6x02 – Come
home.
[capitolo betato da Trappy]
Le luci
psichedeliche continuavano la loro danza colorata imperterrite,
riproducendo la stessa magica atmosfera da anni e anni; un’atmosfera
di cui non si era mai stancato, di cui credeva di non poter fare a
meno, tanto da averlo indotto a comprare quel posto e riportarlo al
suo splendore più di una volta.
Per Brian Kinney,
il Babylon era una specie di regno o una “zona di caccia”, dove
poteva ritenersi il migliore in assoluto e il più desiderato.
L’unica
persona che l’aveva quasi spodestato se ne stava appoggiata al
bancone di fianco a lui, sorseggiando tranquillamente birra, dopo
esser stato battuto in quella loro sciocca sfida e che, per qualche
assurdo motivo, aveva finito per diventare il suo “compagno di
nottate”; mentre l’altra
persona,
quella che era riuscita a far passare in secondo piano ciò che fino
al suo arrivo era stato il suo passatempo preferito; quella che aveva
stravolto il suo modo di essere e i suoi credo; quella che in poche
parole l’aveva cambiato, dandogli altre priorità, era lontana
miglia e miglia da lui.
Ordinò una
tequila e la trangugiò con un solo sorso, strizzando gli occhi per
il bruciore che gli solcò la gola, prima di ordinarne un’altra e
farle fare la stessa identica fine.
«Sei più
silenzioso del solito.» esordì Brandon, soffiando le parole al suo
orecchio.
«Non mi pare di
essermi mai impegnato in qualche patetico dibattito esistenziale con
te, né sulla politica, sui diritti dei finocchi, sulla fame del
mondo o qualsiasi altra stronzata di questo genere.» gli fece un
sorrisetto di circostanza e ordinò un Chivas Regal.
«Effettivamente
no.» convenne l’altro, e sollevò le spalle. «Ma c’è sempre
una prima volta.»
Brian lo guardò
disgustato, tenendo il bicchiere a mezz’aria. «Ma per favore!»
«Stavo solo
scherzando.»
«Lo spero
davvero, o potrei seriamente vomitare.» scolò interamente il
liquido ambrato e posò il bicchiere sul bancone.
Brandon gli fece
un cenno con la testa e sorrise. «Se continui così, non andrai
molto lontano.»
«Grazie
per l’avvertimento, mammina.»
sputò acido. «Ma se avessi avuto bisogno di una balia, me ne sarei
andato a trascorrere una penosa serata sul divano di casa Bruckner
Novotny!» fece una smorfia e l’altro sollevò le mani in senso di
resa.
«È che sembri
turbato da qualcosa.»
«Oh Cristo!»
imprecò e sollevò un sopracciglio. «Se proprio devi muoverla
quella cazzo di bocca, usala per qualcosa di più utile! Vai a
succhiarlo a qualcuno invece di fracassarmi l’unico coglione sano
che mi è rimasto.» si allontanò con fare nervoso e superò la
calca di gente, fino alla porta della Dark Room. Varcò la soglia,
con lo sguardo dritto avanti a sé, ignorando le moine che ogni uomo
là dentro si premurava di rivolgergli e tirò fuori dalla tasca il
popper per inalarlo da entrambe le narici, nella speranza che
servisse ad annebbiargli la mente quel che bastava per cancellare
certi pensieri.
Sentì qualcuno
picchiettargli sulla spalla e si voltò, lasciando che sulla sua
faccia si disegnasse una smorfia, nel momento in cui si trovò
davanti capelli biondi e occhi azzurri; ma non quelli che avrebbe
davvero voluto. «Che cazzo vuoi ancora?»
Brandon
sorrise divertito. «Che tu ammetta che ho ragione. È evidente che
hai qualcosa che non va.» si avvicinò di più al suo viso ed unì
le mani dietro la propria schiena. «Non che tu sprizzi gioia da
tutti i pori di solito, ma stasera sei anche peggio.»
Brian sbatté più
volte le palpebre e si lasciò andare a una risata. Si passò la
lingua sulle labbra e sorrise. «Che cazzo di problema hai?» scosse
la testa e lo guardò storto. «Se questo è un patetico tentativo di
approccio perché sei ancora deluso della volta che non te l’ho
messo nel culo, piantala immediatamente. Sei ridicolo.» si soffermò
un istante a fissarlo, e con un sorriso si voltò di scatto per
proseguire il suo tour fino a raggiungere uno dei suoi soliti posti;
il suo preferito per l’esattezza: quello strano trono, sistemato
dietro la rete.
Bastò un suo
cenno agli occupanti per far si che questi se ne andassero e gli
permettessero di abbandonarvisi sopra; e servì ancora meno prima che
uno dei presenti – un bel ragazzo moro che non doveva avere più di
venticinque anni, e che probabilmente si era già fatto –
s’inginocchiasse davanti a lui, liberasse il bottone dalla sua
asola e gli abbassasse la zip dei jeans.
Allontanò la sua
testa quando questo cercò di baciarlo, con un’espressione
infastidita e, passando una mano dietro la sua nuca, lo guidò verso
l’unico posto del suo corpo dove le labbra degli estranei potessero
sostare. Strinse quei capelli scuri tra le dita, abbandonò la testa
all’indietro e dischiuse le labbra. Si passò la lingua sulla bocca
e sorrise, facendo un cenno con la mano libera di saluto, quando con
la coda dell’occhio vide la figura di Brandon che lo stava
osservando divertito, e altrettanto impegnato con un ragazzetto
inginocchiato davanti a lui.
Quello era l’unico
motivo per cui l’aveva lasciato avvicinare e per cui gli aveva
concesso di conoscere un poco di sé: Brandon era simile al Brian che
era un tempo.
Con
lui – almeno solitamente – non doveva sviare domande fastidiose
come con tutti gli altri che avevano vissuto il privilegio di camminare al fianco di quel
sorriso luminoso; non doveva sostenere le occhiate di disapprovazione
per le sue scelte, né doveva giustificare i suoi sbagli; non doveva
sopportare il dolore di dover condividere qualche ricordo di
Justin…perché, semplicemente, Brandon non aveva mai avuto niente a
che fare con il suo unico amore.
Trattenne il fiato
e digrignò i denti, prima di emettere un lieve gemito, quasi
infastidito, e venire nella bocca di quello sconosciuto, per poi
allontanarlo malamente e risistemarsi.
Senza degnarlo di
uno sguardo, uscì dalla Dark Room, dopo essersi limitato a un altro
cenno di saluto per Brandon e raggiunse il bancone. Bevve l’ultimo
shot di tequila e attraversò la pista per uscire dal Babylon.
Salì sulla sua
Corvette e la mise in moto, con la testa che già vagava nel limbo
dei suoi insistenti fantasmi, e il familiare groppo alla gola che
puntualmente si formava al pensiero di dover tornare in un loft
troppo buio e solitario, da quando un “raggio di sole” non era
più lì a illuminarlo e scaldarlo.
*'*'*
«Non
andremo a Pittsburg!» gridò per l’ennesima volta Justin, entrando
in un negozio della 5th
Avenue, seguito da Jace.
«Io scommetto di
sì invece.» lo contraddisse l’altro, osservando distrattamente un
completo di Armani fieramente sistemato su uno dei manichini. «Anche
perché altrimenti non capirei questa tua improvvisa voglia di
shopping.»
«Non posso voler
far shopping per i fatti miei?»
«Certo
ma…Armani?»
disse, indicando il cartellino appeso a una camicia.
«Posso
permettermelo, lo sai!»
«Non
ho dubbi su questo ma, non per essere il solito malfidato, sbaglio o
qualcuno,
che spero conoscerò presto, ha una malsana passione per Armani?»
«Armani, Prada,
Gucci.» elencò Justin. «Qualsiasi cosa di alta moda italiana se
proprio vuoi saperlo, ma non c’entra affatto! Quando ci siamo
conosciuti non indossavo cose del genere.» prese un paio di
pantaloni neri dal taglio elegante e glieli sventolò sotto il naso,
senza curarsi delle occhiatacce lanciategli dai commessi. «Perciò
non c’entra affatto.»
«Magari vuoi solo
mostrarti a lui più adulto di quando te ne sei andato. Mi pare di
ricordare che all’inizio è stato un intralcio per voi, o meglio
per lui, la differenza d’età…»
«Una camicia
d’Armani non mi farà essere più adulto.»
«Più adulto no,
ma un finocchio riccamente realizzato, sì!» finse di non vedere la
sua espressione scettica e fece un cenno verso uno scaffale in cui
erano stipati i capi della linea “Armani Jeans”. «E certamente
con un paio di jeans slavati e strappati, avrai un culo che neanche
una lesbica desisterebbe dal palpeggiarlo selvaggiamente.»
Justin lo fissò
schifato. «Jace, grazie ma non dire mai più una cosa del genere.
Potrei vomitare.» ed eccola lì, un’altra delle tante espressioni
di Brian Kinney; e quasi gli vennero i brividi, come ogni volta che
gli veniva sbattuto bellamente in faccia quanto lui ormai gli si
fosse cicatrizzato dentro, tanto da diventare parte integrante
dell’uomo che era diventato.
Un omosessuale
di cui esser fiero.
Lo squillo del suo
cellulare lo fece però sobbalzare improvvisamente e gli venne
naturale sbuffare quando sul display lesse il nome del suo agente:
«Gary, ciao.»
«Justin, dove
diavolo sei?» chiese senza troppe cerimonie ed un’evidente crisi
di nervi da gestire.
«Sulla quinta
strada, con Jace.» rispose con voce strascicata.
Gary era una
persona fantastica, l’aveva preso sotto la sua ala appena sceso a
New York, riconoscendo il suo talento e facendosi in quattro per lui.
C’erano state sere in cui avevano bevuto una birra insieme e in cui
si era sorbito tutte le sue lamentele di ragazzino spaventato da quel
nuovo mondo caotico e scintillante, e si era premurato di proteggerlo
per non lasciarlo allo sbando in quella città rumorosa; ma oltre
tutti questi enormi pregi, Gary era prima di tutto una persona
estremamente diligente, che pretendeva professionalità da ogni suo
collaboratore e metteva al primo posto il lavoro e la carriera.
Aveva puntato
molto in alto con Justin; aveva riposto in lui un’enorme fiducia e
non gli permetteva di allentare il ritmo. Non adesso che era sulla
cresta dell’onda e doveva imparare a domarla per non affondare.
C’erano stati
momenti in cui l’aveva detestato – soprattutto quando gli aveva
impedito di rientrare a casa per il giorno del Ringraziamento – ma
non era mai riuscito a biasimarlo. Tutto quello che aveva, lo doveva
anche a lui e alla sua tenacia; si sentiva debitore in un certo senso
nei suoi confronti e, per quanto a volte avesse desiderato fare le
valige e correre a casa, alla fine dei conti non se l’era mai
sentita di mollarlo lì e andarsene.
Gary
aveva solo
quindici anni più di lui, ma si comportava come la figura paterna
che gli era mancata da quando aveva fatto il suo “debutto
ufficiale” nel mondo omosessuale e, a differenza dell’altro
suo mentore, – per quanto, come Brian, fosse orgogliosamente gay –
aveva i piedi ben saldati a terra, non era affatto arrogante o
scostante, si assumeva sempre le proprie responsabilità e non si
vergognava a mostrare i suoi sentimenti. Era una persona piacevole,
colta, piena di sorprese; un uomo da cui si poteva sempre imparare
qualcosa e, per quanto a volte risultasse tremendamente petulante o
si lasciasse colpire da attimi di isterismo cronico, Justin provava
un’immensa ammirazione e gratitudine nei suoi confronti…anche
quando gli urlava contro come in quel momento. «Perché non mi hai
avvertito? Ti ho cercato dappertutto e ieri sei sparito!»
«Ti ho lasciato
un messaggio alla reception, e poi ormai avevo già vagato anche
troppo per quella sala. Potrei dirti il numero esatto di mattonelle.»
Lo sentì
sospirare contrariato, ma già sapeva che non era più arrabbiato.
Per quanto Gary ci tenesse a una partecipazione attiva di Justin a
quegli eventi, sapeva di non poter pretendere troppo da lui, e che
era già tanto se gli aveva concesso il beneficio di qualche ora
chiuso là dentro. «D’accordo.» soffiò allora. «Che intenzioni
hai per il Ringraziamento?»
Di nuovo quella
domanda. Sembrava che proprio nessuno avesse dimenticato l’esagerata
reazione che aveva avuto l’anno precedente, quando era stato
“incatenato” a New York. «Non saprei, perché?»
«Pensavo volessi
tornare a casa.» replicò l’altro, senza celare la sorpresa nel
tono della sua voce. «Mi ero già organizzato.»
«Organizzato
cosa?» pronunciò allarmato. Quando Gary usava quella parola, c’era
sempre da tenere le orecchie bene aperte, perché significava che ne
aveva combinata una delle sue.
«Immaginavo
volessi trascorrere del tempo con la tua famiglia e…»
«E…?» incalzò
lui, stringendo spasmodicamente il cellulare. Gli tremavano le gambe
solo al pensiero di rimettere piede in quel posto.
«Justin, c'è
qualcosa che non so e che dovrei sapere?»
«Avanti, Gary!»
esclamò con voce supplicante, facendo un cenno a un incuriosito e
agitato Jace, intimandogli di stare zitto, e che gli avrebbe spiegato
tutto più tardi. «Dimmi che succede!»
«Visto che è più
di un anno che non torni là, e vista la tua reazione dell’anno
scorso, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere passarci del tempo…»
«Tempo?»
«Non è ancora
niente di certo ma, diciamo almeno fino a Natale.» gli disse, e
Justin sentì il suo cuore fermarsi per un attimo. «Pensavo che
avresti potuto trascorrere anche le vacanze là.»
«È uno scherzo?»
chiese titubante, dopo aver riacquistato il respiro e la voce.
«No.»
«Un pesce
d’aprile in ritardo?»
«Neanche…»
«Un regalo di
Natale anticipato?»
«Justin!» gridò
esasperato. «Mi dici che ti prende?!»
«Niente, è solo
che…»
Gary si lasciò
sfuggire una piccola risata, finalmente conscio del perché il suo
più caro cliente fosse così agitato.
Sapeva tutto dei
suoi trascorsi, dei problemi in famiglia, l’aggressione, il fumetto
e ovviamente di Brian e del matrimonio mancato. Sapeva della loro
“recente” – almeno così lui si ostinava a definirla,
nonostante fossero passati sei mesi – rottura e quanto quella
ferita bruciasse ancora; sapeva dello sforzo immane che stava
compiendo per resistere e non lasciarsi andare ma, per quanto
cercasse di negarlo ogni volta con le parole, gli sembrava quasi di
sentire il suo cuore supplicarlo di lasciarlo tornare a casa. «Te lo
meriti, davvero.» pronunciò con dolcezza e sperò che fosse la
mossa giusta.
I quadri di Justin
si vendevano comunque a peso d’oro e con una velocità disarmante,
nonostante il suo stile si fosse drasticamente incupito, ma per Gary
era importante anche che lui fosse felice; per Gary, Justin, non era
solo una macchina per fare soldi.
«Grazie.»
sorrise, anche se il suo cuore sembrava improvvisamente sul punto di
esplodere.
«Non farci ancora
la bocca però. È tutto da sistemare per le mostre e non è detto
che riuscirò a tenerti fuori dai giochi per tutto quel tempo.» lo
avvertì e a Justin venne istintivo annuire con la testa, anche se
non poteva vederlo. «Se non ci riesco...»
«Niente vacanze a
Pittsburgh, lo so.»
«Esatto.»
affermò deciso. «Quindi, quando hai intenzione di partire?»
Justin esitò per
un attimo, poi lanciò un’occhiata fugace a Jace impegnato a
ispezionare delle camice classiche con aria schifata; evidentemente
troppo poco vistose per i suoi gusti; e sorrise. «Io e Jace
pensavamo di fare un salto là già da domani sera. Tu quando vieni?»
«Ah, ma bene! E
quando pensavi di dirmelo?» ridacchiò. Di certo non aveva perso
tempo.
«Era solo
un’idea. Saremmo comunque tornati il giorno dopo.» spiegò per
rabbonirlo. «Ma visto che il mio agente è di tutt’altro
avviso…quando pensi di venire a farmi visita?»
«E io che
c’entro?»
«Semplice.» si
ritrovò a sorridere nuovamente. «Voglio che tu veda dove è nata la
tua gallina dalle uova d’oro!»
Gary
scoppiò a ridere. «D’accordo, d’accordo gallinella.»
lo schernì. «Vedrò di passare a farti una visita, ma non esaltarti
troppo.» si raccomandò, con la sua solita aria professionale e quel
tono da “non mettiamo le mani troppo avanti”. «Non è detto che
potrò venire, considerando che ancora non è sicuro neanche che tu
possa restare tanto. Il
lavoro è lavoro.»
Justin roteò gli
occhi e sbuffò in modo da farsi sentire. Detestava quel suo modo di
dire e l’aveva sentito talmente tante volte da averne la nausea.
«D’accordo.»
«Fa buon viaggio
allora.» gli augurò, cercando di rassicurarlo. «E se c’è
qualche problema, chiama.»
«Certo.» esclamò
e rise. «Chi meglio di te può gestire le mie crisi da adolescente
depresso?»
«Cerca di
dipingere, piuttosto, adolescente depresso!» scherzò, con un finto
tono di rimprovero. «Non penserai certo di esserne esente!»
«Non sia mai, con
te!» lo canzonò.
«Lo spero bene.
Ci sentiamo presto, e salutami Jace.»
«Certo.» sorrise
ancora, finalmente in modo sincero, e dopo averlo salutato riattaccò,
per poi alzare uno sguardo luminoso verso Jace e sollevare
maggiormente gli angoli della bocca.
«Cristo.»
pronunciò l’altro, resosi conto delle sue attenzioni. «Credo di
aver appena capito perché ti chiamano ‘raggio
di sole’. Ti hanno detto che hai vinto alla lotteria, caro?»
«No, meglio!»
«Meglio?» inarcò
le sopracciglia e lo fissò più attentamente. «Hai un harem
personale?»
«Ritenta.»
ridacchiò ed iniziò a girovagare per il negozio, raggiante.
«Insomma Justin,
vuoi dirmi o no perché hai un sorriso che se solo non avessi le
orecchie, ti farebbe il giro della testa?»
«Forse,
e ripeto forse…»
rispose, guardandolo dritto negli occhi. Fece una pausa per essere
sicuro che l’amico avesse afferrato e incrociò le braccia. «Gary
mi ha appena comunicato che pensa di riuscire a lasciarmi dei giorni
liberi, almeno fino a Natale. Il che implica che, sempre
forse,
potrò trascorrere quasi un mese a Pittsburgh!»
«Per tutti i
froci!» strillò l'altro entusiasta. «Ma è fantastico!»
«È
un forse,
Jace. È ancora un forse.»
«Oh
al diavolo, biondo.»
sbuffò e si mise le mani sui fianchi. «Un po’ di ottimismo! Sei
un frocio per la miseria, non un etero depresso!»
Rise e scosse la
testa. «Anche i gay possono essere depressi.»
«Stronzate.
I gay sono solo melodrammatici! Abbiamo troppo da conquistare per
permetterci di oziare nel limbo della depressione.» gli sventolò
una mano davanti agli occhi come per voler scacciare certi argomenti
e aggiunse: «Piuttosto, stringi le chiappe, raddrizza la schiena,
sorridi e trova uno straccetto in questo posto che ti stia perfetto,
perché domani sera partiamo alla conquista della provincia!»
Justin non
rispose. Si limitò a sorridere e a osservarlo divertito mentre si
allontanava sculettando vistosamente verso uno dei commessi e
prendeva a gesticolare come suo solito, indicandolo.
Spostò il suo
sguardo su uno degli specchi e si perse nel guardare la sua immagine
riflessa; i pochi centimetri guadagnati in altezza, le spalle più
larghe perché Jace l’aveva costretto a frequentare la palestra con
lui pur di farlo uscire di casa; la sua pelle perfettamente nivea, in
cui erano incastonati i suoi occhi azzurri e quei capelli
biondissimi, che gli ricadevano morbidi in una frangia disordinata e
lunga sulla fronte, e che dietro arrivavano scalati per tutta la
lunghezza del collo.
Li scompigliò con
le dita, immaginando che fosse un’altra mano a farlo al posto suo,
e sorrise amaramente.
Non sapeva se ne
avrebbe avuto davvero la forza e se fosse stato pronto ad affrontare
tutto quanto, ma ci si erano messi proprio tutti a ricordargli quel
posto e forse, significava solo che era tempo di tornare a casa.
*'*'*
«Questa è la
segreteria di Justin Taylor. Non sono a casa al momento, perciò
lasciate un messaggio dopo il bip e vi richiamerò al più presto...»
Daphne riattaccò
rabbiosa e lasciò ricadere malamente il cellulare sul bancone del
Diner, attirando l’attenzione di Debbie. «Che succede, tesoro?»
le chiese benevola e si ritrovò a sbuffare contrariata.
«C’è che sono
stufa di avere un rapporto con la segreteria di Justin!» sbottò e
mangiò una delle patatine con foga. «Non c’è modo di
rintracciarlo e non richiama mai!»
«Dolcezza.» la
chiamò con uno sguardo comprensivo e le accarezzò una guancia. «Lo
sai che non è perché non vuole sentirti. È solo molto impegnato.»
«Io invece
comincio a dubitare che sia proprio così! Ha chiuso i ponti con
tutti, Deb! Non chiama più neanche sua madre e Molly è
arrabbiatissima con lui!»
Debbie sospirò e
versò una tazza di caffè per un cliente. «Se può consolarti sono
riuscita a chiamarlo e a parlarci appena qualche minuto.»
«Davvero?» le
disse Daphne, sorpresa e piena di speranza.
«Sì, ma non
sembrava dell’umore migliore di questo mondo. Se non chiama, non è
certo perché è troppo impegnato a divertirsi.» borbottò e scosse
la testa. «Ho provato a chiedergli se sarebbe tornato per il
Ringraziamento, ma non sono riuscita a strappargli neanche una vaga
promessa.»
«Suppongo che il
ricordo di quello passato non la giochi a suo favore.»
Debbie sollevò le
sopracciglia come per confermare le sue parole e piegò le labbra.
«Secondo te si sentono ancora?»
«Non lo so.»
rispose immediatamente la ragazza, giocherellando con uno dei suoi
riccioli. Non avevano bisogno di fare nomi, perché c’era solo una
persona a cui potevano riferirsi. «Le pochissime volte che mi ha
degnata di una parola, non mi sono neanche azzardata a toccare
l’argomento. Temevo mi riattaccasse in faccia.»
«E da Mister
Brian ‘Statemi-alla-larga-perché-sto-benissimo’ Kinney, non
caveremo un cazzo di ragno dal buco. Figuriamoci se quel borioso
confessa qualcosa!» mormorò con la fronte aggrottata.
«Buongiorno
signore!» esclamò Ted alle loro spalle, prima di sistemarsi accanto
a Daphne. «Un caffè Deb e…che sono quelle facce?» domandò, con
le sopracciglia inarcate.
«Un certo ‘raggio
di sole’ che sembra svanito nel nulla.» confessò Deb, e rovesciò
nella tazza il liquido nero dalla caffettiera.
Ted annuì
comprensivo e accennò ad un sorriso. «È molto che non lo senti?»
domandò rivolto a Daphne, e la vide sollevare le spalle.
«Praticamente
sento la sua voce solo registrata nella segreteria. E non lo vedo dal
mio ultimo viaggio a New York, dove abbiamo trascorso insieme appena
qualche ora dei due giorni che mi ero presa.»
«È un artista
apprezzato e impegnato ormai…» gli disse e prese a sfogliare il
giornale. «Guarda qua.» indicò un’intestazione e recitò
solennemente. «‘Justin Taylor, il nuovo Warhol di Pittsburgh,
conquista anche il Canada’.» ridacchiò e concluse: «Chi glielo
fa fare di tornare nella vecchia Pittsburgh quando ha il mondo da
conquistare?»
«Alla
vecchia
Pittsburgh,
c’è la sua cazzo di famiglia!» protestò Debbie, strappandogli il
giornale di mano e appallottolandolo frettolosamente, dopo aver
lanciato un’occhiata fugace alla porta. «E da questo momento sono
vietate le parole ‘Justin’, ‘Taylor’, ‘New York’,
‘artista’ e connessioni varie, fino a nuovo avviso!»
Sia Ted che Daphne
annuirono decisi, senza aver bisogno di spiegazioni. Le parole di
Debbie e il rumore della porta che si apriva e si richiudeva
bastarono e avanzarono a far intendere chi aveva appena fatto il suo
ingresso. I sospiri eccitati dei presenti e il brusio fatto di
complimenti e strillini strozzati servirono solo a dare un’ulteriore
conferma: Brian Kinney era arrivato.
«Buongiorno
ragazze.»
salutò appoggiando la ventiquattrore sul bancone e lisciando il suo
costoso cappotto immacolato. «Un caffè forte Deb, senza zucchero.»
«Subito! Allora
tesoro, tutto bene?» domandò Debbie, con un tono vago, masticando
come suo solito il chewing-gum.
Brian la fissò
con un sopracciglio sollevato e il suo solito sorrisetto ironico.
Piegò per un attimo le labbra all’interno della bocca e sbatté le
ciglia.
«Ti risponderei
‘benissimo’, o ‘chi può stare meglio di me’, come è ovvio
che sia d’altronde.» prese un sorso di caffè e la fissò
sottecchi. «Ma qualcosa, come ad esempio quel giornale
appallottolato, mi suggerisce che dovrei vederci un significato
nascosto nelle tue parole e che dovrei optare per un ‘fatti i cazzi
tuoi’.» sorrise ancora e aggiunse: «O mi sbaglio?»
«È solo che…»
tentò di parlare con voce mortificata, ma lui non gliene lasciò il
tempo. Trangugiò il suo caffè e si alzò velocemente.
«Credo di dover
trovare un altro bar per fare colazione la mattina. Questo è un po’
troppo invaso da pettegoli petulanti e patetici.» passò gli occhi
su ognuno di loro e si soffermò su Ted. «Ah, Theodore.» increspò
le labbra in un finto sorriso benevolo e inforcò gli occhiali da
sole. «Fossi in te alzerei il culo e correrei a lavoro. Se non ti
trovo lì prima del mio arrivo, ti licenzio.»
L’altro, per
contro, bevve il suo caffè e si affrettò a salutare le due donne,
prima di inseguire il proprio capo, ben conscio del fatto che sarebbe
stata certamente una giornata faticosa. Brian non era affatto di
buonumore e la Kinnetik sarebbe assomigliata molto più a un inferno.
«Decisamente, ha
un modo davvero tutto suo di elaborare il dolore.» commentò Daphne,
con gli occhi ancora fissi alla porta da cui erano appena usciti.
Debbie
scrollò le spalle e mugugnò. «Ringrazia che non abbia ripreso a
scoparsi tutto quello che si muove come quando il suo raggio
di sole
l’ha lasciato per quel tortura
gatti.»
«Ethan?» domandò
l’altra ridacchiando.
«Già.» confermò
con un tono di voce decisamente scocciato. «Non dico che non se lo
sia meritato, ma in fondo un po’ mi è dispiaciuto per lui.»
Daphne abbassò
gli occhi e accennò ad un sorriso amaro. «C’erano quasi riusciti
a scrivere il loro lieto fine.»
«Spero tanto che
non sia troppo tardi.» mormorò sconsolata. «È uno stronzo a cui
prenderei il suo bel culo regale a calci almeno un paio di volte al
giorno ma, che cazzo, anche lui ha diritto ad essere felice!»
«Se solo Justin
tornasse…»
*'*'*
Emmett
Honeycutt non era mai stato un tipo troppo paziente e doveva
ammettere che spesso si lasciava prendere da attacchi isterici, anche
per un nonnulla, ma mai e poi mai
si
era ritrovato tanto incasinato in vita sua.
Quando aveva
iniziato la sua attività come organizzatore di eventi, tutto gli era
apparso come un bel sogno; come un film di Audrey Hepburn; in cui
ogni cosa sembrava magicamente prendere la piega giusta – tranne
per come era finita con Drew Boyd, ma quella era un’altra storia –
e si era quasi convinto di avere il tocco magico di sistemare
all’ultimo secondo anche il peggiore dei pasticci.
Già, ne era
sicuro finché non si era trovato davanti a una crisi coniugale in
piena regola con una probabile separazione a seguire, a causa della
scelta di uno stupidissimo portatovaglioli.
Si massaggiò le
tempie vigorosamente e inspirò a fondo ricorrendo a quel poco di zen
che Ben si era premurato di insegnarli quando era in procinto di una
delle sue crisi. Cercò di ignorare i piagnistei della donna, fin
troppo simili a quelli di un incrocio tra una foca e la sirena del
911, e le grida dell’uomo, che continuava a urlare le sue ragioni,
prendendosela inspiegabilmente con il tavolo di prova, quando il
rumore di un bicchiere di cristallo che si frantumava a terra, lo
fece letteralmente sbottare: «Non vi sposate!»
I due litiganti
rimasero in silenzio ed interdetti per qualche secondo, prima di
rispondere all'unisono: «Ma noi siamo già sposati.»
«E allora
separatevi, Cristo Santo!» irrigidì le braccia e uscì a passo
svelto dal salone dell’albergo, rischiando di stritolare il suo
preziosissimo Blackberry. Si sistemò l’auricolare all’orecchio e
avviò la chiamata per una delle sue collaboratrici. «Jude,
zucchero, ho bisogno di te. Interrompi qualsiasi cosa tu stia
facendo, a meno che tu non sia in punto di morte, allora in quel caso
puoi anche lasciar perdere, e porta le tue chiappe etero qua.» sputò
le parole fuori come una macchinetta e neanche aspettò una risposta.
«Hai una crisi matrimoniale da risolvere, prima che io cambi
mestiere e diventi un frocio serial killer.» riattaccò e continuò
la sua camminata per ridistendere i nervi.
Era
decisamente un periodo nero per lui. Non perché il lavoro andasse
male o perché ci fosse carenza di uomini nella sua vita, ma perché
semplicemente tutti – ma proprio tutti
– sembravano aver trovato l’amore; perfino Brian Kinney,
l’anticristo delle relazioni, era capitolato, seppur fosse finita
male; e proprio non riusciva a sopportare il fatto che la sua anima
gemella fosse smarrita chissà dove, o che Dio avesse sicuramente
sbagliato qualche calcolo nel disegno della sua vita. Perché per
quanto la scopata di una notte fosse piacevole, con l’andar del
tempo non aveva più il gusto di una volta.
Dopo la
“separazione” – sempre che così la si potesse definire – con
Drew, qualunque uomo avesse incontrato e scopato ovviamente, sembrava
non avere la stoffa giusta per restare al suo fianco oltre quei
minuti utili a un orgasmo; e mentre tutti erano andati avanti con le
loro vite e avevano magicamente incontrato la persona giusta, lui si
era trovato intrappolato nello stesso identico posto, senza vedere
davvero una via d’uscita.
Si lasciò
ricadere su una delle panchine di pietra dell’immenso giardino e
perse lo sguardo oltre un roseto, riflettendo su quello che stava
succedendogli intorno.
Michael e Ben,
erano sempre più schifosamente innamorati e finalmente sembravano
essere riusciti a dare una raddrizzata anche ad Hunter. Ted e Blake,
neanche a parlarne, sembravano la riproduzione perfetta di una coppia
che dopo aver affrontato mille difficoltà insieme risplende della
bellezza della loro unione. Perfino la relazione tra Carl e Debbie
andava a gonfie vele, per non parlare di Linz e Mel più innamorate e
unite di un tempo, nonostante alla prima fosse tornata per un attimo
la passione per l’organo genitale maschile, che non si limitava
certo a un dildo; o Jennifer, che sembrava vivere la sua storia
d’amore con Tucker felice e spensierata come un’adolescente.
L’unico a
“fargli compagnia” nel mondo dei single era Brian, ma anche lui
pareva fin troppo preso dai suoi affari e affatto interessato alla
vita monogama, specie dopo aver iniziato la sua malsana
frequentazione con quel Brandon, di cui ancora nessuno sapeva nulla –
a parte lui – visto che erano troppo impegnati a condurre una vita
da sposati per anche solo pensare di fare un salto al Babylon.
Ancora
non era ben riuscito a spiegarsi il perché di quella strana
accoppiata, né ovviamente si era azzardato a chiedere spiegazioni a
Brian perché, dopo che la prima teoria in cui li immaginava
divertirsi allegramente nel loft era deliberatamente saltata, l’unica
che gli rimaneva plausibile era che continuassero con le loro stupide
scommesse e che Brian esorcizzasse in quello strano modo il dolore
per la perdita del suo raggio
di sole.
Qualunque
fosse il motivo, comunque, ognuno dei suoi amici aveva trovato uno
scopo da perseguire: i primi si dedicavano all’amore, mentre
l’ultimo si dedicava al sesso, proprio per dimenticarlo quell’amore
che l’aveva travolto e abbandonato; e invece, lui, non riusciva a
trovare il suo posto.
Sbuffò
rumorosamente e chiamò un taxi. Quel giorno era troppo depresso per
lavorare, anche se la mattina era appena terminata, perciò decise di
lasciare tutto nelle mani dei suoi collaboratori e recarsi al Diner.
Una ciambella di Deb, forse, gli avrebbe risollevato il morale.
Il campanello
della porta della tavola calda tintinnò allegramente quando entrò,
seguito dalla voce squillante di Deb che lo salutava pimpante come
suo solito: «Ciao dolcezza!»
«Ciao Deb.»
rispose sconsolato, e si trascinò fino al bancone.
«Zucchero,
cos’è quella faccia?» lo invitò a sedersi e gli offrì un
tortino al limone. «Avanti, parla con Debbie.»
Emmett arricciò
le labbra e appoggiò la testa sulle mani sistemate a coppa. «Sono
un finocchio triste, patetico e single.»
«Ma che stai
dicendo?» esclamò contrariata e sorpresa. «Non sei affatto
patetico e, per la persona giusta, vedrai che arriverà presto!»
«Ma
Deb!» piagnucolò, agitandosi sullo sgabello. «Michael e Ben sono
una coppia felice, Ted e Blake anche peggio. Tu e Carl siete zucchero
fuso, così come le due lesbiche e perfino Jennifer!» sospirò
sconsolato e concluse: «Brian ha ricominciato a scopare come un
riccio e sta sempre in compagnia di quel…» fece una smorfia
«…Brandon,
e io sono solo come un cane!»
«Fermo lì!» gli
intimò Debbie e la vide sporgersi sul bancone. «Cos’hai detto che
fa Brian?!»
Lui
le rivolse uno sguardo scocciato. «Quello che ha sempre fatto Brian
Kinney. Scopa.»
«E
chi diavolo è questo…» ci pensò su un attimo. «…Bruce.»
«È ‘Brandon’, non
‘Bruce’. E comunque stavamo parlando di me!» indicò la sua faccia con
l’indice e fece un sorriso ebete.
«Ma perché non
me l’hai detto prima?!» strillò, e lui aggrottò la fronte
confuso.
«Dirti cosa?»
«Di quello che
sta combinando quell’idiota!» afferrò la cornetta immediatamente
e compose un numero. «Devo avvertire Michael!»
Emmett sospirò
sommessamente e diede un morso al tortino, in barba a tutte le sue
preoccupazioni per i grassi saturi di cui quel coso, certamente, era
pieno.
*'*'*
Chiuse la zip
dell’ultimo trolley con non poca difficoltà, e si lasciò ricadere
sul letto esausto e sudato. Fare i bagagli era più faticoso di
quanto potesse ricordare, e anche se aveva decisamente più roba di
quando era arrivato a New York senza il becco di un dollaro, non
aveva certo creduto che sarebbe stato così difficile scegliere.
«Ma hai
intenzione di trasferirti definitivamente?» gli chiese Jace, facendo
capolino dal pannello opaco che separava il letto dal resto del loft.
«Ero solo
indeciso.»
L’altro passò i
suoi occhi marroni sulle tre valige stracolme e sollevò un
sopracciglio. «È scientificamente provato che l’amore rende
imbecilli.»
Justin ridacchiò
e si sollevò puntellandosi sui gomiti. «Non può essere semplice
vanità come ogni stramaledetto finocchio di questo pianeta?»
«No.»
sentenziò secco. «Non dato che si tratta di te.
Che sembri conoscere i colori solo quando li usi sulla tela e che sei
convinto che ‘Pucci’ sia la versione tarocca di ‘Gucci’.»
«Ehi!» esclamò
offeso, per poi lanciargli contro uno dei cuscini. «So benissimo chi
è Pucci!»
Jace assunse
un'espressione scettica. «Già, solo perché te l’ho detto io.»
«No, mio caro. Lo
sapevo già da tempo.»
«Ops! Dimenticavo
il tuo amore tormentato con l’uomo dell’alta moda.» incrociò le
mani, come se stesse pregando e sollevò lo sguardo al soffitto.
«Signore, grazie per aver donato a questo povero piccolo frocio
ignorante la possibilità di redimersi e conoscere Prada, amen.»
Justin scosse la
testa e prese a ridacchiare. «Fottiti, Jace.»
L’altro gli
sorrise e iniziò a guardarsi intorno, finché i suoi occhi si
fermarono sul piccolo personale fantasma dell’artista. Il lenzuolo
bianco continuava a coprire la tela incompiuta che giaceva sotto di
esso e, a giudicare dall’alone grigio di polvere che lo ricopriva
indisturbata, il suo giovane amico non aveva ancora avuto il coraggio
di affrontarla. «Pensi di finirla prima o poi?» gli domandò,
indicandola con un cenno.
«Non lo so.»
sospirò ed arricciò le labbra. «Suppongo finirà presto tra gli
altri, così com’è.»
Jace annuì
debolmente e un po’ deluso, perché sapeva che “gli altri”
erano quadri che ritraevano lo stesso soggetto di quello incompiuto,
e che Justin aveva accuratamente nascosto dietro una delle ante
dell’armadio, per non vederli mai più. Diceva che appartenevano al
passato e che non potevano essere esposti perché troppo personali,
nonostante perfino Gary avesse tentato di convincerlo a farlo, poiché
su quelle tele si scorgeva un altro aspetto – più profondo e
passionale – della sua anima e dei sentimenti che gli si
aggrovigliavano dentro. Era un’altra sfaccettatura; l’ennesima
tessera del puzzle che componeva l’immagine di quell’artista
geniale che si ostinava a stare sulle sue, protetto dall’ombra e da
quel suo essere un po’ asociale.
«Allora, sei
pronto?» gli domandò Jace, senza distogliere lo sguardo dal
lenzuolo.
«Sì, ma tu,
potrai davvero restare fino a Natale?» disse, mentre dentro di sé
pregava per una risposta positiva. Nessuno avrebbe potuto mai neanche
immaginare quanto Justin avesse bisogno della sua presenza e del suo
sostegno in quel momento.
«Considerando che
la mia famiglia mi considera un reietto della società perché mi
piace il cazzo e che quindi non ho nessun noiosissimo ritrovo a cui
dover partecipare…» iniziò, picchiettandosi l’indice sul mento.
«…e che fottersi il proprio capo a volte può condurre a immensi
benefici, come bonus vacanze che compaiono dal nulla, sì. Direi
proprio di sì!»
«Ti sei scopato
il tuo capo?» domandò incredulo, mantenendo le labbra socchiuse.
Lui mugugnò e
scrollò le spalle. «Cos’è quella faccia sconvolta? Gliel’ho
solo succhiato un paio di volte!» confermò, per poi assottigliare
lo sguardo. «E poi, ora che ci penso, non eri tu che lavoravi per il
tuo amore e te lo sei scopato nel suo ufficio?»
Justin mostrò un
sorriso tirato e scattò dal letto per infilare il cappotto. «Credo
proprio che sia ora di andare. Il viaggio è lungo!» prese due dei
trolley per il manico ed iniziò a trascinarli verso il montacarichi
adibito ad ascensore.
Jace per contro
scosse la testa e si premurò di recuperare il terzo trolley e il
beauty case, ricordando al suo compagno di viaggio con un urletto
stridulo che doveva ancora chiudere la porta e inserire l’allarme.
Quella testolina
bionda ricomparve con un sorriso imbarazzato e, dopo aver dato
un’ultima occhiata al suo loft, eseguì quello che Jace gli aveva
appena ricordato per poi scendere al piano terra, e raggiungere la
sua jeep nera praticamente nuova. Caricarono i bagagli e si
sistemarono ai loro posti.
Justin prese un
profondo respiro e girò la chiave per mettere in moto, mentre
l’altro iniziò a litigare con la radio e con i cd sparsi
casualmente nel cassetto e privi di una misera etichetta; in fondo,
chiunque sapeva che il padrone di quell’auto non era certo un
maniaco dell’ordine.
Compiuta la scelta
della musica, entrambi inforcarono i loro occhiali da sole e si
scambiarono un sorriso carico di adrenalina ed eccitazione, prima che
la macchina venisse immessa nel traffico newyorkese, alla volta di
Pittsburgh.
Si torna a
casa…
***
Note finali:
Ecco anche il secondo capitolo! Ho deciso di pubblicare un po' prima di quanto avevo preventivato perché era già pronto in quanto l'avevo scritto come diretta continuazione del primo e non mi andava di farvi aspettare per niente, soprattutto dato che si tratta di uno spezzone di "transizione" - ergo, non succede niente di troppo eclatante, a parte la "presentazione" di Gary e la decisione di Justin di tornare a Pittsburgh!
Suppongo
comunque che chi legge non aspetti altro che l'incontro tra Brian e
Justin - o almeno io è quello che vorrei di più -
perciò vi comunico che non avranno un incontro vero e proprio prima del quarto/quinto capitolo. Abbiate pazienza, ma c'erano altre situazioni che volevo delineare! XD
Spero di non aver sforato con il carattere dei personaggi...per quanto
riguarda Brian sono sempre un po' confusa dal grosso cambiamento che ha
avuto negli ultimi episodi della quinta serie...quindi, rifacendomi a
quel Brian, ho immaginato
che nonostante le sue vecchie abitudini, per lui non fosse affatto
facile toccare e lasciarsi toccare da qualcuno che non fosse Justin,
proprio per la piega che aveva preso il loro rapporto; non
potevo però neanche dipingere un Brian casto e puro come un
prete che pensa solo al lavoro e passa le serate sul divano...ho
cercato quindi di ricreare una via di mezzo e una personalità
tormentata da quello che era e da quello che è diventato. Mi auguro di non aver combinato disastri. XD
Mentre per quanto riguarda Emmett - personaggio che io ho sempre adorato - ho cercato di dipingerlo sulla cresta dell'onda e super indaffarato con il suo lavoro, ma con una punta di malinconia - per quanto Emmett possa essere malinconico nella sua favolosità - per l'unico tassello della sua vita che proprio non vuole andare al suo posto: l'amore...e
visto che gli autori non hanno voluto dargli la sua storia d'amore nel
finale, indosso le vesti di "cupido per gay" e parto all'azione!
Tralasciando le mie stupidaggini, spero che questo capitolo non vi abbia annoiato e ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a: silver girl, Trappy, Hel Warlock, mindyxx, Clara_88, Thiliol, oo00carlie00oo, FREDDY335, Katie88 e asterix_c per aver recensito. GRAZIE DAVVERO.
Un bacio e a presto.
Veronica.