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Autore: pandamito    18/05/2011    3 recensioni
Insulti. Ancora insulti. I miei. I loro. Che differenza c’è?
Le mie son solo parole, le loro pure. Allora perché mi viene da piangere? Perché questa parole fanno più male dei veri pugni?
Perché sono così diverso?

Una one-shot raccontata dal punto di vista di Romano, beh... penso che per capirla meglio bisogna leggerla.
Genere: Fluff, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Il taccuino di una margherita.'
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Eccomi, cioè tipo che io dovrei andare a dormire  perchè devo partire per la gita, ma... vabbè. Devo dire la verità, ho letto un pensiero sull'account roleplay di un Lovino, precisamente quello di una mia amica, Holly e subito mi è venuta in mente questa one-shot. Finalmente ho realizzato questa frammento di vita che volevo scrivere da molto tempo. 
  • L'OC!Centro Italia (Giulietta 'Adriana' Vargas) è sotto il mio completo copyright, aspetto, carattere, storia, relazioni, etc.
  • La fanfiction si svolge non molto lontano da quando l'Austria si impossessò del Nord Italia, mente la Spagna aveva il dominio sul Centro-Sud.
Non ho più niente da dire, buona lettura. ♥


Romi, sei più bello quando sorridi.



“Mostro!”
 
Le grida dei passanti continuano ad aumentare sempre più, al mio cammino che avanzava in avanti, non guardando nessuno con la mia testa china e rivolta verso il basso, incurante delle loro parole di disprezzo. Mi odiavano. Mi odiano tutt’ora. Mi odieranno ancora. Lo so. Perché io non so sorridere. Perché io non sono nato completo. Perché io avrei voluto tanto non essere nato.
Sono incompleto, non ho quello che serve per piacere alla gente. Non so parlare, solo difendermi. Pian piano la luce si allontana sempre più da me, facendomi cadere in un baratro oscuro. Ho paura, qui è buio. Troppo buio.
 
“Cosa vuoi? Perché ci tratti male?”
 
Insulti. Ancora insulti. I miei. I loro. Che differenza c’è?
Le mie son solo parole, le loro pure. Allora perché mi viene da piangere? Perché questa parole fanno più male dei veri pugni? 
Perché sono così diverso?
Tutti mi temono e mi accusano dicendo che scateno liti, porto peste, sono figlio del diavolo, un mostro… eppure non sono loro i primi mostri a colpirmi? Hanno paura di me e scappano, hanno terrore di me e mi pestano. Le ferite provocate dai bastoni non sono nulla in confronto alle piccole crepe che si allargano sempre più nel mio petto. Fa male, tanto male. Piangere e non avere nessuno che ti ascolta. Sono solo… tremendamente solo.
 
“Perché non sei come tuo fratello? Lui è buono, tu sei cattivo!”
 
Sempre le stesse cose, sempre le stesse frasi, rimbombano nella mia testa come se fosse una poesia imparata a scuola. Perché non sei come lui? Perché sei così diverso? Non lo so. Vorrei tanto scoprirlo.
Lui sorride. Io no. Lui sa parlare, sfiorando le sue labbra le une contro le altre per liberare dolci parole gentili. Io non so cos’è questa “gentilezza” e questa “dolcezza”. Io… ho mai parlato realmente? 
Prima eravamo così felici. Perché ora ci ritroviamo così?
Vattene, allontanati da me, che sono sangue del tuo sangue. Sii egoista, così posso esserlo anch’io e senza rimorso, senza rimpianti per aver preferito una vita migliore, una vita più felice lontano da te, Veneziano. Ritornatene da quel maledetto austriaco, lavora sorridente per lui sorpassando le tristezze che ci ha provocato separandoci. E’ normale, per te, essere diviso dalla propria famiglia? Eh, fratello?
 
“Via! Via! Noi non ti vogliamo.”
 
Non mi volevano lì, a Roma, nella mia bella Italia, nella mia bella Patria. Non mi vogliono nemmeno qui, in Spagna, dove io non sono nessuno, dove sono solo un prigioniero, un servo, dove non mi conosce nessuno ed io non conosco questo mondo, abituandomi ad esso solo per comodità, perennemente spaesato. 
Figlio di un demone. Un bambino con un marchio. Se solo questo così detto ‘marchio’ fosse visibile e potessi vederlo anch’io, allora non esiterei a strapparmi via la parte del mio corpo dove vi è impressa quella maledizione che continua a seguirmi.
 
“Demonio! Demonio!”
 
Continuano ad insultarmi, a tirarmi ortaggi, ed io rimango fermo, immobile, al centro della strada. Cercavo solo di passare ed ora mi ritrovo puzzolente di lattuga, sporco di rosso dei pomodori. Sono nato marcio e ci resterò per sempre. Non si può far diventare buona una mela col verme. La mia anima è quel verme.
Stringo i pugni, digrigno i denti. « Lasciatemi in pace! » grido, furioso come un cane con la rabbia.
La gente, attorno a me, si spaventa, grida di terrore, scappa da questo mostro che c’è in me. E rimango solo, di nuovo. Ancora sporco, vagabondando per la strada, mentre sento ancora i pezzi di frutta e verdura cadere o colarmi sulla mia veste.
Scalcio qualche pigna sulla stradina di sassi, con le mani strette dentro le tasche dei pantaloni, casomai qualcuno volesse parlarmi sono ancora pronte, rigide e ben chiuse, a posta per chiarirgli le idee.
Fa schifo. Questo mondo fa schifo. Tutto fa schifo. Anche io.
 
« Romi! Romi! »
 
Sento la sua piccola e stridula voce nella mia mente. Prima o poi anche lei mi lascerà.
Questo prato verde sarà un deserto e questo ruscello si prosciugherà. Quest’acqua limpida non c sarà più, in modo che io non possa più vedere il mio riflesso dentro di essa. Eppure… qui, in quest’acqua, io vedo solo un bambino. Un bambino imbronciato, si, ma pur sempre un bambino. Che mostro c’è in un bambino? Dio, cosa c’è di sbagliato in me, che ho fatto il battesimo e ti ho seguito per anni? Ti seguo tutt’ora, eppure tu non mi aiuti, non mi conforti. Cosa dovrei credere, allora? Se mi hanno insegnato che la Fede aiuta, ma ora che ne ho più bisogno mi ignora, io cosa dovrei fare? Cosa dovrei pensare, se la Fede oramai è l’unica cosa che mi rimane in questo momento, ma non serve manco più quella?
 
« Romi! »
 
Ancora quella graziosa voce sottile, infantile, bianca, delicata. Lei. La vedo riflessa nel ruscello, che corre verso di me. Anche lei ha un sorriso. Perché io no? Cos’ha da sorridere se io sono triste? 
Rigiro, alzo i tacci ed accelero per sfuggire da lei. « Cosa vuoi? » le domandò scocciato, aumentando ancor più il passo.
Sento i suoi passi leggeri che danzano fra i fiori, fra i vari fili d’erba che rischiano di macchiare il suo povero e bel vestitino giallo.
« Romi! » mi chiama, con la sua nobile voce. Mi chiama ancora, ancora, ed ancora. Come se il mio nome fosse una canzone, una meravigliosa canzone cantata da lei. Con un piccolo slancio in avanti riesce ad afferrarmi la camicia marroncina, ormai completamente sporca di sugo.
« Che vuoi? » grido, forte, facendo librare in aria anche qualche uccello spaventato. Forse i corvi in attesa della mia desolante morte che tutti desiderano. Mi strattono. Lei cade. Cade a terra. Ed io non so fare niente se non restare immobile, a guardarla, senza un’espressione precisa. Vedo il suo corpicino a terra che cerca di rialzarsi. Le ginocchia sporche, il gomito sbucciato per aver attutito la caduta, il vestito infangato ed il viso colmo di terra.
Continuo a stare fermo, quasi sconvolto da ciò che ho potuto fare. Giulietta, cos’ho fatto? Ora, sorella mia, anche tu vorrai scappare da me e ti capisco. Meglio. Abbattimi, uccidimi, privami anche del tuo amore fraterno, del tuo calore e del tuo dolce sorriso affinché io possa finalmente morire in pace, senza far rimpiangere nessuno. Morirò solo e giovane, per il bene di tutti. Per privare tutti di un mostro sceso in terra per portare solo disgrazia.
Ti inginocchi, fra il prato, con quei piccoli fiorellini che ti circondano. Prima non ti eri fatta ripetere l’occasione di raccoglierli, vero? Ora a terra, del tuo vecchio mazzolino, ci sono anche delle margheritine. Sei sempre la solita, Giulietta mia. Vola libera come una farfalla, non indugiare a guardare me con i tuoi grandi occhioni neri spalancati, che donano, ora, solo a me la loro totale bellezza. 
« Romi… » chiami il mio nome, lo pronunci come una preghiera, una preghiera diretta a qualche santo lassù, ma non sporcare le tue dolci labbra con un nome così impuro come il mio, capace di dissacrare qualsiasi parola che esce dalla bocca di un prete. Ed ecco il tuo viso, l’estremità della tua bocca che per l’ennesima volta si piegano all’insù, mostrandomi ancora, forse per un’ultima volta, la gioia più immensa che un uomo possa desiderare. Ed io la sto provando ora.  « … sei più bello quando sorridi. »
Tutto qui? E’ veramente tutto qui?
No, non piangerò, te lo prometto. Non mi mostrerò mai debole di fronte a te, mia stupida sorella, perché non vorrei mai rovinare il dolce fiore che mi stanno mostrando le tue labbra in questo momento. Non vorrei mai che ti preoccupassi della mia gioia.
Eppure non posso essere felice, se nel profondo io spero di morire.
« Io… non so sorridere. » Oh parole infami! Maledette, traditrici! Osate violare la mente di lei con questo triste pensiero? Il mio volto non è mai cambiato. Non ha sorriso per il suo sorriso. E non sorriderà mai. 
Il bello è che manco tu ti scomponi. I tuoi capelli corti, così simili ai miei, tutti riconoscerebbero il nostro sangue. Come tutti riconoscerebbero il sangue che ci lega a lui.
« Tutti sanno ridere. » affermi, convinta, così tanto da tentar di convincere anche la mia ragione; ciò mi lascia perplesso. Ed è così naturale, per me, seguire il tuo sguardo che si rivolge al cielo. « Forse sorriderai quando dal grande dipinto blu cadran dei piccoli fiorellini bianchi, come margherite. » Alzi l’indice verso l’altro, a voler toccare il cielo con un dito.
Vorrei sollevarti, vorrei toccarti e convincerti che non sono un demonio. Vorrei abbracciarti e piangere sulla tua spalla così confortevole, vorrei stringere il tuo corpo così delicato per potermi solamente mettere in ridicolo… di fronte a te, e piangere come una donnicciola incinta. 
« Si chiama neve, Giulietta. » le mie parole continuano a ricordarmi dei vecchi e noiosi monologhi. Sempre la stessa voce, lo stesso ritmo, la stessa pesantezza ed inespressività. 
Io provo emozioni?
Sh. Mi inviti a fare silenzio permettendo a quelle rosse rose al posto del tuo becco di sfiorare il tuo indice affusolato. « Non chiamarla così. » mi preghi, assumendo con gli occhi un’espressione triste, appendendo lievemente la testa da un lato, verso una spalla. « Se le dai un nome non sembrerà più libera come prima. » La sua pelle diafana sembrava risplendere al sole ed io non osavo interrompere il suo discorso, frutto della sua mente troppo fantasiosa rispetto alla mia. Lei è una principessa, non dovrebbe stare a fare il servitore come me. Lei non lo merita. E non posso fare a meno di alzare ancora una volta lo sguardo verso l’alto. « In questo modo io non potrei più chiamarle “margherite” e non saprei cosa voler essere d‘inverno, quando nei campi non vi sono fiori. » Qui non c’è la neve d’inverno. Lei vuole essere qualcosa che è già, ma che è convinta di non essere.
Chino il capo, guardandola dall’altro verso il basso e facendo un paio di passi verso di lei, per poi fermarmi a guardarla di nuovo. Mi piace osservare come rigira la sua dolce margheritina fra le mani, per poi ornare nuovamente i suoi capelli con essa.
Eravamo in un campo più o meno come questo, quel giorno, quel felice giorno di promessa.
Già, abbiamo fatto una promessa.
Ora ricordo.
Vi odio, vi odio tutti. Specialmente voi due.
Non posso morire, non posso abbandonarvi e semplicemente perché ho fatto una stupida promessa con voi. 
Ce la faremo. 
Un giorno staremo di nuovo insieme.
Tendo la mia mano peccatrice verso la tua, mia santa. « Andiamo a casa. » ti invito, come un tentatore e tu l’accetti, senza facendotelo ripetere due volte, l’afferri, felice, sorridente, in cerca anche di quel mio sorriso che forse non verrà mai. 
Ti rialzo, stringendoti ancora più forte la mano. Non vorrei lasciarla mai, perché sembra l’unica a sorreggermi in questo tragitto. Forse non sono solo. Ma ora dobbiamo tornare in quella villa spagnola, il mio inferno, il nostro paradiso. Solo perché se continuerai ad esserci tu, allora mi andrà bene. Potrei anche farcela.
Devo farcela.
Forse sorriderò nel giorno in cui sarò finalmente libero da questa promessa che mi sono fatto carico di mantenere. 
Sorriderò, quando saremo finalmente tutti assieme, uniti, come una vera famiglia.
   
 
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