Parte quinta - De visu
C’è a volte un velo particolare,
nell’espressione delle persone, un misto fra ansia e serenità. È questo il
classico atteggiamento di chi mente senza volerlo, o per meglio spiegarmi, di
chi mente ma vuole a tutti i costi accendere nell’interlocutore il dubbio dell’inganno;
di chi dice una bugia con l’obiettivo sì di parere sincero, ma con la singolare
– e brutale – finalità di far intendere dell’altro.Ci sono vari modi per mentire in
questo modo, senza alcuna pietà. C’è chi se ne sta serio, chi è spontaneo, chi
ancora ficca le mani in tasca e stringendosi nelle spalle lo annuncia.
Adesso vado. Tornerò presto.
Me lo disse anche Shaka. Il
problema è che me lo disse sorridendo, e la cosa mi mise a disagio. Avevo
sempre adorato il suo sorriso, così limpido e sereno, ma più il tempo passava e
più ne avevo quasi timore. Qualcosa dentro di me mi faceva notare che il mio
nuovo fratello era cambiato, eppure mi rifiutavo categoricamente di dar retta a
questo scomodo pensiero e anzi lo strozzavo con ogni cellula del corpo, lo
trucidavo con l’anima. Perché volevo uccidere lui prima che proprio la mia
paura uccidesse quello che era nato fra me e Shaka Mudaliar.
Era un giorno d’inizio settembre
quando mi furono rivolte quelle parole. Fermi sotto l’acquazzone delle foglie
rosse, come due immagini che il pittore magistralmente sfuma per render viva la
brezza. L’estate se n’era andata presto, quell’anno, e l’autunno pretendeva il
comando assoluto sulla fresca e nitida serata bristoliana. Sul marciapiede una
bicicletta che fila, un ragazzino che corre sventolando il basco a scacchi, una
signora con un passeggino. Dietro alle fronde il sole che muore, l’atmosfera sanguigna
del tramonto. Color seppia.
Era tutto terribilmente piatto.
- Adesso vado. Tornerò presto.
- Sei proprio sicuro di non
volermi dire dove, Sha? E perché con Giraud? Se devi andare da qualche parte posso
benissimo venire con te... ti ci accompagno io, vuoi?
Shaka negò con un cenno del capo.
– Non hai di che preoccuparti. Camus è tuo amico ed io sono tuo fratello. Puoi
fidarti.
Continuava a sorridere. Per la
prima volta lo odiai. Lo odiai così tanto da gettargli le braccia attorno al
collo e stringerlo in un abbraccio irrazionale, neanche mi stesse dando un
addio. Gli sussurrai che mi fidavo. E lo lasciai andare.
- Fratellone, è mai possibile che impieghi quaranta minuti e sette
secondi per prepararti? Ma dico, sei proprio come le ragazze!
- Lia, non farmi ridere! -, e già ridacchia mentre acciuffa un paio di
stivali e li veste in fretta e furia.
Non capirò mai mio fratello; mai capirò l’intricato e complesso mondo
di Aiolos Iracà. Anche in questo momento, sbirciandolo dalla mia postazione
preferita,
(“E vittoria per i Red Sox! I Red Sox trionfano!” trilla il cronista
in tv)
proprio non comprendo che fretta
ci sia ad uscire con quel tipo. Come si chiama? Shura Delgado, forse? Ogni
volta che il fratellone esce con lui colgo nel suo sguardo un’eccitazione fuori
dal comune. Stasera gli tremano persino le mani mentre fa scattare la zip del
giaccone.
- Vedi di non stare in giro troppo – lo ammonisco acido, tornandomene
rivolto allo schermo con una mano corsa in fretta alla ciotola di popcorn. Aiolos
mi lancia uno sguardo divertito, pesca un cuscino dalla poltrona e me lo lancia
addosso filando di corsa fuori dalla porta; di corsa certo, prima che io possa
acciuffare il telecomando e tentare un contrattacco. Però rido. Rido anche quando lo sento dire: - Adesso vado.
Tornerò presto! -, e rido pure quando salta nella macchina che lo attende sul
marciapiede, rigorosamente posto di guida, proprio davanti alla finestra del
salotto.
Rido senza sapere che non lo rivedrò mai più.
Solo quando Camus Giraud rientrò senza Shaka mi ricordai che quella frase, quella maledetta frase, mi era stata detta anche da Aiolos. Con il piccolo difetto che poi non era tornato a casa.
(E tu non vuoi perdere Shaka, vero? Non vuoi, non dopo che l’hai abbracciato, l’hai baciato, l’hai accettato come fratello, vero?)
- Giraud...?
- Lascia che ti spieghi.
La classica frase di chi invece non ha intenzione di spiegarti un bel niente. Il copione che contiene questa battuta prevede anche che la situazione degeneri; ebbene la situazione andò come doveva andare, con la mia mano corsa ad artigliare il colletto di Camus Giraud e il tipico strattone con cui si sbatte qualcuno al muro.
- Dov’è?
- Aiolia, toglimi le mani di dosso. Io ho solo fatto quello che voleva lui.
- E cosa voleva? Cosa accidenti voleva...?
- Anche tuo padre era d’accordo.
- Oh bene! – grugnii lasciando di colpo la presa per evitare di strozzarlo a mani nude. – Qui si prendono decisioni senza che nessuno mi dica niente!
Il pianista m’inquadrò con sguardo sofferente. Si sistemò il colletto, si schiarì la voce, non perse di lucidità: - In Italia.
Tutta la rabbia che avevo in corpo si sciolse d’improvviso per lasciare spazio ad un sentimento intraducibile. Stupore, preoccupazione, incredulità.
- ...Italia?
- Al Teatro alla Scala di Milano. Mi ha chiesto di portarlo all’aeroporto ed io ho esaudito la sua richiesta.
Poi il furore tornò con l’imminenza con cui era svanito. Lo scaricai tutto contro il muro, a un filo dalla tempia di Camus Giraud. Quasi avvertii la parete tremare.
- Mi spieghi cos’è andato a fare in Italia? E nemmeno senza dirmelo!
Il francese non si mosse di un millimetro. Sebbene il mio pugno gli avesse fatto fischiare l’orecchio, rimase impassibile ed anzi socchiuse appena gli occhi. – Non voleva che tu lo sapessi. Tu non gliel’avresti permesso, non negarlo – rispose all’immobilità del silenzio.
- Camus. Ho bisogno di sapere perché.
Qualcosa nelle mia voce doveva essere cambiato perché sentii la mano di Camus Giraud adagiarsi sulla mia spalla. Tremavo. Prima la rabbia, poi lo stupore, poi di nuovo l’ira, e adesso? Contenni il brivido salato delle lacrime.
- Perché suonare alla Scala è il suo sogno più grande. E perché sarà la sua ultima esibizione, Aiolia – fu quello che mi disse.
- E perché non vuole che io lo veda... Che io lo veda e basta, sì, è giusto.
Avevo fatto bene a frenare la lingua: almeno con le parole non dovevo dar retta alla realtà. Tanto che male c’era? Io ero rimasto in Inghilterra, lui stava volando verso l’Italia. Sapevo che era fiero di me perché gli aveva implicitamente concesso di partire, e questa era una consolazione.
Solo dopo aver annaspato si impara a nuotare. Io sapevo nuotare, ma le lacrime, quella sera, mi dimostrarono il contrario.
L’aria di Bristol era indolente.
Fischiava sulla cima degli alberi, vibrava sotto alla luce fioca dei lampioni,
strisciava fra i cespugli. Ero uscito per prendere una boccata d’aria e già il mio
orologio segnava le undici di sera. Una boccata d’aria un po’ lunga, Mr. Iracà.
Mi sedetti sul bordo di un marciapiede e rimasi ad ascoltare il silenzio. La
trasparenza ha tanto da dire, soprattutto quando sei tu a voler star zitto.
Stavo ancora prestando orecchio al serpeggiare del tempo quando il telefonino
mi annunciò l’arrivo di un nuovo messaggio. Non che avessi molta voglia di
leggere, ma con la lentezza di un automa estrassi l’apparecchio dalla tasca dei
jeans e me lo portai davanti agli occhi.
Era Camus Giraud. Ma... chi era
Camus Giraud?
- Vero – mi risposi da solo.
In circostanze normali sarei
scattato dal marciapiede e mi sarei fiondato immediatamente a casa per
richiamarlo. Ma la brezza autunnale aveva avuto su di me il potere di spazzar
via tutta la mia irruenza, per far posto ad un comportamento naturale,
rilassato.
Meccanico.
Mi alzai, mi chiusi in una cabina
telefonica, una delle tante rinomate red
telephone boxes inglesi. Non avevo credito nel telefono, tanto meno per
permettermi una chiamata oltre il confine. Digitai il necessario e mi collegai
alla rete delle chiamate internazionali. Persi il conto delle monete che spesi.
Non aveva importanza.
La linea mi fece attendere poco,
forse venti secondi. La naturalezza con cui chiamavo Shaka Mudaliar, fuggito in
Italia per esaudire il suo sogno, pianista cieco, mio fratello, spaventò anche
me. E poi la sua voce:
- Allora Camus te l’ha detto.
- Come hai fatto a capire che ero
io?
- Non mi ci è voluta una laurea.
Sai, l’Italia è bellissima. Ci sei mai stato?
- No.
- Ciao Lia.
- Ciao Sha.
La discussione si fece
scoordinata. Io non mi resi nemmeno conto d’essermi rannicchiato in un angolo
della cabina, stretto contro lo sportello, con il filo dell’apparecchio attorcigliato
al dito, i capelli irrigiditi dal vento, la notte inglese ad azzannare quella
pozza di luce. Il mio fiato a stampare nuvole calde sul vetro.
- Sha.
- Dimmi.
- Suona bene anche per me. Lo
sai, che ci tengo.
- Contaci. Domani sera ho l’esibizione.
- Cosa suoni?
- Liszt. Ascoltalo anche tu.
- Ricevuto. Sha, c’è un problema:
ti sto chiamando da una cabina e le monete non durano in eterno.
La linea mi restituii la sua tiepida
risata. – Va bene. Buonanotte fratellino. Tornerò.
- Sei già tornato. Ti voglio bene.
Anche Diego -, e riattaccai prima di lui. Avrei potuto parlare di più, avrei
avuto ancora un minuto, volendo. Ma mi era bastato sentirlo ridere. Avevo visto la sua felicità ed io ero felice
con lui, perché sapevo che la sua gioia era stata completata dalla mia
intangibile presenza.
presente
Mi sono lasciato alle spalle mio
padre, il suo sguardo stanco, come mi sono lasciato alle spalle tutti gli altri
pensieri. Varcare la soglia mi sveste inspiegabilmente di ogni preoccupazione.
Perché preoccuparsi, in fondo?
Shaka è seduto su una sedia a
rotelle. Mi dà le spalle, la luce bianca che filtra attraverso le tende lo
veste di un’aura meravigliosa. Al suo fianco, lingua penzolante e portamento
docile, Diego. I cani non si possono portare negli ospedali, la cosa è
risaputa, ma quel labrador ha un permesso speciale, essendo una guida. Fiata e
trema appena sotto alle dita del pianista, che delicate gli accarezzano il
muso.
- Lia.
- Sha.
Sto un momento sull’uscio di
quella stanza d’ospedale prima di chiudermi la porta alle spalle ed
avvicinarmi. Con il senno di chi sa il copione a memoria, nell’immoto candore
dell’atmosfera, mi fermo dietro di lui e gli appoggio le mani sulle spalle. Non
si volta.
- Hai suonato a dovere, all’esibizione?
- Parliamo di due settimane fa.
Ma sì, dovrei essermela cavata.
- Ho sentito che il pubblico ha
apprezzato.
Sento il suo sorriso. – Sì,
forse.
- Diego – sussurro al labrador, -
non vuoi proprio scollarti da qui, eh?
In risposta mi giunge un mugolio
di disapprovazione. Rido. Shaka ride con me.
- Ancora due o tre giorni –
riprendo allora rivolto a mio fratello, e gli lego il foulard verde sugli occhi.
– Ancora poco. Ma non posso permetterti di guardare il mondo.
- Perché?
- Non è bellissimo, Sha. Ci sono
cose di cui farei volentieri a meno.
C’è dolcezza nella mia voce e
Shaka sa che lo faccio per il suo bene. Sta ancora sorridendo in silenzio e
questo mi basta.
- Cosa farai?
- C’è Diego qui con me.
- Io prendo l’aereo stasera. Non
posso trattenermi, lunedì torno a studiare.
- Dove?
- Al conservatorio. Credo sia una
buona idea.
- Sì. Decisamente.
Mi chino appena e gli poso un
bacio sull’orecchio. – Tornerò. Promesso.
- Mi fido.
La luce del giorno si è fatta di
un candore assurdo. Temo d’esserne accecato.
Futuro, trent’anni dopo
Sono tornato in Italia. Come da promessa.
Io, Aiolia Iracà. Pianista.
Mi esibirò alla Scala.
Suonerò Liszt.
Nel salotto di casa Iracà...
Sono
proprio fiera di aver terminato questa FF. Mi sono affezionata ai
personaggi e spero che anche per voi sia lo stesso °v°
La mia vena drammatica/depressiva devo sempre essere sfamata, e con
Foulard il pranzo è stato abbondante! Un grazie ai recensori e a
coloro che l'hanno aggiunta alle seguite ^^ Aspetto i pareri finali,
anche critici, ma ho bisogno di sentire quello che avete da dire in
merito ** Grazie ancora per avermi seguito (:
Fe'