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Autore: Argorit    03/05/2011    6 recensioni
Meliandra, la principessa del regno di Ader, viene mandata da suo padre a compiere una missione essenziale per la sopravvivenza del popolo. Ad accompagnarla, Farin, un giovane mercenario, potente, spietato e dall'oscuro passato.
Insieme, dovranno salvare il loro mondo dalla minaccia di un essere millenario, una creatura fatta di odio e da esso alimentata.
Ma ce la faranno?
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[Cit]
-Andrà mai via?- chiese Meliandra, fissandosi le mani ancora grondanti d'acqua gelida.
Farin la guardò a lungo, con attenzione. Sapeva cosa avrebbe dovuto risponderle, ma se l'avesse fatto, di quella ragazza non sarebbe rimasto che un guscio vuoto, un mero simulacro di quella che sarebbe potuta essere una magnifica regina.
Quindi, suo malgrado, si chinò su di lei, la avvolse con proprio mantello e le sussurrò -No, non lo farà. Solo gli stolti credono che il tempo lenisca ogni ferita-
-Ma allora cosa devo fare? Come posso convivere con questo? Io non sono forte come te, io non posso andare semplicemente avanti, dimenticando quello che è successo!-
Il ragazzo le rivolse il sorriso più gentile che poteva. -Allora combatti ancora, perchè il dolore che provi ora non sia vano-
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                              FARIN
 
                                                                                                                             Regno di Ansha. Zavren. Anno 1859
 
Un morbido e caldo raggio di sole, filtrato attraverso la pesante tenda di broccato che copriva una finestra posta accanto al letto su cui era adagiata, costrinse Meliandra ad aprire gli occhi.
Quando si fu abituata alla luce, la prima cosa che notò fu di trovarsi in una stanza sconosciuta, immersa fino al collo in calde coltri di lana; la seconda fu di essere quasi completamente nuda.
Sconvolta e imbarazzata si tirò a sedere di scatto, piegandosi in due con un gemito quando un violento dolore le aggredì la schiena, simile ad una vampa infuocata. Stupefatta, si fissò lo strato di bende che le fasciava quasi interamente il busto.
Ancora dolorante ispezionò la stanza con lo sguardo, alla ricerca della sua tunica. La vide appoggiata su una cassapanca accanto alla porta, perfettamente piegata.
Con movimenti lenti e calibrati con cura, volti a non scatenare un’altra fitta, si alzò dal letto, rabbrividendo per il freddo quando i suoi piedi nudi sfiorarono il legno del pavimento. Ogni passo le causò una lieve sofferenza, ma con calma e attenzione riuscì a raggiungere l’indumento. Fu una piacevole sorpresa scoprire che era stato lavato da poco. Dal tessuto si levava un piacevole odore di lavanda, che portò un minimo di quiete nella sua mente che, ancora intorpidita, cercava invano di capire in che situazione fosse finita.
Indossò la tunica ed uscì dalla stanza, percorrendo il breve corridoio che si trovò di fronte fino a quella che aveva tutta l’aria di essere una sala da pranzo, imbandita con una quantità di cibo sufficiente a sfamare almeno quattro persone.
Il suo stomaco gorgogliò sonoramente, palesando la propria intenzione di unirsi al banchetto. Solo allora Meliandra si rese conto di essere terribilmente affamata. La tentazione di sedersi e mangiare si fece sentire subito, forte, implacabile, un bisogno lacerante che le ardeva nelle viscere con un’intensità anche maggiore di quella del dolore che aveva provato poco prima alla schiena. Non poteva, però, servirsi del cibo altrui senza nemmeno chiedere: sarebbe stato irrispettoso ed indecoroso, e avrebbe anche rischiato di far irritare il suo salvatore, chiunque egli fosse.
Era ancora in bilico tra l’etichetta, che le vietava nella maniera più assoluta di mangiare, e i brontolii del suo stomaco, che la spingevano in tutt’altra direzione, quando una voce maschile alle sue spalle la distolse dal suo dilemma.
«Siediti e mangia.» Ordinò perentorio lo sconosciuto.
Sorpresa, Meliandra fece per voltarsi, ma due mani delicate, eppure incredibilmente forti, la bloccarono, impedendole di compiere un movimento che, senza ombra di dubbio, le avrebbe causato un dolore atroce.
«Calmati, non sono un tuo nemico.»
Senza aggiungere altro, lo sconosciuto la superò, sedendosi e ordinandole di fare altrettanto.
«Serviti pure.» Disse con voce bassa e gelida, come se dal suo cuore non traspirasse alcuna emozione.
Troppo affamata per opporre una qualsivoglia protesta, Meliandra obbedì e cominciò a mangiare, stupendosi leggermente nel notare la presenza, tra le varie vivande, numerose porzioni di carne rossa e pane bianco, cibi moderatamente costosi che, nella maggior parte dei casi, il popolo non poteva permettersi. Non in grande quantità almeno. Lo sguardo del suo commensale, tuttavia, la avvertiva che non avrebbe gradito proteste di sorta, indi per cui tacque.
Quando si fu riempita lo stomaco a sufficienza da riuscire a tornare a ragionare con lucidità si decise a porre quelle domande che le ronzavano per la testa dal primo momento che aveva visto quel ragazzo.
«Ehm…» Cominciò, cercando le parole giuste. «Dove mi trovo? E tu chi sei?»
Il suo interlocutore non si degnò nemmeno di alzare lo sguardo, rispondendole atono:«Sei a casa mia, in uno dei sobborghi di Zavren, e io sono Farin. Se non sbaglio mi stavi cercando, vero principessina?»
Per poco Meliandra non si lasciò scappare il boccone dalla bocca: quello era Farin? La ragazza lo squadrò con attenzione. Doveva avere si e no uno o due anni più di lei. Aveva un fisico magro e asciutto, ma possedeva anche una sorta di grazia innata nei movimenti che si esprimeva, indipendentemente dalla sua volontà, in ogni suo gesto. I lineamenti del viso erano delicati, quasi con un lievissimo accenno femminile. Le labbra, rosee e sottili, risaltavano appena nell’incarnato pallido del ragazzo, quasi fossero una semplice linea chiara priva di espressione. Gli occhi, grandi e di un’intensa tonalità verde smeraldo, erano incorniciati da sottili sopracciglia bianche, e bianchi erano anche i capelli, di un bianco candido e brillante, simile al colore della neve posatasi di fresco in alta montagna. Tenuti mediamente lunghi, sembravano non aver mai visto un pettine in vita loro, in quanto ogni ciocca andava in una direzione tutta sua, creando un tutto sommato piacevole caos.
Meliandra non riusciva in alcun modo a conciliare la figura del mercenario che l’aveva aiutata contro quell’ubriacone, e che l’aveva salvata da quell’assassino, con quella del ragazzo che aveva di fronte.
Le labbra del ragazzo si tesero in un sorriso a metà tra il sarcastico e il divertito. «Sembra che tu non mi creda.»
«E’ che non riesco a credere che un ragazzo così giovane possa fare un mestiere duro come quello del mercenario.»
«Non è un caso così raro. Il mondo, fuori dalla bambagia dorata dove sei cresciuta, è duro. Per sopravvivere si deve fare di tutto.»
Meliandra lo fissò, chiedendosi se credergli o meno.
«Mostrami il marchio e Veheza e ti crederò.»
Farin inarcò un sopracciglio. «Il marchio c’è l’ho, ma non ho idea di cosa sia Veheza. Spiegati meglio.»
La ragazza spalancò la bocca per lo stupore. Come poteva non sapere nulla? Poi, però, le venne in mente che quel ragazzo non poteva avere nessuna nozione di storia antica, quindi si affrettò a spiegare:«Veheza è la spada che apparteneva al tuo predecessore come “custode del dono d’addio”, e che so che, se sei chi dici di essere, dovresti avere con te.»
«Custode di cosa?» Chiese Farin mentre sguainava la spada, posandola innanzi a se sul tavolo, e si toglieva il guanto sulla mano destra, scoprendo il complicato disegno che ne ornava il dorso.
La domanda del ragazzo, però, si perse nel vuoto, perché Meliandra stava fissando, come ipnotizzata la spada. Non riusciva a staccare gli occhi da quella meraviglia.
La foggia di quella spada rasentava la perfezione: il pomolo di forma ovale sembrava fatto di un materiale bianchissimo, simile all’osso, ed era pieno di minuscoli simboli in lingua antica, incisi con estrema perizia. Sull’elsa, invece, era inciso un dragone che, elegante e sinuoso, risaliva fino alla guardia dorata dall’insolita forma circolare. La coccia triangolare recava inciso un magnifico sole, e la lama, lunga e incredibilmente sottile, sfavillava, lucida come uno specchio d’argento.
Dopo averla rimirata a lungo, senza quasi accorgersene spostò la propria attenzione dalla spada, alla mano del ragazzo e, istintivamente, spinta da una volontà simile ad un ricordo, intrecciò la propria mano con quella di Farin che, sebbene lo volesse, non riuscì a respingerla, bloccato dalla stessa misteriosa sensazione che spingeva lei ad agire.
I simboli sulle mani dei due giovani iniziarono a brillare, spandendo una luce dal colore indefinibile su tutta la sala da pranzo, e mutarono forma, mescolandosi, come in una danza, l’uno con l’altro, fino a divenire uno solo. Un profondo senso di dolcezza li avvolse. Con una sicurezza che non le apparteneva, Meliandra fissò i propri occhi in quelli di Farin, scorgendovi un’ombra di profonda tristezza, che però il ragazzo si affrettò a scacciare, insieme alla mano della ragazza.
Di nuovo padrone di se stesso, Farin le scoccò un’occhiata furente.
«Che cazzo è stato?!» le sbraitò contro, trattenendo a stento l’impulso di afferrare la spada e puntargliela alla gola. Gli era sembrato che il suo cuore si aprisse, e che quella ragazza potesse scorgervi dentro qualcosa di cui solo lui doveva essere a conoscenza.»
«N-non lo so. Il marchio reagisce al suo gemello, ma questo è tutto quello che so. Forse i poteri che Kahali mi ha concesso si sono amplificati a causa della tua vicinanza.» Le urla di Farin l’avevano spaventata, costringendola a rattrappirsi sulla propria sedia.
«Cosa? Che roba è Kahali?»
Meliandra risollevò la mano sinistra, mettendo in mostra un piccolo e sottile anello d’argento, ornato da una gemma a forma di quarto di luna.
Osservandolo, il ragazzo provò solo un vago formicolio alla mano, e di nuovo, come un retrogusto residuo, una lieve sensazione di felicità, che però stavolta respinse con facilità.
La sua irritazione crebbe, ma decise di assumere un atteggiamento calmo e controllato, onde evitare di spaventare ulteriormente Meliandra, che sembrava sull’orlo di uno svenimento.
«Cos’è?» Chiese, ora con un tono nuovamente privo di qualsivoglia inflessione.
Stupita dal repentino, seppure apparente, cambio di umore di Farin, Meliandra tardò un po’ a rispondere.
«S-si chiama Kahali, che vuol dire l’”occhio che comprende”, e fu creato assieme a Veheza “la luce inarrestabile”. Esattamente come la tua spada ha un potere speciale, che solo chi possiede il marchio può utilizzare.»
«Sarebbe?»
«Kahali mi concede la facoltà di vedere l’aura degli esseri viventi.»
«E che utilità avrebbe?»
«Per un guerriero come te, nessuna credo. Ma per un mago è molto utile. Studiando l’aura posso capire gli stati d’animo e le sensazioni delle altre persone, oppure posso percepire molto meglio i flussi naturali e usarli per rendere le mie magie più potenti.»
Il viso di Farin fu attraversato da un lampo do preoccupazione al pensiero che qualcuno riuscisse a leggere le sue emozioni, ma si affrettò a ripristinare la propria maschera di ghiaccio, onde evitare che Meliandra, che aveva appena ritrovato la calma, si agitasse.
«Quindi è un potere che viola l’altrui intimità? Senza alcun dubbio utile ad una principessina viziata come te che, probabilmente, passa il proprio tempo a spettegolare con le cortigiane. Fammi un favore, non guardare la mia. Mi seccherebbe molto diventare un pettegolezzo di corte.» Disse con l’espressione più maligna e arrogante che gli riuscì in quel momento, cercando di far irritare la ragazza.
Evidentemente doveva aver raggiunto il suo scopo, perché vide Meliandra diventare di un acceso color rosso pomodoro.
«Non temere.» Sibilò lei.«Non userò mai il mio potere impropriamente, come invece sono certa che tu faccia.»
«E quale sarebbe il potere di questa spada? Non ho mai notato nulla di strano.»
Meliandra si concesse una breve risatina, beandosi della momentanea superiorità delle proprie conoscenze. Si stupì lei stessa del proprio comportamento, ma le parole del ragazzo, unite alla sua espressione, l’avevano irritata come nient’altro aveva mai fatto prima.
Gustandosi a fondo anche l’ultimo istante, rispose:«Veheza non può essere danneggiata in alcun modo, e non c’è materiale che non possa tagliare. Ecco perché è chiamata “luce inarrestabile”. È l’arma perfetta, che non teme nemmeno la magia e può squarciare anche le tenebre più fitte.»
«Capisco. Non ci avevo mai fatto caso. Pensavo fosse una normale spada, magari irrobustita da qualche sigillo. Mi andava bene finché fosse servita allo scopo, e non me ne sono mai interessato più di tanto.» Aveva parlato con un tono calmissimo, come se il pensiero di possedere un’arma praticamente invincibile non lo toccasse minimamente.
«Ora però smettiamola di girarci intorno principessa. Tu come sai queste cose? E soprattutto, cosa c’entro io? Sia chiaro, per me è un lavoro come un altro, ma non posso fare nulla finché non mi spieghi la situazione.»
«La ragazza cercò di capire una volta per tutte se poteva fidarsi del ragazzo che aveva di fronte. Si era spinta molto in là con le informazioni, ma le cose che gli aveva detto erano decisamente meno importanti di quelle che ancora gli nascondeva.
Non riuscendo però a penetrare la maschera che era il viso di Farin, decise di fidarsi, se non altro perché sapeva che, da sola, avrebbe senza dubbio fallito. Prese quindi un profondo respiro e cominciò a raccontare.



Salve gente, scusate il ritardo! (Cosa cazzo ti saluti dopo un mese! NdSqualo-sama)
Avrei voluto postare prima, ma i miei numerosi impegni scolastici (Leggi recuperi dell'ultimo mese) mi hanno impedito di postare prima. senza contare che ho riscritto il capitolo almeno 4 volte, e nemmeno mi è venuto un granchè.
Detto ciò vi saluto.
Adios amigos! (Cazzo ti parli in spagnolo che non sai una mazza! NdSqualo-sama)

  
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