A Elena,
compagna di mille discussioni o ipotesi,
sogni e "filmini",
su questo splendido telefilm,
che ci ha allegramente intrippato il cervello.
Sappi che mi dovrai sopportare ancora per molto.
6x01 – 370
miles.
[capitolo betato da Trappy]
«È solo tempo.»
La
sentiva rimbombare ancora quella frase nella testa, per l'ennesima
volta, in cui sembrava divertirsi a ricordargli che quel
tempo
era finito. Pulsava feroce, da togliere il fiato e costringerlo a
poggiare le mani sul vetro per sostenersi e sporcarlo delle impronte
delle sue dita. Perché c’era ancora in quel mondo, e la sua
presenza era in quelle macchie opache; lui era ancora vivo, anche se
vivo non si sentiva affatto.
Intrappolato a
soffocare in un posto della sua mente, tra un passato da rimpiangere,
costellato di troppi “se” e altrettanti “ma” con cui
combattere ogni giorno, e quel presente in cui non voleva stare; a
cui non voleva dare ascolto.
Sospirò
sommessamente, immettendo più aria possibile nei suoi polmoni,
cercando di concentrare la sua mente in quel gesto che sarebbe dovuto
essere naturale, ma che aveva paura di aver dimenticato.
Non
si era mai sentito così in tutta la sua vita: arreso, senza una
speranza a cui aggrapparsi. Perso e incapace di rialzarsi, o almeno
di galleggiare; perso e incapace di voler
trovare un modo
per non lasciarsi andare.
Ne
aveva passate e superate di tutti i colori. Era sfuggito alla sua
morte e aveva sconfitto anche quella della persona che più amava al
mondo. Non si era fatto problemi a sfidare la sorte per lui, né
chiunque gli si parasse davanti. Aveva sbagliato e trovato sempre il
modo per rimediare ai suoi errori…ma allora era diverso; a quel
tempo aveva qualcosa per cui lottare e stringere i denti. Aveva una
speranza – seppur spesso troppo fievole e troppo simile a una
stupida illusione – a cui aggrapparsi. Una meta, un obbiettivo, uno
scopo da raggiungere a tutti i costi; aveva
Brian.
Brian.
Gli costava così
tanto anche solo pensarlo quel nome così comune, che nella sua
semplicità nascondeva troppo del suo passato e molto ancora del suo
presente e di quello che – sempre che ne avesse ancora uno –
sarebbe stato il suo futuro.
Un nome che amava
pronunciare, finché il suo proprietario era lì per ascoltare le sue
chiamate; o anche quando non voleva parlargli per quel suo brutto
carattere, ma era comunque presente e non poteva fuggire dalla sua
testardaggine.
Ma
ora non ci sei.
Pensare quella
verità fu troppo difficile, come ogni volta.
Ammettere di aver
fallito e aver scritto la parola “fine” era la cosa che più lo
feriva in assoluto, tanto che spesso perfino il suo cuore si
rifiutava di crederci e provava a ribellarsi, battendo più forte,
quasi a fargli male.
Un altro respiro
sfuggì dalle sue labbra e la sua fronte andò a imprimersi sul vetro
che la domestica aveva pulito accuratamente. Passò gli occhi
sull’immensa città che si perdeva davanti ai suoi occhi, senza
riuscire ad ammirarne davvero i contorni, lasciando che quelle
innumerevoli luci perdessero la loro consistenza e si trasformassero
in fasci informi per l’insistenza con cui osservava.
Si morse le labbra
e con uno sbuffo arrendevole si allontanò dall’enorme finestra,
con l’intento di farsi una doccia e provare a lavar via i troppi
pensieri che continuavano ad arrovellarglisi in testa, ma il trillo
acuto del telefono lo costrinse a rimandare i suoi piani. Non aveva
alcuna voglia di rispondere, né di parlare, chiunque fosse all’altro
capo del telefono – perché l’unica persona che avrebbe voluto
sentire non l’avrebbe chiamato – eppure, incapace di sopportare
ancora quel suono fastidioso, si convinse ad afferrare il cordless.
«Pronto?»
pronunciò svogliatamente, ed il suo cuore perse un battito
nell’udire la voce del suo interlocutore.
«Topino,
ti disturbo?»
«Deb.» sussurrò
lui, quasi cercasse una conferma di cui in fondo non aveva bisogno,
prima di riscuotersi e affrettarsi ad aggiungere: «No, certo che no.
Come stai?»
«Al solito.
Sempre più vecchia e sempre più indaffarata.» la sentì
ridacchiare con quel suo buffo modo e l’immaginò piena di quei
suoi gingilli stravaganti e colorati. «Che ore sono lì da te?»
«Sono a New York,
non in Australia.» sorrise divertito, seppur fievolmente. «Non c’è
il fusorario. Sono meno di quattrocento miglia.»
«Ah, ma davvero?»
si finse stupita lei, e Justin capì che era tempo di una delle sue
battute acide. «Credevo tu fossi molto più lontano, visto che è
più di un anno che non ti fai vedere! Un anno e…»
«Un anno e sei
mesi proprio oggi, lo so.» l’anticipò lui. «Mi dispiace, ma ho
avuto da fare e…»
«Stronzate.» lo
interruppe, e il tono che assunse gli fece intendere che non
ammetteva repliche. «Non m’importa un fico secco dei tuoi impegni.
Potevi tornare almeno per il giorno del Ringraziamento, o per
Natale!»
«Hai ragione,
ma…»
«Lo so che ho
ragione!» esclamò, e Justin sorrise ancora. Almeno di una cosa era
sicuro: Debbie non sarebbe mai cambiata, ovunque lui fosse, qualunque
cosa facesse o dicesse; e per come si erano messe le cose, questo lo
rincuorava un bel po’. «E mi auguro che tu non voglia darci buca
anche quest’anno!»
«Non lo so.»
«Justin!» lo
chiamò lei; e quando lo chiamava per nome, non significava niente di
buono.
«Ascolta
Deb, è complicato…» sospirò stancamente. Gli mancava tutto di
Pittsburgh, tutto,
ma non poteva tornare. Non se la sentiva ancora.
«Complicato?
Io non ci vedo un bel niente di complicato!» strillò lei, sempre
più decisa. «Alza quel tuo bel culetto sodo e portalo a Pittsburgh.
Cosa c’è di complicato
in questo?!»
«Non è questo.»
esitò lui in risposta, vacillando davanti alla sua determinazione.
«È che…»
«Te lo ripeterò
una volta soltanto, quindi apri bene le orecchie.» si soffermò per
un attimo come per assicurarsi che la stesse ascoltando attentamente
e riprese: «Noi ti aspettiamo qua. Non m’importa quali
fottutissimi impegni tu abbia, perché anche se sei un grande
artista, la tua cazzo di casa è sempre qua ed io è qui che ti
voglio.» la sentì sospirare e strinse più forte il cordless per
aiutarsi a ricacciare indietro le lacrime, mentre davanti agli occhi
gli passavano davanti tutti i suoi gesti abituali e gli parve di
averla lì nel suo loft. Quello che più lo feriva era non poterla
abbracciare. «Se ci tieni ancora a noi, sai cosa fare. Altrimenti
smetterò di romperti le scatole.»
Deglutì a forza e
alzò gli occhi al soffitto, dando il consenso a una delle lacrime
che gli inondava gli occhi di rompere l’argine e scendere lungo la
sua guancia. Si passò la lingua sulle labbra e cercò dentro di sé
la forza di parlare ancora. «Non dire stronzate. Lo sai quanto ci
tengo a voi. Siete la mia famiglia.»
«E
per noi è lo stesso, topino.»
gli rispose Debbie, con un tono molto più dolce. «Ti aspettiamo qua
per le nove.»
«Non ti prometto
niente, Deb.» riabbassò lo sguardo mortificato come se potesse
davvero vederlo e concluse con un fil di voce: «Scusami.»
«Dovrai
affrontarlo prima o poi.» lo rimbeccò lei. «Dovrete
affrontarlo.»
«Lo
so.» si affrettò a dire. Non aveva assolutamente voglia di parlarne in quel momento. Non aveva voglia di parlarne mai.
«Adesso scusami ma…»
«Devi
andare, perché hai da fare.» immaginò di vederla scuotere la testa
e mettersi le mani sui fianchi come al solito, e riuscì a
sorriderne. «Sempre impegnati voi vip!»
«Non
sono un vip!» ridacchiò stavolta. E gli suonò perfino strana e
sconosciuta quella sensazione. Da quanto non rideva? «Sono sempre il
tuo raggio
di sole.»
«Certo, e mi
manchi tanto.»
«Mi manchi anche
tu. Mi mancate tutti voi.» si sforzò di dire, seppur soffocato dal
nodo che gli stringeva la gola. «Ci sentiamo Deb. Stammi bene e
saluta tutti, ok?»
«Cerca di venire
tu a salutarli.»
«Ci proverò,
ciao.» sussurrò, improvvisamente stanco, prima di premere il tasto
per riagganciare e lasciarsi ricadere sul suo divano bianco.
Ennesimo sospiro
ed ennesima lacrima.
Justin
prese a fissare il soffitto socchiudendo gli occhi. Si sentiva
perennemente spossato, qualunque cosa facesse. Aveva perso quella
verve
che lo caratterizzava e il sorriso luminoso che gli aveva fatto
guadagnare quello sciocco soprannome con cui tutti lo identificavano:
“raggio di sole”.
Si era perfino
dimenticato in che occasione Deb gliel’aveva affibbiato ma,
guardandosi allo specchio, non vedeva che una pallida copia del quel
se stesso. Non era più un raggio di sole, ma un triste riflesso
opaco a cui nessuno avrebbe fatto più caso.
Si passò una mano
tra i capelli biondissimi e setosi, ormai più lunghi di come li
avesse mai avuti in precedenza; così come piacevano a sua madre e a…
Scattò seduto,
guidato da un guizzo di rabbia, e poggiò i gomiti sulle ginocchia
per stringersi la testa tra le mani nel vano tentativo di riuscire a
strappare via certi pensieri. Si stropicciò la faccia e si massaggiò
le tempie, ma certi ricordi non avevano la ben che minima intenzione
di porre fine a quella infima tortura.
La percepiva
chiara nella mente quella voce, insieme alle parole che si erano
detti. Le urla al telefono e il pugno di rabbia sferrato contro il
muro. La delusione che cresceva di pari passo con la rabbia, fino
allo sprofondare nell’oblio della tristezza…
«Non posso
crederci!» lo aveva urlato, stringendo con forza il cellulare. «Stai
parlando sul serio?!»
«Perché
non dovrei?»
gli
aveva risposto con semplicità disarmante, facendolo tremare per un
attimo.
«L’avevi
promesso, Brian!» urlò ancora. «Avevi promesso che saresti
venuto!»
«Io non ti ho
promesso proprio un bel niente. Non era quello che ci eravamo detti
quando sei partito.»
«Pensavo
t’importasse di vedermi, ma non ti sei mai degnato di passare
neanche per un giorno!»
«Ho avuto da
fare» replicò con tono piatto. «E poi non mi pare che tu abbia
fatto diversamente…»
«Ma
io avevo le mostre!»
«E io il
lavoro.»
Strinse i
propri capelli biondi con forza, preda di un attacco isterico. Era
passato quasi un anno da quando si era trasferito a New York e da
allora non si erano più visti. Quando era partito era triste, ma
convinto che sarebbero riusciti ad affrontarlo e resistere in qualche
modo…perché si amavano; eppure in quel momento non gli parve che
una sciocca illusione.
«A che cazzo
ti serve essere il capo se non puoi fare come ti pare? Se non puoi
prenderti neanche un paio di giorni?!»
«Esserlo non
significa potersene sbattere i coglioni e andarsene a giro per i
cazzi propri. Ho delle responsabilità, sai cosa sono?»
«Tutti le
hanno, Brian!» lo attaccò esasperato. «Non solo tu! Eppure tutti,
e ripeto tutti, hanno trovato un momento per farmi una visita. Tutti
meno che te!»
«Evidentemente, ‘tutti’ avevano meno impegni di me.» restarono per un attimo in
silenzio, finché non lo sentì sbuffare. «Senti, ho da fare…»
«Certo! Tu hai
sempre da fare!»
«Ho una cazzo
di riunione, va bene?!»
«Ah, lo so! È
un anno che sei sempre sommerso di riunioni ogni volta che dobbiamo
parlare o discutere! Una volta la scusa era che volevi fare la
doccia, almeno hai cambiato!»
«Lasciamo
perdere…»
La rabbia
lasciò lo spazio alla delusione, mista alla tristezza per
quell’ennesimo litigio che ormai era il loro unico modo di
comunicare. «Già.»
pronunciò, con la voce rotta da un pianto che non riusciva a
trattenere. «Forse è davvero meglio lasciar perdere. Lasciar
perdere tutto.».
lasciar
uscire quelle parole gli era costato una fatica immensa, soprattutto
perché mai avrebbe pensato di doverle dire ancora; mai avrebbe
voluto farlo.
Brian rimase
interdetto per un attimo. «Di cosa stai parlando?»
«Quando sono
venuto qua, l’ho fatto contando sul fatto che comunque ci amavamo e
che in qualche modo avremmo saputo gestire la cosa. Ma da quando sono
arrivato, tra noi non va niente come avevo sperato…»
«Nessuno ha
mai detto che sarebbe stato facile. Ricominci a scappare ogni volta
che le cose non vanno come vorresti?» domandò, senza preoccuparsi
di lasciar trasparire l’irritazione della sua voce.
«Non sto
scappando. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno.» strinse i
denti e li digrignò. «Sembra che non t’importi.»
«Oddio, ti
prego! Risparmiami le tue insicurezze da ragazzina adolescente.»
«Ovviamente,
perché tu non ne hai!»
«No, non ne
ho. E allora?» sentì attraverso il cellulare il suono di un tonfo
ed immaginò che avesse colpito con un pugno la scrivania. «È un
problema?»
Prese un grosso
respiro e si appoggiò ad una delle colonne di mattoni del loft in
cui si era trasferito da poco. «Ciao Brian.» si sforzò di dire,
senza però riuscire a terminare la chiamata.
L’altro non
rispose immediatamente, ma il suono dei suoi respiri gli fece
intendere che era ancora lì. «Non ne siamo proprio capaci, eh?»
«L’avrei
tanto voluto, ma sembra proprio di no.» e non riuscì a trattenere
le lacrime. «Mi manchi, cazzo!»
«Justin, devo
andare davvero. Ti chiamo stasera.»
Si asciugò il
viso con la manica della felpa e tirò su col naso. «Servirà
davvero a qualcosa?»
«Ciao.»
rispose l’altro e, dopo qualche secondo di silenzio, lo sentì
riattaccare.
Preda nuovamente
di un attimo di rabbia, colpì con un calcio uno degli stupidi e
costosi soprammobili che gli erano stati regalati per omaggiarlo, e
l’osservò rotolare più lontano nel parquet.
Quella famosa sera
poi, Brian non l’aveva chiamato e lui non se l’era proprio
sentita di comporre il suo numero, aumentando quel senso di
frustrazione che, come una gabbia troppo piccola, continuava a
stringerglisi addosso.
Si erano sentiti
il giorno dopo e ne era uscito l’ennesimo litigio; e quello dopo
ancora, sempre con lo stesso risultato. Non riuscivano più a fare
altro ormai, e ogni volta sembrava andar sempre peggio. Telefonate
sempre più rare, più arrabbiate e sbrigative. Briciole di un amore
che stava lentamente riducendosi in pezzi troppo piccoli, anche per
pensare di essere rincollati.
Si rialzò,
incapace di star fermo; preda di momenti di sconforto in cui
desiderava solo distendersi e dormire per ore e ore, alternati da
quelli passati a gironzolare in quel loft troppo grande e silenzioso.
A volte dipingeva
per sfogarsi, ma non era più come prima.
Colori sempre più
cupi e opachi, pennellate rabbiose, figure sempre più stilizzate
dalle forme aggressive e aguzze, e schizzi confusi; la trasposizione
perfetta di quello che si stava muovendo dentro di lui.
E
la cosa peggiore…l’incapacità di disegnare ancora sia se stesso
che lui.
Guardava ai suoi
vecchi lavori e li sentiva lontani anni luce, come appartenenti alla
mano di qualcun altro; alle dita esperte di una persona completamente
distante e diversa da quello in cui si era trasformato; o a quella
grossa tela poggiata in un angolo e coperta da un lenzuolo
immacolato, sotto cui giaceva il suo ultimo tentativo incompiuto di
riprodurre quei lineamenti che conosceva anche meglio dei suoi, e che
sembrava poterlo guardare e ricordargli la sua presenza in ogni
momento; emblema del suo degrado come uomo, come artista e di quella
sua abilità innata che tutti continuavano a vedere ed elogiare, meno
che lui.
Lo sguardo gli
cadde sul prezioso tavolino basso di vetro, su cui erano state sparse
disordinatamente riviste e giornali in cui c’era almeno un accenno
a quel “genio” che tutti decantavano quale Justin Taylor, ma in
cui non riusciva a identificarsi. Con un gesto secco li rovesciò
tutti a terra, liberando quella superficie trasparente da qualsiasi
cosa.
Avrebbe voluto
strapparli tutti, incendiare qualsiasi cosa lo riguardasse da quando
si era trasferito in quella stramaledetta città per seguire un sogno
che ben sapeva essere meno importante dell’altro, che continuava a
conservare in fondo al cuore.
Si ravvivò i
capelli e riprese il cordless in mano, fissandolo nell’indecisione
di compiere un numero che, nonostante il tempo, non aveva mai
dimenticato. Compose le prime cifre, per poi chiudere gli occhi e
cancellarle tutte.
Non riusciva a
chiamarlo; non dopo quello che si erano detti. Non dopo come era
finita tra loro.
Perché
era finita.
Niente pause,
niente “forse”. Era finita, punto e basta.
Respirò a fondo e
tornò a distendersi sul divano, abbracciò il cuscino e chiuse gli
occhi.
Aveva solo bisogno
di dormire, cullato dalle lacrime e dalla disperata speranza di non
sognare ancora quel matrimonio mai celebrato.
*'*'*
«Brian.» lo
chiamò Cynthia, entrando nel suo ufficio carica di fogli e cartelle,
con i capelli biondi acconciati con una matita. Lui però parve non
sentirla, troppo impegnato a fissare un punto a caso davanti a sé e
a stringere tra le mani quel cellulare di cui non riusciva a premere
i tasti. «Brian, sei in fase creativa in un mondo parallelo o il
logo della Apple è diventato improvvisamente interessante?»
Lui si limitò a
sollevare lo sguardo, senza darle a vedere quanto in realtà fosse
realmente perso in un altro mondo, e incrociò le mani in grembo,
dopo aver posato malamente il cellulare sulla scrivania. «Cynthia.»
la chiamò, con quel suo tipico tono di sufficienza. «Dimmi una
cosa. Per cosa ti pago?»
«Perché svolgo
il mio lavoro meglio di chiunque altro?» azzardò lei, con le
sopracciglia inarcate per quella strana domanda.
«Uhm. Esatto.»
convenne, e arricciò la bocca annuendo un paio di volte con la
testa. «E tra le tue mansioni c’è per caso compreso l’obbligo
di fare queste battute del cazzo?»
«Uh, uh. Qualcuno
si è svegliato dal lato sbagliato questa mattina?» replicò la
donna, ma l’occhiata poco amichevole che lui le rivolse, la
distolse dal continuare a punzecchiarlo.
«Avanti, dimmi
che vuoi prima che ti licenzi.»
«Tieni.»
rovesciò quella marea di scartoffie sulla sua scrivania e sorrise,
ticchettando con la penna sulle sue labbra. «Me li ha dati Ted. Ha
detto di averli controllati almeno un paio di volte, ma se vuoi puoi
ridarci un’occhiata.»
Brian sollevò
qualche foglio distrattamente e lo lasciò ricadere. «No, mi fido.»
«Ehi, ma che ti
succede?»
«Niente. Torna a
lavoro.» prese il mouse e si finse impegnato a cercare qualcosa
sullo schermo.
«È
niente
da mesi. Ed è uno strano
niente.»
«Cynthia!»
esclamò con voce esasperata, e la vide sussultare.
«Sì, lo so. Se
non vado mi licenzi.»
Brian fece uno dei
suoi sorrisetti di circostanza, anche più falsi del solito, e
l’osservò mentre usciva dal suo ufficiò, prima di riaffondare
contro schienale della morbida poltrona in pelle e tornare a perdersi
nei suoi pensieri.
Osservò la sua
agenda stracolma d’impegni, così piena da far sembrare ogni post
uno strano groviglio di segni; staccò il post-it giallo che spiccava
sugli altri e sbuffando lesse quelle poche righe, accennando ad un
sorriso.
“Festa del Ringraziamento a casa Bruckner Novotny. Non ti azzardare a mancare, o ti sguinzaglio dietro mia madre.”
Inutile dire che
non aveva nessunissima voglia di sedersi a tavola e assistere
all’esibizione del matrimonio perfetto – quello di Ben e Michael
– del fidanzamento perfetto – con Ted e Blake – o subirsi i
piagnistei dell’altro single rimasto – quella checca isterica di
Emmett – né tantomeno poteva anche lontanamente pensare di dover
sopportare Debbie che cercava di rimpinzarlo con quel dannato
tacchino ricordandogli ogni circa dieci minuti quanto fosse dimagrito
e sciupato, come se sentirselo dire potesse farlo star meglio.
Era vivo, lo
sapeva e non aveva certo bisogno che gli altri glielo ricordassero
continuamente, ma voleva stare solo ed essere lasciato in pace.
In fondo, lui non
aveva proprio un bel niente per cui dire “grazie”, specie se
ripensava alla delusione ricevuta proprio in quella stramaledetta
festività, esattamente un anno prima, quando Justin all’ultimo
minuto l’aveva chiamato per dirgli che non sarebbe riuscito a
tornare a Pittsburgh.
Aveva aspettato
così tanto quel momento e la possibilità di poterlo finalmente
riabbracciare, che sentire quelle parole era stato come ricevere
un’improvvisa doccia fredda, e in un misero istante il suo sorriso
si era raggelato fino a svanire.
Non
era mai stato un tipo troppo pessimista, ma era stato inevitabile
iniziare a pensare che quello fosse “l’inizio della fine”,
esattamente come quando il suo
raggio di sole
era partito per Los Angeles e aveva iniziato a rimandare il suo
rientro; con la sola differenza che in quell’occasione erano
riusciti a ritrovarsi.
Sbuffò
rumorosamente, dopo aver gonfiato le guance ed essere riuscito a
stento a trattenersi dall’afferrare il cellulare e chiamarlo,
quando questo lo fece sobbalzare iniziando ad agitarsi e trillare.
Non
volle illudersi di vedere quel
nome sul display e fu una mossa furba per evitare l’ennesima
delusione, perché le lettere che vi lampeggiarono, andavano a
comporre quello di tutt’altra persona: “Brandon”.
«Quante volte ti
ho detto di non chiamarmi a lavoro?» si accanì immediatamente
contro di lui, dopo aver risposto.
«Infatti ti sto
chiamando sul cellulare.» rispose l’altro beffardo. Ancora non era
riuscito ad abituarsi all’idea che potesse esistere qualcuno
irritante esattamente quanto era capace di esserlo lui stesso.
«Che vuoi?» si
affrettò a chiedergli. Non aveva voglia di perdere tempo a
conversare.
«Il solito.
Stasera Babylon?»
Brian restò in
silenzio per un attimo e si umettò le labbra.
«Sì, certo.»
rispose infine, e sentì l'altro ridere.
«D’accordo,
Kinney. Ci vediamo là.»
«Ciao.» si
limitò a replicare, prima di riattaccare senza alcun entusiasmo.
La
loro era certamente la peggior “coppia” – sempre che così si
potessero definire – di “non amici” di questo mondo. Lui e
Brandon non erano niente.
Non erano amici,
ma a malapena conoscenti. Non avevano avuto nessun incontro a sfondo
sessuale né progettavano di averne uno; o almeno non rientrava nelle
intenzioni di Brian. L’unica cosa che interessava l’uno
dell’altro, e che quindi faceva da collante a quell’assurda
alleanza, era il loro modo di essere e di fare.
Per quanto fosse
assurdo che due “re” potessero convivere nello stesso regno,
avevano trovato il modo di farlo, perché entrambi trovavano
conveniente quel rapporto.
Brandon dal canto
suo riceveva ogni agevolazione dall’essere in compagnia del padrone
del locale, mentre Brian poteva contare sul fatto che non avrebbe mai
sentito petulanti raccomandazioni o dissensi da uno come lui, fatto
della sua stessa identica pasta. Brandon era quello che gli ci voleva
per non pensare a Justin, al cambiamento che per il suo amore era
stato capace di fare, ma soprattutto per provare a tornare ad essere
quello di un tempo, prima di quella maledetta notte trascorsa da
quasi sette anni ormai.
Infilò il
cellulare nella ventiquattrore di pelle nera e, dopo essersi
sistemato la giacca, s’infilò il cappotto e raggiunse Cynthia. «Io
me ne vado.» le disse, lasciandola di stucco. «Disdici gli
appuntamenti per oggi. Inventati qualcosa.»
«Brian, ma…»
«Quale parte del ‘disdici gli appuntamenti’ non ti è chiara?» sbottò con uno
sguardo fulminante. «Io sono il capo, tu la mia assistente. E a meno
che le cose non siano cambiate nel giro di qualche minuto, sono
ancora io quello che prende le decisioni.»
Cynthia prese in
mano la cornetta e cercò un numero sul palmare, lanciando di tanto
in tanto occhiate a Brian che nel frattempo stava uscendo con grandi
falcate. «Faresti bene a chiamarlo. Stai diventando peggio di una
zitella acida.»
Lo vide bloccarsi
sulla soglia e voltarsi appena. «Non ti pago per farmi da
psicoterapeuta, né come cupido per froci. Fatti gli affari tuoi e fa
quelle cazzo di telefonate.»
«Ok, capo.»
sibilò sollevando le sopracciglia e si riscosse, quando lo sentì
sbattere la porta. «Cristo, fa che quell’angelo torni a Pittsburgh
o ci mangerà vivi.»
Uscire all’aria
aperta fu liberatorio, almeno per qualche secondo, prima che la sua
mente iniziasse a registrare ogni singolo angolo di quella dannata
città in cui lui e Justin avevano parlato, riso o litigato; o
perfino scopato.
Aveva iniziato a
detestare quel posto dove ogni cosa sembrava esser stata segnata da
quella loro assurda storia, che si era ostinato per anni a non voler
definire tale, ma che lo aveva incatenato molto più di qualsiasi
altro legame.
Aprì
rabbiosamente la portiera della sua Corvette e si lasciò ricadere
sul sedile, dopo aver gettato la ventiquattrore sul posto del
passeggero, e appoggiò la fronte sul volante. Inspirò profondamente
e accese la radio.
Non voleva pensare
e non voleva ricordare, eppure qualunque cosa facesse, alla fine
sembrava rivelarsi sempre completamente inutile. Continuava a vedersi
scivolare tra le dita la sua intera vita, come se non riuscisse più
a controllarla, volatile e inafferrabile come fumo, mandandolo
letteralmente in bestia.
Lui
che era abituato ad avere il controllo su ogni aspetto della sua
esistenza; lui che faceva e imponeva le proprie regole con chiunque;
lui che non doveva rendere conto a nessuno, che non aveva pensieri ed
era libero
da qualunque cosa, si era ridotto ad essere intrappolato nel caos di
una speranza di felicità persa, che andava contro tutti i suoi
principi e che l’aveva cambiato così radicalmente da avergli fatto
smarrire ciò che era sempre stato.
Il vecchio Brian
Kinney non esisteva più, e lui non riusciva ad accettarlo.
«Non
ce la faccio più!»
lo
sentì urlare attraverso il telefono. «Possibile che tu non ci sia
mai? È un anno che non ci vediamo! Un fottutissimo anno!»
«E credi che
la colpa sia solo la mia?» alzò la voce a sua volta e tirò un
calcio su una delle travi del loft. «Infatti, devo dire che il
giorno del Ringraziamento l’abbiamo proprio trascorso bene
insieme!» pronunciò ironico con il suo solito sorrisetto stampato
in faccia, anche se dentro si sentiva ribollire di rabbia.
«È per lavoro
che sono rimasto a New York, lo sai anche tu!» ribatté Justin e gli
venne da ridere. «Potevi raggiungermi. Potevamo passarlo qua!»
«Sai che non
voglio intromettermi nei tuoi affari.» aveva ripetuto così tante
volte quella frase che ormai ne aveva perso il conto.
«Assistere a
una mostra la chiami un’intromissione?!»
«Che cazzo
c’entro io con quella roba?!» corrugò la fronte e si passò una
mano tra i capelli. «Era inutile che venissi là. Non avremmo avuto
tempo per stare insieme.»
«Di certo non
ne avremmo mai se continuiamo a stare in due città diverse, e se tu
ti ostini con questa stronzata dell’intromissione!»
«Sapevi che
sarebbe stato così quando sei partito. Quindi non dare la colpa a
me!»
«Brian, tu mi
hai detto di non rinunciare al mio sogno! Tu mi hai detto di non
voler sposare qualcuno che rinunciava a se stesso per amore!»
«E mi pare che
fossi d’accordo.» si limitò a puntualizzare. Conosceva a memoria
ogni battuta di quella discussione. Da troppo tempo non parlavano
d’altro.
«Penso sempre
più che sia stata una cazzata.» mormorò Justin, così fievolmente
che riuscì a malapena a sentirlo.
«Cosa?» trovò
il coraggio di chiedere, dopo aver deglutito. «Andartene o
continuare a stare insieme?»
«Andarmene.»
rispose dopo qualche secondo. «Anche se non credo che si possa
parlare di ‘stare insieme’. Non era così che l’avevo
immaginato.»
«Non è
giusto, non è bello…» iniziò lui, lasciando la frase a metà.
Sapeva che il suo raggio di sole l’avrebbe terminata.
«…ma è
così.» sospirò e gli parve di sentirlo singhiozzare. «Non ce la
faccio, Brian.»
«Lo so.» fu
l’unica cosa che seppe dirgli, nonostante il suo cuore gli urlasse
tutt’altre parole.
«Forse…»
iniziò Justin incerto, e Brian già sapeva che non avrebbe mai
voluto sentire il resto. «…sarebbe meglio lasciar perdere.»
«Forse, sì.»
Inforcò gli occhiali da sole per nascondere la luminosità dei suoi occhi verdi, bagnati da lacrime che non si era ancora permesso di piangere, e girò la chiave per mettere in moto, osservando la sua immagine riflessa nello specchietto. «Brian Kinney, ma come cazzo ti sei ridotto?» rise di se stesso, prima di scuotere la testa e immettersi nel traffico, diretto verso il negozio di Michael.
*'*'*
«Sono tre dollari
e settantacinque.» comunicò al ragazzino, prima di battere sui
tasti della cassa e imbustare il fumetto. Prese i soldi e sorrise.
«Grazie.»
«Alla prossima!»
lo salutò, avviandosi verso l’uscita e scostandosi su un lato per
far passare qualcuno che stava entrando; qualcuno che era solo una
vaga ombra del suo migliore amico.
«Come mai
l’imprenditore frocio più importante di Pittsburgh vaga da queste
parti?» gli chiese, appuntando la vendita sul computer.
«L’imprenditore
frocio più importante, punto.»
ribadì per l’ennesima volta, togliendosi gli occhiali da sole per
mordicchiare una delle aste.
Michael sorrise e
scosse la testa rassegnato. In fondo un po’ ammirava il suo
tentativo di dimostrare che stava bene dopo la sua rottura con quella
testolina bionda, ma poteva convincere e ingannare il resto del
mondo, non certo lui.
«Se sei qui per
dirmi che non ci sarai alla cena del Ringraziamento, ti avverto che
mia madre è pronta a strapparti l’unico coglione che ti è
rimasto.»
«E togliere alle
lesbiche la possibilità di procreare grazie a uno sperma di prima
categoria?» ammiccò e prese in mano uno dei fumetti, fingendo
interesse. «Sarebbe troppo crudele perfino per lei.»
«Non si sa mai
cosa può succedere con Deborah Jane Grassi Novotny.»
Lo vide sorridere,
ma era ben lontano dal credere che fosse uno di quelli sinceri. «Non
penso di venire comunque. Credo che me ne andrò a Ibiza.»
«Devo
preoccuparmi?» chiese, abbassando lo sguardo al cavallo dei suoi
pantaloni firmati.
«Alla
vera
Ibiza.»
specificò, inarcando le sopracciglia. «Mi merito una bella vacanza.
In fondo la Kinnetik non potrebbe andar meglio.»
«Già, la
Kinnetik.» mormorò Michael, guardandolo dritto negli occhi. «E tu
come stai?»
Brian allargò le
braccia, come per indicargli quanto fosse dannatamente bello e
sorrise. «Indosso un nuovo completo di Armani, mocassini di Gucci,
cappotto di Hugo Boss e ho un portafoglio strapieno. Sono il frocio
più realizzato di Pittsburgh e ancora il migliore sulla piazza. Chi
sta meglio di me?»
«Sto parlando
seriamente.»
«Anch’io!»
esclamò, con una smorfia stranita.
«Non l’hai più
sentito?» domandò allora con un sospiro. Quando ci si metteva era
peggio di un bambino; e pensare che si era anche convinto che fosse
finalmente maturato
«Chi?»
Michael
roteò gli occhi e incrociò le braccia al petto. Era ogni giorno più
dura provare a superare la scorza ruvida e dura dietro la quale era
tornato a chiudersi, ma non voleva pronunciare quel nome. Ormai
quelle sei lettere erano diventate una specie di tabù. «Sai
benissimo di chi
sto parlando.»
Brian distolse lo
sguardo e si passò la lingua sulle labbra, com’era solito fare
quando odiava dover rispondere a qualcosa.
«Mickey,
ascoltami. Mi stai ascoltando?» aspettò che annuisse e sorrise.
«Non so di che cazzo tu stia parlando e neanche m’interessa. Io
sto benissimo, perciò falla finita con queste tue fottutissime
convinzioni e smettetela tutti quanti, una buona volta, di tentare di
psicanalizzarmi. Io
sto bene, chiaro?»
«Brian, ascoltami
tu adesso.» replicò, e si sforzò di ignorare quel mugolio
infastidito che uscì dalle labbra del suo migliore amico. «Smettila
di fingere. Non ti fa bene.»
«Dio, sembri tua
madre!»
«Sto solo dicendo
la verità! Siamo amici da una vita, puoi sfogarti con me! Non hai
bisogno di nasconderti, lo vuoi capire?»
L’altro sorrise
e sbuffò scocciato. «Grazie Mickey per l’ennesima seduta. Fammi
sapere quanto ti devo e ti giro un assegno.»
«Brian…» lo
chiamò, nel tentativo di fermarlo mentre si dirigeva verso la porta.
«Ci vediamo!»
esclamò in risposta, e uscì dal negozio con un sorrisetto odioso.
Michael appoggiò
entrambi i palmi sul bancone e sbuffò rumorosamente.
Odiava vedere il
suo più caro amico – quello che riteneva un fratello – lasciarsi
andare al suo dolore e non accettare l’aiuto di nessuno. Odiava
essere allontanato da lui e rendersi conto di non poter far niente
per farlo stare meglio.
Ci pensò su un
attimo e poi sollevò la cornetta, digitando un numero per effettuare
una chiamata internazionale. Gli sarebbe costata un po' cara, ma non
sapeva più dove sbattere la testa. «Pronto, Linz?»
«Michael!» la
sentì esclamare, sinceramente felice. «Come stai?»
«Direi bene. Lì
le cose come sono?»
«Tutto ok, ma
Jenny Rebecca non c’è adesso. È fuori con Mel e Gus.»
«Non importa, è
te che cercavo.» sospirò e si decise a continuare, anche se già
poteva immaginare quanto si sarebbe incazzato Brian se l’avesse
saputo. «Si tratta di Brian.»
«Come sta?» gli
chiese lei, con uno tono di voce decisamente meno felice.
«È Brian! Non
ammetterà mai che sta soffrendo e tenterà fino alla fine di
nasconderlo a chiunque, ma…»
«La realtà è
che sta da cani.» completò la sua frase.
«Già…»
«Hai parlato con
Justin ultimamente?»
«No. Non saprei
che dirgli.» rispose, ma la realtà era anche che non voleva
intromettersi. Quello, Brian non glielo avrebbe perdonato davvero.
«Tu hai sue notizie?»
«Ci ho parlato
per poco più di un minuto. È praticamente irreperibile, ma non c’è
bisogno di parlare per capire come sta. Mi basta leggere una delle
migliaia di recensioni che scrivono ogni giorno su di lui.»
«Sì, ho letto
qualcosa.» sorrise e fece una smorfia. «Prima che mia madre mi
strappasse il giornale dalle mani e lo gettasse nella spazzatura. È
convinta di farlo per il bene di Brian. Cerca di tenerlo all’oscuro
di tutto, come se lui vivesse solo al Diner e non potesse leggere i
giornali in altre occasioni!»
«Be’, chiunque
non fa altro che elogiare le sue opere definendolo un genio. Un
ragazzo prodigio. Ma anche a chi non s’intende d'arte basta dare
una semplice occhiata per capire che è cambiato qualcosa dalle sue
prime esposizioni.»
«Un ‘periodo
cupo’.» convenne lui, citando le uniche parole che era riuscito a
leggere di un’intestazione, prima che la mano di Debbie arrivasse
ad accartocciare l’intero giornale.
«Credi che
tornerà a casa per il Ringraziamento?»
«Non
lo so. Non credo.» replicò, seppur una parte di sé continuasse a
sperare il contrario. Se pensava a quanto aveva trovato fastidioso il
modo in cui quel moccioso biondo era piombato nelle loro vite –
soprattutto in quella di Brian – e a quanto si era ingelosito per
come Justin era riuscito in quello in cui lui aveva sempre e solo
fallito, gli veniva da ridere. Alla fine, come tutti del resto, anche
lui aveva imparato a voler bene a quel raggio
di sole
e adesso non desiderava altro che vederlo di nuovo a Pittsburgh. Sia
perché in fondo gli mancava averlo attorno, sia per rivedere Brian
sorridere. «Per questo ti ho chiamata. Che ne pensate di venire da
noi? Credo che a Brian farebbe bene rivedere Gus e passare del tempo
con lui.»
«Penso di sì. Ne
parlo a Mel quando torna.»
«D’accordo.»
sorrise, mentre in lui si accendeva una fievole speranza.
«Ti chiamo più
tardi.» gli disse, prima di aggiungere: «Nel frattempo, occupati tu
di lui.»
«Ok, come
sempre.» rise e la salutò, per poi attaccare e iniziare a
mordicchiarsi le labbra nervoso; perché sapeva bene quanto sarebbe
stato più difficile prendersi cura di Brian, dal momento che non si
trattava più di riportarlo a casa perché era troppo fatto per
guidare, ma di riattaccare i pezzi di quel cuore che una volta sola
nella vita si era permesso di donare a qualcuno, e che era stato
disastrosamente sbriciolato.
*'*'*
«Signor Taylor!»
esclamò un uomo panciuto ed elegante, porgendogli la mano. «È una
vera fortuna poter assistere ad una sua personale. Lei è un vero
genio!»
«Troppo gentile.»
sorrise e strinse quella mano umidiccia. «Signor?»
«Rizzo. Peter
Rizzo.»
«Rizzo?» domandò
incuriosito. «Origini italiane?»
«Esatto. Mio
nonno lo era.» rise, con la sua voce cavernosa. «Ma non parliamo di
me. Piuttosto ci tengo a farle i miei più sentiti complimenti. Da
tempo non si vedevano opere di questo genere! Si lasci dire che si è
meritato pienamente le voci che girano su di lei!»
«Spero siano
positive!» si sforzò di scherzare, per quanto gli restasse
difficile. Stupidamente, anche solo l’aver saputo delle origini
italiane dell’uomo che gli stava davanti, l’aveva portato a
pensare a Debbie e a Pittsburgh.
«Certo
che sì!» puntò un dito nella sua direzione e sorrise. «Lei ha
tutte le carte in regola per arrivare molto
lontano. Più di quanto immagina!»
«Lo spero
vivamente, signore.» mentì spudoratamente. In realtà l’unica
cosa in cui sperava era di trovare il coraggio di tornare indietro
alla sua città, che non distava che poche miglia, ma che sembrava
lontano migliaia di anni luce.
«Bene, è stato
un vero piacere conoscerla. Adesso è meglio che vada.»
«Piacere mio.
Arrivederci.» disse e gli porse nuovamente la mano.
Quel Peter restò
per un attimo a fissarlo, continuando a stringere le sue dita e
sorrise. «Può giurarci, signor Taylor. Può giurarci.»
Justin non
comprese il perché di quel guizzo luminoso in quegli occhi scuri, ma
non ci fece poi così caso. Semplicemente si limitò ad osservarlo
mentre usciva dalla sala e a sorridere per quel suo buffo modo di
camminare – dondolando a destra e a sinistra ad ogni passo, forse
per la mole decisamente generosa – e per la cordialità con cui
salutava chiunque incontrasse.
Era
certo di non averlo mai visto prima d'ora, né di aver sentito il suo
nome – probabilmente anche perché nonostante fosse nel clou
della vita mondana della Grande Mela, era sempre rimasto sulle sue.
Comportamento un po’ da asociale forse, ma non era riuscito a fare
diversamente – eppure dal modo in cui tutti si premuravano di
salutarlo o scambiare almeno due chiacchiere, doveva essere un pezzo
grosso di quel mondo a cui ormai anche lui apparteneva.
«Ti prego, dimmi
che non hai fatto gaffe!»
Justin si voltò
con le sopracciglia inarcate nel sentire il suono di quella voce, fin
troppo familiare da poco più di un anno. «Jace, per chi mi hai
preso?»
«Per un asociale
ignorante che, potrei scommetterci le mie chiappe rifatte, non ha la
più pallida idea di chi sia quell’uomo.» gesticolò nevrotico,
sistemandosi la sciarpa di seta vistosamente fucsia intorno al collo.
«Le
tue chiappe sono salve.» rise. Jace era una delle poche persone a
cui aveva permesso di avvicinarlo, e che ancora riuscivano a farlo
ridere davvero. L’aveva conosciuto per caso, in un buffo incontro
sullo stile di quei film melensi e poco probabili che Daphne si
ostinava ad adorare. Si erano scontrati
per le scale, entrambi di fretta, lasciando volare in aria alcuni
schizzi di Justin ed i progetti di Jace. Si erano scusati velocemente
l’uno con l’altro senza guardarsi neanche in faccia – o meglio,
Justin non l’aveva fatto, troppo perso nei suoi pensieri – e
avevano proseguito per la loro strada. Probabilmente non si sarebbero
neanche riparlati, se tra i fogli di Jace non fosse finito uno dei
disegni dell’altro, che si era premurato di riportargli la sera
stessa, dando poi vita ad una chiacchierata dapprima imbarazzata, poi
sempre più accesa. Da lì Jace aveva scoperto di abitare nello
stesso palazzo di un astro nascente dell’arte contemporanea,
emozionandosi come un bambino come per ogni volta che sentiva “odore
di VIP”, mentre di lui, Justin aveva saputo che lavorava come
designer in un’azienda molto famosa a New York. Da quel giorno non
era più riuscito a liberarsi di quella sua confusionaria ed
ingombrante presenza e, forse, era stato meglio così. «Quindi, vuoi
dirmi chi è o provo a indovinare?»
«Peter Rizzo,
Justin! Peter Rizzo!» esclamò, riprendendo a gesticolare. Certi
suoi modi di fare gli ricordavano troppo Emmett, e forse era
principalmente per quello che aveva accettato la sua compagnia.
«Possibile che non ti dica niente questo nome?»
«Ehm, il tizio
con cui parlavo prima?»
«È
uno dei più famosi e importanti galleristi europei!»
rispose con tono scocciato. «Sai almeno cos'è l’Europa o il tuo
mondo finisce a Pittsburgh?»
«Mi sembra di
essere a New York adesso.» Jace sollevò un sopracciglio scuro e lo
fissò con aria scettica. «E comunque ho visto l’Europa solo in
cartina.»
«Dio,
sei così provinciale!»
sbuffò con una smorfia. «Ancora mi chiedo come tu possa tirar fuori
queste meraviglie. Sicuro di non soffrire di personalità multiple?»
«Jace,
proprio tu! Lo sai che gli artisti sono gli incompresi
per antonomasia,
no?»
«Già,
soprattutto quelli gay.» mosse le mani verso il colletto della sua
camicia e glielo tirò su. «Ma mai quanto i belli
e dannati.
E credimi, tesoro, tu fai certamente parte della categoria! Questo
tuo faccino d’angelo insieme a quell’aria da ‘lasciatemi in
pace, sono inarrivabile, non voglio avere niente a che fare con
nessuno di voi e se vi sorrido è solo perché sono ben educato’,
farà impazzire schiere di finocchi e ragazzine etero con l’ormone
in delirio, in qualunque angolo di questo mondo.»
«Io non ho l’aria
da bello e dannato!»
«Certo, come no.»
sventolò la mano sotto il suo naso e lo prese sotto braccio per
condurlo chissà dove. «E a me piace la patata.» afferrò due
calici di champagne e gliene porse uno. «Comunque, tornando a noi.
Se riesci a farti prendere sotto l’ala di Peter Rizzo, credimi, hai
la strada spianata per l’Europa mio caro! E potrai andartene alla
conquista di qualche culo oltreoceano!»
«Devo ancora
andare alla conquista degli Stati Uniti. Non voglio fare il passo più
lungo della gamba.»
«Justin,
sei l’anticristo degli artisti! Dovresti camminare almeno a due
metri da terra ed essere sfrontato e ribelle con tutto il successo
che hai avuto!» prese un sorso e continuò con i suoi sproloqui: «In
fondo, solo
a
New York, San Francisco, Los Angeles, Seattle, Chicago, Washington e
Denver baciano la terra su cui cammini. E a Pittsburgh staranno già
progettando le tazze con la tua faccia! Poi appenderanno un cartello
con scritto ‘qui è nato Justin Taylor’ con tanto di visita
guidata a pagamento e nomineranno una strada in tuo onore!» sollevò
le sopracciglia e sbuffò. «Certo tesoro, hai proprio ragione a
voler fare le cose con cautela! Ah, scusa, e dimenticavo Toronto e
Vancouver in Canada.»
«Jace, tu mi
sopravvaluti.»
«No,
caro. Tu
ti sottovaluti.»
«Comunque
sia, il problema non sussiste fino a quando questo famoso Peter Rizzo
non verrà a propormi qualcosa, giusto?» aspettò che l’altro
annuisse, seppur scocciato e concluse: «Quindi posso continuare a
fare il provinciale
ancora per un po’. E stasera direi che possiamo andare a Chelsea a
bere qualcosa.»
«Ci vediamo allo
Splash?»
«No, pensavo di
andarci giovedì allo Splash, stasera avrei voglia del Barracuda. Ti
va?»
Jace restò a
fissarlo stranito con i suoi occhi nocciola, impreziositi da mascara
e matita nera. «Giovedì è il giorno del Ringraziamento. Non torni
a Pittsburgh?»
Justin s’irrigidì
nel sentirglielo pronunciare. Si era sforzato così tanto di non
pensarci che alla fine aveva finito col dimenticarsene. «No, non
credo. Perché dovrei?»
«Fammi
pensare…forse perché l’anno scorso ti è quasi venuta una crisi
isterica per non averne avuto la possibilità? Oppure perché tutta
la tua famiglia è là, sia quella canonica che non? O magari per…»
«Non dirlo.» lo
ammonì. «Non voglio…»
«…‘sentire quel
nome’, lo so.» replicò l’altro, ripetendo quella frase come un
mantra. «Certo che potevi scegliertelo con un nome meno comune, che
so, Absalom, Crispian o Zubin!»
«Zubin?»
sollevò il labbro schifato. «È anche peggio del nome da fata di
Michael.»
«Di cosa?»
«No, niente.
Lascia stare.» rise tra sé e sé. «Comunque non penso di tornare a
Pittsburgh. Non ha molto senso, considerando che neanche tre giorni
dopo dovrei tornare qua e scappare ad Atlanta.»
«Atlanta?» si
passò una mano sulla faccia e roteò gli occhi. «Justin, di
grazia, che cazzo dovresti fare ad Atlanta?»
«C’è la
mostra, no?»
Jace sospirò e
gli circondò le spalle con un braccio, facendo frusciare la sua
costosa camicia bianca con i bordini in pendant con la sciarpa.
«Atlanta è una mostra già brillantemente avviata, e non hai
affatto bisogno di portare il tuo culo in quel posto.» gli diede una
pacca sul sedere e continuò, ignorando le sue occhiatacce: «Perciò
questa opera d’arte, e sì, mi riferisco ancora al tuo culetto di
marmo, è bene che vada in Pennsylvania ed affronti i fantasmi del
suo passato...uuhhh!» Justin lo fissò scettico, ma non si fece
scoraggiare. «Ovviamente supportato dal tuo amico Jace Wilson.»
«Cosa?!»
«Andiamo, me
l’avevi promesso! Voglio assolutamente vedere questo famoso
Babylon!»
Justin si liberò
dalla presa tentacolare dell’amico e si maledisse per aver bevuto
troppo quella notte di circa nove mesi fa, dopo l’ennesimo litigio
telefonico con Brian, in cui si era sfogato con lui e gli aveva
raccontato ogni singolo bel momento trascorso in quel locale, per
esorcizzare i pensieri tristi. «Io non ti ho promesso niente.»
«Bugiardo!»
«Ero ubriaco,
Jace! Quello che dico quando sono fradicio non conta!»
«Sì, invece.»
protestò con il broncio. «Justin Taylor e Jace Wilson alla
conquista di Pittsburgh! ‘J and J’, non fa figo?»
«No, sembriamo
una marca di caramelle.»
«Andiamo bel
biondo!» lo incitò, scompigliandogli i capelli. «Cos’è? Hai
paura?»
«Non ho paura! E
poi non ha senso! Avranno già preso impegni e non posso piombare
così a casa della gente!»
L’altro sbuffò,
poi improvvisamente sorrise e fece schioccare la lingua. «D’accordo,
allora andiamoci stasera o domani!»
«Stasera?»
ripeté incredulo. Sapeva di avere a che fare con un pazzo, ma non
pensava fosse tanto squilibrato.
«Sì! Adesso ce
ne andiamo a casa, facciamo i bagagli e partiamo!»
«Non è detto che
ci siano voli disponibili.» replicò con aria da saputello, sperando
di riuscire a dissuaderlo.
«E
chi ha parlato di aereo? Hai ancora quella splendidissima e
frocissima
macchina da esporre!» saltellò entusiasta sul posto e per un attimo
gli parve di vedere Emmett in quel suo sorriso esagerato.
«Jace, da New
York a Pittsburgh ci vogliono almeno cinque ore!» si lamentò
incredulo. «E sono già stanco!»
«Appunto!»
strillò Jace, e Justin si trovò a fissarlo sconcertato. Non sempre
riusciva ad afferrare il filo dei suoi ragionamenti. «Proprio per
questo ti ho detto che dobbiamo correre a preparare i bagagli!»
guardò l'orologio da polso e affermò: «Se ci muoviamo, per le…
nove di questa sera saremo lì!»
«Jace,
sono
stanco.»
ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo,
allora domani!»
«Quale parte del
‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai
come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come
Brian.
«Oh, tu verrai.
Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e
Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino
alla realtà dei fatti.
***
Note finali:
Salve! XD
è la primissimissima volta che scrivo in questo fandom, ma dopo
aver visto Queer as Folk e averlo letteralmente divorato in meno di due
settimane, non sono riuscita a trattenermi dallo scrivere una sesta
stagione, nell'attesa e speranza di vederne una ufficiale, o almeno un
film, prima o poi!
So che di "seste stagioni" ne esistono già un po' su questa
sezione, ma considerando che proprio non riuscivo a disintossicarmi da
Brian e Justin, ho voluto provare a liberare le mie fantasie su di loro
e sul resto del cast, per vedere quello che ne sarebbe venuto fuori!
Cercherò di concentrarmi un po' su tutti i personaggi, come
fosse una serie vera e propria, anche se il "clou" della situazione
sarà sempre e solo "Britin"...perché è più
forte di me! Per quanto ami anche altri personaggi della serie, Brian e
Justin hanno letteralmente rapito il mio cuore, occupando il primo
posto tra le coppie dei telefilm! <3
Mi auguro di restare più o meno IC con i personaggi, spercie con
Brian che, bene o male, credo sia quello più difficile da
trattare, ma soprattutto con Michael, perché per quanto ci provi
a farmelo rimanere simpatico o comunque neutrale, proprio non ci
riesco...e non vorrei che questa antipatia trasparisse anche attraverso
i capitoli.
Insomma, come avrete capito è
trascorso un anno e mezzo da quando Justin ha lasciato Pittsburgh e
sono sei mesi che i due "piccioncini" hanno rotto i ponti,
perché incapaci, per un motivo o per un altro, di reggere le
redini della situazione. Il perché, conoscendoli entrambi,
credo sia abbastanza ovvio, comunque sia sarà spiegato presto!
Non credo ci sia molto altro da precisare in questo capitolo, perciò spero vi sia piaciuto e comunque, è ovvio che potete contattarmi per qualsiasi chiarimento!
Ah, ovviamente la dicitura "altro personaggio" si riferisce a Jace e ad altri che comprariranno più o meno frequentemente e con più o meno rilevanza e, ancora ovviamente, i personaggi di Queer as Folk non mi appartengono e bla, bla, bla...la solita solfa, insomma!
La
scelta delle canzoni è semplicemente dettata dal fatto che
riconducono a qualche frase o al contenuto del capitolo, o
perché per scrivere quello specifico paragrafo, ho ascoltato
quelle...ovviamente, ognuno è libero di creare la propria "colonna sonora", o di non crearne affatto...è semplicemente una cosa che mi aiuta a scrivere, tutto qui! XD
Nel caso comuque vogliate ascoltare quelle che ho scelto, vi consiglio di cliccare sul link con il destro e aprire la pagina in un'altra finestra...altrimenti rischiate che venga caricata al posto della storia. :) purtroppo non ho ancora ben capito come fare per farla aprire altrove. -.-''
Ringrazio anticipatamente tutti coloro che leggeranno questa storia, ma soprattutto ci tengo a ringraziare di cuore Elena
- nonché la mia beta "Trappy" - che è diventata una Queer
as Folk addicted a causa mia, che sopporta tutti i miei colpi di testa
e con cui intrattengo infinite conversazioni sull'argomento, quasi al
limite del paradossale.
Per farla breve...siamo così innamorate e in astinenza da questo
telefilm, che ormai possiamo definirci seriamente malate!
Ancora grazie a tutti, e a presto.
Se tutto va bene, dovrei riuscire ad aggiornare ogni due settimane. :)
Un bacio, Veronica.
PS. Non ho mai capito di che colore siano gli occhi di Gale - e quindi di Brian - credo siano un marrone-verde cangiante, di quelli che cambiano tonalità con il sole...comunque sia, alla fine, siccome dire "marrone-verde cangiante" era un tantino lungo da scrivere ogni volta XD ho optato per un verde scuro. Quindi, non preoccupatevi, non sono daltonica...è solo che quegli occhi sono così belli e particolari, ma anche letteralmente indefinibili nel colore!