«Sono già pentito.» piagnucola Nader quando arriviamo
vicino all'aeroporto. Fazila guida in silenzio, con un velo azzurro, di stoffa
leggera, avvolto mollemente attorno alla testa. I capelli neri sono raccolti in
uno chignon basso e alcune ciocche libere le incorniciano il volto.
«Un mese
non è tanto tempo, Nader.» replico io cercando di non dare intonazioni
particolari alla mia voce e resistendo all'impulso terribile di chiamarlo
Moretto.
«Credevo che avessi voglia di vederlo.» lo rimbrotta Fazila a bassa
voce. È quello che penso anch'io. Soltanto ieri sembrava entusiasta all'idea di
vedere il padre, e oggi sembra del tutto propenso a chiedere alla madre di
girare la macchina e tornare a casa.
«Non sono mai stato in America.» tenta
di giustificarsi.
«C'è una prima volta per tutto.» replico stancamente io,
accomodandomi meglio sul sedile posteriore. Ma nemmeno a me va che Nader parta.
Sento che nel momento in cui se ne sarà andato – perché partirà, alla fine,
anche se non vuole – crollerà tutto. «E poi, tu parli bene l'inglese. Conoscerai
qualcuno lì, non sarà male.»
«Questo non lo sai.» borbotta lui scendendo
dalla macchina. Scendo con lui e guardo oltre la cappotta, per vedere se lo
sportello di Fazila si apre. Ma rimane chiuso.
«Non lo so, Pietro jan, non lo
so se sto facendo la cosa giusta.» abbassa la voce, spaventato all'idea che
Fazila possa sentirci.
«È normale che tu adesso abbia paura.»
«A lui io
non piaccio.»
«Cosa stai dicendo?»
«È la verità, Pietro jan. Io ne sono
sicuro.»
«Ma allora perché hai voluto partire?»
«Perché io invece gli
voglio bene.»
Ha gli occhi pieni di lacrime. Il mio povero Nader. Vederlo
così abbattuto mi fa star male, ed è peggio quando poggia la mano che trema
sugli occhi chiusi per asciugare le lacrime. Vorrei abbracciarlo, dargli un
bacio, per fargli capire che gli sono vicino, che gli voglio bene e lo aspetto,
qui in Italia, ma non posso. È tremendo, perché so che è quello che anche lui
vorrebbe, che lo farebbe stare meglio, e invece la presenza di Fazila ce lo
impedisce.
«Forse dovremmo andare.» singhiozza dopo un po' indicando con la
testa ricciuta l'ingresso dell'aeroporto.
Sento come se avessi ingoiato
della colla. Non credo di farcela ad andare lì e vederlo mentre si allontana
piangendo. So bene che starà via soltanto per un mese, e che probabilmente la
tristezza gli passerà una volta arrivato negli Stati Uniti, ma è anche vero che
vederlo piangere, per un qualsiasi motivo, mi fa stare malissimo. Adesso che
sono arrivato fin qui, vorrei tornare a casa. Lo sguardo mi cade sulla fermata
dell'autobus che c'è qui vicino, e basterebbe così poco per allontanarmi in
fretta...
«Non voglio che vieni anche tu.»
Non vuole. Perché non lo
voglia, non lo so. Forse non mi interessa nemmeno saperlo. Non vuole, punto.
Fazila scende dalla macchina, ci guarda, poi borbotta qualcosa di
incomprensibile a Nader, che annuisce e le risponde con qualcosa di altrettanto
incomprensibile.
«Ci vediamo.» mi saluta Nader, semplice. In quelle poche
parole mi sembra di sentire molto più che un arrivederci. È un addio, e io lo
so. Ma lui?
Si allontanano insieme. Io rimango fuori dalla macchina, in
piedi, a guardarli mentre vanno via trascinando la valigia di Nader. Mi appoggio
allo sportello e mi fisso le scarpe. Poi, senza pensare, tiro fuori dalla tasca
il cellulare e compongo il numero di Sebastiano. Non so perché lo faccio, non so
nemmeno quando io l'abbia imparato a memoria. Non ricordo d'averlo fatto, ma lo
so.
«Provi un'attrazione irresistibile per me, ammettilo.» esclama
con voce suadente quando risponde. Ma io non ho voglia di scherzare. Nader non è
ancora partito e già mi manca. E io, schifoso come sono, telefono a un altro
mentre dovrei pensare a lui. Che verme.
«Hai cinque minuti?»
«Hai una
voce orrenda. Che succede? Sei depresso?»
«Boh. No. Sì, no. No. Sono
stanco.» Mezza bugia.
Un uomo che mente...
Non sono debole. È
vero a metà. Sono stanco. Di Nader, di me, di noi. Non lo so. Di
tutto.
«L'importante è essere convinto.»
«Certo.»
«Allora?
Cos'è che ti affligge?» il suo tono è canzonatorio, ma sembra sinceramente
interessato.
«Niente. Volevo parlare.»
«Parliamo allora. Di che
cosa?»
«Di te.»
«Sono il mio argomento preferito, lo
ammetto.» sospira lui. «Che vuoi che ti dica?»
«Boh, quello che
vuoi.»
«In questo momento sto guardando un film. Non so se lo
conosci. Green card. L'hai visto?»
«No.»
«Ti piacciono
le storie romantiche?»
«No.»
«Questa lo è.
Guardalo.»
«Sei fidanzato?» Voglio sapere se lui, a differenza di me, ha
il coraggio di dire le cose come stanno. Ma io sono debole. Lui? Non lo so. Oggi
mi sento di non sapere niente. Sono confuso, ho la testa pesante e non riesco a
pensare. E Nader piange, nella mia testa.
«Lo ero.» brontola in
risposta. «Ma non ha funzionato.»
«Perché no?»
«Divergenza
d'opinioni.» spiega, sbrigativo. «Non voleva che in giro si sapesse che
stavamo insieme. I suoi non sapevano ch'era gay.»
«A volte non è facile
dirlo.»
Nader non è mai riuscito a farlo. Ma come potrebbe trovarne il
coraggio? Fazila non è aperta a questo genere di cose. Non c'entra
l'Afghanistan, non c'entra la sorella, anche se Nader sostiene che sia così. La
verità è che Fazila non approva, e basta. Se i miei genitori fossero come i miei
nonni, nemmeno io gliel'avrei detto. Ma io, con la madre che ho, sono sempre
libero di dire e fare quello che voglio. L'importante, poi, è sapere affrontare
le conseguenze. Ecco quello che sostiene. Lei ha ragione. Ma non è così facile.
Avrei dovuto impedire a Nader di partire. Come? Non lo so.
«Questo te lo
concedo.» replica. «Ma cosa si vuole fare? Tenerlo nascosto per tutta
la vita?»
«La gente non capisce.» La gente non capisce mai. Io non
capisco nemmeno me stesso. Come posso pretendere che mi capiscano gli altri? È
assurdo il mondo in cui viviamo. Guardo le lancette dell'orologio che si
muovono, penso a Nader che ogni secondo si allontana sempre di più da me, al
fatto che sono al telefono con un altro ragazzo proprio nel momento in cui meno
dovrei. Che schifo. Mi detesto. Odio tutto questo.
«La gente... Chi se ne
frega della gente?»
«Vero. Ma non è facile.»
«La vita non è
facile.» ribatte duramente. «Eppure viviamo. Ma non deprimiamoci, su, o
prima o poi ti vai a buttare da un ponte, abbattuto come sei. Forza, raccontami
un po'. Quanti anni hai?»
«Diciassette. Tu?» Non m interessa
saperlo.
«Diciannove. Vai a scuola?»
«Sì.»
«Che scuola
fai?»
«Il
liceo.»
«Scientifico?»
«Linguistico.»
«Carino. Ti
piace?»
«Non lo so. A volte.»
«Sempre molto deciso.» Di
solito, Sebastiano, di solito sì. Oggi no. Oggi non riesco a essere nemmeno
sicuro su chi sono. Perché sono qui? Perché non sono rimasto a casa, come mi
aveva proposto, inizialmente, Nader? È tutto così sbagliato, così
sbagliato...
«Tu?»
«Io cosa?»
«Cosa fai?»
«Ah... Io
niente. Non studio, non lavoro.»
«Vivi con i
tuoi?»
«No.»
«Ma allora...» Ma allora come fai a mantenerti?
Perché vivi solo, se non vuoi arrangiarti da solo? Ma che senso ha?
«Babbo paga l'affitto.» spiega cantilenando. «A lui va meglio
così. Sai, a me non piace tanto la sua nuova compagna. Litighiamo
sempre.»
«Tu non le piaci?»
«Lei... boh. È una brava donna. A me
non piace e basta. È così grave?»
«No.»
«Senti,» riprende
dopo qualche istante di silenzio «e se uscissimo?»
«Uscire?»
Non ho voglia
di pensare. Non sto facendo davvero caso alla conversazione. Parlo, perché così
passa il tempo. Se sento qualcosa, se devo ascoltare, penso meno a Nader. Al
fatto che se ne va. Per un mese. E se non tornasse? Se lì incontrasse qualcuno
che gli facesse cambiare idea su di me? Lo sto trattando male e forse un po' ci
spero che si stanchi, che mi dica che non ne può più, ma in fondo non è vero.
Sono innamorato di lui. Dell'idea che lui lo sia di me. E se poi non lo fosse?
Se si rendesse conto che è stato tutto un enorme sbaglio? Che cosa farei
io?
«Sì. Andare a fare un giro?»
No. No. È sbagliato, Pietro,
sbagliato! Non si fa. Pensa a Nader, al tuo Nader.
«Quando?»
«Bah, che
giorno è oggi?»
«Giovedì.»
«Giovedì... Va bene
domani?»
«No, domani ho un impegno.» Domani sarà il giorno in cui mi
renderò conto che Nader è davvero lontano. Non vorrò vedere nessuno.
«Sabato?»
«D'accordo.»
«Allora, senti, domani ti chiamo e
ci mettiamo d'accordo.»
«Va bene.»
«Ci
sentiamo.»
«Sì.»
«Ciao.»
«Ciao.»
Riaggancia. Io sto
fermo lì, immobile. Non so per quanto. Fa caldo, e io sono sotto al sole, ma non
mi sposto. Aspetto Fazila.
Quando torna, il velo sui capelli è sistemato per
bene e lei sembra calma e rilassata. Al contrario di me.
«È partito.» mi
annuncia. «Chiamerà quando arriva.»
«Sì.»
«Non fare quella faccia triste,
Pietro jan.» dice salendo in macchina. Salgo dal lato passeggero e la
guardo mentre allaccia la cintura. La imito, lei mi rivolge un sorriso caldo e
prosegue: «Starà via un mese, e non è tanto.»
«No, lo so.»
«Sai, sono
felice che tu sia amico suo. Lui è un ragazzo particolare, non sta molto con gli
altri. Ma ti vuole bene.»
Lo so. Lo so, e anch'io gliene voglio. E sono
sempre la persona che lo fa soffrire di più. Perché sono così sbagliato? Cos'ho
nella testa?
«Sarà meglio che ti porti a casa.» sospira alla fine. «Sei stato
via tanto tempo. I tuoi genitori saranno preoccupati.»
Non rispondo. I miei
genitori sanno dove sono e non faranno storie. Mia madre è convinta che l'unica
cosa importante sia che torni. Poi, non è un problema suo dove vado o quanto sto
via.
«Credi che starà bene, lì?» le domando all'improvviso, senza nemmeno
sapere perché.
«No.» È stata brutalmente onesta e forse avrei preferito una
bugia. Lo stomaco mi si attorciglia e mi sento gelare.
«Ma allora,
perché...» Perché l'hai lasciato partire? Gli neghi tante cose che gli farebbero
bene, Fazila, e adesso gli permetti di andare a farsi del male?
«Lui voleva
vederlo.» replica lei prima che io riesca a finire la frase. «Si accorgerà da
solo di quello che è in realtà suo padre.»
«È così
tremendo?»
«No.»
«Allora non capisco.»
«Lui sta bene da solo. Non gli
importa né di Nader né di me.»
Rimango zitto. Non so nemmeno che cosa
pensare. Sarà un mese difficile, per il mio povero Nader. Come farà, in America,
lui che da solo è sempre così smarrito? Come farà a resistere, se non si troverà
bene? Mi sembra quasi di vederlo piangere, da solo, a migliaia di chilometri di
distanza da me, da sua madre e da casa. Povero Nader. Come farà? Come?
«Stai bene, Pietro jan.» mi saluta Fazila quando si
ferma davanti a casa mia.
«Anche tu.»
Mi lascia il tempo di scendere e
riparte in fretta. Guida veloce, superando di parecchio il limite di velocità.
Scompare in poco tempo e io mi limito ad andare a casa camminando lentamente. Mi
sento le gambe pesanti. Sono a pezzi. Non riesco a smettere di pensare a Nader,
e più ci penso più mi manca il respiro. Un mese... È tantissimo tempo.
Io e
Nader siamo rimasti senza incontrarci per settimane, dopo i nostri litigi. Ma
sapevo che lui era poco distante da me, e che mi sarebbe bastato prendere
l'autobus o la moto per raggiungerlo e parlargli, e fare pace. E poi,
frequentiamo la stessa scuola. Non è difficile incrociarsi per i corridoio. Ma
adesso? Se mi viene voglia di vederlo, di sentirlo, che cosa faccio? Fare una
chiamata intercontinentale è improponibile per le mie tasche. E sicuramente non
posso prendere l'aereo e andare lì. Ho sempre odiato le attese. Saranno i trenta
giorni più lunghi della mia vita.
Non sono assolutamente preparato ad
affrontarli.
Ehm... Sì, lo so, lo so, è passato un sacco di
tempo. Mi scuso, ma sono stata impegnatissima.
Bene. Finalmente Nader è
partito, Pietro comprensibilmente si rivolge altrove e Sebastiano ne approfitta.
Di tutta la storia è l'unico innocente e buono, povera stella...
Mi
farebbe moltissimo piacere sapere che cosa ne pensate di questo
capitolo.
Nel frattempo, ringrazio tutti quelli che hanno letto e commentato il capitolo (Smanukil, ti adoro), chi ha inserito la storia tra le preferite/seguite/da ricordare. Grazie di cuore!
Baci,
rolly too