Inspirò
profondamente, con gli occhi socchiusi per via del fumo e l’intento
di godersi pienamente la sensazione raschiante nella gola, mentre
perdeva lo sguardo oltre lo spesso vetro, tra le luci della città
che rischiaravano appena il loft e la sua figura.
Con solo un paio
di Jeans chiari addosso, Brian fumava quella che era la seconda canna
della serata, da quando era rientrato a casa di umore più che nero.
Non bastava ogni
sua conoscenza a girare il dito nella piaga e l’improvvisa
ricomparsa di Justin a riaprire ogni ferita. Ci si metteva anche
Brandon a spargere sale e attentare alla salute dei suoi nervi, e
peggio, del suo cuore già abbastanza martoriato.
Non lo conosceva
abbastanza bene da prevedere cosa potesse architettare dentro quella
sua testa ossigenata, ma qualunque cosa fosse, era ben conscio dal
sapere che non gli sarebbe piaciuta neanche un po’;
specie se pensava che era coinvolta proprio l’ultima
delle persone a cui l’avrebbe
lasciato avvicinare.
Si appoggiò con
l’avambraccio al vetro
e portò nuovamente il filtro alle labbra per riempire ancora i
polmoni di fumo, fino a saturarli, quasi volesse affogare in quella
nuvola grigia.
Liberò la scia
fumosa attraverso le labbra socchiuse e osservò il suo riflesso
sinuoso nel vetro, immaginando di veder quei girigogoli prendere la
forma del volto di Justin. Li vide mutare e disegnare i suoi
lineamenti e quelle iridi cerulee che lo fissavano.
Fu impossibile
desistere dal ricordare le notti trascorse insieme.
Fantasticare sul
suono dei suoi passi che si avvicinavano alle spalle quando si
svegliava e non lo trovava nel letto. Le sue dita che andavano a
massaggiargli le spalle per farlo rilassare. La sua bocca che rubava
un tiro dalla canna sorretta dalle sue dita, e quelle labbra che poi
correvano a congiungersi alle sue, prima che il mozzicone venisse
abbandonato e che lui stesso si lasciasse andare alle attenzioni di
quel ragazzino biondo che gli aveva sconvolto la vita, e che lo
guidava, senza la minima traccia del timore che gli aveva visto al
loro primo incontro, fino al divano, che si bagnava del loro sudore e
s’impregnava dei loro
gemiti e di quell’amore
che li legava.
Chiuse gli occhi
con sofferenza e prese l’ultimo
tiro.
Ricordare quei
momenti, era la peggiore delle torture che potessero imprimergli.
C’erano
giorni in cui quel dolore si faceva così assordante e insistente,
che la nausea per la radioterapia gli sembrava solo uno scherzo.
C’erano giorni in cui
avrebbe voluto rifugiarsi nel ricordo della sua lotta contro il
cancro, per schiacciare il dolore della lontananza di Justin, con ciò
che ricordava di quei momenti terribili, quando la sensazione fredda
e rassicurante della ceramica del cesso sotto le dita, era una delle
poche cose che riuscivano a farlo sentire meglio.
Sarebbe ricorso
anche a quello, e avrebbe costretto la sua mente a rivivere quegli
attimi, se solo in mezzo a quell’inferno,
non fosse stato presente quel raggio di sole a sostenergli la
testa e scostargli i capelli. Se solo non ci fossero state quelle
mani ad accarezzargli la schiena o quelle labbra a baciargli la
fronte, le guance, il collo...ogni centimetro della sua pelle, pur di
rendere più facile e piacevole quel calvario.
In mezzo a
quell’inferno, c’era
sempre stata la dolcezza di Justin, ciò che l’aveva
spinto a stringere i denti e andare avanti. Perché se anche non
gliel’aveva mai detto;
e spesso si era ritrovato a pensare che, forse, alla fine dei conti
sarebbe davvero morto giovane come aveva sempre detto di volere; se
non si era lasciato andare, era soprattutto per quella testolina
bionda e impertinente.
Era stato per le
volte in cui si era svegliato di soprassalto la notte, e aveva
trovato Justin addormentato con la testa sul suo petto e le braccia a
circondarlo come se volesse proteggerlo da qualunque cosa e impedire
a chiunque di portarlo via. Era stato per le volte in cui aveva visto
quegli occhi blu opacizzati e segnati dal pianto. Era stato per le
volte in cui, quando non riusciva a dormire, aveva sentito Justin
chiamare il suo nome, mentre si agitava nel sonno e le lacrime
scendevano oziose a solcargli il viso.
Era stato sì,
anche per se stesso, ma soprattutto per Justin; per non lasciarlo
solo, per non farlo soffrire più di quanto non avesse già fatto.
Aveva sopportato
fin troppo, nonostante la sua giovane età, e non si meritava di
patire anche quello. Non lui che con devozione gli preparava quello
stramaledetto brodo di pollo – che non avrebbe mai più toccato per
il resto della sua vita – o qualche intruglio miracoloso di sua
nonna. Non lui che non si lamentava mai del fatto che dal fare sesso
almeno quattro volte al giorno, erano passati a trascorrere la
sera a sonnecchiare sul letto, o inginocchiati sulle mattonelle del
bagno, perché doveva vomitare per la trecentesima volta nel
giro di una giornata. Non lui che aveva continuato ad amarlo
nonostante il suo caratteraccio, o le volte in cui l’aveva
ferito.
Brian era
sopravvissuto per Justin e perché, per quanto gli costasse
ammetterlo, dentro di sé aveva chiaro come il sole che non era
affatto disposto a separarsi definitivamente da lui. Non era disposto
ad andarsene in un posto dove Justin non c’era.
‘Fanculo,
piccolo stronzo. Guarda come cazzo mi sono ridotto...
Spense il
mozzicone nel posacenere e si avviò verso il letto, ciondolando
stancamente. Si lasciò ricadere e inevitabilmente il suo sguardo si
posò su quel cassetto che, da quando Justin se n’era
andato, non aveva più riaperto, se non per nasconderci le uniche tre
cose che gli restavano di lui.
Avrebbe dovuto
sbarazzarsene tempo prima, invece che lasciarle ad impolverare là
dentro, perché sembravano poter urlare la loro presenza ogni minuto
che trascorreva in quel posto, ma non ci era mai riuscito.
Un po’
perché aprire quel cassetto, significava ritrovarsele davanti agli
occhi, insieme ai ricordi dei momenti passati con Justin – alcuni
splendidi, altri terribili, ma pur sempre insieme – e un po’
perché, da qualche parte in fondo al suo cuore, la speranza di poter
riaprirlo e riempirlo ancora delle sue cose; la speranza di vederlo
tornare, non si era mai spenta.
Sì tolse i Jeans
e li lanciò in un punto a caso del pavimento, prima di abbandonarsi
sul letto e affondare la testa nel cuscino. Sospirò a fondo e fece
per infilarsi sotto il copriletto, quando qualcuno prese a bussare
insistentemente alla porta.
Mugugnò
contrariato, finché nella sua testa balenò la possibilità che a
battere il pugno fosse Justin; così, col cuore che gli pulsava in
gola, si alzò di scatto e si affrettò a raggiungere la porta.
«Jus...» pronunciò, dopo averla fatta scorrere con foga; e per un
attimo gli parve davvero di vedere quel sorriso, ma l’incantò
svanì nel giro di un secondo, lasciando il posto al ghigno divertito
di un’altra persona.
«...Brandon?!» esclamò sorpreso, deluso e scocciato. «Ma che
cazzo sei? Uno stalker?»
L’altro
scrollò le spalle e sorrise. «Mi annoiavo al Babylon.»
«E che cazzo ci
fai qui?!» sputò rabbioso, aggrottando la fronte.
«Sei impegnato
con qualcuno?» chiese e cercò di sbirciare verso il letto,
alzandosi sulle punte.
«No...»
«E allora dov’è
il problema?» cercò di entrare, ma Brian gli si parò davanti,
assumendo un sorrisetto che poco celava il fastidio nato da quella
visita.
«Il problema,
Barbie, è che qui non c’è
nessun cazzo di Ken disposto a scoparti e, se non ti dispiace, io
vorrei dormire. Quindi, fammi il grosso favore di evaporare.»
Brandon prese a
ridacchiare. «Lasciatelo dire, non sei per niente ospitale.»
«Non ho mai
voluto esserlo.»
«Non è questo
che si diceva da te fino a un po’
di tempo fa...»
Brian scosse la
testa e si passò la lingua sui denti. «Le cose cambiano.» abbozzò
un sorriso fulmineo e concluse, prima di chiudergli la porta in
faccia. «Perciò, buonanotte riccioli d'oro, e sta’
attento ai tre orsi mentre torni a casa.»
*'*'*
Portò la mano
allo stereo e girò la manopola per alzare il volume, prima di
prendere l’accendisigari
già caldo e accendersi una sigaretta. Abbassò il finestrino e
lasciò che il fumo fluisse via attraverso lo spiffero. «Hai
intenzione di fumarne ancora molte?» borbottò Jace contrariato.
Justin sbuffò.
«Chi cazzo sei, mia madre?!»
«No, ma tu soffri
decisamente di attacchi d’ira.»
commentò in risposta l’altro,
con aria stranita.
«Scusa.» mormorò
seriamente dispiaciuto. Prese l’ultimo
tiro e lasciò cadere il resto fuori dal finestrino. «È
solo che...»
«Senti, non è
perché non voglio aiutarti ma...non credo che restare piantati in
macchina sotto casa del tuo bello ti servirà a qualcosa!»
Justin prese a
ridacchiare. Erano arrivati da almeno dieci minuti, con tutta
l’intenzione di
smuovere la situazione, ma nonostante le minacce di Jace, non era
ancora riuscito a scendere e suonare il campanello. Se poi pensava a
quanto era stato sfacciato in passato e a quante volte si era
presentato alla porta di Brian senza prima avvertirlo, quella
situazione prendeva una piega anche più assurda.
Inspirò
profondamente, scostandosi dalla faccia una fastidiosa ciocca di
capelli biondi e sorridendo all’amico,
fece per aprire la portiera, quando il portone del numero sei di Fuller Street, venne improvvisamente spalancato.
Trattenere la
sorpresa fu impossibile, nel momento in cui in strada fece la sua
comparsa Brandon, e sentì qualcosa rompersi dentro.
Aveva sempre
provato una particolare gelosia per quell’uomo,
non solo perché era bello, ma anche per quella strana intesa che si
era creata tra lui e quello di cui era innamorato, data l’incredibile
compatibilità del loro modo di essere e di fare. Per certi versi,
Brandon era praticamente un Brian Kinney con i capelli biondi e gli
occhi azzurri.
Gli aveva visti
insieme a Babylon, e aveva cercato di non sorprendersi della loro
breve chiacchierata, ma vedere proprio Brandon uscire dal palazzo in
cui viveva l’altro...quello
no, non se lo sarebbe mai aspettato, né mai avrebbe voluto vederlo.
In qualche modo si
era sempre sentito minacciato da lui, e in quel momento ogni paura
sembrò materializzarglisi davanti e divenire reale. In fondo, perché
mai Brian avrebbe dovuto aspettarlo quando poteva avere chi voleva,
anche uno come Brandon?
Con rabbia cieca
portò la mano a girare la chiave e mise in moto, ignorando i
borbottii di Jace – che in vano cercava di farlo ragionare,
nonostante fosse altrettanto visibilmente sorpreso – e partì,
schiacciando fino in fondo il pedale dell’acceleratore.
Sorpassò due
macchine e svoltò bruscamente a destra, in uno stridio acuto di
freni e gomme, e gli strilli di Jace. «Ok, ok.» balbettò
spaventato, stringendosi con entrambe le mani al sedile. «Jus,
rallenta. Ti prego, rallenta!» lo fissò allarmato e aggiunse: «Non
ti ho mai detto quanti anni ho, ma questo non vuol dire che io sia
abbastanza vecchio per crepare!»
Justin però non
sentiva neanche le sue parole. Davanti ai suoi occhi vedeva a
malapena la strada, coperta dalle immagini di lui e Brian insieme,
confuse a quelli che credeva potessero essere i momenti che, quello
che era stato il suo uomo, poteva aver trascorso con Brandon.
Immaginare l’altro
al suo posto, nei ricordi del loro amore, gli occludeva la gola
impedendogli di respirare; e si sentiva bruciare dentro come mai gli
era successo prima.
Era sempre stato
molto geloso di Brian, fin dall’inizio,
e per quanto avesse spesso criticato l’altro
per i suoi stani scatti di rabbia e gelosia, guidati da un probabile
“mostro dagli occhi verdi” – come lo chiamava Debbie – in
quell’istante, fu
certo di avere un mostro decisamente peggiore a divorargli il fegato,
lo stomaco e qualsiasi altro organo commestibile; cuore compreso.
Inchiodò davanti
al loro albergo e parcheggiò alla meno peggio, prima di correre
nella loro stanza, come un pazzo, e afferrare con rabbia il proprio
trolley.
«Che cazzo stai
combinando?» esclamò Jace, dopo averlo raggiunto, osservandolo
stranito mentre afferrava le sue cose e le scaraventava malamente nel
proprio bagaglio.
«Non lo vedi?!»
sbottò, senza neanche guardarlo. «Torno a New York!»
«Oddio, ecco che
ci risiamo con un altro dei melodrammi di Justin Taylor. Tesoro,
lasciatelo dire, tu hai davvero un problema con i tuoi nervi.»
«Che cazzo ci
faccio qui?!» gridò ancora, lanciando a terra una cintura. «Perché
cazzo mi sono lasciato convincere a tornare qua, se si è già
dimenticato di me?! Perché mi hai permesso d’illudermi così?»
«Justin!» lo
chiamò, posandogli una mano sulla spalla per spingerlo a sedersi sul
letto e calmarsi. «Non sai se ti ha dimenticato...»
«Ah no? E allora
che cazzo ci faceva quello a casa sua?»
«Da quello che mi
hai raccontato, scopare a destra e a manca, è sempre stato il suo
modo per affrontare la vita. C’è
da sorprendersi?»
«Non lo so.»
sospirò, distendendosi con la schiena sul letto. «Io non...»
«Jus, ascoltami.
Non sai se quello era davvero lì per scop...» iniziò, ma
l’occhiata ricolma
d’ira che gli rivolse
l’altro, lo convinse a
cambiare le proprie parole: «D’accordo,
magari è come pensi, ma l’hai
sempre accettato così, e prima di tornartene a New York su ipotesi
interamente create dal tuo cervellino, almeno parlagli e accertati di
come stanno le cose.» si distese al suo fianco e prese a fissare il
soffitto. «E poi, hai una promessa da mantenere a un bambino...e le
promesse ai bambini si mantengono, sempre.»
La mente di Justin
corse a Gus, e al sorriso che si era disegnato su quel faccino dolce.
Non poteva andarsene e deluderlo; non poteva fare del male a quel
bambino stupendo che aveva visto realmente nascere e a cui aveva dato
un nome.
Sospirò
profondamente e si girò su un fianco, strisciando sul letto fino a
raggiungere Jace e posare la testa sul suo petto. Si lasciò
abbracciare e chiuse gli occhi, trattenendo a stento le lacrime.
«D’accordo.
Restiamo.»
*'*'*
Erano scoccate
appena le sette del mattino, quando Gus zampettò giù dal letto e
corse fino alla camera in cui dormivano le sue mamme.
Si aggrappò alla
maniglia per abbassarla ed entrò, sgattaiolando immediatamente da
Linz, per riscuoterla e svegliarla dal sonno. «Mamma, mamma!» la
chiamò, e continuò a farlo finché la donna non prese a
stropicciarsi gli occhi. «Mamma, quando viene papà? E Justin? Mi
devi vestire!»
«Amore, ma che
ore sono?» biascicò stordita, finché non si accorse della
posizione delle lancette. «Gus, sono appena le sette.»
«Voglio andare da
papà! Me l’hai
promesso!»
«Che succede?»
mugolò Mel rigirandosi tra le lenzuola, svegliata dalla voce
lamentosa del bambino.
«Voglio andare da
papà e Justin.» batté i piedi deciso.
«Tesoro, tuo
padre verrà e anche Justin, ma questo pomeriggio.» gli rispose Mel.
«Adesso torna a dormire.»
«Non voglio
andare a dormire, voglio andare dal mio papà!» strillò più forte,
mentre le lacrime iniziarono a riempirgli gli occhioni verdi.
«Gus...» iniziò
Melanie, con tono di rimprovero, ma fu fermata da Linz.
«Gus, lo so che
vuoi stare con tuo padre, ma lui ha da fare e anche Justin. Ti hanno
promesso di passare il pomeriggio con te e lo faranno, ma non se
farai i capricci.»
«Ieri papà mi ha
detto che posso andare da lui quando voglio!» replicò intestardito.
«E io voglio stare con lui. Non lo vedo mai! Io voglio vivere qui
con lui, con nonna Deb, Justin e gli zii!»
Sia Mel che Linz
sussultarono a quella confessione dettata dall’esasperazione.
Probabilmente il loro bambino si stava tenendo da un po’
certi pensieri nascosti dentro, e dal momento in cui era tornato a
Pittsburgh, trattenergli era stato impossibile.
Fermare i soliti
sensi di colpa dettati dalla loro scelta di essersi trasferite a
Toronto e aver allontanato i propri figli dal resto della loro
famiglia, fu impossibile, perciò, con un tacito assenso dato da una
semplice occhiata, Linz afferrò il cellulare e compose il numero del
loft, aspettandosi una lunga serie di imprecazioni da parte di Brian.
«Vivi in un posto
dove hai un altro orario, o ti rendi conto che sono le sette del
mattino?» sbottò lui infatti, all’altro
capo del telefono, dopo innumerevoli squilli.
«Fatti una
doccia, e renditi presentabile. Porto tuo figlio da te, altrimenti mi
farà diventare matta.»
«E bravo il mio
bimbo.»
«A dopo.»
mormorò e riattaccò, ignorando il tono soddisfatto di Brian, per
poi rivolgersi al bambino. «Fatti bello tesoro, ti porto da tuo
padre.»
Quando arrivarono davanti al
portone, Gus non stava più nella pelle.
Si alzò sulle punte e premette
con forza l’indice sul
bottone del citofono, impaziente di sentire la voce di suo padre.
«Salite.» lo sentì
comunicare, attraverso il microfono, a cui seguì lo scatto secco del
portone.
Decise
di non aver tempo, né voglia, di aspettare il montacarichi, così
costrinse Linz a seguirlo di corsa per le scale. Le percorse tutte
con un enorme
sorriso sulle labbra, fino al pianerottolo, dove Brian lo stava
aspettando a braccia conserte, appoggiato al muro. Vide suo padre
accoccolarsi per accoglierlo, e quando si gettò nel suo abbraccio,
si sentì sollevare e stampare un rumoroso bacio sulla fronte. Per
Gus, non esisteva niente al mondo che potesse renderlo più felice.
«Papà!» strillò, e allacciò le braccia intorno al suo collo,
respirandone il profumo che sapeva essere quello di un uomo.
«Ciao,
campione.» gli sorrise. «Ma...dove l’hai
lasciata la mamma?»
chiese, e non ebbe bisogno di risposte, perché vide spuntare una
Linz piuttosto provata dalle scale.
«Tuo figlio mi
vuole morta.» annaspò, salendo gli ultimi scalini.
«Di piuttosto che
sei vecchia.» la canzonò lui e schivò appena in tempo il pugno con
cui la donna tentò di colpirlo.
Entrarono nel
loft, e Brian posò il bambino a terra, così che potesse correre a
sedersi sul divano e godersi un film di James Dean che, nonostante la
giovanissima età, sembrava già amare.
Brian
prese una bottiglia di birra dal frigo e ne offrì una a Linz.
«Allora...» esordì poi. «È
tutto ok?»
«Suppongo
di sì.» rispose lei, trangugiando una grossa sorsata per
riprendersi. «È
solo che non riuscivamo più a tenerlo buono. Gus non riesce a stare
lontano da te e...»
«E...» la
incoraggiò, sollevando un sopracciglio.
«Ci
ha detto che vuole restare qua a Pittsburgh, con tutti voi.» sospirò
la donna e lanciò un’occhiata
amorevole al figlio, intento a osservare le immagini che si
susseguivano sullo schermo al plasma. «Mi chiedo se vivere a Toronto
sia davvero la cosa migliore. Gus sembra soffrirne troppo.»
«Non
sentirti in colpa. L’hai
fatto per il suo bene. Per tenerlo al sicuro dallo schifo che non lo
accetta per quello che è.»
«Lo so, ma se
questo vuol dire vederlo soffrire perché ha bisogno di te...»
Brian
voltò lo sguardo verso il bambino e le sue labbra s’incresparono
involontariamente in un sorriso. Ogni volta che i suoi occhi
incrociavano la figura del figlio, era come se sentisse allargarsi il
cuore, ed era una sensazione che aveva sempre provato fin dal primo
istante in cui l’aveva
visto. Forse era quello che tutti chiamavano “istinto paterno”.
Un giorno non c’era,
e poi, come quel frugoletto era entrato nella sua vita, era comparso
all’improvviso.«Cercherò
di venire a Toronto più spesso. Non solo nel fine settimana.»
«E se tornassimo
noi?» azzardò e vide il suo migliore amico voltarsi di scatto. Non
avrebbe potuto giurarci, perché Brian era un maestro nel nascondere
le emozioni, ma per un misero istante, le era parso di veder
accendersi una luce di speranza in quegli occhi scuri. «Se
tornassimo a vivere qui...»
«Tuo marito che
ne pensa?» domandò in risposta, con tono piatto, sforzandosi di
trattenere la gioia che gli era divampata dentro nel momento in cui
aveva sentito anche solo accennare a quella possibilità.
«Non ne abbiamo
mai parlato bene, ma so che anche lei si è accorta di come sta
reagendo Gus e si sente in colpa quanto me.» sospirò e sorrise
appena. «Suppongo poi che le tue parole le brucino ancora.»
Brian sollevò le
sopracciglia. «Non potevate certo aspettarvi che reagissi con gioia
nel sapere che mio figlio si sarebbe trasferito in un altro paese.»
Linz gli si
avvicinò e lo baciò sulla guancia. «Devi amarlo proprio tanto,
eh?» si lasciò abbracciare e appoggiò la testa sulla spalla di
lui. «Attento Brian, di questo passo verrai nominato anche padre
dell'anno.»
«Pensavo di
esserlo già.» replicò ridendo, e lei gli stampò un bacio sulle
labbra.
«Va tutto bene?»
ebbe il coraggio di chiedergli.
«Perché questa
domanda?» replicò, sciogliendo l'abbraccio. Quando qualcuno – a
prescindere da chi fosse – faceva il minimo riferimento
all'argomento “Justin”, sentiva l'impellente bisogno di doversi
allontanare da tutti.
«Be’,
hai promesso a tuo figlio un pomeriggio con Justin.»
«Rettifica.»
Brian sorrise sprezzante. «Se ben ricordo, tu
hai promesso a mio figlio un pomeriggio con Justin.» la fissò in
silenzio per qualche istante e prese un sorso di birra. «Comunque
sia, non c’è
alcun problema.»
«Sei spaventato?»
gli chiese e lui roteò gli occhi scocciato, emettendo un mugugno di
fastidio.
«Da cosa?»
«Dal fatto che
lui sia qui.»
«Perché
dovrei?!» esclamò, con un’espressione
stranita.
Linz arricciò le
labbra e rispose, con un tono di ovvietà. «Per come sono andate le
cose, e perché lo ami.»
«Chi ti dice che
lo amo ancora?» replicò saccente. «Perché tutti lo date per
scontato?»
«Perché
è così, anche se ti ostini a non volerlo ammettere, ami Justin più
di qualsiasi altra cosa.» gli si fece nuovamente vicina e lo
costrinse a guardarla negli occhi. «Non l’avresti
lasciato libero, se non lo amassi così tanto.»
«Stiamo parlando
di un anno e mezzo fa. Chi ti dice che non siano cambiate le cose?»
«Il
fatto, ad esempio, che sai esattamente quanto tempo è passato da
quando se n’è
andato...» ammiccò, picchiettando con l’indice
sul suo petto. «...quando non ricordi neanche il compleanno di tua
madre.»
«Non vedo perché
dovrei ricordarmelo.» ribatté prontamente, tentando invano di
metterla a tacere.
«Oppure da come
lo guardavi quando vi siete incontrati. Ti sei pietrificato.»
continuò lei, ignorando e mandando in fumo i suoi tentativi di fuga.
«Ero solo
sorpreso nel vederlo lì.» scrollò le spalle e inarcò le
sopracciglia. «Niente di più.»
«Bugiardo.» lo
canzonò Linz. «Comunque sia, libero di continuare a negare la
realtà dei fatti a tutti noi, ma non farlo con lui. Digli che lo ami
ancora.»
Brian restò in
silenzio per un attimo, a sostenere lo sguardo di lei, per poi
sospirare e guardare oltre la finestra. «Perché dovrei farlo?»
borbottò e si sentì immediatamente avvolgere da un abbraccio.
«Perché ne ha
bisogno. Ne ha bisogno lui di sentirlo, quanto tu hai bisogno di
toglierti questo peso dallo stomaco.»
L’uomo però non
rispose, si limitò a inspirare profondamente e a trattenere l’aria
dentro di sé per qualche secondo, prima di espirare, come se in quel
modo potesse gettar fuori ogni preoccupazione. Si allontanò di un
poco da Linz e le sfiorò le labbra con le sue, prima di prendere a
osservarla intensamente. «Parla con Mel.» mormorò poi. «Tornate a
casa.»
*'*'*
«Il bluastro
cadavere non ti dona molto tesoro, quindi che ne dici di riprendere a
respirare prima di morire per asfissia?» esordì ironico Jace, tra i
risolini di Daphne, picchiettando sulla sua spalla.
Justin gli rivolse
un’occhiata scocciata e fece una smorfia. «Devo ridere?»
«Non era una
battuta. Non scherzo quando dico che non hai una bella cera.»
sollevò un lato del labbro e lo scrutò attentamente. «Mia nonna
aveva il tuo stesso colorito quando ha tirato il calzino. Santa
Lilian, che Dio l'abbia in gloria! Aveva dei foulard di seta
favolosi.»
«Grazie, Jace.»
commentò l'altro acido. «Ora sì che mi sento meglio. Tu sì che
sai come tirare su il morale delle persone!»
«Coraggio Justin!
Smettila di fare la checca melodrammatica!» gli disse Daphne,
punzecchiandolo sulla spalla.
«Ricordatemi di
non portarvi mai più in giro insieme.» replicò, passando gli occhi
blu tra i suoi amici. «Piuttosto pranzo a cianuro e cicuta!»
«Che ti dicevo,
Daphne?» Jace incrociò le braccia e prese a scrutare l’artista con
fare esperto. «Questa è la tipica ‘RDCS’.»
«La che?»
domandarono gli altri due all’unisono.
«‘Reazione
da chiappa stretta’.»
puntualizzò annuendo. «In poche parole ti stai cagando addosso e
stringi le chiappe per evitarlo, il che ha come conseguenza
sudorazione e sbiancamento della faccia. Il fatto che poi trattieni
il fiato, contribuisce a donarti quella tonalità bluastra tipica di
un cadavere.»
«Grazie per la
diagnosi, Doctor House.» gli rivolse un sorriso tirato e si
scostò un ciuffo biondo dalla faccia con fare nervoso. «Pensi di
aver finito?»
«Avanti Taylor,
rilassati! Non devi mica tenere un discorso per il Golden Globe!»
«No, infatti.
Forse sarei meno agitato.» deglutì forzatamente e si stropicciò le
mani sudate. «Che ore sono?» chiese poi rivolto a Daphne e la vide
roteare gli occhi scuri, prima di ammiccare verso Jace.
«Neanche cinque
minuti in più di prima.» replicò saccente. «Justin, datti una
calmata. È solo Brian!»
«È
proprio il significato di quel ‘solo’
che stona nella frase.» rettificò lui, sempre più nervoso. Erano
arrivati da poco più di cinque minuti al Diner, dopo che Linz l’aveva
chiamato per concordare l'appuntamento, e già non ne poteva più di
aspettare. I secondi parevano ore. «È
proprio perché è lui che mi sento così. L’hai visto come ha
reagito quando mi ha visto?»
«Sì, era nervoso
e sorpreso esattamente quanto te.»
«Era scocciato,
quasi infastidito.»
«Dio, Justin.
Possibile che dopo tutti questi anni ancora non hai imparato a
decifrare le espressioni di Brian?» gli si fece più vicina e gli
sorrise. «Credimi quando ti dico che devi stare tranquillo e che non
ti ha dimenticato. Tu non c’eri a Pittsburgh, ma io sì...e so quello
che ho visto! Devi solo dargli il tempo di digerire l’idea. Non è
facile per lui.»
«‘Non
è facile per lui’.»
ripeté sarcastico. «E a me e ai miei nervi chi ci pensa?»
«Valium e
Prozac?» propose Jace, ma dall’occhiata che ricevette capì che non
era una buona idea. «Comunque sia, fossi in te comincerei ad
asciugarmi quelle mani umidicce e mi darei una sistemata.»
«Perché?»
domandò Justin incuriosito.
«Quante Corvette
verde bottiglia con la cappotta bianca ci sono a Pittsbugh?»
«Suppongo una.
Quella di Brian.»
«Perfetto, allora
ti comunico che Brian è appena arrivato.» sorrise
furbescamente e fece schioccare la lingua. «Ha appena parcheggiato.»
Se gli avessero
tirato un macigno sullo stomaco, probabilmente sarebbe stato molto
meglio. Il vuoto che aveva sentito improvvisamente scavargli dentro,
non era niente paragonato a quello che aveva provato quando l’aveva
rivisto dopo più di un anno.
Era certo che
sarebbe svenuto da un momento all’altro, se solo non avesse costretto
il suo cuore a regolare i battiti e i suoi polmoni a riaccogliere
l’aria e funzionare correttamente; ed era altrettanto certo di non
essere mai stato tanto spaventato in vita sua.
In fondo si
trattava di un semplice pomeriggio in compagnia di Gus, e vista la
presenza del bambino, forse non avrebbero potuto neanche parlare
liberamente. Eppure il solo pensiero di dover trascorrere anche solo
qualche minuto con lui, lontano dagli occhi indiscreti di quei
pettegoli – perché per quanto gli volesse bene, era quello che
erano – dei suoi amici, lo mandava letteralmente in tilt. «Ok,
adesso sono davvero agitato.»
«Respira Jus.
Respira.» gli prese le mani e le strinse appena. «Respira e
inspira. Respira e poi inspira.»
«Jace, non devo
partorire!»
«Dalla faccia che
ti ritrovi sarei quasi disposto a scommettere il contrario.»
«Sempre più
incoraggiante.» sibilò minaccioso.
«Datti un
contegno, sorgi e splendi raggio di sole. Il tuo principe è
arrivato.» e a conferma delle sue parole, il trillo del campanellino
si disperse nell’aria, seguito dal quello della porta che si apriva e
si richiudeva.
«Justin!» si
sentì chiamare da una vocina cristallina e portando lo sguardo verso
quella direzione, vide quel piccolo e bellissimo uragano che
rispondeva al nome di Gus, corrergli incontro.
Seppur con un
sorriso lievemente tirato per l’agitazione, Justin riuscì ad alzarsi
e accogliere il bambino, sollevandolo per abbracciarlo. Lo fece
sistemare con le gambe ben salde al suo fianco, così come erano
sempre stati abituati a fare e lo riempì di baci sulla fronte e
sulle guance morbide. «Ciao Gus! Sei sempre più bello e grande.»
Il bambino sorrise
e si voltò un poco verso il padre che era rimasto in disparte a
godersi la scena con una punta di malinconia. «Hai visto papà?
Justin è venuto davvero!»
Brian sollevò
appena uno degli angoli della bocca. «Ho visto.» annuì e si
strinse nelle spalle. «Allora...andiamo?»
Justin restò a
fissarlo in silenzio ancora per qualche istante.
A occhi esterni,
Brian poteva apparire come la persona più tranquilla del mondo, ma
dalla linea della mascella squadrata leggermente indurita, dal modo
in cui teneva inarcate le sopracciglia e da come i suoi occhi si
muovevano, riuscì a capire quanto in realtà fosse nervoso; forse
anche più di lui e altro non gli restava che comprenderne il perché.
Non era pronto a
giurare che fosse per amore, specie dopo aver visto quel Brandon
uscire dal suo palazzo, ma non poteva neanche rimandare ancora per
molto. Doveva sapere la verità e se solo le sue paure si fossero
avverate, avrebbe “semplicemente” dovuto imparare a sopravvivere
senza avere più un cuore.
Si voltò per fare
un cenno si saluto a Jace e Daphne e fece qualche passo incerto verso
Brian. Riposò il bambino a terra e accolse con un sorriso quella
manina piccola e morbida nella sua, quanto Gus gliela porse
silenziosamente, concedendo l’altra a suo padre.
Justin lanciò
un’occhiata imbarazzata a Brian, ma vedendo gli occhioni brillanti di
speranza del bambino, non riuscì a trattenersi dal sorridere
apertamente: «Andiamo.»
Nonostante il
vento continuasse a sferzare la faccia di entrambi, il sole
splendente riusciva comunque a scaldarli.
Continuando a
tenere Gus per mano, Brian e Justin passeggiavano fingendo
disinvoltura e tentando di distrarsi e allontanarsi dai pensieri che
si arrovellavano e avvicendavano nella testa di entrambi, insieme
alle preoccupazioni, ascoltando le storie che il bambino si premurava
di raccontare con entusiasmo sulla sua vita a Toronto: «Papà, lo
sai che la maestra ha detto alla mamma che sono bravissimo e faccio i
conti come i bambini più grandi?»
«Lo so, lo so.»
gli sorrise lui. «E sono fiero di te.»
«E poi ci hanno
portato al museo e ho visto un sacco di cose. E ho fatto tanti
disegni, sai?» si voltò verso Justin e saltellò sorretto dalle
mani dei due adulti. «Justin, quando vieni a Toronto te li faccio
vedere!»
«Non vedo l’ora.
Diventerai sicuramente un’artista migliore di me.»
«E poi allora
anch’io sarò come te e papà? E andremo nei posti tutti e tre
insieme?»
«Ah...sì.»
balbettò incerto. «Sarai sicuramente bravo come tuo padre.»
«Anche meglio.»
continuò Brian, incoraggiandolo.
«E avrò una
macchina bella bella, come quella di papà e un castello con i
cavalli!»
«Io non ho i
cavalli. Solo le scuderie.» rise l’uomo, accarezzando la testa con
la mano libera, senza accorgersi di come Justin lo stava fissando
stupito dopo le parole del bambino.
C’era solo un
castello a cui Gus poteva riferirsi. «Britin...» mormorò allora,
facendo sì che quegli occhi verdi si posassero a incontrare i suoi
blu. «Non...non l’hai venduta?»
Brian scrollò le
spalle. «Mi avanzavano abbastanza soldi per poterla tenere senza
problemi.»
Justin annuì,
come per fargli intendere che aveva compreso e arricciò le labbra.
«Ma...non ci vai mai? Cioè, vivi ancora al loft?» si sforzò di
chiedergli, lasciando che nel suo cuore nascesse la speranza che
Brian si fosse trasferito a Britin, così da potersi augurare che
Brandon non fosse in quel palazzo per lui. La gelosia lo stava
letteralmente divorando senza pietà.
«No. Vivo ancora
al loft.» replicò invece e a Justin parve di sentire il suo cuore
tremare. «Non ho toccato niente là. È
rimasto tutto come quando l’ho comprata.»
«Capisco.»
borbottò, abbassando lo sguardo deluso senza più proferire parola,
limitandosi ad ascoltare i racconti del bambino e a sorridergli di
tanto in tanto finché non raggiunsero il parco, dove Gus, dopo aver
chiesto il permesso al padre, corse a giocare in compagnia di altri
bambini, eliminando l’unica flebile barriera che ancora lo teneva
lontano dal confronto diretto con Brian.
Si
sedettero su una panchina di legno, entrambi con le labbra serrate
dal nervosismo e tennero gli occhi puntati sul bambino, fino a quando
non fu proprio Brian a rompere il ghiaccio: «Allora, Taylor.
Come procede a New York?»
Justin gli lanciò
un’occhiata furtiva e si protese in avanti, appoggiando gli
avambracci sulla cosce e unendo le mani per torturarsele. «Abbastanza
bene. Vorrei solo avere più tempo per me.»
«Il prezzo della
fama.»
«Sì, suppongo
sia così.» mormorò, fissando un punto a caso davanti a sé. «Forse
però ci sono riuscito a ritagliarmi un po’
di tempo libero.»
«Deb ti ha
minacciato di morte?» commentò sarcastico, prima di tirar fuori
dalla tasca del cappotto elegante il pacchetto di sigarette per
prenderne una e offrirne una seconda a Justin.
«Una cosa del
genere.» replicò, afferrando il filtro con due dita e portandoselo
alle labbra. «Ma è stato il mio agente ad accorgersi finalmente che
ero in procinto di una crisi di nervi. Debbie ha solo contribuito con
le sue telefonate per farmi sentire in colpa.»
«Avresti dovuto
chiamarla più spesso.» accese la sua sigaretta con lo zippo e lo
passò all’altro, fingendo una tranquillità che in realtà non gli
apparteneva affatto. Dentro di sé sentiva ribollire la frustrante
sensazione di avere al suo fianco la persona che amava, unita al
bisogno martellante di baciarlo, che si scontrava con la paura di
lasciarsi andare. Era una vera esplosione di sentimenti contrastanti
e coincidenti; e non aveva la più pallida idea di come gestirla.
«Anche tua madre, Daphne e tua sorella erano piuttosto arrabbiate.»
«Lo so, mi hanno
fatto una bella lavata di capo.» si sforzò di sorridere e prese una
profonda boccata di fumo, cercando di nascondere i fremiti che lo
attraversavano continuamente. «Avrei voluto chiamarle, ma ero sempre
di corsa tra una mostra e l’altra
e...» si mordicchiò le labbra e si sistemò una ciocca di capelli
biondi dietro l'orecchio. «...non era così facile.»
«Lo so.» replicò
Brian semplicemente; e lo sapeva davvero. Sapeva benissimo cosa
significava passare minuti a fissare il telefono, tra la speranza di
sentirlo squillare e vederci il nome di Justin impresso sul display,
e la voglia di comporlo di propria intenzione quello stesso numero
per poter sentire anche solo per un istante quella voce che gli
mancava da morire. Non era stato facile desistere dal chiamare, ma
allo stesso tempo era stato ancora più difficile trovare il coraggio
di farlo.
«Alla Kinnetik?»
chiese, per non lasciar cadere nel vuoto la conversazione.
«Tutto nella
norma. Siamo sempre i migliori.»
«Sì, lo
immaginavo.» sorrise e l’osservò con la coda dell’occhio. «Anche
al Babylon sembra che gli affari vadano bene.»
«E tu che ne
sai?» domandò sorpreso, con la fronte aggrottata, finché non gli
balenarono le parole di Michael nella testa. «Mickey c’aveva
visto giusto allora...»
«Eh già.»
Brian continuò a
fissarlo in silenzio, per poi sospirare e costringersi a tirar fuori
quelle parole che gli si erano incagliate nella gola fin dal primo
momento in cui i suoi occhi avevano incrociato quelli dell’altro.
«Per quanto ti fermerai?»
«Ancora non lo
so.» ribatté, un po’ confuso da quella inaspettata domanda. «Gary,
il mio agente, ha detto che proverà a lasciarmi libero almeno fino a
Natale.»
«È un bel po’
di tempo.» mormorò, mentre uno squarcio andava ad aprirglisi
improvvisamente nel petto; uno squarcio liberatorio, da cui poté
lasciar uscire il suo dolore e le sue paure, per rilassarsi almeno un
po’ dopo più di un anno passato a torturarsi nel ricordo di qualcosa
che temeva di non poter più riafferrare. Un mese. Trenta giorni in
cui poter ancora respirare e godere ancora della sua presenza. Aveva
paura perfino a crederci.
«Poco meno di un
mese, ma mi ha detto di non potermelo garantire. Potrei dover tornare
a New York da un momento all’altro.»
«Da come lo dici,
sembra quasi una chiamata alle armi.» cercò di suonare ironico, ma
quel suo “potrei dover tornare a New York da un momento all'altro”,
era stata un’inevitabile pugnalata.
New
York. Comincio seriamente ad odiarla quella cazzo di città.
«Non è poi così
diverso da una guerra.» sorrise Justin e si sciolse un po’, tornando
a respirare regolarmente. «Ancora non ho capito se tutto questo fa
per me.»
«Era il tuo
sogno.» commentò Brian, posando per la prima volta il suo sguardo
sull’altro.
«Le cose non sono
sempre come le immagini.» replicò con una scrollata di spalle e
vide l’uomo increspare le labbra in un sorriso appena accennato, che
pareva avere una punta di amarezza dentro.
«No, non lo
sono.» convenne, arricciando la bocca, per poi ridistenderla e
percorrerla interamente con la punta della lingua. «Non lo sono
quasi mai.»
Justin si perse
nei suoi pensieri, mentre con lo sguardo percorreva ogni millimetro
dello splendido volto che gli si mostrava davanti. Ancora non
riusciva realmente a credere di esser riuscito a incontrarlo ancora;
di aver sentito ancora quella voce profonda che era stata capace di
fargli provare ogni sorta di emozione.
Guardò a quelle
labbra piene, ricordando il momento in cui avevano pronunciato quelle
due parole che aveva agognato per cinque lunghi anni. Lo poteva
sentire distintamente il loro suono perfetto rimbombare nella sua
testa come una cantilena da cui prescindeva la sua felicità.
Ti
amo. Ti amo.
Erano ancora lì.
Perfettamente intatte come se le avesse appena pronunciate e ancora
costringevano il suo cuore a una corsa a rotta di collo, fino allo
stremo.
Non riusciva
neanche a immaginare cosa avrebbe detto, dato o fatto per
sentirgliele ripronunciare anche una sola volta, ed era inutile dire
che, il solo pensiero che potesse rivolgerle a qualcun altro, o che
qualcun altro si fosse appropriato di quel posto che una volta era
suo e che mai avrebbe voluto abbandonare, lo spaccava a metà e lo
svuotava completamente.
Non ci volle molto
perché quei pensieri si collegassero automaticamente alla notte
precedente e alla scena che aveva visto e che l’aveva spinto a
decidere di tornare immediatamente a New York; e ci volle ancora meno
– che quasi non se ne accorse – perché le sue labbra si
muovessero per pronunciare una frase: «Stai con Brandon adesso?»
Brian si voltò
interdetto e insicuro su ciò che aveva sentito. «Come?»
«Hai capito.»
deglutì e strinse i pugni. «È
il tuo compagno, il tuo amante o la tua nuova scopata abitudinaria?»
L’altro non
rispose immediatamente. Lo fisso sorpreso, prima di sollevare una
delle sopracciglia e lasciarsi sfuggire una risata. «Di che cazzo
stai parlando?»
«Rispondi.»
pronunciò quasi con rabbia, per poi costringersi alla calma,
chiudendo gli occhi per un istante. «Rispondimi. Per favore.»
«No.» replicò e
non gli sfuggì il guizzo di sollievo che andò a illuminare quelle
iridi blu chiaro. «Non è la mia ‘scopata
abitudinaria’, non è
il mio ‘amante’
e...» rise ancora e concluse, decisamente incredulo e divertito.
«Cazzo no, non è neanche il mio fottuto ‘compagno’.
Da dove ti spuntano queste idee, raggio di sole? Non starai
esagerando con qualche droga come ogni artista che si rispetti?»
«No, no.» si
affrettò a rispondere e non poté non muovere le labbra in uno dei
suoi sorrisi luminosi e perfetti, dopo aver sentito quel buffo
soprannome pronunciato proprio da lui. Gli era mancato così tanto
sentirlo. «È solo che
vi ho visti insieme.»
«Io vado al
Babylon, lui anche.» scrollò le spalle e aggiunse: «Capita di
trovarsi lì.»
«L’ho visto
uscire dal tuo palazzo. Ieri notte.»
«Che fai? Mi spii
adesso?» rise, dopo averlo squadrato con la fronte aggrottata.
«Pensavo ti fosse passata da un po’ la fase di ‘stalker
adolescenziale’.»
«Avevo solo
bisogno di parlarti.» ammise sincero, quasi vergognandosene. «Ma
quando l’ho visto, ho abbandonato i miei propositi. Ho pensato
davvero che ci fosse qualcosa tra voi.»
«Capisco.»
borbottò Brian, annuendo con la testa. «E...cosa volevi dirmi?»
chiese, fingendo di non essere troppo interessato, quando in realtà
stava scalpitando per saperne di più.
Justin deglutì a
fatica e tornò a fissare il selciato, incapace di rispondere.
Avrebbe voluto
semplicemente urlare che lo amava ancora e che aveva un disperato
bisogno di lui. Che gli era mancato, che non voleva più fare a meno
della sua presenza. Avrebbe voluto gettarglisi al collo e baciarlo;
respirare il suo odore e stringerlo forte per piangere sul suo petto
e sfogare tutta la rabbia e la tristezza per non averlo avuto accanto
in tutto quel tempo. Avrebbe voluto fare e dire tante cose, ma come
al solito, scelse una sola e chiara frase per riassumere tutto: «Che
sei ancora l’unico che voglio.»
Brian nascose
dietro un lieve sorriso la sorda esplosione che era gli avvenuta
esattamente al centro del petto, quando con estrema semplicità aveva
sentito le parole che ogni giorno aveva sperato di udire. L’aveva
desiderato così tanto da non crederci quasi più, e invece Justin
era lì, davanti a lui che lo guardava con occhi speranzosi e un
sorriso timido, opacizzato dalla preoccupazione per la sua reazione.
Aveva pregato ogni santo secondo della sua vita perché quel
momento arrivasse e finalmente era stato esaudito. «E tu sei ancora
il solito patetico ragazzino romantico.»
«Per fortuna
certe cose non cambiano mai.» rispose Justin spavaldo, conscio che
il sorriso dell’altro e quella sua frase sarcasticamente acida
stavano solo a dimostrargli quanto in realtà era felice.
Restarono a
fissarsi. Entrambi con un sorrisetto impertinente, quasi di sfida, a
increspargli le labbra; e quelle stesse labbra avrebbero voluto unirle
in quel preciso istante, per staccarle solo quando non avessero avuto
più fiato, se solo il cellulare di Justin non gli avesse strappati e
riscossi da quel momento perfetto che erano riusciti faticosamente a
creare. «Scusa.» borbottò l'artista e rispose dopo aver sbuffato.
«Ciao Gary. Dimmi.»
«Ehi, è morto
qualcuno?» rispose l’altro interdetto.
«No, no. Tutto
ok. Dimmi.»
«Dal modo
telegrafico in cui mi stai rispondendo devo forse dedurre di aver
scelto un momento sbagliato?»
Justin lanciò
un’occhiata furtiva a Brian e lo vide visibilmente scocciato. «Non
preoccuparti. Hai qualche novità?»
«Effettivamente
sì. Sembra ci sia qualche riscontro positivo anche per allestire
qualche altra tua mostra in Canada, a Ottawa.»
«Ah, fantastico.»
commentò atono e privo di entusiasmo.
«Immagino. Dalla
voce con cui l’hai detto. Comunque sia, per adesso non dovrebbe
essere prevista la tua presenza, quindi la tua vacanza non è
rovinata.»
«Ok.» sorrise e
riprese a respirare. Aveva trattenuto il fiato temendo di sentirsi
dire di dover già rientrare. L’avrebbe ucciso, se solo ci avesse
provato. «Questo sì che è davvero fantastico.»
«Molto
divertente, Taylor. Arriverà il giorno in cui prenderai sul serio
tutte queste persone che ti venerano come un dio?»
«Nah, non credo.»
rise e osservò con la coda dell’occhio l’uomo sedutogli accanto,
trovandolo anche più infastidito di prima, a braccia conserte mentre
passava lo sguardo in ogni dove e in modo frenetico. «Ti devo
lasciare adesso. Ci sentiamo presto, ok?»
«Ok. Ma ricordati
i tuoi impegni.»
«Lo farò. Stai
tranquillo.» cercò di rassicurarlo e dopo aver attaccato tornò a
rivolgersi a Brian. «Scusami. Notizie da New York.»
«Buone o
cattive?» si sforzò di chiedergli, anche se non aveva nessuna
voglia di sentir parlare di quella città.
«Buone, credo. Il
mio agente ha parlato di una personale a Ottawa, o qualcosa del
genere.» farfugliò, e quando vide lo sguardo lievemente allarmato
di Brian posarsi su di lui, si affrettò a rispondere: «Ma non devo
andare. Posso restare qua.»
«Ok.» mormorò
semplicemente, mentre dentro di sé aveva sentito distintamente la paura assalirlo
ancora. Non poteva vivere così; non poteva vivere con il costante
terrore di vederselo portare via in ogni fottutissimo momento. Non
riusciva a pensare di poter andare avanti con il timore di poter
essere abbandonato ogni volta che provava a concedersi di essere
felice con la persona di cui era innamorato. Era meglio troncare la
cosa sul nascere...farsi del male subito, quando la ferita che ne
sarebbe conseguita, forse non lo avrebbe squarciato del tutto. Forse
era ancora in tempo a riabituarsi al malinconico limbo in cui si era
rifugiato e rinchiuso quando Justin se n’era andato. Poteva ancora
tornare a fingere di vivere e arrancare facendo a meno di lui? «Già,
ma adesso appartieni a New York.» si sforzò di dire, anche se ogni
parola gli bruciava la gola. «Il tuo posto è là, a conquistare il
mondo.» deglutì a fatica, senza avere il coraggio di guardare in
faccia il ragazzo al suo fianco e richiamò suo figlio: «Gus
andiamo, papà deve controllare un paio di cose alla Kinnetik.»
«Di già?»
borbottò il bambino.
«Sì campione, ma
ci vediamo più tardi.» gli sorrise appena e fece per alzarsi e
andarsene.
«Aspetta.» lo
fermò Justin, senza nascondere la delusione nella sua voce.
«Che...che significa?»
«Significa che tu
hai la tua vita a New York e che io ho la mia qua.»
«Lo so che hai la
tua vita qua, ma non vuol dire che...»
«Justin.» lo
interruppe, cercando di apparire freddo. «Devo andare. Ci si vede.»
Non avrebbe voluto
arrendersi così, né lasciarlo andare...ma lo sguardo freddo che gli
aveva rivolto, lo aveva semplicemente lasciato senza forze.
Se c’era una cosa
che aveva imparato negli ormai quasi ventiquattro anni della sua
vita, è che spesso non si può tornare indietro dopo aver fatto una
scelta; che le cose che ti lasci alle spalle non restano immutate ad
aspettare un tuo eventuale ritorno, ma vanno avanti, esattamente come
tutto il resto.
Non c'è niente di
dovuto, né di garantito. Di quello che lasci, resta certo solo il
ricordo...e osservando Brian allontanarsi per la mano con suo figlio,
capì che probabilmente, non avrebbe ricevuto altro da lui.
***
Note Finali:
Ok...penso di poter scappare velocemente dal lancio dei pomodori marci! XD
Forse questo Brian mi sta uscendo anche più ottuso di quanto non
sia già...ma prometto di farlo rinsavire al più presto,
anche perché, mica posso far impazzire solo i cari "Britin"...
è ovvio che io debba riservare qualche sorpresa anche per gli
altri! XD
Scommetto che ci sarà qualcuno che detesterà Brandon
anche più di prima, io invece - non chiedetemi perché -
mi sto divertendo a scrivere di lui...non ha molto senso, ma mi fa ridere l'idea di veder Brian e "riccioli d'oro" confrontarsi ancora.
XD Insomma, tanto per intendersi, per quel che mi riguarda, il caro
Brandon non si guadagna lo scettro di "essere più odioso del
telefilm"!
Diciamo che nella mia testolina, Michael e Blake si contendono il
secondo posto, mentre al primo...be', al primo non poteva esserci che
lui: Ethan Gold!
Mi sta talmente sulle balls, che non so neanche se riuscirò a scrivere di lui senza renderlo un perfetto cretino!
Quindi è probabile che forse eviterò la sua presenza...o
forse no, la utilizzerò per sfogarmi - tipo pungiball telematico
- ma una cosa è certa...se mai dovesse esserci, aspettatevi un Brian Kinney in versione Mike Tyson perché, QUI LO GIURO, se mai quel "cespuglio col violino" dovesse entrare a far parte dell'allegra combriccola di questa sesta serie, riceverà quel tanto desiderato pugno in faccia che ho agognato per tutto il telefilm!
C'ho sperato fino alla fine che, oltre che per Michael, ne riservasse
uno anche per Ethan...ma nulla, speranze vane... :( e va be'! Ci
penserò io, se mai dovesse spuntare la sua chioma ricciolosa e
unticcia.
Ma sorvolando ed evitando di divagare ancora con i miei sproloqui senza
senso, so di aver scritto un altro capitolo prettamente "Britin", ma vi
prego di avere pazienza, e presto torneranno anche gli altri personaggi
- adorati e non - con tutti i loro problemi da affrontare... XD
Spero comunque vi sia piaciuto anche questo capitolo, nonostante i pomodori che vorrete lanciarmi per il finale!
Vi comunico che il prossimo capitolo dovrebbe essere previsto per venerdì 5 Agosto [non Luglio come avevo scritto prima XD scusate, sono fusa],
dopo di che passerà qualche giorno in più per la
pubblicazione, dato che - finalmente - parto per la Grecia! :)
Ok, direi che posso passare alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha messo la storia tra le seguite, le ricordate o le preferite, ma soprattutto a:
electra23, Katie88, Katniss88, Thiliol, OferliaCuorDiGhiaccio, susyjames, mindyxx, Hel Warlock, oo00carlie00oo, FREDDY335, giacale, asterix_c, Clara_88 e EmmaAlicia79 per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO.
Un bacio e a presto.
Veronica.