Capitolo
quattro: Ferito
Samuel
uscì dalla banca come un forsennato. Saltò a
piè pari gli scalini che gli
avrebbero fatto guadagnare la strada e solo per un caso fortuito non
finì a
terra andando a sbattere contro qualcuno che procedeva nel senso
inverso al
suo. Nell’urto perse gli occhiali da sole, ma ebbe la
prontezza di non voltarsi
e riuscì a dileguarsi alla chetichella. Soltanto quando si
fu allontanato di
qualche metro realizzò di aver quasi travolto Luke Duke: “mi dispiace amico, non avrei mai
voluto far del male a Bo.” Pensò
continuando a correre.
Per
sua fortuna l’intera piazza era nel panico più
totale; la maggior parte della
gente correva a gambe levate cercando rifugio in qualche posto chiuso.
Si tolse
il cappello e la sciarpa e si mischiò ad un gruppo di
ragazzi che si dirigevano
a perdifiato verso la chiesa. Si voltò alla sua destra e
vide un paio di
signore che piangevano in modo quasi isterico mentre venivano portate a
braccia
nell’ufficio dello sceriffo.
Mischiato
agli spaventati cittadini di Hazzard, Samuel riuscì a
raggiungere il suo
furgoncino e filò via senza mai voltarsi indietro. Quando
afferrò lo sterzo, si
rese conto di quanto sarebbe stato difficile guidare: le mani gli
tremavano e
la vista era annebbiata. Fece in tempo ad uscire dal centro abitato,
non appena
imboccata la statale che lo avrebbe ricondotto a casa, fu costretto ad
accostare. Scese dal pick-up e si avvicinò ad una grande
quercia, si poggiò con
entrambe le mani al tronco e perse completamente il controllo. In pochi
secondi
il suo stomaco espulse quel poco di cibo che aveva ingurgitato la
mattina per
colazione. Dopodiché crollò in ginocchio e pianse
fino a non avere più lacrime.
Non
era certo la prima volta che Luke si trovava faccia a faccia con una
tragedia.
Durante i suoi anni da Marine, aveva visto decine di compagni feriti,
alcuni
non ce l’avevano fatta, altri si erano ripresi. Quello che
era stato il suo più
caro amico “laggiù”, gli era morto
praticamente tra le braccia.
Stavolta
però era diverso.
Stavolta
tra le sue braccia, inerme come un bambino addormentato c’era
Bo.
Prese
un brandello della camicia di Bo e, con tutta la delicatezza di cui era
capace,
gli pulì la fronte. Ma ogni volta che tentava di arginare il
sangue che usciva
copioso dalla ferita che aveva sul sopracciglio destro, ne usciva
dell’altro.
Sempre più abbondante. Aveva la percezione del trambusto che
lo circondava, ma
non se ne rendeva conto. Intuiva che Enos e Cooter gli stavano
parlando. Aveva
afferrato parole come “ambulanza”,
“grave”, “telefonare”. Ma non
riusciva a
dire se facessero parte di una frase di senso compiuto. Niente aveva
senso quel
giorno. Era netta l’impressione di avere le orecchie piene di
ovatta e la
visuale ridotta a ciò che aveva davanti agli occhi. A
ciò che stringeva tra le
braccia con la forza di chi ha il terrore di vedersi strappare di mano
ciò che
ha di più caro al mondo.
“Luke…
Luke ascoltami. Lascia andare Bo. E’ arrivata
l’ambulanza, devono portarlo
via.” Enos aveva poggiato una mano sulla spalla
dell’amico. Non era il primo
tentativo che faceva per richiamare l’attenzione di Luke. Ma
finora era stato
come parlare ad un muro.
“Andiamo
vecchio mio, Enos ha ragione. Se non lo lasci non possono caricarlo
sulla
barella.” Anche Cooter era intervenuto in aiuto. Il meccanico
conosceva bene i
Duke, non aveva mai avuto amici più cari e non conosceva
persone più oneste.
Non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato testimone di una
simile
tragedia.
Era
tutto così irreale.
Come
poteva essere successa una cosa del genere? Fino a pochi minuti prima
Bo era il
ritratto spudorato della gioia, faceva mille progetti per la sua
memorabile
serata con Melinda Sue Robbins, era irrequieto quanto una sposa
sull’altare. E
ora giaceva immobile sul pavimento della banca. I suoi riccioli biondi,
sempre
così vaporosi e lucenti erano imbrattati di sangue e polvere
di calcinacci. Una
poltiglia che glieli aveva fatti diventare appiccicaticci, assurdo
pensare di
attraversarli con le dita senza correre il rischio di rimanere
attaccato con la
mano alla sua testa.
Soltanto
quando fu tirato su di peso, Luke si accorse di ciò che gli
stava accadendo
intorno. Un uomo grande e grosso gli aveva fatto passare entrambe le
braccia
sotto le ascelle e lo aveva sollevato, un altro lo aveva sostituito nel
tenere
ferma la testa di Bo. Si riscosse come fosse stato fino ad allora in
uno stato
di torpore e iniziò a sentire il frastuono attorno a
sé. C’era la sirena
dell’ambulanza appena fuori la banca, Rosco che urlava a
squarciagola tentando
di farsi ascoltare da chiunque gli capitasse a tiro. Enos e Cooter che
gli
parlavano sovrapponendosi l’uno all’altro e
informandolo che zio Jesse e Daisy
erano già stati avvisati. Sbatté un paio di volte
le palpebre, appena in tempo
per vedere quei due omoni tirare su di peso Bo e adagiarlo sulla
barella.
“Vado
con lui.” Disse incerto mettendosi alle calcagna dei
portantini.
“Ti
seguiamo con la macchina.” Rispose Enos di rimando.
Luke
salì sull’ambulanza per ultimo: “dove
posso mettermi per non darvi fastidio?”
Chiese con un filo di voce.
“Ci
darebbe comunque fastidio signore, quindi si limiti a stare seduto e
non ci
intralci.” Fu la risposta stizzita di uno dei due energumeni
vestiti di bianco.
In
qualunque altra occasione Luke Duke non ci avrebbe pensato due volte e si
sarebbe fatto
rispettare. Si limitò invece ad abbassare il capo e a
sedersi accanto agli
sportelli sul retro dell’ambulanza. Senza accorgersene
unì le palme delle mani
e le lasciò penzolare con i gomiti appoggiati alle ginocchia.
Non
stava pensando a niente.
Non
stava neanche pregando, malgrado la sua postura lo suggerisse.
Tutto
ciò che faceva era fissare il monitor sul quale una lucina
intermittente
scandiva il battito del cuore di Bo.
Sapeva
bene infatti che finché quella lucina avrebbe continuato a
pulsare, non ci
sarebbe stato niente di cui preoccuparsi. Almeno questo era
ciò che sperava.