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Autore: SidRevo    29/06/2011    18 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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1.370 miles.

A Elena,
compagna di mille discussioni o ipotesi,
sogni e "filmini",
su questo splendido telefilm,
che ci ha allegramente intrippato il cervello.
Sappi che mi dovrai sopportare ancora per molto.




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6x01 – 370 miles.
[capitolo betato da Trappy]


"The scientist” - Coldplay


«È solo tempo.»

La sentiva rimbombare ancora quella frase nella testa, per l'ennesima volta, in cui sembrava divertirsi a ricordargli che quel tempo era finito. Pulsava feroce, da togliere il fiato e costringerlo a poggiare le mani sul vetro per sostenersi e sporcarlo delle impronte delle sue dita. Perché c’era ancora in quel mondo, e la sua presenza era in quelle macchie opache; lui era ancora vivo, anche se vivo non si sentiva affatto.
Intrappolato a soffocare in un posto della sua mente, tra un passato da rimpiangere, costellato di troppi “se” e altrettanti “ma” con cui combattere ogni giorno, e quel presente in cui non voleva stare; a cui non voleva dare ascolto.
Sospirò sommessamente, immettendo più aria possibile nei suoi polmoni, cercando di concentrare la sua mente in quel gesto che sarebbe dovuto essere naturale, ma che aveva paura di aver dimenticato.
Non si era mai sentito così in tutta la sua vita: arreso, senza una speranza a cui aggrapparsi. Perso e incapace di rialzarsi, o almeno di galleggiare; perso e incapace di
voler trovare un modo per non lasciarsi andare.
Ne aveva passate e superate di tutti i colori. Era sfuggito alla sua morte e aveva sconfitto anche quella della persona che più amava al mondo. Non si era fatto problemi a sfidare la sorte per lui, né chiunque gli si parasse davanti. Aveva sbagliato e trovato sempre il modo per rimediare ai suoi errori…ma allora era diverso; a quel tempo aveva qualcosa per cui lottare e stringere i denti. Aveva una speranza – seppur spesso troppo fievole e troppo simile a una stupida illusione – a cui aggrapparsi. Una meta, un obbiettivo, uno scopo da raggiungere a tutti i costi;
aveva Brian.
Brian
.
Gli costava così tanto anche solo pensarlo quel nome così comune, che nella sua semplicità nascondeva troppo del suo passato e molto ancora del suo presente e di quello che – sempre che ne avesse ancora uno – sarebbe stato il suo futuro.
Un nome che amava pronunciare, finché il suo proprietario era lì per ascoltare le sue chiamate; o anche quando non voleva parlargli per quel suo brutto carattere, ma era comunque presente e non poteva fuggire dalla sua testardaggine.
Ma ora non ci sei
.
Pensare quella verità fu troppo difficile, come ogni volta.
Ammettere di aver fallito e aver scritto la parola “fine” era la cosa che più lo feriva in assoluto, tanto che spesso perfino il suo cuore si rifiutava di crederci e provava a ribellarsi, battendo più forte, quasi a fargli male.
Un altro respiro sfuggì dalle sue labbra e la sua fronte andò a imprimersi sul vetro che la domestica aveva pulito accuratamente. Passò gli occhi sull’immensa città che si perdeva davanti ai suoi occhi, senza riuscire ad ammirarne davvero i contorni, lasciando che quelle innumerevoli luci perdessero la loro consistenza e si trasformassero in fasci informi per l’insistenza con cui osservava.
Si morse le labbra e con uno sbuffo arrendevole si allontanò dall’enorme finestra, con l’intento di farsi una doccia e provare a lavar via i troppi pensieri che continuavano ad arrovellarglisi in testa, ma il trillo acuto del telefono lo costrinse a rimandare i suoi piani. Non aveva alcuna voglia di rispondere, né di parlare, chiunque fosse all’altro capo del telefono – perché l’unica persona che avrebbe voluto sentire non l’avrebbe chiamato – eppure, incapace di sopportare ancora quel suono fastidioso, si convinse ad afferrare il cordless.
«Pronto?» pronunciò svogliatamente, ed il suo cuore perse un battito nell’udire la voce del suo interlocutore.
«
Topino, ti disturbo?»
«Deb.» sussurrò lui, quasi cercasse una conferma di cui in fondo non aveva bisogno, prima di riscuotersi e affrettarsi ad aggiungere: «No, certo che no. Come stai?»
«Al solito. Sempre più vecchia e sempre più indaffarata.» la sentì ridacchiare con quel suo buffo modo e l’immaginò piena di quei suoi gingilli stravaganti e colorati. «Che ore sono lì da te?»
«Sono a New York, non in Australia.» sorrise divertito, seppur fievolmente. «Non c’è il fusorario. Sono meno di quattrocento miglia.»
«Ah, ma davvero?» si finse stupita lei, e Justin capì che era tempo di una delle sue battute acide. «Credevo tu fossi molto più lontano, visto che è più di un anno che non ti fai vedere! Un anno e…»
«Un anno e sei mesi proprio oggi, lo so.» l’anticipò lui. «Mi dispiace, ma ho avuto da fare e…»
«Stronzate.» lo interruppe, e il tono che assunse gli fece intendere che non ammetteva repliche. «Non m’importa un fico secco dei tuoi impegni. Potevi tornare almeno per il giorno del Ringraziamento, o per Natale!»
«Hai ragione, ma…»
«Lo so che ho ragione!» esclamò, e Justin sorrise ancora. Almeno di una cosa era sicuro: Debbie non sarebbe mai cambiata, ovunque lui fosse, qualunque cosa facesse o dicesse; e per come si erano messe le cose, questo lo rincuorava un bel po’. «E mi auguro che tu non voglia darci buca anche quest’anno!»
«Non lo so.»
«Justin!» lo chiamò lei; e quando lo chiamava per nome, non significava niente di buono.
«Ascolta Deb, è complicato…» sospirò stancamente. Gli mancava tutto di Pittsburgh,
tutto, ma non poteva tornare. Non se la sentiva ancora.
«Complicato? Io non ci vedo un bel niente di complicato!» strillò lei, sempre più decisa. «Alza quel tuo bel culetto sodo e portalo a Pittsburgh. Cosa c’è di
complicato in questo?!»
«Non è questo.» esitò lui in risposta, vacillando davanti alla sua determinazione. «È che…»
«Te lo ripeterò una volta soltanto, quindi apri bene le orecchie.» si soffermò per un attimo come per assicurarsi che la stesse ascoltando attentamente e riprese: «Noi ti aspettiamo qua. Non m’importa quali fottutissimi impegni tu abbia, perché anche se sei un grande artista, la tua cazzo di casa è sempre qua ed io è qui che ti voglio.» la sentì sospirare e strinse più forte il cordless per aiutarsi a ricacciare indietro le lacrime, mentre davanti agli occhi gli passavano davanti tutti i suoi gesti abituali e gli parve di averla lì nel suo loft. Quello che più lo feriva era non poterla abbracciare. «Se ci tieni ancora a noi, sai cosa fare. Altrimenti smetterò di romperti le scatole.»
Deglutì a forza e alzò gli occhi al soffitto, dando il consenso a una delle lacrime che gli inondava gli occhi di rompere l’argine e scendere lungo la sua guancia. Si passò la lingua sulle labbra e cercò dentro di sé la forza di parlare ancora. «Non dire stronzate. Lo sai quanto ci tengo a voi. Siete la mia famiglia.»
«E per noi è lo stesso,
topino.» gli rispose Debbie, con un tono molto più dolce. «Ti aspettiamo qua per le nove.»
«Non ti prometto niente, Deb.» riabbassò lo sguardo mortificato come se potesse davvero vederlo e concluse con un fil di voce: «Scusami.»
«Dovrai affrontarlo prima o poi.» lo rimbeccò lei. «
Dovrete affrontarlo.»
«Lo so.» si affrettò a dire. Non aveva assolutamente voglia di parlarne in quel momento. Non aveva voglia di parlarne
mai. «Adesso scusami ma…»
«Devi andare, perché hai da fare.» immaginò di vederla scuotere la testa e mettersi le mani sui fianchi come al solito, e riuscì a sorriderne. «Sempre impegnati voi
vip
«Non sono un vip!» ridacchiò stavolta. E gli suonò perfino strana e sconosciuta quella sensazione. Da quanto non rideva? «Sono sempre il tuo
raggio di sole
«Certo, e mi manchi tanto.»
«Mi manchi anche tu. Mi mancate tutti voi.» si sforzò di dire, seppur soffocato dal nodo che gli stringeva la gola. «Ci sentiamo Deb. Stammi bene e saluta tutti, ok?»
«Cerca di venire tu a salutarli.»
«Ci proverò, ciao.» sussurrò, improvvisamente stanco, prima di premere il tasto per riagganciare e lasciarsi ricadere sul suo divano bianco.
Ennesimo sospiro ed ennesima lacrima.
Justin prese a fissare il soffitto socchiudendo gli occhi. Si sentiva perennemente spossato, qualunque cosa facesse. Aveva perso quella
verve che lo caratterizzava e il sorriso luminoso che gli aveva fatto guadagnare quello sciocco soprannome con cui tutti lo identificavano: “raggio di sole”.
Si era perfino dimenticato in che occasione Deb gliel’aveva affibbiato ma, guardandosi allo specchio, non vedeva che una pallida copia del quel se stesso. Non era più un raggio di sole, ma un triste riflesso opaco a cui nessuno avrebbe fatto più caso.
Si passò una mano tra i capelli biondissimi e setosi, ormai più lunghi di come li avesse mai avuti in precedenza; così come piacevano a sua madre e a…
Scattò seduto, guidato da un guizzo di rabbia, e poggiò i gomiti sulle ginocchia per stringersi la testa tra le mani nel vano tentativo di riuscire a strappare via certi pensieri. Si stropicciò la faccia e si massaggiò le tempie, ma certi ricordi non avevano la ben che minima intenzione di porre fine a quella infima tortura.
La percepiva chiara nella mente quella voce, insieme alle parole che si erano detti. Le urla al telefono e il pugno di rabbia sferrato contro il muro. La delusione che cresceva di pari passo con la rabbia, fino allo sprofondare nell’oblio della tristezza…

«Non posso crederci!» lo aveva urlato, stringendo con forza il cellulare. «Stai parlando sul serio?!»
«
Perché non dovrei?» gli aveva risposto con semplicità disarmante, facendolo tremare per un attimo.
«L’avevi promesso, Brian!» urlò ancora. «Avevi promesso che saresti venuto!»
«Io non ti ho promesso proprio un bel niente. Non era quello che ci eravamo detti quando sei partito.»
«Pensavo t’importasse di vedermi, ma non ti sei mai degnato di passare neanche per un giorno!»
«Ho avuto da fare» replicò con tono piatto. «E poi non mi pare che tu abbia fatto diversamente…»

«
Ma io avevo le mostre!»
«E io il lavoro.»
Strinse i propri capelli biondi con forza, preda di un attacco isterico. Era passato quasi un anno da quando si era trasferito a New York e da allora non si erano più visti. Quando era partito era triste, ma convinto che sarebbero riusciti ad affrontarlo e resistere in qualche modo…perché si amavano; eppure in quel momento non gli parve che una sciocca illusione.
«A che cazzo ti serve essere il capo se non puoi fare come ti pare? Se non puoi prenderti neanche un paio di giorni?!»
«Esserlo non significa potersene sbattere i coglioni e andarsene a giro per i cazzi propri. Ho delle responsabilità, sai cosa sono?»
«Tutti le hanno, Brian!» lo attaccò esasperato. «Non solo tu! Eppure tutti, e ripeto tutti, hanno trovato un momento per farmi una visita. Tutti meno che te!»
«Evidentemente, 
tutti avevano meno impegni di me.» restarono per un attimo in silenzio, finché non lo sentì sbuffare. «Senti, ho da fare…»
«Certo! Tu hai sempre da fare!»
«Ho una cazzo di riunione, va bene?!»
«Ah, lo so! È un anno che sei sempre sommerso di riunioni ogni volta che dobbiamo parlare o discutere! Una volta la scusa era che volevi fare la doccia, almeno hai cambiato!»
«Lasciamo perdere…»
La rabbia lasciò lo spazio alla delusione, mista alla tristezza per quell’ennesimo litigio che ormai era il loro unico modo di comunicare.
«Già.» pronunciò, con la voce rotta da un pianto che non riusciva a trattenere. «Forse è davvero meglio lasciar perdere. Lasciar perdere tutto.»
. lasciar uscire quelle parole gli era costato una fatica immensa, soprattutto perché mai avrebbe pensato di doverle dire ancora; mai avrebbe voluto farlo.
Brian rimase interdetto per un attimo. «Di cosa stai parlando?»
«Quando sono venuto qua, l’ho fatto contando sul fatto che comunque ci amavamo e che in qualche modo avremmo saputo gestire la cosa. Ma da quando sono arrivato, tra noi non va niente come avevo sperato…»
«Nessuno ha mai detto che sarebbe stato facile. Ricominci a scappare ogni volta che le cose non vanno come vorresti?» domandò, senza preoccuparsi di lasciar trasparire l’irritazione della sua voce.
«Non sto scappando. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno.» strinse i denti e li digrignò. «Sembra che non t’importi.»
«Oddio, ti prego! Risparmiami le tue insicurezze da ragazzina adolescente.»
«Ovviamente, perché tu non ne hai!»
«No, non ne ho. E allora?» sentì attraverso il cellulare il suono di un tonfo ed immaginò che avesse colpito con un pugno la scrivania. «È un problema?»
Prese un grosso respiro e si appoggiò ad una delle colonne di mattoni del loft in cui si era trasferito da poco. «Ciao Brian.» si sforzò di dire, senza però riuscire a terminare la chiamata.
L’altro non rispose immediatamente, ma il suono dei suoi respiri gli fece intendere che era ancora lì. «Non ne siamo proprio capaci, eh?»
«L’avrei tanto voluto, ma sembra proprio di no.» e non riuscì a trattenere le lacrime. «Mi manchi, cazzo!»
«Justin, devo andare davvero. Ti chiamo stasera.»
Si asciugò il viso con la manica della felpa e tirò su col naso. «Servirà davvero a qualcosa?»
«Ciao.» rispose l’altro e, dopo qualche secondo di silenzio, lo sentì riattaccare.

Preda nuovamente di un attimo di rabbia, colpì con un calcio uno degli stupidi e costosi soprammobili che gli erano stati regalati per omaggiarlo, e l’osservò rotolare più lontano nel parquet.
Quella famosa sera poi, Brian non l’aveva chiamato e lui non se l’era proprio sentita di comporre il suo numero, aumentando quel senso di frustrazione che, come una gabbia troppo piccola, continuava a stringerglisi addosso.
Si erano sentiti il giorno dopo e ne era uscito l’ennesimo litigio; e quello dopo ancora, sempre con lo stesso risultato. Non riuscivano più a fare altro ormai, e ogni volta sembrava andar sempre peggio. Telefonate sempre più rare, più arrabbiate e sbrigative. Briciole di un amore che stava lentamente riducendosi in pezzi troppo piccoli, anche per pensare di essere rincollati.
Si rialzò, incapace di star fermo; preda di momenti di sconforto in cui desiderava solo distendersi e dormire per ore e ore, alternati da quelli passati a gironzolare in quel loft troppo grande e silenzioso.
A volte dipingeva per sfogarsi, ma non era più come prima.
Colori sempre più cupi e opachi, pennellate rabbiose, figure sempre più stilizzate dalle forme aggressive e aguzze, e schizzi confusi; la trasposizione perfetta di quello che si stava muovendo dentro di lui.
E la cosa peggiore…l’incapacità di disegnare ancora sia se stesso che
lui.
Guardava ai suoi vecchi lavori e li sentiva lontani anni luce, come appartenenti alla mano di qualcun altro; alle dita esperte di una persona completamente distante e diversa da quello in cui si era trasformato; o a quella grossa tela poggiata in un angolo e coperta da un lenzuolo immacolato, sotto cui giaceva il suo ultimo tentativo incompiuto di riprodurre quei lineamenti che conosceva anche meglio dei suoi, e che sembrava poterlo guardare e ricordargli la sua presenza in ogni momento; emblema del suo degrado come uomo, come artista e di quella sua abilità innata che tutti continuavano a vedere ed elogiare, meno che lui.
Lo sguardo gli cadde sul prezioso tavolino basso di vetro, su cui erano state sparse disordinatamente riviste e giornali in cui c’era almeno un accenno a quel “genio” che tutti decantavano quale Justin Taylor, ma in cui non riusciva a identificarsi. Con un gesto secco li rovesciò tutti a terra, liberando quella superficie trasparente da qualsiasi cosa.
Avrebbe voluto strapparli tutti, incendiare qualsiasi cosa lo riguardasse da quando si era trasferito in quella stramaledetta città per seguire un sogno che ben sapeva essere meno importante dell’altro, che continuava a conservare in fondo al cuore.
Si ravvivò i capelli e riprese il cordless in mano, fissandolo nell’indecisione di compiere un numero che, nonostante il tempo, non aveva mai dimenticato. Compose le prime cifre, per poi chiudere gli occhi e cancellarle tutte.
Non riusciva a chiamarlo; non dopo quello che si erano detti. Non dopo come era finita tra loro.
Perché era
finita.
Niente pause, niente “forse”. Era finita, punto e basta.
Respirò a fondo e tornò a distendersi sul divano, abbracciò il cuscino e chiuse gli occhi.
Aveva solo bisogno di dormire, cullato dalle lacrime e dalla disperata speranza di non sognare ancora quel matrimonio mai celebrato.


*'*'*

"I miss you” - Blink 182


«Brian.» lo chiamò Cynthia, entrando nel suo ufficio carica di fogli e cartelle, con i capelli biondi acconciati con una matita. Lui però parve non sentirla, troppo impegnato a fissare un punto a caso davanti a sé e a stringere tra le mani quel cellulare di cui non riusciva a premere i tasti. «Brian, sei in fase creativa in un mondo parallelo o il logo della Apple è diventato improvvisamente interessante?»
Lui si limitò a sollevare lo sguardo, senza darle a vedere quanto in realtà fosse realmente perso in un altro mondo, e incrociò le mani in grembo, dopo aver posato malamente il cellulare sulla scrivania. «Cynthia.» la chiamò, con quel suo tipico tono di sufficienza. «Dimmi una cosa. Per cosa ti pago?»
«Perché svolgo il mio lavoro meglio di chiunque altro?» azzardò lei, con le sopracciglia inarcate per quella strana domanda.
«Uhm. Esatto.» convenne, e arricciò la bocca annuendo un paio di volte con la testa. «E tra le tue mansioni c’è per caso compreso l’obbligo di fare queste battute del cazzo?»
«Uh, uh. Qualcuno si è svegliato dal lato sbagliato questa mattina?» replicò la donna, ma l’occhiata poco amichevole che lui le rivolse, la distolse dal continuare a punzecchiarlo.
«Avanti, dimmi che vuoi prima che ti licenzi.»
«Tieni.» rovesciò quella marea di scartoffie sulla sua scrivania e sorrise, ticchettando con la penna sulle sue labbra. «Me li ha dati Ted. Ha detto di averli controllati almeno un paio di volte, ma se vuoi puoi ridarci un’occhiata.»
Brian sollevò qualche foglio distrattamente e lo lasciò ricadere. «No, mi fido.»
«Ehi, ma che ti succede?»
«Niente. Torna a lavoro.» prese il mouse e si finse impegnato a cercare qualcosa sullo schermo.
«È
niente da mesi. Ed è uno strano niente.»
«Cynthia!» esclamò con voce esasperata, e la vide sussultare.
«Sì, lo so. Se non vado mi licenzi.»
Brian fece uno dei suoi sorrisetti di circostanza, anche più falsi del solito, e l’osservò mentre usciva dal suo ufficiò, prima di riaffondare contro schienale della morbida poltrona in pelle e tornare a perdersi nei suoi pensieri.
Osservò la sua agenda stracolma d’impegni, così piena da far sembrare ogni post uno strano groviglio di segni; staccò il post-it giallo che spiccava sugli altri e sbuffando lesse quelle poche righe, accennando ad un sorriso.

Festa del Ringraziamento a casa Bruckner Novotny. Non ti azzardare a mancare, o ti sguinzaglio dietro mia madre.”

Inutile dire che non aveva nessunissima voglia di sedersi a tavola e assistere all’esibizione del matrimonio perfetto – quello di Ben e Michael – del fidanzamento perfetto – con Ted e Blake – o subirsi i piagnistei dell’altro single rimasto – quella checca isterica di Emmett – né tantomeno poteva anche lontanamente pensare di dover sopportare Debbie che cercava di rimpinzarlo con quel dannato tacchino ricordandogli ogni circa dieci minuti quanto fosse dimagrito e sciupato, come se sentirselo dire potesse farlo star meglio.
Era vivo, lo sapeva e non aveva certo bisogno che gli altri glielo ricordassero continuamente, ma voleva stare solo ed essere lasciato in pace.
In fondo, lui non aveva proprio un bel niente per cui dire “grazie”, specie se ripensava alla delusione ricevuta proprio in quella stramaledetta festività, esattamente un anno prima, quando Justin all’ultimo minuto l’aveva chiamato per dirgli che non sarebbe riuscito a tornare a Pittsburgh.
Aveva aspettato così tanto quel momento e la possibilità di poterlo finalmente riabbracciare, che sentire quelle parole era stato come ricevere un’improvvisa doccia fredda, e in un misero istante il suo sorriso si era raggelato fino a svanire.
Non era mai stato un tipo troppo pessimista, ma era stato inevitabile iniziare a pensare che quello fosse “l’inizio della fine”, esattamente come quando il
suo raggio di sole era partito per Los Angeles e aveva iniziato a rimandare il suo rientro; con la sola differenza che in quell’occasione erano riusciti a ritrovarsi.
Sbuffò rumorosamente, dopo aver gonfiato le guance ed essere riuscito a stento a trattenersi dall’afferrare il cellulare e chiamarlo, quando questo lo fece sobbalzare iniziando ad agitarsi e trillare.
Non volle illudersi di vedere
quel nome sul display e fu una mossa furba per evitare l’ennesima delusione, perché le lettere che vi lampeggiarono, andavano a comporre quello di tutt’altra persona: “Brandon”.
«Quante volte ti ho detto di non chiamarmi a lavoro?» si accanì immediatamente contro di lui, dopo aver risposto.
«Infatti ti sto chiamando sul cellulare.» rispose l’altro beffardo. Ancora non era riuscito ad abituarsi all’idea che potesse esistere qualcuno irritante esattamente quanto era capace di esserlo lui stesso.
«Che vuoi?» si affrettò a chiedergli. Non aveva voglia di perdere tempo a conversare.
«Il solito. Stasera Babylon?»
Brian restò in silenzio per un attimo e si umettò le labbra.
«Sì, certo.» rispose infine, e sentì l'altro ridere.
«D’accordo, Kinney. Ci vediamo là.»
«Ciao.» si limitò a replicare, prima di riattaccare senza alcun entusiasmo.
La loro era certamente la peggior “coppia” – sempre che così si potessero definire – di “non amici” di questo mondo. Lui e Brandon non erano
niente.
Non erano amici, ma a malapena conoscenti. Non avevano avuto nessun incontro a sfondo sessuale né progettavano di averne uno; o almeno non rientrava nelle intenzioni di Brian. L’unica cosa che interessava l’uno dell’altro, e che quindi faceva da collante a quell’assurda alleanza, era il loro modo di essere e di fare.
Per quanto fosse assurdo che due “re” potessero convivere nello stesso regno, avevano trovato il modo di farlo, perché entrambi trovavano conveniente quel rapporto.
Brandon dal canto suo riceveva ogni agevolazione dall’essere in compagnia del padrone del locale, mentre Brian poteva contare sul fatto che non avrebbe mai sentito petulanti raccomandazioni o dissensi da uno come lui, fatto della sua stessa identica pasta. Brandon era quello che gli ci voleva per non pensare a Justin, al cambiamento che per il suo amore era stato capace di fare, ma soprattutto per provare a tornare ad essere quello di un tempo, prima di quella maledetta notte trascorsa da quasi sette anni ormai.
Infilò il cellulare nella ventiquattrore di pelle nera e, dopo essersi sistemato la giacca, s’infilò il cappotto e raggiunse Cynthia. «Io me ne vado.» le disse, lasciandola di stucco. «Disdici gli appuntamenti per oggi. Inventati qualcosa.»
«Brian, ma…»
«Quale parte del 
disdici gli appuntamenti non ti è chiara?» sbottò con uno sguardo fulminante. «Io sono il capo, tu la mia assistente. E a meno che le cose non siano cambiate nel giro di qualche minuto, sono ancora io quello che prende le decisioni.»
Cynthia prese in mano la cornetta e cercò un numero sul palmare, lanciando di tanto in tanto occhiate a Brian che nel frattempo stava uscendo con grandi falcate. «Faresti bene a chiamarlo. Stai diventando peggio di una zitella acida.»
Lo vide bloccarsi sulla soglia e voltarsi appena. «Non ti pago per farmi da psicoterapeuta, né come cupido per froci. Fatti gli affari tuoi e fa quelle cazzo di telefonate.»
«Ok, capo.» sibilò sollevando le sopracciglia e si riscosse, quando lo sentì sbattere la porta. «Cristo, fa che quell’angelo torni a Pittsburgh o ci mangerà vivi.»

Uscire all’aria aperta fu liberatorio, almeno per qualche secondo, prima che la sua mente iniziasse a registrare ogni singolo angolo di quella dannata città in cui lui e Justin avevano parlato, riso o litigato; o perfino scopato.
Aveva iniziato a detestare quel posto dove ogni cosa sembrava esser stata segnata da quella loro assurda storia, che si era ostinato per anni a non voler definire tale, ma che lo aveva incatenato molto più di qualsiasi altro legame.
Aprì rabbiosamente la portiera della sua Corvette e si lasciò ricadere sul sedile, dopo aver gettato la ventiquattrore sul posto del passeggero, e appoggiò la fronte sul volante. Inspirò profondamente e accese la radio.
Non voleva pensare e non voleva ricordare, eppure qualunque cosa facesse, alla fine sembrava rivelarsi sempre completamente inutile. Continuava a vedersi scivolare tra le dita la sua intera vita, come se non riuscisse più a controllarla, volatile e inafferrabile come fumo, mandandolo letteralmente in bestia.
Lui che era abituato ad avere il controllo su ogni aspetto della sua esistenza; lui che faceva e imponeva le proprie regole con chiunque; lui che non doveva rendere conto a nessuno, che non aveva pensieri ed era
libero da qualunque cosa, si era ridotto ad essere intrappolato nel caos di una speranza di felicità persa, che andava contro tutti i suoi principi e che l’aveva cambiato così radicalmente da avergli fatto smarrire ciò che era sempre stato.
Il vecchio Brian Kinney non esisteva più, e lui non riusciva ad accettarlo.

«Non ce la faccio più!» lo sentì urlare attraverso il telefono. «Possibile che tu non ci sia mai? È un anno che non ci vediamo! Un fottutissimo anno!»
«E credi che la colpa sia solo la mia?» alzò la voce a sua volta e tirò un calcio su una delle travi del loft. «Infatti, devo dire che il giorno del Ringraziamento l’abbiamo proprio trascorso bene insieme!» pronunciò ironico con il suo solito sorrisetto stampato in faccia, anche se dentro si sentiva ribollire di rabbia.
«È per lavoro che sono rimasto a New York, lo sai anche tu!» ribatté Justin e gli venne da ridere. «Potevi raggiungermi. Potevamo passarlo qua!»
«Sai che non voglio intromettermi nei tuoi affari.» aveva ripetuto così tante volte quella frase che ormai ne aveva perso il conto.
«Assistere a una mostra la chiami un’intromissione?!»
«Che cazzo c’entro io con quella roba?!» corrugò la fronte e si passò una mano tra i capelli. «Era inutile che venissi là. Non avremmo avuto tempo per stare insieme.»
«Di certo non ne avremmo mai se continuiamo a stare in due città diverse, e se tu ti ostini con questa stronzata dell’intromissione!»
«Sapevi che sarebbe stato così quando sei partito. Quindi non dare la colpa a me!»
«Brian, tu mi hai detto di non rinunciare al mio sogno! Tu mi hai detto di non voler sposare qualcuno che rinunciava a se stesso per amore!»
«E mi pare che fossi d’accordo.» si limitò a puntualizzare. Conosceva a memoria ogni battuta di quella discussione. Da troppo tempo non parlavano d’altro.
«Penso sempre più che sia stata una cazzata.» mormorò Justin, così fievolmente che riuscì a malapena a sentirlo.
«Cosa?» trovò il coraggio di chiedere, dopo aver deglutito. «Andartene o continuare a stare insieme?»

«Andarmene.» rispose dopo qualche secondo. «Anche se non credo che si possa parlare di 
stare insieme. Non era così che l’avevo immaginato.»
«Non è giusto, non è bello…» iniziò lui, lasciando la frase a metà. Sapeva che il suo raggio di sole l’avrebbe terminata.
«…ma è così.» sospirò e gli parve di sentirlo singhiozzare. «Non ce la faccio, Brian.»
«Lo so.» fu l’unica cosa che seppe dirgli, nonostante il suo cuore gli urlasse tutt’altre parole.
«Forse…» iniziò Justin incerto, e Brian già sapeva che non avrebbe mai voluto sentire il resto. «…sarebbe meglio lasciar perdere.»
«Forse, sì.»

Inforcò gli occhiali da sole per nascondere la luminosità dei suoi occhi verdi, bagnati da lacrime che non si era ancora permesso di piangere, e girò la chiave per mettere in moto, osservando la sua immagine riflessa nello specchietto. «Brian Kinney, ma come cazzo ti sei ridotto?» rise di se stesso, prima di scuotere la testa e immettersi nel traffico, diretto verso il negozio di Michael.



*'*'*


«Sono tre dollari e settantacinque.» comunicò al ragazzino, prima di battere sui tasti della cassa e imbustare il fumetto. Prese i soldi e sorrise. «Grazie.»
«Alla prossima!» lo salutò, avviandosi verso l’uscita e scostandosi su un lato per far passare qualcuno che stava entrando; qualcuno che era solo una vaga ombra del suo migliore amico.
«Come mai l’imprenditore frocio più importante di Pittsburgh vaga da queste parti?» gli chiese, appuntando la vendita sul computer.
«L’imprenditore frocio più importante,
punto.» ribadì per l’ennesima volta, togliendosi gli occhiali da sole per mordicchiare una delle aste.
Michael sorrise e scosse la testa rassegnato. In fondo un po’ ammirava il suo tentativo di dimostrare che stava bene dopo la sua rottura con quella testolina bionda, ma poteva convincere e ingannare il resto del mondo, non certo lui.
«Se sei qui per dirmi che non ci sarai alla cena del Ringraziamento, ti avverto che mia madre è pronta a strapparti l’unico coglione che ti è rimasto.»
«E togliere alle lesbiche la possibilità di procreare grazie a uno sperma di prima categoria?» ammiccò e prese in mano uno dei fumetti, fingendo interesse. «Sarebbe troppo crudele perfino per lei.»
«Non si sa mai cosa può succedere con Deborah Jane Grassi Novotny.»
Lo vide sorridere, ma era ben lontano dal credere che fosse uno di quelli sinceri. «Non penso di venire comunque. Credo che me ne andrò a Ibiza.»
«Devo preoccuparmi?» chiese, abbassando lo sguardo al cavallo dei suoi pantaloni firmati.
«Alla
vera Ibiza.» specificò, inarcando le sopracciglia. «Mi merito una bella vacanza. In fondo la Kinnetik non potrebbe andar meglio.»
«Già, la Kinnetik.» mormorò Michael, guardandolo dritto negli occhi. «E tu come stai?»
Brian allargò le braccia, come per indicargli quanto fosse dannatamente bello e sorrise. «Indosso un nuovo completo di Armani, mocassini di Gucci, cappotto di Hugo Boss e ho un portafoglio strapieno. Sono il frocio più realizzato di Pittsburgh e ancora il migliore sulla piazza. Chi sta meglio di me?»
«Sto parlando seriamente.»
«Anch’io!» esclamò, con una smorfia stranita.
«Non l’hai più sentito?» domandò allora con un sospiro. Quando ci si metteva era peggio di un bambino; e pensare che si era anche convinto che fosse finalmente maturato
«Chi?»
Michael roteò gli occhi e incrociò le braccia al petto. Era ogni giorno più dura provare a superare la scorza ruvida e dura dietro la quale era tornato a chiudersi, ma non voleva pronunciare quel nome. Ormai quelle sei lettere erano diventate una specie di tabù. «Sai benissimo di
chi sto parlando.»
Brian distolse lo sguardo e si passò la lingua sulle labbra, com’era solito fare quando odiava dover rispondere a qualcosa.
«Mickey, ascoltami. Mi stai ascoltando?» aspettò che annuisse e sorrise. «Non so di che cazzo tu stia parlando e neanche m’interessa. Io sto benissimo, perciò falla finita con queste tue fottutissime convinzioni e smettetela tutti quanti, una buona volta, di tentare di psicanalizzarmi.
Io sto bene, chiaro?»
«Brian, ascoltami tu adesso.» replicò, e si sforzò di ignorare quel mugolio infastidito che uscì dalle labbra del suo migliore amico. «Smettila di fingere. Non ti fa bene.»
«Dio, sembri tua madre!»
«Sto solo dicendo la verità! Siamo amici da una vita, puoi sfogarti con me! Non hai bisogno di nasconderti, lo vuoi capire?»
L’altro sorrise e sbuffò scocciato. «Grazie Mickey per l’ennesima seduta. Fammi sapere quanto ti devo e ti giro un assegno.»
«Brian…» lo chiamò, nel tentativo di fermarlo mentre si dirigeva verso la porta.
«Ci vediamo!» esclamò in risposta, e uscì dal negozio con un sorrisetto odioso.
Michael appoggiò entrambi i palmi sul bancone e sbuffò rumorosamente.
Odiava vedere il suo più caro amico – quello che riteneva un fratello – lasciarsi andare al suo dolore e non accettare l’aiuto di nessuno. Odiava essere allontanato da lui e rendersi conto di non poter far niente per farlo stare meglio.
Ci pensò su un attimo e poi sollevò la cornetta, digitando un numero per effettuare una chiamata internazionale. Gli sarebbe costata un po' cara, ma non sapeva più dove sbattere la testa. «Pronto, Linz?»
«Michael!» la sentì esclamare, sinceramente felice. «Come stai?»
«Direi bene. Lì le cose come sono?»
«Tutto ok, ma Jenny Rebecca non c’è adesso. È fuori con Mel e Gus.»
«Non importa, è te che cercavo.» sospirò e si decise a continuare, anche se già poteva immaginare quanto si sarebbe incazzato Brian se l’avesse saputo. «Si tratta di Brian.»
«Come sta?» gli chiese lei, con uno tono di voce decisamente meno felice.
«È Brian! Non ammetterà mai che sta soffrendo e tenterà fino alla fine di nasconderlo a chiunque, ma…»
«La realtà è che sta da cani.» completò la sua frase.
«Già…»
«Hai parlato con Justin ultimamente?»
«No. Non saprei che dirgli.» rispose, ma la realtà era anche che non voleva intromettersi. Quello, Brian non glielo avrebbe perdonato davvero. «Tu hai sue notizie?»
«Ci ho parlato per poco più di un minuto. È praticamente irreperibile, ma non c’è bisogno di parlare per capire come sta. Mi basta leggere una delle migliaia di recensioni che scrivono ogni giorno su di lui.»
«Sì, ho letto qualcosa.» sorrise e fece una smorfia. «Prima che mia madre mi strappasse il giornale dalle mani e lo gettasse nella spazzatura. È convinta di farlo per il bene di Brian. Cerca di tenerlo all’oscuro di tutto, come se lui vivesse solo al Diner e non potesse leggere i giornali in altre occasioni!»
«Be’, chiunque non fa altro che elogiare le sue opere definendolo un genio. Un ragazzo prodigio. Ma anche a chi non s’intende d'arte basta dare una semplice occhiata per capire che è cambiato qualcosa dalle sue prime esposizioni.»
«Un 
periodo cupo.» convenne lui, citando le uniche parole che era riuscito a leggere di un’intestazione, prima che la mano di Debbie arrivasse ad accartocciare l’intero giornale.
«Credi che tornerà a casa per il Ringraziamento?»
«Non lo so. Non credo.» replicò, seppur una parte di sé continuasse a sperare il contrario. Se pensava a quanto aveva trovato fastidioso il modo in cui quel moccioso biondo era piombato nelle loro vite – soprattutto in quella di Brian – e a quanto si era ingelosito per come Justin era riuscito in quello in cui lui aveva sempre e solo fallito, gli veniva da ridere. Alla fine, come tutti del resto, anche lui aveva imparato a voler bene a quel
raggio di sole e adesso non desiderava altro che vederlo di nuovo a Pittsburgh. Sia perché in fondo gli mancava averlo attorno, sia per rivedere Brian sorridere. «Per questo ti ho chiamata. Che ne pensate di venire da noi? Credo che a Brian farebbe bene rivedere Gus e passare del tempo con lui.»
«Penso di sì. Ne parlo a Mel quando torna.»
«D’accordo.» sorrise, mentre in lui si accendeva una fievole speranza.
«Ti chiamo più tardi.» gli disse, prima di aggiungere: «Nel frattempo, occupati tu di lui.»
«Ok, come sempre.» rise e la salutò, per poi attaccare e iniziare a mordicchiarsi le labbra nervoso; perché sapeva bene quanto sarebbe stato più difficile prendersi cura di Brian, dal momento che non si trattava più di riportarlo a casa perché era troppo fatto per guidare, ma di riattaccare i pezzi di quel cuore che una volta sola nella vita si era permesso di donare a qualcuno, e che era stato disastrosamente sbriciolato.


*'*'*


«Signor Taylor!» esclamò un uomo panciuto ed elegante, porgendogli la mano. «È una vera fortuna poter assistere ad una sua personale. Lei è un vero genio!»
«Troppo gentile.» sorrise e strinse quella mano umidiccia. «Signor?»
«Rizzo. Peter Rizzo.»
«Rizzo?» domandò incuriosito. «Origini italiane?»
«Esatto. Mio nonno lo era.» rise, con la sua voce cavernosa. «Ma non parliamo di me. Piuttosto ci tengo a farle i miei più sentiti complimenti. Da tempo non si vedevano opere di questo genere! Si lasci dire che si è meritato pienamente le voci che girano su di lei!»
«Spero siano positive!» si sforzò di scherzare, per quanto gli restasse difficile. Stupidamente, anche solo l’aver saputo delle origini italiane dell’uomo che gli stava davanti, l’aveva portato a pensare a Debbie e a Pittsburgh.
«Certo che sì!» puntò un dito nella sua direzione e sorrise. «Lei ha tutte le carte in regola per arrivare
molto lontano. Più di quanto immagina!»
«Lo spero vivamente, signore.» mentì spudoratamente. In realtà l’unica cosa in cui sperava era di trovare il coraggio di tornare indietro alla sua città, che non distava che poche miglia, ma che sembrava lontano migliaia di anni luce.
«Bene, è stato un vero piacere conoscerla. Adesso è meglio che vada.»
«Piacere mio. Arrivederci.» disse e gli porse nuovamente la mano.
Quel Peter restò per un attimo a fissarlo, continuando a stringere le sue dita e sorrise. «Può giurarci, signor Taylor. Può giurarci.»
Justin non comprese il perché di quel guizzo luminoso in quegli occhi scuri, ma non ci fece poi così caso. Semplicemente si limitò ad osservarlo mentre usciva dalla sala e a sorridere per quel suo buffo modo di camminare – dondolando a destra e a sinistra ad ogni passo, forse per la mole decisamente generosa – e per la cordialità con cui salutava chiunque incontrasse.
Era certo di non averlo mai visto prima d'ora, né di aver sentito il suo nome – probabilmente anche perché nonostante fosse nel
clou della vita mondana della Grande Mela, era sempre rimasto sulle sue. Comportamento un po’ da asociale forse, ma non era riuscito a fare diversamente – eppure dal modo in cui tutti si premuravano di salutarlo o scambiare almeno due chiacchiere, doveva essere un pezzo grosso di quel mondo a cui ormai anche lui apparteneva.
«Ti prego, dimmi che non hai fatto gaffe!»
Justin si voltò con le sopracciglia inarcate nel sentire il suono di quella voce, fin troppo familiare da poco più di un anno. «Jace, per chi mi hai preso?»
«Per un asociale ignorante che, potrei scommetterci le mie chiappe rifatte, non ha la più pallida idea di chi sia quell’uomo.» gesticolò nevrotico, sistemandosi la sciarpa di seta vistosamente fucsia intorno al collo.
«Le tue chiappe sono salve.» rise. Jace era una delle poche persone a cui aveva permesso di avvicinarlo, e che ancora riuscivano a farlo ridere davvero. L’aveva conosciuto per caso, in un buffo incontro sullo stile di quei film melensi e poco probabili che Daphne si ostinava ad adorare. Si erano
scontrati per le scale, entrambi di fretta, lasciando volare in aria alcuni schizzi di Justin ed i progetti di Jace. Si erano scusati velocemente l’uno con l’altro senza guardarsi neanche in faccia – o meglio, Justin non l’aveva fatto, troppo perso nei suoi pensieri – e avevano proseguito per la loro strada. Probabilmente non si sarebbero neanche riparlati, se tra i fogli di Jace non fosse finito uno dei disegni dell’altro, che si era premurato di riportargli la sera stessa, dando poi vita ad una chiacchierata dapprima imbarazzata, poi sempre più accesa. Da lì Jace aveva scoperto di abitare nello stesso palazzo di un astro nascente dell’arte contemporanea, emozionandosi come un bambino come per ogni volta che sentiva “odore di VIP”, mentre di lui, Justin aveva saputo che lavorava come designer in un’azienda molto famosa a New York. Da quel giorno non era più riuscito a liberarsi di quella sua confusionaria ed ingombrante presenza e, forse, era stato meglio così. «Quindi, vuoi dirmi chi è o provo a indovinare?»
«Peter Rizzo, Justin! Peter Rizzo!» esclamò, riprendendo a gesticolare. Certi suoi modi di fare gli ricordavano troppo Emmett, e forse era principalmente per quello che aveva accettato la sua compagnia. «Possibile che non ti dica niente questo nome?»
«Ehm, il tizio con cui parlavo prima?»
«È uno dei più famosi e importanti galleristi
europei!» rispose con tono scocciato. «Sai almeno cos'è l’Europa o il tuo mondo finisce a Pittsburgh?»
«Mi sembra di essere a New York adesso.» Jace sollevò un sopracciglio scuro e lo fissò con aria scettica. «E comunque ho visto l’Europa solo in cartina.»
«Dio, sei così
provinciale!» sbuffò con una smorfia. «Ancora mi chiedo come tu possa tirar fuori queste meraviglie. Sicuro di non soffrire di personalità multiple?»
«Jace, proprio tu! Lo sai che gli artisti sono gli
incompresi per antonomasia, no?»
«Già, soprattutto quelli gay.» mosse le mani verso il colletto della sua camicia e glielo tirò su. «Ma mai quanto i
belli e dannati. E credimi, tesoro, tu fai certamente parte della categoria! Questo tuo faccino d’angelo insieme a quell’aria da ‘lasciatemi in pace, sono inarrivabile, non voglio avere niente a che fare con nessuno di voi e se vi sorrido è solo perché sono ben educato’, farà impazzire schiere di finocchi e ragazzine etero con l’ormone in delirio, in qualunque angolo di questo mondo.»
«Io non ho l’aria da bello e dannato!»
«Certo, come no.» sventolò la mano sotto il suo naso e lo prese sotto braccio per condurlo chissà dove. «E a me piace la patata.» afferrò due calici di champagne e gliene porse uno. «Comunque, tornando a noi. Se riesci a farti prendere sotto l’ala di Peter Rizzo, credimi, hai la strada spianata per l’Europa mio caro! E potrai andartene alla conquista di qualche culo oltreoceano!»
«Devo ancora andare alla conquista degli Stati Uniti. Non voglio fare il passo più lungo della gamba.»
«Justin, sei l’anticristo degli artisti! Dovresti camminare almeno a due metri da terra ed essere sfrontato e ribelle con tutto il successo che hai avuto!» prese un sorso e continuò con i suoi sproloqui: «In fondo,
solo a New York, San Francisco, Los Angeles, Seattle, Chicago, Washington e Denver baciano la terra su cui cammini. E a Pittsburgh staranno già progettando le tazze con la tua faccia! Poi appenderanno un cartello con scritto ‘qui è nato Justin Taylor’ con tanto di visita guidata a pagamento e nomineranno una strada in tuo onore!» sollevò le sopracciglia e sbuffò. «Certo tesoro, hai proprio ragione a voler fare le cose con cautela! Ah, scusa, e dimenticavo Toronto e Vancouver in Canada.»
«Jace, tu mi sopravvaluti.»
«No, caro.
Tu ti sottovaluti
«Comunque sia, il problema non sussiste fino a quando questo famoso Peter Rizzo non verrà a propormi qualcosa, giusto?» aspettò che l’altro annuisse, seppur scocciato e concluse: «Quindi posso continuare a fare il
provinciale ancora per un po’. E stasera direi che possiamo andare a Chelsea a bere qualcosa.»
«Ci vediamo allo Splash?»
«No, pensavo di andarci giovedì allo Splash, stasera avrei voglia del Barracuda. Ti va?»
Jace restò a fissarlo stranito con i suoi occhi nocciola, impreziositi da mascara e matita nera. «Giovedì è il giorno del Ringraziamento. Non torni a Pittsburgh?»
Justin s’irrigidì nel sentirglielo pronunciare. Si era sforzato così tanto di non pensarci che alla fine aveva finito col dimenticarsene. «No, non credo. Perché dovrei?»
«Fammi pensare…forse perché l’anno scorso ti è quasi venuta una crisi isterica per non averne avuto la possibilità? Oppure perché tutta la tua famiglia è là, sia quella canonica che non? O magari per…»
«Non dirlo.» lo ammonì. «Non voglio…»
«…
sentire quel nome, lo so.» replicò l’altro, ripetendo quella frase come un mantra. «Certo che potevi scegliertelo con un nome meno comune, che so, Absalom, Crispian o Zubin!»
«
Zubin?» sollevò il labbro schifato. «È anche peggio del nome da fata di Michael.»
«Di cosa?»
«No, niente. Lascia stare.» rise tra sé e sé. «Comunque non penso di tornare a Pittsburgh. Non ha molto senso, considerando che neanche tre giorni dopo dovrei tornare qua e scappare ad Atlanta.»
«Atlanta?» si passò una mano sulla faccia e roteò gli occhi. «Justin, di grazia, che cazzo dovresti fare ad Atlanta?»
«C’è la mostra, no?»
Jace sospirò e gli circondò le spalle con un braccio, facendo frusciare la sua costosa camicia bianca con i bordini in pendant con la sciarpa. «Atlanta è una mostra già brillantemente avviata, e non hai affatto bisogno di portare il tuo culo in quel posto.» gli diede una pacca sul sedere e continuò, ignorando le sue occhiatacce: «Perciò questa opera d’arte, e sì, mi riferisco ancora al tuo culetto di marmo, è bene che vada in Pennsylvania ed affronti i fantasmi del suo passato...uuhhh!» Justin lo fissò scettico, ma non si fece scoraggiare. «Ovviamente supportato dal tuo amico Jace Wilson.»
«Cosa?!»
«Andiamo, me l’avevi promesso! Voglio assolutamente vedere questo famoso Babylon!»
Justin si liberò dalla presa tentacolare dell’amico e si maledisse per aver bevuto troppo quella notte di circa nove mesi fa, dopo l’ennesimo litigio telefonico con Brian, in cui si era sfogato con lui e gli aveva raccontato ogni singolo bel momento trascorso in quel locale, per esorcizzare i pensieri tristi. «Io non ti ho promesso niente.»
«Bugiardo!»
«Ero ubriaco, Jace! Quello che dico quando sono fradicio non conta!»
«Sì, invece.» protestò con il broncio. «Justin Taylor e Jace Wilson alla conquista di Pittsburgh! ‘J and J’, non fa figo?»
«No, sembriamo una marca di caramelle.»
«Andiamo bel biondo!» lo incitò, scompigliandogli i capelli. «Cos’è? Hai paura?»
«Non ho paura! E poi non ha senso! Avranno già preso impegni e non posso piombare così a casa della gente!»
L’altro sbuffò, poi improvvisamente sorrise e fece schioccare la lingua. «D’accordo, allora andiamoci stasera o domani!»
«Stasera?» ripeté incredulo. Sapeva di avere a che fare con un pazzo, ma non pensava fosse tanto squilibrato.
«Sì! Adesso ce ne andiamo a casa, facciamo i bagagli e partiamo!»
«Non è detto che ci siano voli disponibili.» replicò con aria da saputello, sperando di riuscire a dissuaderlo.
«E chi ha parlato di aereo? Hai ancora quella splendidissima e
frocissima macchina da esporre!» saltellò entusiasta sul posto e per un attimo gli parve di vedere Emmett in quel suo sorriso esagerato.
«Jace, da New York a Pittsburgh ci vogliono almeno cinque ore!» si lamentò incredulo. «E sono già stanco!»
«Appunto!» strillò Jace, e Justin si trovò a fissarlo sconcertato. Non sempre riusciva ad afferrare il filo dei suoi ragionamenti. «Proprio per questo ti ho detto che dobbiamo correre a preparare i bagagli!» guardò l'orologio da polso e affermò: «Se ci muoviamo, per le… nove di questa sera saremo lì!»
«Jace,
sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.

***

Note finali:

Salve! XD è la primissimissima volta che scrivo in questo fandom, ma dopo aver visto Queer as Folk e averlo letteralmente divorato in meno di due settimane, non sono riuscita a trattenermi dallo scrivere una sesta stagione, nell'attesa e speranza di vederne una ufficiale, o almeno un film, prima o poi!
So che di "seste stagioni" ne esistono già un po' su questa sezione, ma considerando che proprio non riuscivo a disintossicarmi da Brian e Justin, ho voluto provare a liberare le mie fantasie su di loro e sul resto del cast, per vedere quello che ne sarebbe venuto fuori!
Cercherò di concentrarmi un po' su tutti i personaggi, come fosse una serie vera e propria, anche se il "clou" della situazione sarà sempre e solo "Britin"...perché è più forte di me! Per quanto ami anche altri personaggi della serie, Brian e Justin hanno letteralmente rapito il mio cuore, occupando il primo posto tra le coppie dei telefilm! <3
Mi auguro di restare più o meno IC con i personaggi, spercie con Brian che, bene o male, credo sia quello più difficile da trattare, ma soprattutto con Michael, perché per quanto ci provi a farmelo rimanere simpatico o comunque neutrale, proprio non ci riesco...e non vorrei che questa antipatia trasparisse anche attraverso i capitoli.
Insomma, come avrete capito è trascorso un anno e mezzo da quando Justin ha lasciato Pittsburgh e sono sei mesi che i due "piccioncini" hanno rotto i ponti, perché incapaci, per un motivo o per un altro, di reggere le redini della situazione. Il perché, conoscendoli entrambi, credo sia abbastanza ovvio, comunque sia sarà spiegato presto!
Non credo ci sia molto altro da precisare in questo capitolo, perciò spero vi sia piaciuto e comunque, è ovvio che potete contattarmi per qualsiasi chiarimento!

Ah, ovviamente la dicitura "altro personaggio" si riferisce a Jace e ad altri che comprariranno più o meno frequentemente e con più o meno rilevanza e, ancora ovviamente, i personaggi di Queer as Folk non mi appartengono e bla, bla, bla...la solita solfa, insomma!

La scelta delle canzoni è semplicemente dettata dal fatto che riconducono a qualche frase o al contenuto del capitolo, o perché per scrivere quello specifico paragrafo, ho ascoltato quelle...ovviamente, ognuno è libero di creare la propria "colonna sonora", o di non crearne affatto...è semplicemente una cosa che mi aiuta a scrivere, tutto qui! XD
Nel caso comuque vogliate ascoltare quelle che ho scelto, vi consiglio di cliccare sul link con il destro e aprire la pagina in un'altra finestra...altrimenti rischiate che venga caricata al posto della storia. :) purtroppo non ho ancora ben capito come fare per farla aprire altrove. -.-''

Ringrazio anticipatamente tutti coloro che leggeranno questa storia, ma soprattutto ci tengo a ringraziare di cuore Elena - nonché la mia beta "Trappy" - che è diventata una Queer as Folk addicted a causa mia, che sopporta tutti i miei colpi di testa e con cui intrattengo infinite conversazioni sull'argomento, quasi al limite del paradossale.
Per farla breve...siamo così innamorate e in astinenza da questo telefilm, che ormai possiamo definirci seriamente malate!

Ancora grazie a tutti, e a presto.
Se tutto va bene, dovrei riuscire ad aggiornare ogni due settimane. :)

Un bacio, Veronica.

PS. Non ho mai capito di che colore siano gli occhi di Gale - e quindi di Brian - credo siano un marrone-verde cangiante, di quelli che cambiano tonalità con il sole...comunque sia, alla fine, siccome dire "marrone-verde cangiante" era un tantino lungo da scrivere ogni volta XD ho optato per un verde scuro. Quindi, non preoccupatevi, non sono daltonica...è solo che quegli occhi sono così belli e particolari, ma anche letteralmente indefinibili nel colore!

   
 
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