Parte Seconda
Capitolo dell'estratto: Trio
Un’ora e mezzo
dopo, la foresta divenne meno fitta. Spuntarono in una radura che secondo Ace
era dalla parte opposta dell’isola – non ci aveva fatto caso all’arrivo,
ma la sua prima impressione era che si trovassero in una delle isole più
piccole del Nuovo Mondo. Ace si fermò di botto mentre ragionava sulla
dimensione e pure su un sacco di altre cose quando, una volta saliti su una
piccola altura, apparve alla vista un caratteristico edificio in legno.
Ace sentì degli avvertimenti da una memoria offuscata, che lo rimandava
indietro nel Mare Orientale e a quando non era ancora esperto del vasto oceano;
un edificio con un simile aspetto, sempre in periferia tanto da poter essere
definito come una zona turistica indipendente. Ci aveva trascorso tre giorni
completamente dimentico del tempo che passava, tenuto costantemente in uno stato
di semi-veglia per il calore e il profumo e il cibo – si sentiva rilassato,
veramente, dalla prima volta da quando aveva salutato Rufy.
“Per favore per favore dimmi che è quello che penso che
sia.”
Marco fece un sorrisetto, tirando leggermente fuor la lingua e alzando gli occhi.
“E’ esattamente quello che pensi.”
A quel punto ad Ace non gliene importava più niente dei progetti di Marco
per lui, ma si gettò immediatamente verso le sorgenti caldi con un grido
eccitato ed agitando le braccia come un bambino. Saettò sulle pietre
levigate del sentiero ed attraverso le porte apribili, spaventando terribilmente
con la sua apparizione improvvisa le due donne che stavano chiacchierando dietro
il bancone della hall. Fissarono Ace, ed una si mise una mano sul viso sconvolta,
finché Marco non entrò dietro di lui, con un ingresso decisamente
regale, se paragonato.
“Oh,” la seconda donna, più anziana, sospirò sollevata.
“Marco-chan. Bentornato.”
Ace passò lo sguardo tra Marco e lei – la padrona, almeno a giudicare
dal suo kimono di seta – curioso. La fenice doveva essere stato qui parecchie
volte in precedenza, per essere salutato così affettuosamente nonostante
facesse parte di una delle peggiori ciurme al mondo.
“E’ un bel po’, Kimiko-san,” disse Marco, allungando
una mano mentre lei si avvicinava, e quella gliela strinse con entrambe le sue,
un gesto così familiare che fece domandare ad Ace esattamente da quanto
tempo visitasse il posto… E se all’epoca fosse già il comandante
della prima flotta di Barbabianca. “E ti chiedo scusa se questo ragazzino
ti ha spaventato, eh. Si eccita facilmente.”
“Non preoccupartene.” Con le rughe scavate dall’età
accentuate dal sorriso e con gli occhi più gentili che avesse mai visto,
Kimiko appariva ad Ace come la nonna di un vecchio amico; quando gli sorrise
non poté far a meno di rispondere, imbarazzato e rigido.
“Devo chiederle scusa, signora.” Si chinò così profondamente
da far quasi cadere il cappello. “Scusi per l’intrusione.”
Kimiko applaudì soddisfatta e fece un commento riguardo alle sue buone
maniere mentre la donna più giovane, ancora nascosta dietro il bancone,
guardava Ace con nuovo interesse. Ma era l’espressione di Marco che lo
stava deliziando – lui aveva solo un sopracciglio alzato, ma Ace sapeva
che nonostante la sua faccia quasi impassibile era in realtà profondamente
sconcertato. Non c’erano state occasioni né volontà di mostrare
l’educazione con cui Makino l’aveva istruito a bordo della Moby
Dick.
Sul serio, Ace voleva semplicemente che Marco smettesse di considerarlo un ragazzino.
Se questo desiderio aveva meno a che fare col far cessare le prese in giro e
di più a fare in modo che Marco considerasse fare con lui cose che normalmente
non si farebbero con un ragazzino, be’. Non lo si poteva biasimare.
“Ti faccio vedere la tua stanza.” Kimiko lo accompagnò lungo
un corridoio circolare decorato con dipinti. Una sezione specifica di quei pannelli
era dedicata ad un grande uccello con fiamme blu-dorate, ed Ace si fermò
a tracciarne il contorno con dito, con la coda dell’occhio su Marco che
parlava tranquillo con Kimiko. Si fermarono alla porta successiva. Con un ultimo
cenno da parte della padrona, Marco si tolse i sandali e scomparve all’interno.
Quando Kimiko le fu di nuovo dietro, Ace domandò: “Questo è
nuovo rispetto agli altri? E’ ancora così vivido, gli altri sono
sbiaditi.”
“La maggior parte delle opere non è stata toccata da quando questo
posto è stato costruito, più di un secolo da,” disse Kimiko,
indicando il muro opposto decorato da una volpe rampante. “Ma la fenice
è stata aggiunta solo dieci anni fa, quando Marco-chan ha protetto le
sorgenti dall’invasione dei pirati.”
“Lei l’ha vista? Ha visto la forma di fenice di Marco?” Ace
ritornò sul dipinto, completamente affascinato. “E’ fatto
così?”
L’anziana chinò la testa. “Esatto. Non l’hai mai vista
di persona?”
“Non ancora,” mormorò Ace.
“Allora sono sicura che succederà presto, perché Marco-chan
deve essere molto affezionato a te.” Kimiko gli diede una pacca confortante
sulla spalla. “Tu sei il primo che porta qui.”
Ace si interessò. “Davvero?”
“Davvero,” confermò Kimiko. Una voce squillante la chiamò,
e prima di andarsene gli regalò un altro sorriso. “Stammi bene,
Ace-chan.”
“Anche tu, obaa-chan.”
La porta in cui Marco era entrata era socchiusa, ed Ace infilò la testa
nel buco per dare un’occhiata. Nella stanza pavimentata a tatami c’erano
due futon piegati, un chabudai e, soprattutto, un’altra porta da cui Ace
sentiva venire il suono di acqua corrente.
Dato che Marco non si vedeva, Ace lasciò le sue scarpe sulla soglia ed
uscendo si ritrovò su un portico, scivolando sulle tavole di legno. I
vestiti di Marco erano piegati ordinatamente sul pavimento, ed il proprietario
era accomodato contro le rocce al confine della sorgente calda, semi-immerso.
Il vapore gli lambiva dolcemente il petto. Riccioli biondi e bagnati circondavano
le orecchie, Dato che aveva gli occhi chiusi, Ace ne approfittò per godersi
la vista – non era esattamente così, dato che normalmente la sua
camicia non nascondeva nulla, ma comunque era un raro piacere vederlo senza.
Dopo essersela goduta abbastanza, Ace si spogliò ed iniziò a lavarsi
con gli strumenti lasciati in un angolo, una forma di cortesia dovuta, il non
entrare nelle sorgenti con la propria sporcizia addosso. Quando si voltò,
scoprì che Marco lo stava guardando, un sopracciglio alzato.
“Ti stai divertendo, eh?”
“Non ancora,” dise Ace, togliendo le ultime bolle di sapone dal
braccio. L’idea di gettarsi a palla di cannone nella sorgente gli attraversò
la mente ma ci rinunciò vedendo lo sguardo di Marco che gli stava leggendo
la mente.
“Non ci provare,” brontolò, allungandosi verso di lui, pronto
a combattere per bloccarlo prima che potesse avere delle intenzioni maligne.
E anche se trascinare Marco in un combattimento nudi poteva essere decisamente
divertente, Ace decise che era anche troppo rischioso, ed alzò le mani
in segno di resa, entrando in acqua con appena uno leggero splash.
ll calore gli accarezzò la pelle, ed Ace mormorò felice mentre
quattro mesi di tensione sene andavano assieme, lasciandolo piacevolmente stordito.
In quello stato di rilassamento, il filtro tra il cervello e la bocca si ruppe
come quella mattina al profumo di nicotina, e chiese, “Da quanto stai
con il vecchio?”
Marco sbatté le palpebre sorpreso, ma sembrò interessato dal fatto
che Ace avesse fatto una domanda su Barbabianca senza cattive intenzioni. “Da
prima che tu nascessi, eh.”
“…Quanti anni hai?”
“Ragazzino,” sorrise Marco, facendogli chiaramente capire che a
quella particolare domanda non avrebbe risposto molto presto.
Ace gli fece la linguaccia come risposta. “Vecchietto.”
Marco ridacchiò, quindi rimasero in piacevole silenzio. Ace radunò
la forza per avvicinarsi al compagno – non aveva senso pretendere che
Marco fosse da qualche altra parte, come faceva con Satch – e trovò
una nicchia confortevole tra le rocce che sembrava fatta apposta per appoggiarci
la schiena. Il sonno iniziò ad aprire le porte della sua coscienza. Con
il calore di Marco al fianco, i corpi affiancati dalle spalle ai piedi, Ace
non lo rifiutò – forse per a prima volta – e lasciò
chinare la testa nella curva della gola di Marco.
***
Quando si svegliò,
Ace era sdraiato tra le rocce, un asciugamano legato attorno ai fianchi e la
sua pelle asciugata dal sole che ora stava tramontando all’orizzonte.
Ammirò le delicate sfumature di rosa e arancione che dipingevano il cielo
finché il suo stomaco non emise un rumore piuttosto fastidioso.
“Allora sei sveglio?”
Marco era seduto nel portico, un giornale spiegazzato sulle ginocchia. Stava
indossando un largo kimono blu, con la silhouette di uccelli cuciti in filo
oro per tutta la superficie. Ace ebbe un momento di smarrimento fissando il
ginocchio nudo di Marco, che emergendo dalle pieghe del tessuto gli appariva
come la cosa più incredibile che avesse mai visto. In quel momento fu
assolutamente certo di dover ringraziare Kimiko per il lavoro che aveva fatto.
Gli stava troppo bene indosso per non essere stato fatto a mano.
“Ti ho dovuto trascinare fuori dall’acqua prima che annegassi, eh.”
Marco sollevò un pacco nero. “Il cibo è sul tavolo, e Kimiko
mi ha chiesto di darti questo.”
Ace si alzò lentamente – era ancora intorpidito per la quantità
di sonno al sole e di acqua calda – e prese il kimono prima di entrare
nella stanza. Ad una rapida occhiata gli sembrò solo un semplice kimono
che Kimiko aveva trovato per lui, ma quando lo aprì notò un simbolo
bianco che spiccava sullo scuro. E che simbolo.
Nonostante trovasse strano che l’anziana donna avesse presupposto che
facesse parte dei pirati di Barbabianca, Ace si rimproverò prima di indossarlo.
Era stata un’ottima giornata, davvero. Non l’avrebbe rovinata protestando
per una cosa così priva di importanza come indossare per una notte il
simbolo di Barbabianca.
Il cibo preparato era caldo e profumato e esotico, specialità dell’isola,
immaginava. Visto che era delizioso, lo inghiottì in un attimo –
riuscendo, in qualche maniera, a non incastrare la faccia nella ciotola del
riso – per poi raggiungere Marco fuori. Ora che ci faceva attenzione,
anche sul suo kimono c’era lo stesso simbolo.
L’altro lo guardò con gli occhi semichiusi mentre si sedeva al
suo fianco. Rimase in silenzio per un lungo attimo, prima che le labbra si piegassero
in un ghigno soddisfatto.
“Del tè?” chiese.
Mentre il cielo si scuriva lentamente, Marco gli raccontò storie ambientate
a bordo della nave, i combattimenti e le feste pazze e il calore di ottenere
nuovi fratelli, nuovi membri della famiglia.
“- e ovviamente il Babbo non è stato contento di alzarsi con una
barba non richiesta. Satch e Haruta hanno dovuto pulire il bagni per sei mesi,
eh.”
Ace scoppiò a ridere, stringendo con forza la manica di Marco con dita
tremanti. “Non posso credere che abbiano dipinto la faccia del vecchio!
Color arcobaleno.”
“Proprio dei combina guai, quei due. Sono certo che ti reclutranno per
la loro prossima azione.”
Con la pancia che gli faceva male dal ridere, Ace cadde su se stesso, usando
le braccia come cuscino per la testa. Gli stava venendo di nuovo la sonnolenza,
colpa del cibo con cui aveva riempito lo stomaco. Ma c’era un’ultima
cosa che sentiva di dover chiedere.
Prima di sentirsi maggiormente a suo agio.
“E’ bello, avere un padre? Sei felice?”
“…Ragazzino.”
Ace lo prese come un sì.
***
Ace si fece strada stancamente verso il ponte della Moby Dick,
massaggiandosi gli occhi stanchi e mormorando cose poco carine sottovoce. Il
giorno prima Marco se n’era andato per una missione e non era tornato
la sera, lasciandolo da solo a letto, insolitamente sveglio. Anche se Ace non
aveva trascorso con lui tutte le notti – per i primi due mesi cercava
di evitare la situazione il più possibile – ormai era diventata
un’abitudine, e non aveva mai usato il letto senza la presenza di Marco.
Dopotutto, era il suo. *** Marco tornerà
questa sera. *** I raggi del sole
attraversavano l’oblò, risvegliando una figura sola dal riposo.
Marco si alzò, massaggiandosi gli occhi assonati e sorridendo con affetto
allo spazio a fianco a sé: uno spazio vuoto. Un ringraziamento
a tutti quelli che hanno letto la mia modesta traduzione. Grazie davvero.
La notte precedente Ace si era rannicchiato sotto le coperte, sperando che tornasse
durante la notte e potesse vederlo al risveglio. Ma non si era fatto vedere.
Aveva dormito a spizzichi e bocconi, senza riposarsi data l’assenza del
braccio di Marco posto attorno al suo petto per tenerlo fermo, con il corpo
che si rifiutava di stare fermo e dormire, anzi suggerendogli di aspettare.
Aspettare Marco, che era andato chissà dove senza nemmeno dirgli quando
sarebbe tornato.
Perciò al momento non aveva altre alternative che esplorare la nave per
cercare un posto dove potesse farsi un riposino in pace e alzarsi poi in fretta.
C’era solo un posto che non aveva ancora esplorato.
Si avvicinò alla zona d’ombra creata dall’enorme sedia di
Barbabianca e vi si gettò. Il vecchio non c’era, probabilmente
dormiva pacifico come voleva fare lui. Era terribilmente presto, tanto che il
sole era solo una macchia allargata di arancione all’orizzonte. Ace sospirò,
mettendo le mani sul petto e stringendo gli occhi sperando che l’agitazione
non gli impedisse di avere il suo meritato risposo.
Ed in qualche maniera, per qualche ragione, la grande ombra creata dalla sedia
di Barbabianca gli diede la consolazione che cercava. Nemmeno due minuti dopo,
il suono chiaro del suo russare saltava il sorgere del sole.
Si alzò con la sensazione di essere ricoperto da qualcosa di grande e
soffice e caldo – a dirla tutta, non proprio la sensazione più
rassicurante che uno appena svegliato potesse provare - risvegliandosi di scatto.
La luce penetrava debole attraverso qualunque cosa lo stesse ricoprendo. Una
breve prova di tatto gli rivelò che si trattava di materiale pesante,
e Ace strisciò sul pavimento, cercando noiosamente di scoprire la fine
della stoffa che lo ricopriva.
Una volta trovata, mise fuori la testa prudentemente, sbattendo le palpebre
accecato dalla luce del sole, che brillava ormai alto nel cielo. Risate roche
vennero da sopra, ed Ace allungò il collo solo per vedere Barbabianca
che gli sorrideva contento.
…Giusto, era riuscito ad addormentarsi dietro la sedia del capitano. Ace
ricambiò con un ghigno timido. Ad un’ispezione più ravvicinata,
capì cosa stava usando come coperta. Il materiale bianco era una giacca
decorata con spalline d’oro; l’enorme grandezza indicava che si
trattava di quella del capitano che aveva sulle sue spalle. La scoperta gliela
fece semplicemente stringere di più sui fianchi mentre si metteva sulle
ginocchia, mentre una sensazione positiva gli impediva di gettarlo via.
“Per quanto ho dormito?” chiese. La sua stanchezza di prima era
ormai lontana. L’energia l’aveva riempito, tanto da desiderare che
ci fosse un nemico da combattere. Era passato un bel po’ di tempo da quando
le sue battaglie consistevano semplicemente dall’essere preso dolorosamente
a calci in culo da Barbabianca.
“Boh. Ti abbiamo trovato sei ore fa, ma chissà da quanto tempo
ti trovavi qui.” Satch si chinò al suo fianco, appoggiando una
mano amichevole sulla spalla e stringendola, chiaramente divertito dal fatto
che Ace potesse addormentarsi da qualunque parte volesse. “Il Babbo è
stato così gentile da sacrificare la sua giacca per non farti scottare.”
“Ma io non posso-” scottarmi, stava per dire, ma Barbabianca lo
sapeva. Le ustioni che non avrebbero potuto intaccare il suo corpo a causa del
Frutto del Diavolo non c’entravano. Era solo un padre che si preoccupava
per suo figlio.
Barbabianca si spostò per toccare i capelli di Ace, il quale rimase interdetto,
dato che un suo dito era grande quanto la sua testa, e la leggera pressione
gli faceva il solletico. “Non abbiamo avuto più molte occasioni
per parlare, figliolo. Dimmi come ti stai trovando.”
Ace prese un respiro rassicurante. Quella parola – figlio –
gli causava ancora un dolore pungente in quella parte del suo cuore che aveva
esiliato anni prima, ma era il momento di ammettere che il muro aveva iniziato
a sgretolarsi da quando aveva incontrato Marco, Satch e già, anche il
vecchio. Era tempo di smetterla di rimanere in bilico in quell’indecisione.
Non si tornava indietro.
“Bene,” disse, sorridendo prima a Barbabianca e poi a Satch. Sentì
che era genuino e sincero sulle labbra. “Proprio bene.”
Aveva preso a sua decisione. Ma prima di renderla definitiva, voleva vedere
Marco.
Voleva vedere la fenice.
Così gli aveva detto Barbabianca, eppure era quasi mezzanotte e non c’era
ancora traccia di lui. Ace si affacciò maggiormente al parapetto, gli
occhi fissi sul mare, cercando di individuare una nave che navigava sulle acque
scure.
I puntini luminosi brillavano sulla superficie dell’oceano; vivere sulle
montagne impediva di vedere il bagliore del Regno di Goa di notte, e al massimo
la loro visione del cielo era torbida. C’era una strana luce bassa in
cielo, che pulsava di blu ed oro e si allargava avvicinandosi. Dieci minuti
dopo divenne chiaro che quella luce azzurra non era una stella ma un oggetto
che si avvicinava velocemente, bruciando più luminosa della luna.
Se fossero stati in pericolo imminente, gli uomini di guardia avrebbero fatto
scattare l’allarme, ma l’oggetto era ormai vicino alla nave e nessuno
sembrava preoccuparsene. In un movimento che era di fiamme, poteva vedere ora,
atterrò a pochi passi da lui.
Ace smise di respirare.
Capì immediatamente cosa fosse. Era quello che desiderava vedere da quando
aveva scoperto che Frutto del Diavolo avesse Marco: la fenice, con gli artigli
sul parapetto e la strana coda dorata che gli solleticava i fianchi mentre si
avvicinava, le fiamme che danzavano con intensità nella notte, il collo
elegante piegato verso di lui, ad invitarlo. Anche se Ace non avesse acquisito
il potere del Mera Mera, anche se non avesse saputo che quelle fiamme non erano
pericolose, le avrebbe toccate comunque. Ogni istinto animale che possedeva
gli stava urlando di gettarsi in quella forma blu-oro.
Ace aveva sempre ascoltato il suo istinto.
Marco aveva intenzione di lasciargli accarezzare le sue fiamme e le sue piume,
per fargli sentire anche quella parte di cui non aveva precedenti esperienze.
Come al solito, Ace esagerò ampiamente; non appagato dalla gola delicata
che gli stava offrendo per soddisfare la sua curiosità, si gettò
contro il corpo della fenice, rabbrividendo nell’essere circondato da
quelle fiamme blu che lo affascinavano tanto.. Quello era Marco che alla fine,
finalmente, si lasciava vedere interamente. Marco condivideva il suo
ultimo segreto.
Le braccia di Ace circondarono l’uccello di fiamme, abbracciandolo con
tutta la sua forza sperando che Marco lo lasciasse fare, che gli lasciasse quel
momento. Tutti i pezzi erano al loro posto; sì, apparteneva a Barbabianca.
Ma allo stesso modo anche a Marco.
Qualcosa iniziò a colpirlo alla base del collo, e ritornò un attimo
in sé. Capì di aver gettato il viso fra le piume di Marco, e di
starle accarezzando con la guancia per assorbire nella pelle quel fuoco più
che poteva. Premevano cos’ delicatamente sul suo petto da fargli il solletico
ogni volta che il piumaggio si spostava al ritmo dei sospiri di Marco, un inspirare-espirare
stranamente a singhiozzo.
Con riluttanza, Ace lo lasciò, l’imbarazzo che saliva a bruciargli
la punta delle orecchie. Ma alla fine della battaglia con i suoi orgoglio e
il suo disgusto per lungo tempo, ammirare la fenice era stato un po’ troppo
perché il suo cuore debole potesse reggere. Se prima Marco non aveva
idea del fatto che Ace lo desiderasse, certamente l’aveva capito ora.
“Mi dispiace,” mormorò, mentre occhi brillanti rimanevano
su di lui mentre Marco riassumeva forma umana a parte un’ala su cui Ace
aveva tenuto senza accorgersene la presa. Non era accigliato né seccato
o in qualche modo arrabbiato. Invece, guardava Ace con un’espressione
che veniva definita di soggezione.
“C’è qualcosa di diverso, eh. Qualcosa è cambiato
in te.” Marco toccò la sua guancia, passando il polpastrello ruvido
sullo zigomo simulando pericolosamente una carezza. Per la seconda volta in
pochi minuti, Ace rimase senza fiato. “Che è successo?”
Ho deciso di unirmi alla ciurma era quello che intendeva dire, ma quello
che venne fuori fu: “Non sono riuscito a dormire mentre non c’eri.
Era così vuoto, il tuo letto-” Ace inciampò sulle parole,
indeciso su come continuare o se fosse il caso di farlo. Fra poco, Marco gli
avrebbe dato del ragazzino, magari stringendogli un braccio attorno al collo
e dicendogli di trovarsi un altro posto dove dormire. Ma la sua testa era così
incasinata di emozioni, che non sapeva se avesse potuto affrontare un rifiuto.
Marco liberò l’ala dalla presa di Ace e l’alzò per
poter afferrare il suo viso con entrambe le mani. I suoi occhi lo scrutavano,
precisi e seri. Ace si calmò sotto quello sguardo calmo e sperò.
“Ah. Sembra che questo ragazzino sia cresciuto alla fine.”
E poi Marco lo baciò.
Paralizzato dalla sorpresa, Ace non reagì immediatamente. Marco sembrò
aspettarselo, continuando a strofinarsi sulle labbra e facendo uscire la lingua
per tastare il terreno, aspettando che Ace lo ricambiasse, mantenendo il bacio
normale finché Ace non gli gettò le braccia al collo, stringendo
la camicia per farlo avvicinare. L’altro spostò le sue gambe per
infilarsi nel mezzo, facendo aderire i loro corpi, i petti nudi che si sfioravano
facendo accendere ciascun nervo di Ace.
“Marco,” mormorò Ace una volta che le bocche si separarono.
Toccò i capelli biondi, cercando di baciarlo ancora, ma la fenice gli
mise una mano sulla bocca per fermarlo.
“Il mio letto non sarà più così vuoto ora, eh.”
Ace fu sorpreso nel vedere del rosa sulle sue guance. “E qui non possiamo
fare quello che ho in mente di fare.”
Il suo tono brusco fece rassegnare Ace, che cercava di fare del suo meglio per
restare in piedi sulle gambe tremolanti per il desiderio. Arrivarono in camera
di Marco, ma non prima che Ace fosse riuscito a fargli un bel succhiotto acceso
sul bicipite. La sua cintura si era persa per la strada. La camicia di Marco
era scomparsa ed Ace non poté resistere al passare le dita sul suo tatuaggio,
toccando accidentalmente il capezzolo con il pollice, per poi ripetere il gesto
dall’altra parte, finché Marco non sibilò fra i denti e
lo spinse contro la parete più vicina, tenendolo per le braccia cercando
di combattere contro un controllo di sé inesistente.
E Marco aveva avuto ragione; il letto non sembrava così vuoto con Marco
sdraiatovi sopra ed Ace inginocchiato sopra, a farsi marchiare i segni blu delle
unghie sulla schiena. Ad essere chiamato dentro di lui.
Ogni membro della famiglia di Barbabianca teneva il suo simbolo con inchiostro
indelebile. Mentre le strisce lasciate dalla unghie di Marco bruciavano, mentre
l’altro si chinava su di lui a quattro zampe e gli succhiava i graffi
doloranti ed il sudore dalla pelle, Ace capì dove avrebbe fatto il suo.
Al tocco, le coperte erano fredde. Non c’era più nessuno da ore.
Nascose la delusione ed il dolore alla bocca dello stomaco; sul serio, ma che
si aspettava? Una volta placata qualunque curiosità avesse in Marco,
Ace era libero di spostare il suo interesse altrove, e lui non se la sarebbe
presa. Aveva il doppio degli anni di Ace, dopotutto. Un autentico vecchietto.
Ma la scorsa notte era stato così sicuro. Un cambiamento così
drastico nel comportamento di Ace, la maniera con cui il ragazzino aveva tremato
abbracciando la sua forma di fenice, come se in quell’attimo tutto si
fosse spento e che tutto l’avesse reso veramente felice. Marco avrebbe
potuto scommettere che aveva preso la sua decisione: quella di restare, come
figlio di Edward Newgate e come suo…
Sospirando, recuperò i pezzi dei suoi abiti sparsi per la stanza, esitando
al vedere uno degli stivali di Ace. Non se ne sarebbe andato senza, no?
La sua camicia era scomparsa. Ricordava vagamente Ace che gliela toglieva in
corridoio, perciò decise che era obbligato a cercarla. Il collo e il
petto erano ricoperti di segni provocati dalla bocca di Ace – se Satch
li avesse visti, lo avrebbe preso in giro in eterno – ma benché
potesse cancellarli facendo brillare un attimo le sue fiamme curative, non riusciva
a farlo. Se non poteva avere Ace, avrebbe tenuto quegli effimeri marchi come
ricordo.
Nel corridoio la camicia non era da nessuna parte. Andò sul ponte, chiedendosi
se sbagliasse nel ricordarsi la situazione. Attraverso la nave senza trovarla,
e aveva appena deciso che probabilmente era finita in mare quando girò
l’angolo ed eccola: sistemata comodamente sulle spalle di Ace.
Il viso era chinato verso il mare, la testa piegata per ricevere la brezza.
“Toglila,” gli disse senza guardarlo.
Marco lo fece, col cuore che pompava al massimo speranza nelle vene. Poteva
essere? Poteva essere-?
La camicia scivolò sul ponte mentre Marco passava le mani sulle braccia
di Ace, rivelando una fascia di bende allentate. Vennero via facilmente, e Marco
fu colpito dal mucchio di emozioni che emersero al vedere il suo nuovo tatuaggio.
Il simbolo del loro padre si spandeva sulla sua schiena, grande ed inconfondibile,
qualcosa da indossare con orgoglio e fiducia in un uomo che non avrebbe mai
tradito.
“Benvenuto a casa,” sussurrò Marco, divorandolo con un bacio
sulla bocca che esprimeva tutto ciò che non poteva dire a parole. Quando
cessò, Ace era aggrappato alle sue spalle, il viso rosso e il fiatone
e i brividi dal desiderio mentre Marco gli passava la punta delle dita sul tatuaggio
più e più volte.
“Possiamo tornare a letto?” Ace tentò di baciarlo di nuovo,
maldestro e dolce ma comunque perfetto. “Per favore?”
“Penso di sì, eh.” Marco fece un sorrisetto, prendendolo
per il polso e conducendolo verso la sua – la loro – stanza,
il loro letto. Perché era il loro, lo era stato fin da quella notte di
mesi prima quando Ace si era agitato e aveva protestato pur addormentandosi
velocemente fra le sue braccia.
Sentì un pizzicotto sul sedere. Ace, con un gran sorriso deciso sul viso,
non spostò la mano da lì.
“Accidenti a te, ragazzino.”