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Autore: SidRevo    04/07/2011    13 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2.Come home

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6x02 – Come home.
[capitolo betato da Trappy]

“Hide u” - Kosheen


Le luci psichedeliche continuavano la loro danza colorata imperterrite, riproducendo la stessa magica atmosfera da anni e anni; un’atmosfera di cui non si era mai stancato, di cui credeva di non poter fare a meno, tanto da averlo indotto a comprare quel posto e riportarlo al suo splendore più di una volta.
Per Brian Kinney, il Babylon era una specie di regno o una “zona di caccia”, dove poteva ritenersi il migliore in assoluto e il più desiderato.
L’unica persona che l’aveva quasi spodestato se ne stava appoggiata al bancone di fianco a lui, sorseggiando tranquillamente birra, dopo esser stato battuto in quella loro sciocca sfida e che, per qualche assurdo motivo, aveva finito per diventare il suo “compagno di nottate”; mentre l’
altra persona, quella che era riuscita a far passare in secondo piano ciò che fino al suo arrivo era stato il suo passatempo preferito; quella che aveva stravolto il suo modo di essere e i suoi credo; quella che in poche parole l’aveva cambiato, dandogli altre priorità, era lontana miglia e miglia da lui.
Ordinò una tequila e la trangugiò con un solo sorso, strizzando gli occhi per il bruciore che gli solcò la gola, prima di ordinarne un’altra e farle fare la stessa identica fine.
«Sei più silenzioso del solito.» esordì Brandon, soffiando le parole al suo orecchio.
«Non mi pare di essermi mai impegnato in qualche patetico dibattito esistenziale con te, né sulla politica, sui diritti dei finocchi, sulla fame del mondo o qualsiasi altra stronzata di questo genere.» gli fece un sorrisetto di circostanza e ordinò un Chivas Regal.
«Effettivamente no.» convenne l’altro, e sollevò le spalle. «Ma c’è sempre una prima volta.»
Brian lo guardò disgustato, tenendo il bicchiere a mezz’aria. «Ma per favore!»
«Stavo solo scherzando.»
«Lo spero davvero, o potrei seriamente vomitare.» scolò interamente il liquido ambrato e posò il bicchiere sul bancone.
Brandon gli fece un cenno con la testa e sorrise. «Se continui così, non andrai molto lontano.»
«Grazie per l’avvertimento,
mammina.» sputò acido. «Ma se avessi avuto bisogno di una balia, me ne sarei andato a trascorrere una penosa serata sul divano di casa Bruckner Novotny!» fece una smorfia e l’altro sollevò le mani in senso di resa.
«È che sembri turbato da qualcosa.»
«Oh Cristo!» imprecò e sollevò un sopracciglio. «Se proprio devi muoverla quella cazzo di bocca, usala per qualcosa di più utile! Vai a succhiarlo a qualcuno invece di fracassarmi l’unico coglione sano che mi è rimasto.» si allontanò con fare nervoso e superò la calca di gente, fino alla porta della Dark Room. Varcò la soglia, con lo sguardo dritto avanti a sé, ignorando le moine che ogni uomo là dentro si premurava di rivolgergli e tirò fuori dalla tasca il popper per inalarlo da entrambe le narici, nella speranza che servisse ad annebbiargli la mente quel che bastava per cancellare certi pensieri.
Sentì qualcuno picchiettargli sulla spalla e si voltò, lasciando che sulla sua faccia si disegnasse una smorfia, nel momento in cui si trovò davanti capelli biondi e occhi azzurri; ma non quelli che avrebbe davvero voluto. «Che cazzo vuoi ancora?»
Brandon sorrise divertito. «Che tu ammetta che ho ragione. È evidente che hai qualcosa che non va.» si avvicinò di più al suo viso ed unì le mani dietro la propria schiena. «Non che tu sprizzi gioia da tutti i pori di solito, ma stasera sei anche
peggio
Brian sbatté più volte le palpebre e si lasciò andare a una risata. Si passò la lingua sulle labbra e sorrise. «Che cazzo di problema hai?» scosse la testa e lo guardò storto. «Se questo è un patetico tentativo di approccio perché sei ancora deluso della volta che non te l’ho messo nel culo, piantala immediatamente. Sei ridicolo.» si soffermò un istante a fissarlo, e con un sorriso si voltò di scatto per proseguire il suo tour fino a raggiungere uno dei suoi soliti posti; il suo preferito per l’esattezza: quello strano trono, sistemato dietro la rete.
Bastò un suo cenno agli occupanti per far si che questi se ne andassero e gli permettessero di abbandonarvisi sopra; e servì ancora meno prima che uno dei presenti – un bel ragazzo moro che non doveva avere più di venticinque anni, e che probabilmente si era già fatto – s’inginocchiasse davanti a lui, liberasse il bottone dalla sua asola e gli abbassasse la zip dei jeans.
Allontanò la sua testa quando questo cercò di baciarlo, con un’espressione infastidita e, passando una mano dietro la sua nuca, lo guidò verso l’unico posto del suo corpo dove le labbra degli estranei potessero sostare. Strinse quei capelli scuri tra le dita, abbandonò la testa all’indietro e dischiuse le labbra. Si passò la lingua sulla bocca e sorrise, facendo un cenno con la mano libera di saluto, quando con la coda dell’occhio vide la figura di Brandon che lo stava osservando divertito, e altrettanto impegnato con un ragazzetto inginocchiato davanti a lui.
Quello era l’unico motivo per cui l’aveva lasciato avvicinare e per cui gli aveva concesso di conoscere un poco di sé: Brandon era simile al Brian che era un tempo.
Con lui – almeno solitamente – non doveva sviare domande fastidiose come con tutti gli altri che avevano vissuto il privilegio di camminare al fianco di
quel sorriso luminoso; non doveva sostenere le occhiate di disapprovazione per le sue scelte, né doveva giustificare i suoi sbagli; non doveva sopportare il dolore di dover condividere qualche ricordo di Justin…perché, semplicemente, Brandon non aveva mai avuto niente a che fare con il suo unico amore.
Trattenne il fiato e digrignò i denti, prima di emettere un lieve gemito, quasi infastidito, e venire nella bocca di quello sconosciuto, per poi allontanarlo malamente e risistemarsi.
Senza degnarlo di uno sguardo, uscì dalla Dark Room, dopo essersi limitato a un altro cenno di saluto per Brandon e raggiunse il bancone. Bevve l’ultimo shot di tequila e attraversò la pista per uscire dal Babylon.
Salì sulla sua Corvette e la mise in moto, con la testa che già vagava nel limbo dei suoi insistenti fantasmi, e il familiare groppo alla gola che puntualmente si formava al pensiero di dover tornare in un loft troppo buio e solitario, da quando un “raggio di sole” non era più lì a illuminarlo e scaldarlo.


*'*'*

«Non andremo a Pittsburg!» gridò per l’ennesima volta Justin, entrando in un negozio della 5th Avenue, seguito da Jace.
«Io scommetto di sì invece.» lo contraddisse l’altro, osservando distrattamente un completo di Armani fieramente sistemato su uno dei manichini. «Anche perché altrimenti non capirei questa tua improvvisa voglia di shopping.»
«Non posso voler far shopping per i fatti miei?»
«Certo ma…
Armani?» disse, indicando il cartellino appeso a una camicia.
«Posso permettermelo, lo sai!»
«Non ho dubbi su questo ma, non per essere il solito malfidato, sbaglio o
qualcuno, che spero conoscerò presto, ha una malsana passione per Armani?»
«Armani, Prada, Gucci.» elencò Justin. «Qualsiasi cosa di alta moda italiana se proprio vuoi saperlo, ma non c’entra affatto! Quando ci siamo conosciuti non indossavo cose del genere.» prese un paio di pantaloni neri dal taglio elegante e glieli sventolò sotto il naso, senza curarsi delle occhiatacce lanciategli dai commessi. «Perciò non c’entra affatto.»
«Magari vuoi solo mostrarti a lui più adulto di quando te ne sei andato. Mi pare di ricordare che all’inizio è stato un intralcio per voi, o meglio per lui, la differenza d’età…»
«Una camicia d’Armani non mi farà essere più adulto.»
«Più adulto no, ma un finocchio riccamente realizzato, sì!» finse di non vedere la sua espressione scettica e fece un cenno verso uno scaffale in cui erano stipati i capi della linea “Armani Jeans”. «E certamente con un paio di jeans slavati e strappati, avrai un culo che neanche una lesbica desisterebbe dal palpeggiarlo selvaggiamente.»
Justin lo fissò schifato. «Jace, grazie ma non dire mai più una cosa del genere. Potrei vomitare.» ed eccola lì, un’altra delle tante espressioni di Brian Kinney; e quasi gli vennero i brividi, come ogni volta che gli veniva sbattuto bellamente in faccia quanto lui ormai gli si fosse cicatrizzato dentro, tanto da diventare parte integrante dell’uomo che era diventato.
Un omosessuale di cui esser fiero.
Lo squillo del suo cellulare lo fece però sobbalzare improvvisamente e gli venne naturale sbuffare quando sul display lesse il nome del suo agente: «Gary, ciao.»
«Justin, dove diavolo sei?» chiese senza troppe cerimonie ed un’evidente crisi di nervi da gestire.
«Sulla quinta strada, con Jace.» rispose con voce strascicata.
Gary era una persona fantastica, l’aveva preso sotto la sua ala appena sceso a New York, riconoscendo il suo talento e facendosi in quattro per lui. C’erano state sere in cui avevano bevuto una birra insieme e in cui si era sorbito tutte le sue lamentele di ragazzino spaventato da quel nuovo mondo caotico e scintillante, e si era premurato di proteggerlo per non lasciarlo allo sbando in quella città rumorosa; ma oltre tutti questi enormi pregi, Gary era prima di tutto una persona estremamente diligente, che pretendeva professionalità da ogni suo collaboratore e metteva al primo posto il lavoro e la carriera.
Aveva puntato molto in alto con Justin; aveva riposto in lui un’enorme fiducia e non gli permetteva di allentare il ritmo. Non adesso che era sulla cresta dell’onda e doveva imparare a domarla per non affondare.
C’erano stati momenti in cui l’aveva detestato – soprattutto quando gli aveva impedito di rientrare a casa per il giorno del Ringraziamento – ma non era mai riuscito a biasimarlo. Tutto quello che aveva, lo doveva anche a lui e alla sua tenacia; si sentiva debitore in un certo senso nei suoi confronti e, per quanto a volte avesse desiderato fare le valige e correre a casa, alla fine dei conti non se l’era mai sentita di mollarlo lì e andarsene.
Gary aveva
solo quindici anni più di lui, ma si comportava come la figura paterna che gli era mancata da quando aveva fatto il suo “debutto ufficiale” nel mondo omosessuale e, a differenza dell’altro suo mentore, – per quanto, come Brian, fosse orgogliosamente gay – aveva i piedi ben saldati a terra, non era affatto arrogante o scostante, si assumeva sempre le proprie responsabilità e non si vergognava a mostrare i suoi sentimenti. Era una persona piacevole, colta, piena di sorprese; un uomo da cui si poteva sempre imparare qualcosa e, per quanto a volte risultasse tremendamente petulante o si lasciasse colpire da attimi di isterismo cronico, Justin provava un’immensa ammirazione e gratitudine nei suoi confronti…anche quando gli urlava contro come in quel momento. «Perché non mi hai avvertito? Ti ho cercato dappertutto e ieri sei sparito!»
«Ti ho lasciato un messaggio alla reception, e poi ormai avevo già vagato anche troppo per quella sala. Potrei dirti il numero esatto di mattonelle.»
Lo sentì sospirare contrariato, ma già sapeva che non era più arrabbiato. Per quanto Gary ci tenesse a una partecipazione attiva di Justin a quegli eventi, sapeva di non poter pretendere troppo da lui, e che era già tanto se gli aveva concesso il beneficio di qualche ora chiuso là dentro. «D’accordo.» soffiò allora. «Che intenzioni hai per il Ringraziamento?»
Di nuovo quella domanda. Sembrava che proprio nessuno avesse dimenticato l’esagerata reazione che aveva avuto l’anno precedente, quando era stato “incatenato” a New York. «Non saprei, perché?»
«Pensavo volessi tornare a casa.» replicò l’altro, senza celare la sorpresa nel tono della sua voce. «Mi ero già organizzato.»
«Organizzato cosa?» pronunciò allarmato. Quando Gary usava quella parola, c’era sempre da tenere le orecchie bene aperte, perché significava che ne aveva combinata una delle sue.
«Immaginavo volessi trascorrere del tempo con la tua famiglia e…»
«E…?» incalzò lui, stringendo spasmodicamente il cellulare. Gli tremavano le gambe solo al pensiero di rimettere piede in quel posto.
«Justin, c'è qualcosa che non so e che dovrei sapere?»
«Avanti, Gary!» esclamò con voce supplicante, facendo un cenno a un incuriosito e agitato Jace, intimandogli di stare zitto, e che gli avrebbe spiegato tutto più tardi. «Dimmi che succede!»
«Visto che è più di un anno che non torni là, e vista la tua reazione dell’anno scorso, ho pensato che ti avrebbe fatto piacere passarci del tempo…»
«Tempo?»
«Non è ancora niente di certo ma, diciamo almeno fino a Natale.» gli disse, e Justin sentì il suo cuore fermarsi per un attimo. «Pensavo che avresti potuto trascorrere anche le vacanze là.»
«È uno scherzo?» chiese titubante, dopo aver riacquistato il respiro e la voce.
«No.»
«Un pesce d’aprile in ritardo?»
«Neanche…»
«Un regalo di Natale anticipato?»
«Justin!» gridò esasperato. «Mi dici che ti prende?!»
«Niente, è solo che…»
Gary si lasciò sfuggire una piccola risata, finalmente conscio del perché il suo più caro cliente fosse così agitato.
Sapeva tutto dei suoi trascorsi, dei problemi in famiglia, l’aggressione, il fumetto e ovviamente di Brian e del matrimonio mancato. Sapeva della loro “recente” – almeno così lui si ostinava a definirla, nonostante fossero passati sei mesi – rottura e quanto quella ferita bruciasse ancora; sapeva dello sforzo immane che stava compiendo per resistere e non lasciarsi andare ma, per quanto cercasse di negarlo ogni volta con le parole, gli sembrava quasi di sentire il suo cuore supplicarlo di lasciarlo tornare a casa. «Te lo meriti, davvero.» pronunciò con dolcezza e sperò che fosse la mossa giusta.
I quadri di Justin si vendevano comunque a peso d’oro e con una velocità disarmante, nonostante il suo stile si fosse drasticamente incupito, ma per Gary era importante anche che lui fosse felice; per Gary, Justin, non era solo una macchina per fare soldi.
«Grazie.» sorrise, anche se il suo cuore sembrava improvvisamente sul punto di esplodere.
«Non farci ancora la bocca però. È tutto da sistemare per le mostre e non è detto che riuscirò a tenerti fuori dai giochi per tutto quel tempo.» lo avvertì e a Justin venne istintivo annuire con la testa, anche se non poteva vederlo. «Se non ci riesco...»
«Niente vacanze a Pittsburgh, lo so.»
«Esatto.» affermò deciso. «Quindi, quando hai intenzione di partire?»
Justin esitò per un attimo, poi lanciò un’occhiata fugace a Jace impegnato a ispezionare delle camice classiche con aria schifata; evidentemente troppo poco vistose per i suoi gusti; e sorrise. «Io e Jace pensavamo di fare un salto là già da domani sera. Tu quando vieni?»
«Ah, ma bene! E quando pensavi di dirmelo?» ridacchiò. Di certo non aveva perso tempo.
«Era solo un’idea. Saremmo comunque tornati il giorno dopo.» spiegò per rabbonirlo. «Ma visto che il mio agente è di tutt’altro avviso…quando pensi di venire a farmi visita?»
«E io che c’entro?»
«Semplice.» si ritrovò a sorridere nuovamente. «Voglio che tu veda dove è nata la tua gallina dalle uova d’oro!»
Gary scoppiò a ridere. «D’accordo, d’accordo
gallinella.» lo schernì. «Vedrò di passare a farti una visita, ma non esaltarti troppo.» si raccomandò, con la sua solita aria professionale e quel tono da “non mettiamo le mani troppo avanti”. «Non è detto che potrò venire, considerando che ancora non è sicuro neanche che tu possa restare tanto. Il lavoro è lavoro
Justin roteò gli occhi e sbuffò in modo da farsi sentire. Detestava quel suo modo di dire e l’aveva sentito talmente tante volte da averne la nausea. «D’accordo.»
«Fa buon viaggio allora.» gli augurò, cercando di rassicurarlo. «E se c’è qualche problema, chiama.»
«Certo.» esclamò e rise. «Chi meglio di te può gestire le mie crisi da adolescente depresso?»
«Cerca di dipingere, piuttosto, adolescente depresso!» scherzò, con un finto tono di rimprovero. «Non penserai certo di esserne esente!»
«Non sia mai, con te!» lo canzonò.
«Lo spero bene. Ci sentiamo presto, e salutami Jace.»
«Certo.» sorrise ancora, finalmente in modo sincero, e dopo averlo salutato riattaccò, per poi alzare uno sguardo luminoso verso Jace e sollevare maggiormente gli angoli della bocca.
«Cristo.» pronunciò l’altro, resosi conto delle sue attenzioni. «Credo di aver appena capito perché ti chiamano
raggio di sole’. Ti hanno detto che hai vinto alla lotteria, caro?»
«No, meglio!»
«Meglio?» inarcò le sopracciglia e lo fissò più attentamente. «Hai un harem personale?»
«Ritenta.» ridacchiò ed iniziò a girovagare per il negozio, raggiante.
«Insomma Justin, vuoi dirmi o no perché hai un sorriso che se solo non avessi le orecchie, ti farebbe il giro della testa?»
«Forse, e ripeto
forse…» rispose, guardandolo dritto negli occhi. Fece una pausa per essere sicuro che l’amico avesse afferrato e incrociò le braccia. «Gary mi ha appena comunicato che pensa di riuscire a lasciarmi dei giorni liberi, almeno fino a Natale. Il che implica che, sempre forse, potrò trascorrere quasi un mese a Pittsburgh!»
«Per tutti i froci!» strillò l'altro entusiasta. «Ma è fantastico!»
«È un
forse, Jace. È ancora un forse
«Oh al diavolo,
biondo.» sbuffò e si mise le mani sui fianchi. «Un po’ di ottimismo! Sei un frocio per la miseria, non un etero depresso!»
Rise e scosse la testa. «Anche i gay possono essere depressi.»
«Stronzate. I gay sono solo melodrammatici! Abbiamo troppo da conquistare per permetterci di oziare nel limbo della depressione.» gli sventolò una mano davanti agli occhi come per voler scacciare certi argomenti e aggiunse: «Piuttosto, stringi le chiappe, raddrizza la schiena, sorridi e trova uno straccetto in questo posto che ti stia perfetto, perché domani sera partiamo alla conquista della
provincia
Justin non rispose. Si limitò a sorridere e a osservarlo divertito mentre si allontanava sculettando vistosamente verso uno dei commessi e prendeva a gesticolare come suo solito, indicandolo.
Spostò il suo sguardo su uno degli specchi e si perse nel guardare la sua immagine riflessa; i pochi centimetri guadagnati in altezza, le spalle più larghe perché Jace l’aveva costretto a frequentare la palestra con lui pur di farlo uscire di casa; la sua pelle perfettamente nivea, in cui erano incastonati i suoi occhi azzurri e quei capelli biondissimi, che gli ricadevano morbidi in una frangia disordinata e lunga sulla fronte, e che dietro arrivavano scalati per tutta la lunghezza del collo.
Li scompigliò con le dita, immaginando che fosse un’altra mano a farlo al posto suo, e sorrise amaramente.
Non sapeva se ne avrebbe avuto davvero la forza e se fosse stato pronto ad affrontare tutto quanto, ma ci si erano messi proprio tutti a ricordargli quel posto e forse, significava solo che era tempo di tornare a casa.

*'*'*


«Questa è la segreteria di Justin Taylor. Non sono a casa al momento, perciò lasciate un messaggio dopo il bip e vi richiamerò al più presto...»
Daphne riattaccò rabbiosa e lasciò ricadere malamente il cellulare sul bancone del Diner, attirando l’attenzione di Debbie. «Che succede, tesoro?» le chiese benevola e si ritrovò a sbuffare contrariata.
«C’è che sono stufa di avere un rapporto con la segreteria di Justin!» sbottò e mangiò una delle patatine con foga. «Non c’è modo di rintracciarlo e non richiama mai!»
«Dolcezza.» la chiamò con uno sguardo comprensivo e le accarezzò una guancia. «Lo sai che non è perché non vuole sentirti. È solo molto impegnato.»
«Io invece comincio a dubitare che sia proprio così! Ha chiuso i ponti con tutti, Deb! Non chiama più neanche sua madre e Molly è arrabbiatissima con lui!»
Debbie sospirò e versò una tazza di caffè per un cliente. «Se può consolarti sono riuscita a chiamarlo e a parlarci appena qualche minuto.»
«Davvero?» le disse Daphne, sorpresa e piena di speranza.
«Sì, ma non sembrava dell’umore migliore di questo mondo. Se non chiama, non è certo perché è troppo impegnato a divertirsi.» borbottò e scosse la testa. «Ho provato a chiedergli se sarebbe tornato per il Ringraziamento, ma non sono riuscita a strappargli neanche una vaga promessa.»
«Suppongo che il ricordo di quello passato non la giochi a suo favore.»
Debbie sollevò le sopracciglia come per confermare le sue parole e piegò le labbra. «Secondo te si sentono ancora?»
«Non lo so.» rispose immediatamente la ragazza, giocherellando con uno dei suoi riccioli. Non avevano bisogno di fare nomi, perché c’era solo una persona a cui potevano riferirsi. «Le pochissime volte che mi ha degnata di una parola, non mi sono neanche azzardata a toccare l’argomento. Temevo mi riattaccasse in faccia.»
«E da Mister Brian ‘Statemi-alla-larga-perché-sto-benissimo’ Kinney, non caveremo un cazzo di ragno dal buco. Figuriamoci se quel borioso confessa qualcosa!» mormorò con la fronte aggrottata.
«Buongiorno signore!» esclamò Ted alle loro spalle, prima di sistemarsi accanto a Daphne. «Un caffè Deb e…che sono quelle facce?» domandò, con le sopracciglia inarcate.
«Un certo ‘raggio di sole’ che sembra svanito nel nulla.» confessò Deb, e rovesciò nella tazza il liquido nero dalla caffettiera.
Ted annuì comprensivo e accennò ad un sorriso. «È molto che non lo senti?» domandò rivolto a Daphne, e la vide sollevare le spalle.
«Praticamente sento la sua voce solo registrata nella segreteria. E non lo vedo dal mio ultimo viaggio a New York, dove abbiamo trascorso insieme appena qualche ora dei due giorni che mi ero presa.»
«È un artista apprezzato e impegnato ormai…» gli disse e prese a sfogliare il giornale. «Guarda qua.» indicò un’intestazione e recitò solennemente. «‘Justin Taylor, il nuovo Warhol di Pittsburgh, conquista anche il Canada’.» ridacchiò e concluse: «Chi glielo fa fare di tornare nella vecchia Pittsburgh quando ha il mondo da conquistare?»
«Alla
vecchia Pittsburgh, c’è la sua cazzo di famiglia!» protestò Debbie, strappandogli il giornale di mano e appallottolandolo frettolosamente, dopo aver lanciato un’occhiata fugace alla porta. «E da questo momento sono vietate le parole ‘Justin’, ‘Taylor’, ‘New York’, ‘artista’ e connessioni varie, fino a nuovo avviso!»
Sia Ted che Daphne annuirono decisi, senza aver bisogno di spiegazioni. Le parole di Debbie e il rumore della porta che si apriva e si richiudeva bastarono e avanzarono a far intendere chi aveva appena fatto il suo ingresso. I sospiri eccitati dei presenti e il brusio fatto di complimenti e strillini strozzati servirono solo a dare un’ulteriore conferma: Brian Kinney era arrivato.
«Buongiorno
ragazze.» salutò appoggiando la ventiquattrore sul bancone e lisciando il suo costoso cappotto immacolato. «Un caffè forte Deb, senza zucchero.»
«Subito! Allora tesoro, tutto bene?» domandò Debbie, con un tono vago, masticando come suo solito il chewing-gum.
Brian la fissò con un sopracciglio sollevato e il suo solito sorrisetto ironico. Piegò per un attimo le labbra all’interno della bocca e sbatté le ciglia. «Ti risponderei ‘benissimo’, o ‘chi può stare meglio di me’, come è ovvio che sia d’altronde.» prese un sorso di caffè e la fissò sottecchi. «Ma qualcosa, come ad esempio quel giornale appallottolato, mi suggerisce che dovrei vederci un significato nascosto nelle tue parole e che dovrei optare per un ‘fatti i cazzi tuoi’.» sorrise ancora e aggiunse: «O mi sbaglio?»
«È solo che…» tentò di parlare con voce mortificata, ma lui non gliene lasciò il tempo. Trangugiò il suo caffè e si alzò velocemente.
«Credo di dover trovare un altro bar per fare colazione la mattina. Questo è un po’ troppo invaso da pettegoli petulanti e patetici.» passò gli occhi su ognuno di loro e si soffermò su Ted. «Ah, Theodore.» increspò le labbra in un finto sorriso benevolo e inforcò gli occhiali da sole. «Fossi in te alzerei il culo e correrei a lavoro. Se non ti trovo lì prima del mio arrivo, ti licenzio.»
L’altro, per contro, bevve il suo caffè e si affrettò a salutare le due donne, prima di inseguire il proprio capo, ben conscio del fatto che sarebbe stata certamente una giornata faticosa. Brian non era affatto di buonumore e la Kinnetik sarebbe assomigliata molto più a un inferno.
«Decisamente, ha un modo davvero tutto suo di elaborare il dolore.» commentò Daphne, con gli occhi ancora fissi alla porta da cui erano appena usciti.
Debbie scrollò le spalle e mugugnò. «Ringrazia che non abbia ripreso a scoparsi tutto quello che si muove come quando il suo
raggio di sole l’ha lasciato per quel tortura gatti
«Ethan?» domandò l’altra ridacchiando.
«Già.» confermò con un tono di voce decisamente scocciato. «Non dico che non se lo sia meritato, ma in fondo un po’ mi è dispiaciuto per lui.»
Daphne abbassò gli occhi e accennò ad un sorriso amaro. «C’erano quasi riusciti a scrivere il loro lieto fine.»
«Spero tanto che non sia troppo tardi.» mormorò sconsolata. «È uno stronzo a cui prenderei il suo bel culo regale a calci almeno un paio di volte al giorno ma, che cazzo, anche lui ha diritto ad essere felice!»
«Se solo Justin tornasse…»


*'*'* 


“Strawberry swing” – Coldplay



Emmett Honeycutt non era mai stato un tipo troppo paziente e doveva ammettere che spesso si lasciava prendere da attacchi isterici, anche per un nonnulla, ma mai e poi mai si era ritrovato tanto incasinato in vita sua.
Quando aveva iniziato la sua attività come organizzatore di eventi, tutto gli era apparso come un bel sogno; come un film di Audrey Hepburn; in cui ogni cosa sembrava magicamente prendere la piega giusta – tranne per come era finita con Drew Boyd, ma quella era un’altra storia – e si era quasi convinto di avere il tocco magico di sistemare all’ultimo secondo anche il peggiore dei pasticci.
Già, ne era sicuro finché non si era trovato davanti a una crisi coniugale in piena regola con una probabile separazione a seguire, a causa della scelta di uno stupidissimo portatovaglioli.
Si massaggiò le tempie vigorosamente e inspirò a fondo ricorrendo a quel poco di zen che Ben si era premurato di insegnarli quando era in procinto di una delle sue crisi. Cercò di ignorare i piagnistei della donna, fin troppo simili a quelli di un incrocio tra una foca e la sirena del 911, e le grida dell’uomo, che continuava a urlare le sue ragioni, prendendosela inspiegabilmente con il tavolo di prova, quando il rumore di un bicchiere di cristallo che si frantumava a terra, lo fece letteralmente sbottare: «Non vi sposate!»
I due litiganti rimasero in silenzio ed interdetti per qualche secondo, prima di rispondere all'unisono: «Ma noi siamo già sposati.»
«E allora separatevi, Cristo Santo!» irrigidì le braccia e uscì a passo svelto dal salone dell’albergo, rischiando di stritolare il suo preziosissimo Blackberry. Si sistemò l’auricolare all’orecchio e avviò la chiamata per una delle sue collaboratrici. «Jude, zucchero, ho bisogno di te. Interrompi qualsiasi cosa tu stia facendo, a meno che tu non sia in punto di morte, allora in quel caso puoi anche lasciar perdere, e porta le tue chiappe etero qua.» sputò le parole fuori come una macchinetta e neanche aspettò una risposta. «Hai una crisi matrimoniale da risolvere, prima che io cambi mestiere e diventi un frocio serial killer.» riattaccò e continuò la sua camminata per ridistendere i nervi.
Era decisamente un periodo nero per lui. Non perché il lavoro andasse male o perché ci fosse carenza di uomini nella sua vita, ma perché semplicemente tutti – ma proprio
tutti – sembravano aver trovato l’amore; perfino Brian Kinney, l’anticristo delle relazioni, era capitolato, seppur fosse finita male; e proprio non riusciva a sopportare il fatto che la sua anima gemella fosse smarrita chissà dove, o che Dio avesse sicuramente sbagliato qualche calcolo nel disegno della sua vita. Perché per quanto la scopata di una notte fosse piacevole, con l’andar del tempo non aveva più il gusto di una volta.
Dopo la “separazione” – sempre che così la si potesse definire – con Drew, qualunque uomo avesse incontrato e scopato ovviamente, sembrava non avere la stoffa giusta per restare al suo fianco oltre quei minuti utili a un orgasmo; e mentre tutti erano andati avanti con le loro vite e avevano magicamente incontrato la persona giusta, lui si era trovato intrappolato nello stesso identico posto, senza vedere davvero una via d’uscita.
Si lasciò ricadere su una delle panchine di pietra dell’immenso giardino e perse lo sguardo oltre un roseto, riflettendo su quello che stava succedendogli intorno.
Michael e Ben, erano sempre più schifosamente innamorati e finalmente sembravano essere riusciti a dare una raddrizzata anche ad Hunter. Ted e Blake, neanche a parlarne, sembravano la riproduzione perfetta di una coppia che dopo aver affrontato mille difficoltà insieme risplende della bellezza della loro unione. Perfino la relazione tra Carl e Debbie andava a gonfie vele, per non parlare di Linz e Mel più innamorate e unite di un tempo, nonostante alla prima fosse tornata per un attimo la passione per l’organo genitale maschile, che non si limitava certo a un dildo; o Jennifer, che sembrava vivere la sua storia d’amore con Tucker felice e spensierata come un’adolescente.
L’unico a “fargli compagnia” nel mondo dei single era Brian, ma anche lui pareva fin troppo preso dai suoi affari e affatto interessato alla vita monogama, specie dopo aver iniziato la sua malsana frequentazione con quel Brandon, di cui ancora nessuno sapeva nulla – a parte lui – visto che erano troppo impegnati a condurre una vita da sposati per anche solo pensare di fare un salto al Babylon.
Ancora non era ben riuscito a spiegarsi il perché di quella strana accoppiata, né ovviamente si era azzardato a chiedere spiegazioni a Brian perché, dopo che la prima teoria in cui li immaginava divertirsi allegramente nel loft era deliberatamente saltata, l’unica che gli rimaneva plausibile era che continuassero con le loro stupide scommesse e che Brian esorcizzasse in quello strano modo il dolore per la perdita del suo
raggio di sole.
Qualunque fosse il motivo, comunque, ognuno dei suoi amici aveva trovato uno scopo da perseguire: i primi si dedicavano all’amore, mentre l’ultimo si dedicava al sesso, proprio per dimenticarlo
quell’amore che l’aveva travolto e abbandonato; e invece, lui, non riusciva a trovare il suo posto.
Sbuffò rumorosamente e chiamò un taxi. Quel giorno era troppo depresso per lavorare, anche se la mattina era appena terminata, perciò decise di lasciare tutto nelle mani dei suoi collaboratori e recarsi al Diner. Una ciambella di Deb, forse, gli avrebbe risollevato il morale.


Il campanello della porta della tavola calda tintinnò allegramente quando entrò, seguito dalla voce squillante di Deb che lo salutava pimpante come suo solito: «Ciao dolcezza!»
«Ciao Deb.» rispose sconsolato, e si trascinò fino al bancone.
«Zucchero, cos’è quella faccia?» lo invitò a sedersi e gli offrì un tortino al limone. «Avanti, parla con Debbie.»
Emmett arricciò le labbra e appoggiò la testa sulle mani sistemate a coppa. «Sono un finocchio triste, patetico e single.»
«Ma che stai dicendo?» esclamò contrariata e sorpresa. «Non sei affatto patetico e, per la persona giusta, vedrai che arriverà presto!»
«Ma Deb!» piagnucolò, agitandosi sullo sgabello. «Michael e Ben sono una coppia felice, Ted e Blake anche peggio. Tu e Carl siete zucchero fuso, così come le due lesbiche e perfino Jennifer!» sospirò sconsolato e concluse: «Brian ha ricominciato a scopare come un riccio e sta sempre in compagnia di quel…» fece una smorfia «…
Brandon, e io sono solo come un cane!»
«Fermo lì!» gli intimò Debbie e la vide sporgersi sul bancone. «Cos’hai detto che fa Brian?!»
Lui le rivolse uno sguardo scocciato. «Quello che ha sempre fatto Brian Kinney.
Scopa
«E chi diavolo è questo…» ci pensò su un attimo. «…
Bruce.»
«È ‘Brandon’, non ‘Bruce’. E comunque stavamo parlando di me!» indicò la sua faccia con l’indice e fece un sorriso ebete.
«Ma perché non me l’hai detto prima?!» strillò, e lui aggrottò la fronte confuso.
«Dirti cosa?»
«Di quello che sta combinando quell’idiota!» afferrò la cornetta immediatamente e compose un numero. «Devo avvertire Michael!»
Emmett sospirò sommessamente e diede un morso al tortino, in barba a tutte le sue preoccupazioni per i grassi saturi di cui quel coso, certamente, era pieno.



*'*'*


“Come home” - OneRepublic



Chiuse la zip dell’ultimo trolley con non poca difficoltà, e si lasciò ricadere sul letto esausto e sudato. Fare i bagagli era più faticoso di quanto potesse ricordare, e anche se aveva decisamente più roba di quando era arrivato a New York senza il becco di un dollaro, non aveva certo creduto che sarebbe stato così difficile scegliere.
«Ma hai intenzione di trasferirti definitivamente?» gli chiese Jace, facendo capolino dal pannello opaco che separava il letto dal resto del loft.
«Ero solo indeciso.»
L’altro passò i suoi occhi marroni sulle tre valige stracolme e sollevò un sopracciglio. «È scientificamente provato che l’amore rende imbecilli.»
Justin ridacchiò e si sollevò puntellandosi sui gomiti. «Non può essere semplice vanità come ogni stramaledetto finocchio di questo pianeta?»
«No.» sentenziò secco. «Non dato che si tratta di
te. Che sembri conoscere i colori solo quando li usi sulla tela e che sei convinto che ‘Pucci’ sia la versione tarocca di ‘Gucci’.»
«Ehi!» esclamò offeso, per poi lanciargli contro uno dei cuscini. «So benissimo chi è Pucci!»
Jace assunse un'espressione scettica. «Già, solo perché te l’ho detto io.»
«No, mio caro. Lo sapevo già da tempo.»
«Ops! Dimenticavo il tuo amore tormentato con l’uomo dell’alta moda.» incrociò le mani, come se stesse pregando e sollevò lo sguardo al soffitto. «Signore, grazie per aver donato a questo povero piccolo frocio ignorante la possibilità di redimersi e conoscere Prada, amen.»
Justin scosse la testa e prese a ridacchiare. «Fottiti, Jace.»
L’altro gli sorrise e iniziò a guardarsi intorno, finché i suoi occhi si fermarono sul piccolo personale fantasma dell’artista. Il lenzuolo bianco continuava a coprire la tela incompiuta che giaceva sotto di esso e, a giudicare dall’alone grigio di polvere che lo ricopriva indisturbata, il suo giovane amico non aveva ancora avuto il coraggio di affrontarla. «Pensi di finirla prima o poi?» gli domandò, indicandola con un cenno.
«Non lo so.» sospirò ed arricciò le labbra. «Suppongo finirà presto tra gli altri, così com’è.»
Jace annuì debolmente e un po’ deluso, perché sapeva che “gli altri” erano quadri che ritraevano lo stesso soggetto di quello incompiuto, e che Justin aveva accuratamente nascosto dietro una delle ante dell’armadio, per non vederli mai più. Diceva che appartenevano al passato e che non potevano essere esposti perché troppo personali, nonostante perfino Gary avesse tentato di convincerlo a farlo, poiché su quelle tele si scorgeva un altro aspetto – più profondo e passionale – della sua anima e dei sentimenti che gli si aggrovigliavano dentro. Era un’altra sfaccettatura; l’ennesima tessera del puzzle che componeva l’immagine di quell’artista geniale che si ostinava a stare sulle sue, protetto dall’ombra e da quel suo essere un po’ asociale.
«Allora, sei pronto?» gli domandò Jace, senza distogliere lo sguardo dal lenzuolo.
«Sì, ma tu, potrai davvero restare fino a Natale?» disse, mentre dentro di sé pregava per una risposta positiva. Nessuno avrebbe potuto mai neanche immaginare quanto Justin avesse bisogno della sua presenza e del suo sostegno in quel momento.
«Considerando che la mia famiglia mi considera un reietto della società perché mi piace il cazzo e che quindi non ho nessun noiosissimo ritrovo a cui dover partecipare…» iniziò, picchiettandosi l’indice sul mento. «…e che fottersi il proprio capo a volte può condurre a immensi benefici, come bonus vacanze che compaiono dal nulla, sì. Direi proprio di sì!»
«Ti sei scopato il tuo capo?» domandò incredulo, mantenendo le labbra socchiuse.
Lui mugugnò e scrollò le spalle. «Cos’è quella faccia sconvolta? Gliel’ho solo succhiato un paio di volte!» confermò, per poi assottigliare lo sguardo. «E poi, ora che ci penso, non eri tu che lavoravi per il tuo amore e te lo sei scopato nel suo ufficio?»
Justin mostrò un sorriso tirato e scattò dal letto per infilare il cappotto. «Credo proprio che sia ora di andare. Il viaggio è lungo!» prese due dei trolley per il manico ed iniziò a trascinarli verso il montacarichi adibito ad ascensore.
Jace per contro scosse la testa e si premurò di recuperare il terzo trolley e il beauty case, ricordando al suo compagno di viaggio con un urletto stridulo che doveva ancora chiudere la porta e inserire l’allarme.
Quella testolina bionda ricomparve con un sorriso imbarazzato e, dopo aver dato un’ultima occhiata al suo loft, eseguì quello che Jace gli aveva appena ricordato per poi scendere al piano terra, e raggiungere la sua jeep nera praticamente nuova. Caricarono i bagagli e si sistemarono ai loro posti.
Justin prese un profondo respiro e girò la chiave per mettere in moto, mentre l’altro iniziò a litigare con la radio e con i cd sparsi casualmente nel cassetto e privi di una misera etichetta; in fondo, chiunque sapeva che il padrone di quell’auto non era certo un maniaco dell’ordine.
Compiuta la scelta della musica, entrambi inforcarono i loro occhiali da sole e si scambiarono un sorriso carico di adrenalina ed eccitazione, prima che la macchina venisse immessa nel traffico newyorkese, alla volta di Pittsburgh.
Si torna a casa…

***

Note finali:

Ecco anche il secondo capitolo! Ho deciso di pubblicare un po' prima di quanto avevo preventivato perché era già pronto in quanto l'avevo scritto come diretta continuazione del primo e non mi andava di farvi aspettare per niente, soprattutto dato che si tratta di uno spezzone di "transizione" - ergo, non succede niente di troppo eclatante, a parte la "presentazione" di Gary e la decisione di Justin di tornare a Pittsburgh!

Suppongo comunque che chi legge non aspetti altro che l'incontro tra Brian e Justin - o almeno io è quello che vorrei di più - perciò vi comunico che non avranno un incontro vero e proprio prima del quarto/quinto capitolo. Abbiate pazienza, ma c'erano altre situazioni che volevo delineare! XD
Spero di non aver sforato con il carattere dei personaggi...per quanto riguarda Brian sono sempre un po' confusa dal grosso cambiamento che ha avuto negli ultimi episodi della quinta serie...quindi, rifacendomi a quel Brian, ho immaginato che nonostante le sue vecchie abitudini, per lui non fosse affatto facile toccare e lasciarsi toccare da qualcuno che non fosse Justin, proprio per la piega che aveva preso il loro rapporto; non potevo però neanche dipingere un Brian casto e puro come un prete che pensa solo al lavoro e passa le serate sul divano...ho cercato quindi di ricreare una via di mezzo e una personalità tormentata da quello che era e da quello che è diventato. Mi auguro di non aver combinato disastri. XD 
Mentre per quanto riguarda Emmett - personaggio che io ho sempre adorato - ho cercato di dipingerlo sulla cresta dell'onda e super indaffarato con il suo lavoro, ma con una punta di malinconia - per quanto Emmett possa essere malinconico nella sua favolosità - per l'unico tassello della sua vita che proprio non vuole andare al suo posto: l'amore...e visto che gli autori non hanno voluto dargli la sua storia d'amore nel finale, indosso le vesti di "cupido per gay" e parto all'azione!

Tralasciando le mie stupidaggini, spero che questo capitolo non vi abbia annoiato e ci tengo a ringraziare tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a: silver girl, Trappy, Hel Warlock, mindyxx, Clara_88, Thiliol, oo00carlie00oo, FREDDY335, Katie88 e asterix_c per aver recensito. GRAZIE DAVVERO. 

Un bacio e a presto.
Veronica.

   
 
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