NEL
BUIO
CAPITOLO 3 - LA LIBERTÀ DI UN’OMBRA
Alzò la
testa, tremante, dopo quello che sperava fosse l’ultimo conato di vomito; con
le mani malferme cercò di pulirsi la bocca, mentre l’ennesima lacrima scendeva,
lacrima per lo schifo che provava, per il puzzo, per l’orribile sensazione che non
lo abbandonava da giorni; cercò in tutti i modi di non pensare di nuovo a
quegli occhi terrorizzati, che sporgevano
sempre più, che non si erano riempiti di lacrime come si era aspettato
ma erano rimasti fino all’ultimo a guardarlo allucinati: si prese la testa sporca
tra le mani, luride anche loro, cercando di chiudere la mente ai ricordi del
collo, della barba, di quei capelli sudati sotto le dita, delle vene del collo
che cedevano sotto la sua stretta implacabile... ricominciò a vomitare,
appoggiandosi al pavimento e scivolando su quella pietra ormai ricoperta da ciò
che doveva essere stato il suo cibo, quello che aveva rubato nel teatro. Ma ormai
non vomitava più cibo, e vide solo liquidi uscire dalla sua gola bruciante:
imprecò a denti stretti, contro se stesso e contro quelle memorie che
sembravano non dargli pace, cercando di trattenersi dall’urlare.
Ma
perché poi? Era libero adesso, o no? Libero!
“Libero!” urlò al buio che lo circondava,
con le ultime forze che gli rimanevano. Tornò a coprirsi il volto con le mani:
non gli importava che fossero ormai coperte di bile, non gli importava degli
occhi e della pelle brucianti, voleva solo dimenticare.
“Libero,
libero, libero...”
Si
rannicchiò completamente, come forse aveva fatto nel ventre di quella
disgraziata madre che qualche dio gli aveva donato, e cominciò a dondolarsi
avanti e indietro, stringendosi le mani al viso, le dita che sembravano voler
strappare quel volto di mostro, sporche di vomito, terra, polvere, lacrime...
lacrime che non volevano smettere di scendere, e che anzi continuavano ad
aumentare, incessanti, scuotendolo in singhiozzi disperati. L’abitudine di una
vita lo spingeva a sussurrare, a piangere piano, a trattenere i singhiozzi che
lo facevano sussultare, ma il bisogno sempre più impellente di sfogarsi
sembrava farsi ogni secondo più forte. Pianse, sempre più forte, senza curarsi
di ciò che lo circondava: per una volta, solo il nulla. Non c’era nessuno a
giudicarlo, nessuno ad additarlo, a urlargli contro, a picchiarlo, nessuno; era
libero...
Libero e
condannato a ricordare quegli occhi per sempre.
Pianse
per quelle che gli parvero ore. Ogni singhiozzo sembrava indebolirlo, privarlo
di quel poco di energia che gli era rimasta, eppure quelle lacrime parevano
avere sul serio il potere di farlo sfogare, e insieme ai contenuti dello
stomaco che giacevano sul pavimento di pietra con quelle lacrime lui sembrava
svuotarsi di tutto ciò che sentiva: dolore, orrore, schifo, schifo per se
stesso e per ciò che era diventato. E odio, odio profondo per quegli uomini che
lo avevano reso tale, che lo avevano costretto a tramutarsi in un mostro, in un
assassino. Strano a dirsi, sua madre era l’unica che non riusciva a
disprezzare: dentro di sé aveva l’intima coscienza di essere lui stesso la
causa di tutto, la causa del dolore e dell’abbandono e dell’odio. Lei si
aspettava un bambino... e si era ritrovata un mostro.
Tremando
i singhiozzi si fecero più radi, più distanziati. Ormai allo stremo delle
forze, cercò di prolungare il più possibile il suo pianto liberatore, di stare
il più possibile lì a dondolarsi, nel buio e nella solitudine; si era ritrovato
molto spesso a maledirla, quella solitudine, ma in questo caso non poteva che
esserne grato. Il buio, il silenzio e il nulla circostante sembravano
abbracciarlo e nasconderlo da tutti e da tutto, e questo nascondiglio era tutto
ciò che Erik cercava. Non era forse quella la libertà? Il potersi dire
finalmente libero da ogni sguardo, da
ogni critica o giudizio?
Un
lungo, tremulo sospiro spense i suoi singhiozzi nel silenzio circostante.
Rimase ancora un po’ rannicchiato su se stesso, quasi cercasse di ricavare un
po’ di calore da quella posizione, quasi che le sue braccia strette attorno
alle gambe magre potessero proteggerlo da un pericolo esterno; se l’aspettava quasi,
dentro di sé, di essere colpito da qualcuno, di essere punito per aver pianto troppo
e aver disturbato i suoi aguzzini. Ma non venne nessun colpo. Era solo.
“Libero...”
Appoggiò
lentamente la fronte sulle ginocchia, sentendo le ossa scomode e spigolose.
Rimase in quella posizione, immobile come le pietre che lo circondavano, per
lunghi minuti che sembravano protendersi nell’eternità; solo all’ultimo chiuse
gli occhi, stringendo un po’ di più il proprio corpo tra le braccia, quasi a
voler assicurarsi di essere ancora lì, di non essere più prigioniero di un
circo e dei suoi macabri ricordi. Poi, lentamente ma con decisione, si sciolse
dal suo stanco abbraccio, e provò ad alzarsi. Numerosi tentativi andarono a
vuoto, facendolo scivolare sul pavimento umido e sporco, e facendogli battere i
gomiti scarni su quella pietra spietata; ma alla fine riuscì ad alzarsi,
tremante sulle gambe malferme, ma deciso a non rimanere un minuto di più di
fronte all’amaro spettacolo della sua bile rovesciata per terra. Cercò pesantemente
l’appoggio della parete, e lo trovò solo all’ultimo, un attimo prima che
cadesse di nuovo: rimase qualche secondo fermo, boccheggiante e impaurito, poi
si costrinse a raddrizzarsi e, tenendo un braccio contro il muro, ad
allontanarsi da quel posto. La sua marcia indegna durò per forse un’ora, ogni
muscolo del corpo che si lamentava sempre di più per quell’assurdo sforzo, gli
occhi che si annebbiavano e che sfregava con rabbia, la pelle puzzolente che
glieli faceva pungere di lacrime. Ma non si fermò, non voleva permetterselo:
solo quando raggiunse i piani dov’erano le sceneggiature abbandonate per gli
spettacoli più vecchi, si concesse qualche respiro di riposo. Con uno sguardo
sempre più stanco adocchiò quelle antiche attrezzature, finché non trovò ciò
che cercava: era un vecchio, polveroso e tarmato sipario. Doveva essere lì da
anni, vista la quantità di polvere che lo ricopriva, e il colore opaco e smunto
che aveva assunto: probabilmente un tempo un rosso sgargiante, ora nient’altro
che l’ombra di esso. E doveva essere stato intero, senza quel lungo squarcio
che si apriva lungo di esso.
Erik,
con tutta la cautela di cui i suoi muscoli esausti erano capaci, si avvicinò
alla tenda che giaceva sul pavimento, piena di pieghe e sporcizia, certamente tana
di chissà quanti animali. Chiuse gli occhi e per un attimo pensò a quanto in
basso era arrivato per sopravvivere: farsi salvare da una ragazza sconosciuta,
nascondersi in un teatro, rubare da mangiare, dormire coi topi su un pezzo di
stoffa divorato da chissà quanti insetti... uccidere un uomo... riaprì gli
occhi e tornò a fissare quel vecchio velluto che sembrava invitarlo
ironicamente tra le sue pieghe ombrose e sporche, e con molta meno cura di
quanto aveva progettato, vi si lasciò cadere sopra. Un’enorme vampata di
polvere nascose tutto ciò che lo circondava, riempiendo l’aria e minacciando di
soffocarlo e accecarlo, se non avesse chiuso bocca e occhi in tempo; e i
numerosi rumori e squittii indignati che si levarono, seguiti da ticchettii di
chissà quante unghie su quei pavimenti, non lasciarono dubbi sulla presenza di
topi e ratti in quello che adesso gli faceva da letto. Non appena furono
passati troppi secondi per trattenere ancora il fiato, aprì leggermente le
labbra e inspirò piano, ignorando lo stimolo a tossire violentemente che gli
dava tutta quella polvere.
“Tra
tarme e ratti, polvere e topi, eccolo lì, il piccolo Erik...”, cominciò a
canticchiare piano non appena essa si fu diradata, cercando di ironizzare
ancora un po’ sulla sua situazione per non tornare a piangere. No, non voleva
ricominciare a farlo: si era sfogato, aveva urlato e singhiozzato e tremato
abbastanza per una vita intera; adesso doveva riposarsi, anche se tra tarme e
ratti, e doveva sul serio cominciare a vivere. E sarebbe stata una vita
grandiosa! Avrebbe dimostrato al mondo intero, a quel dio che sembrava usarlo
come barzelletta personale, a quella ragazza che l’aveva aiutato, a se stesso, che lui poteva farcela, che
poteva essere libero e vivere davvero nonostante tutto. Avrebbe dimostrato a se
stesso di non fare schifo, di non essere indegno di vivere, di non essere un
mostro.
“E coi
topi e coi mostri, egli viveva, eppure l’unico, che mostro non era,” continuò a
canticchiare piano, cercando di convincersi di quelle parole vane e disperate
quanto insensate e stupide. Smise di usare le parole, e si fece cullare dalla
sua stessa voce con una lieve ninna nanna, anche se ben sapeva che già tante
volte non aveva funzionato: innumerevoli notti aveva cercato di auto indursi ad
addormentarsi, per sparire per qualche ora da quel mondo in cui non voleva
vivere; aveva concluso, dopo chissà quanti vani tentativi, che c’era bisogno di
qualcun altro... che lui aveva
bisogno di qualcun altro... anche per quella stupidaggine. Le note gli si spensero
in gola, mentre stringeva gli occhi che gli pungevano per la polvere. O erano
lacrime?
Sospirò
profondamente, schiarendosi la mente e rilassando le palpebre sugli occhi; e
piano, nel silenzio tornato sovrano in quel nulla, riuscì a prendere sonno,
avvolto da polvere e velluto.
*
La prima
sensazione che ebbe fu quella di sollievo: aveva dormito pochissimo negli
ultimi giorni, e sempre sulla dura pietra. Al confronto, quello su cui giaceva
adesso era ben paragonabile alle soffici nuvole che sembravano ospitare gli
uccelli lassù nel cielo. Con le dita prese ad accarezzare lievemente quella
superficie, che cedeva piano alle sue mani, piegandosi e stirandosi; prima di
ricordarsi di dove fosse, un lieve sorriso gli distese il volto per quella
semplice e dolce sensazione. Poi, con calma, quasi fossero dei diligenti
soldati che marciassero davanti al proprio generale, i ricordi tornarono ai
suoi occhi ancora chiusi, chiari come se non si fosse appena svegliato: la
polvere, i ratti, il sipario abbandonato, la marcia nel buio, i singhiozzi, il
vomito, il suo omicidio. E la fame, che sembrava minacciarlo di non dargli la
forza di rialzarsi da quel soffice letto.
Tolse le
mani dalla superficie vellutata e cominciò a stropicciarsi il viso, smettendo
fin troppo presto: erano sporche e puzzolenti come non mai. Eppure avevo mangiato così poco, prima di
ieri, si disse amaramente, mentre schiariva del tutto la vista sbattendo
gli occhi e si tirava faticosamente a sedere. Riconobbe le stesse sceneggiature
abbandonate della notte prima, quando le aveva viste appannate da un pesante
velo di stanchezza; adesso il velo s’era fatto più leggero, ma ancora la
visuale non sembrava chiara. La cosa gli sembrò strana, perché i suoi occhi non
avevano mai avuto problemi a discernere ciò che lo circondava nell’oscurità, ma
fin troppo presto Erik prese coscienza dei crampi che sembravano divorargli lo
stomaco e che, evidentemente, ci tenevano ad indebolire tutto il resto del suo
corpo. Con una smorfia, pensò che avrebbe preferito continuare a dormire e
passare dal sonno alla morte, silenziosamente, su quell’accogliente casa di
topi, per sparire da quel mondo senza che nessuno se ne accorgesse; poi per un
attimo pensò che forse la ragazza, Eloise, se ne sarebbe accorta, dopo tutto.
L’aveva aiutato, gli aveva insegnato gli orari del personale dell’Opera per
fargli capire come e quando si sarebbe potuto muovere tra quegli innumerevoli
corridoi, gli aveva mostrato il Teatro di
sopra... e gli aveva salvato la vita.
Alzandosi
in piedi si allontanò da quel finto letto e prese la via che aveva visto tre
giorni prima per raggiungere i piani superiori. Un ghigno amaro gli deformò le
labbra, pensando a tutte le qualità di quel corpo deforme: resistenza alla fame
e al dolore, senso d’orientamento, grande intuito, un’intelligenza fuori dal
comune... quanti aspetti positivi aveva lui? Solo la voce avrebbe potuto
renderlo un dio di fronte agli altri uomini, rifletté corrugando la fronte e
aumentando il passo; eppure, eccolo lì, a vomitare anche l’anima per il ricordo
di due occhi, a vagare nel buio per la fame. Se davvero ci fosse stato un dio,
di certo doveva aver deciso di sprecare quei talenti... o meglio, di darglieli
solo per fargli credere di essere un uomo davvero, e non un mostro, e per farsi
una bella risata non appena se ne fosse accorto.
“Grazie
mille dello sforzo, Signore, ma non
lo trovo divertente,” sibilò a denti stretti all’aria silenziosa circostante.
Se si aspettava una risposta, non la ricevette.
Continuò
a rimuginare sulla sua triste esistenza, mentre raggiungeva la sala in cui le
ballerine pranzavano i giorni delle prove. Dopo essersi brevemente assicurato
che nessuno lo guardasse, entrò nella cucina e con immenso sollievo si lavò le
mani orribilmente puzzolenti, così come le braccia e il viso. Dopodiché,
finalmente pulito o quasi, si diresse stancamente verso la dispensa, e poté
tornare ad avere uno stomaco silenzioso e che non protestasse in continuazione:
sebbene non si riempì la pancia, mangiò abbastanza per non sentirsi troppo
debole da tornare nel buio di sotto. Rimpiangendo di dover lasciare quelle
stanze così confortanti, sparì silenziosamente com’era comparso, e tornò a
scendere le innumerevoli scale che l’avrebbero portato al suo amato nulla. A
quel nulla che lui osava chiamare libertà.
Si fermò solo quando raggiunse quello strano lago sotterraneo che, aveva
scoperto, aveva un’acqua ancora più sporca di quella che gli propinavano gli
zingari: rimase fermo a lungo a fissarla, mentre la sua mente creava per lui
immagini fantastiche di un’acqua pulita, limpida, che riflettesse la sua
immagine...
L’immagine
era quella di un bambino normale, vestito con abiti normali, né troppo ricchi
né troppo poveri, con le guance chiare e gli occhi allegri. Sorrideva contento
della sua figura nell’acqua, e chiamava la mamma a vedere anche lei la
meraviglia dell’acqua: poteva vedere riflessi gli alberi, le panchine del
parco, il sorriso felice della madre. Mentre lei lo guardava con i suoi
splendidi occhi verdi, lui si avvicinava sempre di più all’acqua, incerto se
toccarla o meno. Un anatroccolo allora gli si avvicinava, e si faceva
accarezzare, facendolo stupire di quanto potessero essere morbide le sue piume;
e le risa divertite della madre lo spingevano a scoppiare a ridere anche lui, e
ridevano insieme, e l’anatroccolo scappava via, spaventato. Allora la madre lo
spingeva avanti, a toccare l’acqua: lui si avvicinava alla superficie,
leggermente increspata ma che tornava normale, e gli restituita un volto
normale, completo... e allungava la mano e toccava quell’acqua fresca, pulita,
mentre la mamma lo accarezzava sulla testa, scompigliandogli i capelli e
dicendogli parole affettuose...
L’acqua
gelida risvegliò Erik dal suo sogno, e lui si ritrovò a guardare un lago nero,
che non rifletteva nulla se non il buio circostante, il buio e il nulla. Una
lacrima cadde su quell’acqua scura, scivolando dalla sua guancia e mischiandosi
a quel nero, e lui diede un pugno al lago, quasi a cercare di scacciare quei
sogni ad occhi aperti che non facevano altro che lacerargli il cuore, un cuore
vuoto di qualsiasi affetto. Si maledisse a denti stretti per quelle sue vane
immaginazioni, che non potevano che rendere ancora più amara la sua orribile
realtà, e per assicurarsi di svegliarsi del tutto e tenere corpo e mente
occupati, si tuffò completamente nell’acqua fredda: i suoi vestiti laceri
sembrarono per un attimo volergli fluttuare attorno, come se stesse volando, ma
presto non furono altro che oggetti freddi e appiccicosi, che rendevano
impossibile alla sua pelle conservare un minimo di calore. Cominciò a nuotare
velocemente, per non pensare al freddo e riscaldarsi un po’ con la sua fatica,
e si concentrò sul pensiero di voler scoprire cosa ci fosse dall’altra parte
del lago, deciso a non farsi prendere da nessuna fantasia. Intorno a sé
riusciva a discernere vecchie pareti squadrate, da cui pendevano centinaia di
ragnatele e tra le quali non sembrava esserci
nessuna fonte di luce: doveva ringraziare i suoi occhi così particolari
per il fatto che riuscisse davvero a vedere qualcosa. Si ritrovò in una specie
di corridoio, in cui le pareti erano più ravvicinate, e dopo di esso si aprì un
grande slargo, ai due lati del quale sembravano ergersi delle enormi colonne.
Erik si fermò qualche secondo nell’acqua, guardandole meglio: dopo poco tempo
riuscì a vederle bene, e si rese conto che non erano affatto colonne, ma due colossali
statue di uomini che tenevano il soffitto sulla schiena. Affascinato da una
tale costruzione, si rese conto di avere davanti a sé una grata a impedirgli il
passaggio. Ma ormai era troppo incuriosito per tornare indietro: s’immerse
completamente, e un sorriso soddisfatto gli sollevò gli angoli della bocca al
vedere che la grata non continuava fino al fondo. La sorpassò e uscì
velocemente dall’altra parte, prendendo aria con forza e sentendo i capelli
gocciolanti e ghiacciati contro il viso. Mentre cercava di non pensare a quanto
si dovesse essere sporcato in quella nuotata di pochi minuti, scoprì presto che
il fondo si avvicinava sempre di più, e in pochi secondi si ritrovò a camminare
con le sole gambe bagnate dall’acqua, increspata dall’arrivo di quell’insolito
visitatore. Si fermò quando solo i piedi erano bagnati dalle gentili e gelide onde
del lago, e i suoi occhi esplorarono in lungo e in largo il nuovo ambiente in
cui si trovava.
Si
trattava di un vasto prolungamento della caverna, diviso in più zone: le pareti
non erano lineari, ma sembravano formare tante stanze diverse, alcune più
piccole, altre più grandi e spaziose. Anche il soffitto variava di altezza a
seconda delle “stanze”, avvicinandosi o allontanandosi di più dal suolo e
rendendo quindi gli ambienti più o meno spaziosi. Erik rimase fermo a lungo,
mentre i suoi occhi scivolavano su quelle pareti di pietra nuda e irregolare, e
si fermavano infine sullo spazio più grande. La sua fantasia riprese a
lavorare, ma questa volta immagini oscure come la notte che lo circondava
andarono formandosi davanti ai suoi occhi: mentre essi scandagliavano quel
buio, guardando con intenso fascino ogni più piccolo anfratto, poteva vedere
dei candelabri illuminare quell’oscurità, un letto che l’avrebbe accolto quando
fosse stato stanco, un tavolo dove avrebbe potuto studiare e leggere in ogni
momento, statue e ornamenti a riempire i vuoti, a gettare ombre cupe sul
pavimento illuminato dalle candele... ma quando il suo sguardo giunse al
centro, nello spazio più grande, non vide nulla se non il nero di quella
caverna. Insieme alle immagini nella sua mente si erano andate formando nuove
note sconosciute e meravigliose, di strumenti ancora ignoti o sentiti di
sfuggita, ma nell’attimo in cui i suoi occhi si posavano sul vuoto della stanza
centrale la musica cessò, in un infinito attimo di silenzio; e allora una nota
bassa, potente come mai aveva immaginato, riempiva del suo suono grave tutta
l’aria buia, e sembrava spegnere le candele e accendere una luce più oscura e
bassa di ogni altra, riuscendo a scavare nel profondo dell’animo del suo stesso
creatore e innalzandolo lungo delle lisce canne dorate: un organo, ecco cosa
troneggiava al centro di quell’ala della grotta! Un magnifico, maestoso organo
che attirava i suoi occhi affamati di meraviglie e il suo cuore colmo di
musica, un organo come quello da lui visto in una chiesa, con le sue tastiere e
le infinite serie di tasti bianchi e neri, che come tasselli di un puzzle a due
colori si sarebbero uniti, sotto le sue dita, a formare tutti i colori della
sua musica!
Cadde in
ginocchio davanti alla sua stessa fantasia, l’animo colmo di immagini e suoni
che parevano mozzargli il fiato quant’erano sublimi e pesanti, dotate del
potere di farlo sollevare nell’aria e di schiacciarlo a terra allo stesso
momento. Quello non sarebbe più stato un covo di ratti e ragni, ma la sua casa:
ci sarebbe stata la sua mano d’artista a distribuire colori e oggetti, a
impastare il buio con le luci di poche ma essenziali candele, a sopraffare quel
silenzio travolgente con note sconosciute a qualsiasi altro essere umano. La
sua voce e il suo genio, le sue mani e le sue scelte avrebbero reso una reggia
quella caverna, e lui avrebbe dimostrato alla ragazza, a quel dio che si
divertiva con i suoi patetici sforzi, avrebbe dimostrato a se stesso, che la sua vita poteva essere degna d’essere vissuta, e
che non aveva bisogno di nessun altro per renderla tale.
Si
rialzò, e un’espressione solenne rese quel suo volto sfigurato quasi regale:
quel luogo era suo, e lui e solo lui l’avrebbe reso degno di qualsiasi essere
umano. Da quel momento in poi, la sua musica l’avrebbe sorretto, e sarebbe
stata la sua unica amica, amata e
amante, l’unico appoggio sul quale
sentirsi sicuro: finalmente, si era reso conto che in quell’antro sublime
sarebbe stato al sicuro, e la sua sarebbe stata la vita di un genio; ma che se
anche avesse fatto un solo passo al di fuori di esso, la sua vita era destinata
ad essere quella di un mostro, che si nasconde nel buio e nella notte... la
vita di un’ombra.
***
Ed eccoci al terzo ed ultimo capitolo.
Io sta storia l’ho scritta solo per una scena... e mi son venuti fuori tre
capitoli, e la scena è stata relegata agli ultimi due-tre paragrafi dell’ultimo
capitolo... bah xD ma sono contenta di averla scritta. La scena con cui si apre
questo capitolo è terribile - anzi, nella
mia mente era terribile, tanto che mentre la scrivevo mi son venute le
lacrime agli occhi... però non sono riuscita a scriverla bene come avrei
voluto, come me l’ero immaginata. È un peccato, ma siamo qui per imparare :)
anche la scena in cui lui immagina un’altra vita, con la mamma nel parco, mi ha
fatto venire le lacrime agli occhi e non mi è venuta fuori bene... forse le ho
descritte troppo poco e/o male, non saprei. Tu, Lettore, che ne dici? In ogni
caso, anche se non mi è venuta affatto bene come avrei voluto mentre la
scrivevo, non fa schifo. Quindi meglio di niente!
Un paio di precisazioni: nel film Erik non guarda lo zingaro negli occhi,
mentre lo uccide. Però faceva figo e quindi ho scritto così u_u. Secondo, nel
film si vede bene (mentre cantano Down Once More/Track Down This Murderer) che
l’acqua del lago vicino alla grata è bassa, ci si può camminare. Anche questo è
stato ignorato perché faceva figo il piccolo Erik nuotante u_u e poi magari all’inizio
l’acqua era più alta... e lui negli anni l’ha fatta abbassare... del resto è un
genio.
Grazie mille della lettura :) un inchino a te che leggi, più profondo se
recensisci (:P).
Key