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Autore: Kimberly Anne    11/04/2011    10 recensioni
«Per la trentaseiesima, sacrosantissima volta, Nardo: io quel Chiarolite non lo volevo neanche accettare! Avete finito di rompere le scatole, tutti quanti?»
Una terribile disgrazia sta per abbattersi sulla regione di Unima.
Ma gli Eroi non hanno alcuna intenzione di sventarla.
Direttamente da Pokémon Bianco e Nero: Unruly Heroes - Gli eroi che non avevano mai chiesto di diventare tali.
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, N, Nuovo personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Unruly Heroes' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Capitolo 3

Patti da Riscrivere

 

Kim aveva sempre odiato le gonne.

Strette, scomode, sempre troppo corte o troppo lunghe, necessitavano di un’attenzione costante ed erano delle infide traditrici, perennemente pronte a rivelare al mondo intero il tuo modello di mutandine.

Le odiava, le gonne.

Per anni, sua madre aveva cercato di convincerla a vestirsi in modo più femminile, regalandole ad ogni occasione gonne piene di balze e vestitini che sarebbero stati un amore indosso a una bambola di ceramica, ma Kim non aveva mai ceduto. Si era sempre opposta, aveva sempre trovato una scusa per non abbandonare i suoi pantaloncini, aveva sempre scalciato e urlato, pur di fare come pareva a lei.

Fino ad ora.

«Sei sicuro che non si veda nulla?» chiese, per la ventisettesima volta.

«Assolutamente sicuro.» rispose Lee, dimostrando una pazienza tale da poterlo fare Santo lì e subito. «Perfino N, con l’occhio lungo che si ritrova, dovrebbe praticamente mettersi a testa in giù, per sbirciare. Rilassati.»

Ma Kim non sembrava ancora molto convinta. Per sicurezza, tirò l’orlo della gonna un po’ più in basso, ottenendo solo che le spalline dell’abito scavassero un solco ancora più profondo nelle sue spalle, ormai arrossate e doloranti. «Dici?» chiese, ma qualunque risposta l’avrebbe lasciata insoddisfatta. «Continua a sembrarmi troppo corto.»

«È il più lungo che hai, Kim. Avanti, ti arriva al ginocchio, non è così scandaloso.»

Lei fece una smorfia. «Quasi al ginocchio. E poi, c’è sempre quello della nonna...»

«Quello è orribile. Non posso permetterti di indossarlo, non solo in quanto tuo migliore amico, ma in quanto essere umano

«Meglio! Se sarò troppo brutta per essere guardata, anche N mi lascerà in pace!»

Lee gonfiò una guancia. «Hai già dimenticato il nostro patto? Non puoi barare. E poi, per quello che vale, stiamo parlando di un maniaco: non gli importa dei tuoi vestiti, tanto vuole togl- »

«Non provare nemmeno a pensarlo! Mi farai andare nel panico!»

«Tanto lo sei già...»

«Allora non peggiorare le cose! Ho bisogno di uno specchio.»

Lee, con un punto interrogativo sulla testa, la guardò fiondarsi su per le scale, verso la sua camera.

Dannazione, pensò la ragazza, chiudendosi la porta alle spalle. Dannazione, dannazione, dannazione!

Li odiava tutti. N, sua madre, l’appuntamento, le gonne, tutta quella situazione. Non ce la poteva fare. Non sarebbe sopravvissuta a quella serata, non ce n’era alcuna possibilità.

Qualcosa di umido, morbido e caldo le si sfregò delicatamente sulla caviglia, facendola sobbalzare.

«Oh, Porchetta.» sospirò Kim, chinandosi ad accarezzare il suo dolce starter. «Vorrei tanto che bastasse il tuo nasino a consolarmi...»

Il pokémon le leccò la mano e poi vi spinse dentro la testa, forse per incoraggiarla, forse solo per richiedere un altro po’ di coccole.

Kim l’adorava.

Certo, avevano avuto le loro incomprensioni (più di una volta, Kim si era ritrovata ustionata malamente dopo qualche scaramuccia e, altrettante, Porchetta era stato lasciato per giorni “a riflettere” nella sua pokéball), ma le avevano sempre superate. Erano amici, compagni, ormai incapaci di vivere l’uno senza l’altra. Kim si sentiva legata a quel pokémon più che a qualsiasi essere umano. Era l’unico che, in qualunque situazione, rimaneva sempre dalla sua parte.

Lo prese in braccio, intenerita da quella dimostrazione d’affetto, e, nel girarsi, scorse con la coda dell’occhio la sua immagine riflessa nello specchio. Rimase di stucco.

La ragazza che rispondeva al suo sguardo sbigottito non era lei.

Certo, le assomigliava: i lineamenti, la costituzione, il colore dei capelli erano gli stessi, ma tutto il resto le era completamente estraneo.

La ragazza sciupata, impaurita e fragile, avvolta troppo stretta da un vestito rosa pastello, incerta nel reggersi su un paio di tacchi di pochi centimetri, non era lei.

Non poteva essere lei.

Sbatté un paio di volte le palpebre, cercando di cancellare quell’immagine irreale dalla sua retina, ma essa rimase lì dov’era, a fissarla con orrore.

Tenendo Porchetta stretto a sé con un braccio, sfiorò la superficie dello specchio con la mano libera.

Che cosa le stava succedendo? Perché era così spaventata?

Perché, questa volta, non riusciva a trasformare la sua paura in determinazione, progettando come al solito mille modi di mandare N al camposanto?

«Sai, Porchetta, io e Lee abbiamo fatto un patto, per quanto riguarda stasera.» disse piano, grattando il piccolo Tepig tra le orecchie, per rimetterlo poi a terra. «Uno di noi dovrà tenere occupato N, mentre l’altro cercherà di scoprire cos’ha in mente questa volta. Solo che nessuno dei due vuole stare troppo vicino a quello lì, capisci?»

Mentre parlava, Kim si liberò dell’abitino rosa e lo buttò per terra. Lo calpestò addirittura, mentre si affrettava ad aprire l’armadio ed iniziare a frugarci dentro.

«Quindi, vedi, non riuscivamo a trovare una soluzione. E anche lasciare la scelta al caso sarebbe stato troppo complicato: avremmo solo finito per lanciare una moneta in aria un centinaio di volte, senza arrivare a niente.»

Porchetta osservò la sua migliore amica umana infilarsi un paio di shorts neri e una maglietta senza maniche, dello stesso colore, fatta eccezione per le macchie di arancione che erano il disegno di un Tepig addormentato e la scritta sottostante: “Porchetta ♥”. Kim se l’era fatta fare qualche anno addietro, quando Lee aveva per la prima volta insinuato l’inutilità del suo pokémon, se lei non si fosse decisa a farlo evolvere.

Quando tornò davanti allo specchio, Porchetta emise un versetto di approvazione, a cui Kim rispose con un breve sorriso.

«Perciò, abbiamo deciso che ci affideremo alla fonte stessa del problema.» continuò la ragazza, anche se fu evidente nella sua voce una nota di nervosismo, mentre si legava i capelli nella solita coda di cavallo. «Ovvero N. Abbiamo concordato che il...»

Un ansioso bussare alla porta la interruppe.

«Kim, sei morta?» la chiamò Lee, dal corridoio. «Guarda che non vale chiuderti qui finché N non arriva, lo considererò forfait

Lei fece una smorfia. «Il pensiero non mi aveva nemmeno sfiorata. Arrivo tra un minuto.» mentì. Aveva pensato a quello e ad almeno altri ventiquattro modi di fuggire, nelle ultime due ore. Decisa a dire un altro paio di bugie, per farsi coraggio, stava anche per aggiungere che “lei, la parola forfait nemmeno la conosceva” e che “di certo, non si lasciava impaurire da un clown coi capelli verdi”, ma qualcosa la distrasse.

Il rumore come di un sospiro e una strana corrente d’aria, che le scompigliò un poco i capelli. Per un attimo si convinse che non era stato nulla. Dopo la visita di Archeops, tutto quello che era rimasto della finestra erano lo stipite e le tenda, perciò era normale che il vento s’insinuasse anche all’interno della stanza, di tanto in tanto.

Ma la sua tranquillità durò solo quell’instante che le servì a voltarsi, dopodiché svanì di botto, come una bolla di sapone scoppiata. Le sembrò quasi di sentirlo, quel ‘pop’ sbigottito.

In piedi sul davanzale della finestra, illuminato solo dalla pallida luce della luna. Con il suo solito sorriso, innocente solo all’apparenza. Il cappello, che teneva con la visiera così bassa. E quella spugna di Menger, che come sempre gli dondolava dalla cintura.

N.

Il cuore di Kim saltò un battito.

Il ragazzo si raddrizzò e rivolse lo sguardo verso di lei. «Ehi.» disse soltanto, entrando con un piccolo salto nella camera.

La prima reazione di Kim fu anche la più banale possibile. «Da... da... da quanto sei qui?» chiese, pregando che quella preoccupante semioscurità nascondesse almeno il rossore delle sue guance.

«Di certo troppo poco.» rispose N, dirigendosi tranquillamente verso di lei. «Perché, hai fatto qualcosa che non dovrei vedere?» aggiunse con malizia, un attimo prima di rischiare di inciampare nel vestito che Kim aveva abbandonato a terra. Lo raccolse, piacevolmente sorpreso. «Oh, questo sarebbe stato interessante.» commentò, fermando momentaneamente la sua avanzata.

Kim incrociò le braccia al petto, sulla difensiva. Il patto, pensò, sentendo la paura riemergere. Non è così che dovevano andare le cose. Sto praticamente perdendo a tavolino. Serrò ancora di più le braccia, cercando di contenere il nervosismo. Non voglio. Non è giusto.

«Sai, la gente normale entra dalla porta, di solito.» disse, ostentando una sicurezza che non aveva. «Anche se sembra un’abitudine che non avete né tu né i tuoi pokémon.»

«Ah, già.» disse N, rigirandosi tra le mani il vestito, come a volerlo esaminare. «Mi dispiace per l’incidente con Archeops. Gli avevo raccomandato di essere gentile, ma è ancora un po’ selvatico, che vuoi farci.»

Devo uscire di qui. Se riesco a tornare da Lee, ho ancora una possibilità.

«Beh, la prossima volta mandami un pokémon un po’ meno “selvatico”, grazie.» replicò, acida.

«Come desidera, mademoiselle.» acconsentì N, nonostante sembrasse ancora molto più interessato all’abito che non alla conversazione. Poi portò la stoffa rosata al viso ed inspirò.

Kim sentì un brivido percorrerla da capo a piedi. Forse non si trattava più solo del patto. Forse era davvero in pericolo, trovandosi da sola, in una stanza semibuia e chiusa a chiave, insieme al suo stalker personale.

Indietreggiò.

Con un sorriso soddisfatto, N lasciò l’abito e riprese ad avvicinarsi a lei, lentamente e con una tranquillità inquietante. «Sei nervosa, eh? Che dolce.»

«Non vedo proprio perché dovrei esserlo.» mentì nuovamente Kim, continuando tuttavia ad allontanarsi tanto quanto lui avanzava.

N ridacchiò. «E anche il fatto che lo neghi è così... adorabile. Sai, » aggiunse, tornando serio. «C’è una cosa buona dell’essere cresciuto con i pokémon.» Kim sentì il freddo della parete contro la schiena. Ma la porta, alla sua sinistra, sembrava ancora tremendamente lontana. N le si avvicinò sempre di più, fino a trovarsi a meno di un metro da lei. «Ho imparato a percepire le emozioni di chi mi sta intorno.»

Kim lanciò un’occhiata alla porta, pronta a scattare verso di essa qualora si fosse reso necessario, ma N appoggiò una mano contro il muro, frapponendosi tra lei e la sua via di fuga. «Il tuo odore, il tuo respiro, il modo in cui ti muovi... tutto di te mi dice che mi temi.»

Il rumore dei battiti del suo cuore le riempiva le orecchie, rendendole ancora più difficile pensare. Non si disturbò neanche a contraddirlo; la sua stessa voce l’avrebbe tradita. Cercò allora di schiacciarsi il più possibile contro il muro, come se avesse sperato che questo potesse inghiottirla e farla passare dall’altra parte. Ma era e rimaneva fatto di solidi mattoni, impossibili da penetrare.

È troppo vicino. Troppo. Di questo passo...

«Ma ho l’impressione che si tratti di un timore positivo.» continuò N, prendendole il mento tra pollice ed indice e costringendola a sostenere il suo sguardo. «Oserei dire che tu sia... emozionata.»

Cazzo, no che non lo era. Aveva solo paura da morire.

E aveva perso.

La voce di Lee le riecheggiò nella mente, distante ed irreale. «Allora, facciamo così.» aveva detto, appena poche ore prima. «Il primo che viene toccato da N, perde.»

Il primo che viene toccato da N.

E lei aveva perso.

   
 
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