogni scrittore era a sé, con uno stile personale e che
difficilmente si ritrovava in altri scritti, quindi era logico supporre che lo
custodisse gelosamente.
Fabrizio ghignò
malvagiamente, inavvertitamente percepì l’assenza di ossigeno, in quella
stanza, le luci non giravano, ma la testa sì, vorticosamente; era un calo di zuccheri dovuto alla sua
scarsa fame mattutina, ma principalmente quel malessere proveniva dalla sua
famiglia: parenti serpenti.
Quello era il
suo nuovo lavoro; qualcuno l’avrebbe chiamato sguattero, volgarmente parlando, altri lo avrebbero definito uomo di fatica, forse coloro che si
reputavano nobili, ma lui si definiva dilettante,
perché avrebbe voluto davvero dilettarsi in tutto, in ogni più insignificante
hobby – anche se lui stesso dovette ammettere che ogni passione rimaneva una rispettosa passione – quindi si sarebbe
divertito, lì, in mezzo a quella massa di scrittori, che pazzi erano pazzi, ma
forse anche un po’ matti.
Ma de André
aveva davvero ragione, quando parlava di quel villaggio e di quello scemo, lui
intendeva che dietro ogni persona un po’ fuori di testa c’è qualcos’altro,
magari anche di magico e di primitivo, una fantasia notevole e una buona
capacità di intendere e di volere; da rispettare anche loro, perché prima di
tutto doveva esserci rispetto, rispetto per tutti: persone, animali, oggetti, piante.
Rispetto.
Che si stava
esaurendo, come lo scaldabagno, aveva
dichiarato apertamente di estinguersi entro dieci anni.
Se in quel
momento qualcuno gli avesse chiesto del rispetto, gli avrebbe illustrato
Eloisa; una bella ragazza, certo, ma strana, quel tocco che dà leggermente alla
testa, come il primo vino non ancora maturato, quello che riesce a stordirti ma
non a capovolgere completamente il tuo desiderio di restare sobrio; i capelli
rossi, come il fuoco, anzi, più del fuoco, quindi aveva i capelli di un rosso distintivo – ma dubitava altamente
fossero naturali, nessuno potrebbe avere quel gene – che si sposavano
perfettamente con gli occhi arancioni, castani, cangianti e gatteggianti.
Bella era
bella, matta era matta.
Ma lui aveva
diciotto anni. Lei aveva ventitré anni.
Già pareva udire le grida quando Eloisa
l’avrebbe scoperto; ma
confidava in de André, magari lui l’avrebbe convinta con le sue canzoni a non
licenziarlo.
Eloisa prestò
molta attenzione al susseguirsi delle scene che i suoi occhi scrutavano;
Fabrizio accoglieva – con moine molto ruffiane – ogni cliente che entrava nel
suo caffè, ma fin da subito lei capì che lui avrebbe sempre portato un grande
rispetto a Christian, forse perché erano simili, in fondo. Eloisa seppe che
Fabrizio non era il genere di maschio che passava le sue ore libere in
palestra, lo capì quando cominciò a sfogliare un libro dalla piccola biblioteca
che teneva accanto alla poltrona della signora Davenport – l’amante delle lemon
e del sesso – e quindi si augurò di non dover mai ricorrere ai ripari: anche
lui avrebbe voluto scrivere, un giorno?
Vi era qualcosa
di stranamente preoccupante in quel ragazzo.
Christian
McQueen non poteva definirsi in altro modo se non felice; udiva l’incessante
picchiettio delle dita che pigiavano le tastiere, esso rimbombava nella sua
testa, la riempiva di parole nuove, perché uno scrittore era anche questo:
inventiva e inventore.
In quel caffè,
tra la pace e l’amore verso un'unica passione comune, nacquero dei nuovi
sguardi tra la sua beniamina, Eloisa, e quel ragazzetto – che sicuramente non
aveva ancora compiuto i diciannove anni, pensò Christian – Fabrizio.
Li vide guardarsi,
ricercarsi, afferrarsi, moltiplicarsi;
perché nella loro testa erano già rimasti incinti.
La gioventù, pensò, disconoscono il rispetto e amano infrangere le regole.
Il rumore di un
calice infranto guerreggiò contro l’armonia.
Ahimè, chi la sente, Eloisa, adesso?
Precisazioni
dell’autrice;
·
Il titolo della storia è – ovviamente – una
canzone di de André: Le storie di ieri. Anche il capitolo è il titolo di una
sua canzone. Trovo molto interessanti i suoi testi – così reali, veri – che non
potevo esimermi dal chiamare il protagonista maschile principale Fabrizio. Ammetto di averci pensato a
fondo, mi piace. Quindi, a te, Faber. Grazie.
·
I poeti, che strane creature, ogni volta che
parlano è una truffa; il riadattamento di de André, in effetti, nell’album
Rimmel, di de Gregori, era: i poeti, che brutte
creature.
·
Ci sono spesso delle ripetizioni – chiaramente
volute – come ad esempio: la concentrazione si stava concentrando in un vortice
di concentramenti. Vorrei chiarire che è proprio il modo di pensare di Eloisa: è strana, lo so.
·
L’occhio di Sauron è una metafora alquanto simpatica, che dedico a Hyperviolet Pixie e a…
sì, a lui. Perché, in fondo, l’ha anche lui.
·
Un ragazzo dabbene; è un riferimento a William
Turner, ovvero Orlando Bloom in “I pirati dei Caraibi – la maledizione della
prima luna”, quando Elizabeth lo riferisce alla cameriera.
·
Il dandismo
fu un movimento culturale inglese del XIX secolo; vivere la vita come fosse un’opera d’arte. Lo ritroverete spesso in
Fabrizio.
·
“Un uomo di lettere”, è un non del tutto casuale riferimento a Pinocchio; quando la volpe,
avendo un libro tra le mani e porgendolo a Pinocchio, lo dice al gatto.
·
Il termine puffoso
– naturalmente – non esiste, ma adoro il suo suono, consideratela una
licenza poetica.
·
Un
antipasto d’alta classe, insomma. Citazione by Atopika, dopo aver
letto la prima stesura.
·
Lasciate
ogni speranza voi che entrate; Inferno, Canto III, vv. 1-9,
Dante, liberamente riadattata in funzione alla storia.
·
Emancipatevi
dalla schiavitù mentale, solo noi stessi possiamo liberare la nostra mente: Bob
Marley.
·
Tutte le altre citazioni sono spiegate
all’interno della storia – bene o male.
·
Che dire? Arriva il commento dell’autrice, adesso; questa storia è nata per sfidare me
stessa, ero leggermente stanca di parlare sempre di personaggi non miei, insomma, sentivo un bisogno
impellente di evadere da Harry Potter. Avrete capito che questa storia sarà
semplice per certi versi, e difficile per altri, ma non preoccupatevi: sono
sempre ben disposta a chiarire i vostri dubbi. Eloisa è
una donna che ha una sua opinione su tutto; spero di farvi divertire con le sue
interminabili seghe mentali. Incontrerete
molte persone, scrittori stravaganti, i genitori dei personaggi principali, ma
ricordatevi una cosa, per favore, un’insignificante particolare: non fatevi
ingannare mai dalla prima impressione, perché io gioco con le mie stesse
creazioni. Sono sadica. Se siete arrivate fin qui, vi stimo.
·
A
presto. Non aggiornerò giornalmente – magari – ma ritroverete molto presto il
secondo capitolo di questo folle parto.
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