6x07] – I still
love you, afterall.
[capitolo betato da Trappy]
Con qualche
“piccola” difficoltà e l’aiuto di un divertito passante, riuscì
a parcheggiare la sua adorata spider in modo più o meno decente e
scese facendo attenzione a non sbattere e sciupare il rosso acceso
della vernice.
Se solo Brian
l’avesse vista, non avrebbe esitato a prenderla in giro e ricoprirla
di quei luoghi comuni sulle donne incapaci di guidare che tanto lo
divertivano; specie quando si trattava di infierire su di lei.
Era per questo che
ogni volta parcheggiava abbastanza lontano dalla Kinnetik e
sopportava almeno cento metri di strada sui suoi tacchi vertiginosi e
rigorosamente firmati, per raggiungere il suo posto di lavoro. Non
voleva certo dare a quel sadico del suo capo un altro motivo per
punzecchiarla apertamente durante ogni loro incontro!
Sbuffò
contrariata e si affrettò a percorrere la strada illuminata dai
lampioni, ticchettando sull’asfalto con i suoi adorati e nuovissimi
decollété in vernice nera, ammirandoli attraverso il riflesso delle
vetrine, finché non raggiunse la sede della Kinnetik e aprì con le
sue chiavi, entrando in quel posto minimalista e di classe, che
rispecchiava perfettamente il suo elegante proprietario.
In quei giorni
l’azienda era chiusa per via delle vacanze, e le fece un po’ effetto
percorrere i pochi corridoi solitamente pieni di persone che
scattavano da una parte all’altra – soprattutto nell’ultimo
periodo, da quando Brian era diventato un tutt’uno con quell’aura
nera e rabbiosa che aveva iniziato a circondarlo da quando il suo
raggio di sole aveva preso il volo per New York – in quel
momento vuoti e silenziosi; immersi in una penombra che gli donava
quel non sapeva cosa di surreale.
Un po’ titubante,
per via del suo essere sempre così suggestionabile – e forse anche
per colpa dei thriller che guardava continuamente sul divano di casa
sua, munita di cucchiaio e vaschetta di gelato, come la più triste
delle single trentenni della sua città – zampettò fino alla sua
scrivania per riprendere il palmare che aveva dimenticato il giorno
prima, finché non udì l’eco di alcuni passi provenire proprio
dall’ufficio di Brian.
Scosse la testa,
convinta si trattasse di un’altra sua stupida paranoia, quando udì
distintamente il rumore di un cassetto sbattuto. Deglutì a forza e
spaventata, afferrò la lampada della scrivania, staccandone la
spina, e si preparò a contattare la polizia. Abbandonò le sue
adorate scarpe, lanciando loro un bacio e avanzò furtiva fino alla
soglia. Sollevò la lampada, pronta a colpire e fece capolino per
sbirciare oltre l’angolo, quando una voce la sorprese alle spalle:
«Che cazzo stai facendo?»
Balzò per lo
spavento e con il cuore a mille si affrettò a voltarsi e a lanciare
la lampada senza neanche guardare il suo interlocutore. Solo grazie
alla sua solita sfacciata fortuna e i riflessi pronti, Brian riuscì
a schivarla. «Oh Santo Dio!» esclamò lei, resasi conto che chi
aveva appena tentato di ammazzare, non era un ladro ma il suo capo.
«Che cazzo ci fai tu qui?!»
Brian la fissò
stranito e contrariato, prima di superarla e raggiungere la sua
costosa poltrona. «Uhm...questa è la mia agenzia, questa è la mia
scrivania e questi sono i file della Brown Athletics.» piegò le
labbra all’interno della bocca e sbatté le ciglia, per poi
concludere con sarcasmo: «Lavoro. Tu che dici?»
«Lavori?» storse
le labbra lei. «Il giorno prima del Ringraziamento, tu lavori?»
«Che ci vuoi
fare. Sono un capo diligente che vuole avere perfettamente sotto
controllo l’andamento della sua proficua azienda.» lasciò ricadere
i fogli sulla scrivania e si appoggiò allo schienale, con le mani
incrociate sulle gambe accavallate. «Tu piuttosto che cazzo ci fai
qui?»
«Ero tornata a
prendere questo.» disse e agitò il palmare che ancora teneva ben
stretto tra le mani. «L’ho dimenticato ieri.»
Brian annuì e
girò la poltrona per avvicinarsi alla scrivania. Poggiò gli
avambracci sul bordo e si apprestò a leggere i documenti, quando si
accorse che la sua assistente non aveva mosso un passo. Sollevò gli
occhi scocciato e stirò le labbra in un sorriso infastidito. «Che
cazzo c’è ancora?»
Cynthia scrollò
le spalle e sospirò con le labbra arricciate e un’espressione
pensosa. Si sedette su un lato della scrivania, ignorando le
occhiate contrariate di lui e sorrise. «Allora capo...quale
frustrante e insormontabile problema si sta arrovellando nella tua
testolina gay?»
«Credo di non
aver capito bene...» sibilò, con le sopracciglia inarcate.
«Lo fai sempre.»
«Agatha
Christie, che ne dici di farla
finita col mistero e venire al sodo?» piegò la testa di lato e la
squadrò con la sua solita espressione sprezzante. «Come vedi sarei
un tantino impegnato e vorrei dedicare il minor tempo possibile alle
tue stronzate.»
«Vedi, ho
ragione.»
«Ma cosa?!»
«Diventi
irritabile.» rispose con ovvietà, prima di correggersi. «Cioè...più
irritabile del solito, e lavori come un pazzo quando c’è
qualcosa che non va.»
«E quindi?»
domandò, allargando le braccia e gettando la penna sui fogli.
«Quindi, cosa
turba il mio adorato, brillante e meraviglioso capo?»
Brian sorrise, per
poi sbuffare con ironia. «Se stai cercando di ottenere un aumento
puoi scordartelo.»
«No, ma se vuoi
darmelo non rifiuterò.» replicò immediatamente lei. Lavorava da
così tanto tempo con lui che ormai sapeva dove andare a parare e
come tenergli testa. D’altronde, era proprio per questo suo modo
spiccio di essere che Brian si fidava di lei e l’aveva sempre voluta
al suo fianco. «Allora, vuoi dirmi o no cosa ti turba?»
«Niente,
Cynthia.» sospirò esasperato. «Adesso potresti farmi il grosso
favore di togliere il tuo culo dalla mia scrivania e andare a goderti
le tue cazzo di ferie come ogni stramaledetto dipendente di questo
posto?»
«Che razzista.
Solo perché il mio è il culo di una donna.» si finse offesa e lo
vide ridacchiare sinceramente. «Se fosse stato di un uomo non
l’avresti schifato così...o forse gli avresti chiesto di posarsi
altrove?»
Lui spinse la
lingua contro la guancia e la fissò con il suo classico sguardo
furbo e profondo, mentre sul suo viso si disegnava un’espressione
divertita. Anche se non l’avrebbe mai ammesso, Cynthia sapeva
benissimo quanto lui adorasse i loro battibecchi. Esattamente come li
amava lei. «Stai cercando di prendermi per esasperazione?»
«Di solito
funziona.» ribatté, con una scrollata di spalle.
«Buone vacanze,
Cynthia. E non strafogarti di tacchino o non ti entrerà più neanche
un tailleur.»
«‘Fanculo,
Brian.» lo apostrofò, sporgendosi per colpirlo sulla spalla.
«D’accordo. Tu non parli, allora lo farò io.» restò a fissarlo
per un attimo e si decise a pronunciare quel nome, pronta a
subirne anche le peggiori conseguenze. «È
per Justin, vero?»
«Esattamente, che
ti dice il cervello per farti credere una stronzata simile?»
«Non è il mio
cervello che me lo fa credere. È
Ted che mi ha detto che è tornato a Pittsburgh.»
Brian assottigliò
lo sguardo in un modo decisamente poco amichevole. «Io lo licenzio.»
«Lo dici sempre
ma non lo fai mai.»
«Bene, questa
volta lo faccio sul serio e licenzio anche te se non evapori
immediatamente fuori di qui.»
«Abbaia quanto
vuoi, capo. Non riusciresti mai a fare a meno di me e Ted.»
«Questo lo
vedremo.» ammiccò lui, e tentò invano di tornare al suo lavoro.
«Allora, vi siete
già incontrati?»
«Chi?» chiese
con voce esasperata, sollevando gli occhi al soffitto.
«Come chi? Tu e
Justin!» esclamò lei, corrugando la fronte, prima di cambiare la
sua espressione in una fin troppo entusiasta. «Immagino già la
maratona di scopate selvagge in cui vi sarete cimentati. Dio, quanto
invidio la vostra attività sessuale.»
«Trovati un bravo
uomo, sposati, metti al mondo un paio di pargoli e sfogati con loro
invece di fracassare i coglioni a me.»
«Il coglione.»
rettificò lei e lui le lanciò un’occhiataccia.
«Grazie per
avermelo ricordato.» commentò con velenoso sarcasmo.
«Prego. In fondo
è il mio lavoro: colmare le tue dimenticanze.»
Lui sbuffò
ancora, per poi lasciarsi ricadere nuovamente contro lo schienale con
un sospiro stanco e prolungato. «Non te ne andrai vero?»
«No.»
Brian si leccò le
labbra e scosse la testa, prima di sibilare telegrafico: «‘Sì, l’ho visto’ e ‘No,
non abbiamo fatto una maratona di scopate selvagge’.
Sei contenta adesso?»
«A dire il vero
no.» s’imbronciò Cynthia. «Ho scommesso cinquanta dollari con Ted
che appena vi foste rivisti avreste svegliato tutto il vicinato.»
«Bene. Dammi un
buon motivo per cui non dovrei davvero licenziarvi adesso?»
«Sempre lo
stesso. Perché non potresti stare senza di noi.» incrociò le
braccia soddisfatta e riprese: «Quindi niente sesso?»
«No, niente
sesso.» sbottò scocciato. «La vuoi piantare di trasformare la
mia vita in uno dei tuoi penosi e stupidi romanzetti rosa Harmony?»
«Io non leggo
quella roba!» esclamò, e lui sollevò le sopracciglia, lanciandole
un’occhiata eloquente. «Ok, a volte. Ma solo perché me li porta mia
madre.»
«Certo, certo.»
ridacchiò l’uomo e si passò il pollice sulla fronte. «Allora ciao
Cynthia. È stato un
piacere intrattenere questa frizzante conversazione con te...ora ti
puoi gentilmente togliere dalle palle?»
«Va’ da Justin e
scopatelo come si deve.» rispose invece contro le sue aspettative,
lasciandolo di stucco. «Che c’è? Che ho detto di strano? Tu usi
sempre certi termini.»
«È
quasi ora di cena.» mormorò lui, dopo qualche attimo di silenzio.
Riordinò i fogli e li gettò in uno dei cassetti. S’infilò il
cappotto e sospirò guardando il soffitto, leccandosi le labbra con
la punta della lingua. Spostò gli occhi scuri su Cynthia e le disse,
con fare arrendevole. «Andiamo a bere qualcosa?»
«Birra, hamburger
e patatine fritte che scoppiano di grassi con tanto di salsa, che
impiegherò mesi a smaltire e che manderanno a puttane la mia
dieta...» elencò fingendosi di pensarci su, prima di sorridergli
raggiante. «Certo che sì, capo!»
“My life changed” – William Fitzsimmons
«Quindi, fammi
capire...» esordì Cynthia, mangiucchiando l’ultima patatina
ricoperta di ketchup. «Ricapitolando, Justin è ripiombato a
Pittsburgh con quel suo amico.»
«‘Checca’.»
la corresse Brian, appoggiato al tavolo in legno, guardandosi
distrattamente intorno e sorseggiando la sua birra. «È
questo che ho detto, non ‘amico’.»
«Sì, ok. Quello
che è.» soffiò scocciata lei. Era passata almeno un’ora da quando
erano entrati in quel bar, e il suo capo con tutte le sue risposte
ambigue, quelle lasciate a metà o terminate con un’espressione
indecifrabile, le aveva creato una confusione in testa degna del
peggiore enigma. «E non m’interrompere, altrimenti perdo il filo.»
Brian sollevò le sopracciglia e le mani, come per arrendersi e serrò
le labbra, così che lei potesse continuare con i suoi sproloqui.
«Allora, Justin è tornato con questa checca a Pittsburgh e
ti ha detto che forse resterà qui per almeno un mese.
Giusto?» lui annuì, con il pollice premuto sulle labbra e lei prese
una sorsata di birra, dopo essersi pulita le mani. «Quindi, dove sta
il problema? Scopate e amatevi allegramente per un mese e se mai
dovrà tornare a New York, deciditi a usare una buona volta quei
cazzo di biglietti aerei che mi fai prenotare e che puntualmente
getti nel cestino!»
«Non è
questo...» soffiò stanco lui, prima di essere interrotto.
«Che c’è? Il
meraviglioso Brian Kinney teme la concorrenza?»
«Quale
concorrenza?» domandò in un guizzo di spavalderia, con le
sopracciglia inarcate.
«La checca. Il
suo amico.»
«No. Quello al
massimo potrebbe andar bene per Emmett, non è certo il tipo di
Justin.»
«E il tipo di
Justin sarebbe?» rise lei. «Bellissimo e con charme, anche se più
grande di lui. Brillante, sagace e con un’azienda avviata
splendidamente?»
«Suppongo di sì.»
«Supponi?
Supponi?» esclamò incredula. «Brian Kinney non suppone un
cazzo di niente. Brian Kinney è solo e soltanto certezze.»
bevve la birra con gli occhi sgranati e si passò una mano tra i
capelli biondi. «Se inizi ad avere i dubbi esistenziali anche tu,
posso anche tornare a casa e tagliarmi le vene.»
Brian si lasciò
sfuggire una risata a prese a giocherellare con la bottiglia. «Che
modo triste e poco elegante per andarsene. Tutto quel sangue da
smacchiare.»
«E sentiamo, tu
che sceglieresti?»
Sollevò uno degli
angoli della bocca e ripensò al quel suo stupido “gesto estremo”
per i suoi tanto temuti trent’anni. In quel momento ne aveva trentacinque e pensò che se davvero Michael non l’avesse fermato,
avrebbe perso davvero troppe cose della sua vita. Troppi attimi e
ricordi che custodiva gelosamente nel profondo del suo cuore, anche
se alcuni spesso sapevano ferirlo profondamente. In fondo non era poi
così male la vita anche dopo il “tre-zero”. «Strafatto di
alcool e droga mentre mi faccio una sega, m’impiccherei nel mio
lussuosissimo loft, con una sciarpa candida di purissima seta
firmata. Armani s’intende.»
«Che classe,
capo.»
«Be’, se le cose
devi farle...falle con classe o non farle affatto.» ammiccò e bevve
ancora.
«E allora, sempre
con classe ovviamente, va’ da Justin.» replicò lei, con un
tono deciso, quasi lo stesse sgridando. «Potrebbe girare il mondo,
ma non troverà mai nessuno che sa dargli quello che puoi tu, perché
nessuno sarà mai come te e nessuno potrà mai condividere con lui
quello che avete condiviso voi due.»
«Una tragedia
dietro l’altra?» ribatté, strusciando svogliatamente la bocca della
bottiglia contro la fronte.
«Non fare il
melodrammatico. Non ti si addice e poi ti vengono le rughe.»
«L’hanno quasi
ammazzato spaccandogli la testa, ha dovuto occuparsi di me per mesi,
mentre non facevo altro che vomitare per la radioterapia e gli è
esplosa una bomba quasi addosso.» chiuse gli occhi e tentò di
respingere il ricordo delle mani di Justin mentre lo accarezzava e si
prendeva cura di lui. «Suo padre è un fottuto omofobo che l’ha
cacciato via da casa, il mio era un povero stronzo ubriaco che ha
passato gli ultimi anni della sua vita a spillarmi soldi, e quando
gli ho detto che sono frocio mi ha detto che avrei dovuto esserci io
al suo posto.» sorrise con amarezza e sollevò appena la bottiglia,
come se volesse brindare ironicamente alla sua memoria. «Figlio di
puttana, ce l’ha quasi fatta a farmi crepare come lui.» scosse la
testa e distese le labbra in un sorriso più sincero, dato dalla
soddisfazione di essere ancora vivo e vegeto, nonostante gli infelici
auguri di morte dategli da entrambi i suoi genitori dopo aver saputo
la verità. «Non sono certo rose e fiori. Bello schifo che abbiamo
da condividere.»
«Ma lui ama te e
tu ami lui.» insisté lei e gli sventolò la bottiglia davanti agli
occhi. «E non provare a dire il contrario o ti caccio questa su per
il culo.»
«Che finezza,
principessa.»
«Da quando sei
diventato un finocchio educato e schizzinoso?»
«Da quando le
lesbiche mi riempono di legnate ogni volta che accenno solo a mezza
parolaccia.» fece una smorfia di disappunto e terminò la sua birra.
«Non capisco perché poi. Tanto prima o poi mio figlio sarà anche
più sboccato di me.»
«Gus è a
Pittsburgh?»
«Sì, resterà
qui per il Ringraziamento.»
«Sembra che le
cose stiano prendendo la piega giusta, paparino innamorato.»
Brian roteò gli
occhi scocciato e le rubò la bottiglia dalle mani, per terminarla
con una sorsata. «Non stanno prendendo nessuna cazzo di piega. Tra
un mese al massimo tornerà tutto come prima.»
«Cazzo, Brian. Il
tuo pessimismo uccide.»
«Sono realista.»
rettificò, con lo sguardo assottigliato.
«Chiedigli di
restare.»
«A chi?» chiese
interdetto. «A mio figlio?»
«A Justin.»
«E togliergli la
possibilità di raggiungere la vetta e restarci ‘nei secoli dei
secoli, amen’?»
«Come se gli
importasse.» commentò lei con una scrollata di spalle.
«E tu che ne
sai?»
«Lo sanno tutti
Brian. Tutti meno che te hanno capito che lui non aspetta
altro che tu gli dica di tornare.»
«Fammi
indovinare.» mormorò, prendendosi il mento tra le dita. «Justin ha
parlato con Theodore...e il buon vecchio Theodore ha pensato di far
sapere a tutta l’azienda i cazzi del proprio capo.»
«D’accordo, lo
ammetto. Ted mi ha dato un aiutino...ma ci sarei arrivata anche da
sola!»
«Certo. Neanche
un paio d’ore che sono con te e ho già trovato almeno tre buoni
motivi per licenziarlo. Dovrei dirlo al resto dei dipendenti che sei
una cattiva influenza.»
«Non è vero.»
esclamò, ed entrambi indossarono i loro cappotti senza doversi dire
niente. Dopo tutti quegli anni sapevano bene quando uno dei loro
scontri era ormai giunto al termine. Erano in perfetto equilibrio.
«Allora, principe azzurro...sei pronto per andare a
riprenderti la tua principessa?»
«E tu sei pronta
per andare a recuperare la tua macchina a miglia e miglia dalla
Kinnetik perché non la sai parcheggiare, per poi strafogarti di
gelato davanti alla tv come una zitella patetica?» ridacchiò
alzandosi per pagare, con un’espressione visibilmente soddisfatta per
averla lasciata a bocca aperta e il cuore un po’ più leggero dopo
quella chiacchierata.
«E questo chi
cazzo te l’ha detto?»
«Indovina un
po’...» le sorrise, sollevando una delle sopracciglia.
«Credo che invece
andrò a preparare la lettera di licenziamento per Ted!»
*'*'*
Con lo stomaco
chiuso, ed uno strano peso a incombere sulle sue spalle, Justin, dopo
aver vagato per ore per la città, senza una vera meta e perso tra i
suoi pensieri e gli innumerevoli rimpianti, rientrò nell'albergo.
Si fece consegnare
la sua copia delle chiavi e salì fino alla sua stanza, pregando –
pur sapendo che fosse pressoché inutile – di essere solo per farsi
una doccia in pace e deprimersi sul letto.
Era quello di cui
aveva bisogno. Un po’ come quando aveva ancora diciannove anni e
passava il tempo a rimuginare e oziare nella stanza di Daphne con i
suoi sogni erotici in cui lui e Brian scopavano a mezz’aria.
Neanche a dirlo
però, le sue preghiere non vennero ascoltate.
Ad attenderlo,
disteso sul suo letto in accappatoio mentre sgranocchiava patatine,
c’era Jace, intento a seguire una di quelle sue penose soap opera.
Lo vide spostare
le sue iridi nocciola nella sua direzione e quel suo sguardo caldo si
addolcì immediatamente nel constatare le condizioni pietose in cui
versava. «Qualcosa mi dice che non è andata esattamente come
speravi...»
Justin sollevò le
sopracciglia, come per comunicare un “ma dai”, e si tolse la
sciarpa e il cappotto, per poi lasciarsi ricadere a peso morto sul
letto. Affondò la testa nel cuscino e aspettò che l’altro facesse
la sua mossa.
Sapeva che nel
giro di qualche secondo se lo sarebbe ritrovato nel letto e avrebbe
iniziato a punzecchiarlo con insistenza; e come da previsione,
percepì il materasso abbassarsi sotto il peso dell’altro. «Allora?
Che ti ha detto il bobo nero?»
«Mi ha
velatamente invitato a togliermi dalle palle e riportare il mio culo
a New York.»
«Pensavo che il
tuo culo gli piacesse...»
Attraverso i
ciuffi biondi, gli occhi blu chiaro di Justin guizzarono a fulminare
l’amico. «Va’ a farti fottere.»
«Sì, penso che
questa sera lo farò quel giretto in Dark Room.» pronunciò
distrattamente, come se stesse leggendo la lista della spesa. «Tanto
non dovrò controllare che tu non ti accasci sulle scale in preda
agli effetti dell’alcool.»
«E perché mai?»
mormorò l’altro, con la bocca premuta contro il cuscino.
«Semplice, perché
tu non verrai al Babylon.»
«Mi stai
esortando a deprimermi e tentare il suicidio nella mia stanza
d’albergo?» gli domandò stranito. «So che sarebbe lo stereotipo di
morte di un giovane artista, ma mi aspettavo che almeno avresti
tentato di fermarmi.»
«E chi ha parlato
di suicidio o di restare nella tua stanza d’albergo?»
«E che dovrei
fare allora? Andare a svendere il culo?»
«Non ne vedo il
motivo...i soldi mica ti mancano, e che io sappia non hai qualche
strana dipendenza tipo le slot machines o le corse ai cavalli, quindi
non credo finirai presto in rovina.» continuò a farfugliare Jace,
con la sua parlantina a mitraglietta, esasperando Justin.
«Quindi...non
posso venire al Babylon, non mi posso suicidare e non posso neanche
farmi scopare. Che mi resta da fare allora?»
«Non puoi farti
scopare da degli sconosciuti, ma puoi farlo con il tuo grande amore.»
Justin si alzò di
scatto, puntando gli avambracci sul materasso. «Dico, ma mi ascolti
quando parlo? Ti ho appena detto che mi ha gentilmente invitato
a tornare a New York!»
Jace gli riservò
un’occhiata scettica. «Dimmi un po’...da quando vi conoscete, c’è
mai stata una sola volta in cui hai dato ascolto a quello che
ti diceva di fare?»
«A parte quando
mi diceva ‘girati’,
o ‘andiamo a fare la
doccia’ o ‘scopiamo’?»
l’altro annuì esasperato e l’artista perse qualche secondo a
riflettere. «Allora no.» rispose infine e vide nascere un sorriso
furbo sulle labbra di Jace.
«Giust’appunto. E
allora per quale cazzo di motivo dovresti dargli ascolto ora?»
sollevò un sopracciglio con ovvietà e non permise a Justin di
ribattere. «Quindi, tu vai a farti una doccia veloce, ti vesti e
piombi a casa sua. Dovrà ascoltarti per forza. Digli tutto quello
che ti tieni dentro da più di un anno e, se neanche allora cambierà
idea, almeno non avrai più il rimpianto di non averci provato fino
alla fine.»
«Jace, tu non
capisci...»
«No, caro il mio
artista da strapazzo!» lo interruppe nuovamente. «Tu non
capisci che se non fai come ti dico, ti caccio il pomello del letto
su per il culo e senza lubrificante.»
Justin si lasciò
andare a una risata. «Chi ti dice che non mi piacerebbe?»
«Mi auguro per
quel dio che si è preso la tua verginità che non sia così,
altrimenti sai che fatica soddisfarti!»
«Credi davvero
sia la cosa giusta?» chiese titubante, anche se poteva sentire
chiaramente le urla del suo cuore che lo spingevano a correre da
Brian.
«Tesoro, cos’hai
da perdere?» gli scompigliò i capelli biondissimi e fece una
smorfia. «Mi pare poi che la dignità tu l’abbia persa già da tempo
con i tuoi imbarazzanti colpi di testa da adolescente frustrato!»
«Grazie
Jace...come incoraggi tu, non incoraggia nessuno.» borbottò con
acido sarcasmo.
«Lo so, e ora
fila a farti la doccia!» gli ordinò, trascinandolo giù dal letto e
spingendolo dentro il bagno.
“After afterall” – William Fitzsimmons
Neanche un’ora più
tardi, Justin se ne stava impalato davanti al portone del numero sei
di Fuller Street, dopo che Jace senza tante cerimonie, si era
appropriato della sua adorata jeep e l’aveva scaricato lì.
Sbuffò scocciato,
chiedendosi se fosse davvero la cosa giusta da fare, finché un altro
degli inquilini del palazzo uscì lasciandogli la porta aperta senza
che lui avesse chiesto niente.
Quell’idiota
di Jace direbbe che un segno.
Inspirò a fondo e
sgattaiolò dentro prima che si richiudesse, ritrovandosi a respirare
il familiare profumo che fin dalla prima volta aveva sentito
aleggiare in quel posto.
Il suo cuore prese
a pulsare con più foga mentre, senza neanche rendersene conto,
l’indice corse a premere il pulsante per richiamare il montacarichi.
Con la gola secca e deglutendo a vuoto salì e lo indirizzò con
qualche esitazione al piano del loft di Brian, continuando a darsi
dello stupido, visto e considerato che non sapeva neanche se
l’inquilino era in casa.
Quando il
montacarichi raggiunse la destinazione con il classico rumore, pensò
che il cuore potesse esplodergli da un momento all’altro, e lo mise
ancora più a dura prova nel portare la sua mano a bussare alla porta
scorrevole.
Quante volte aveva
fatto quel gesto? Quante volte ne erano susseguite scene piacevoli e
felici, e quante orrende da strappargli il cuore e schiacciarlo senza
pietà...
Quante volte aveva
fatto scorrere quella porta con l’idea di rientrare in quella che
sentiva davvero come casa propria, e quante ancora l’aveva lasciata
con le lacrime agli occhi e un orribile nodo alla gola.
In quel momento
sentiva ognuna di quelle sensazioni amplificata dismisura dalla
prolungata assenza a cui era stato costretto; e le cose peggiorarono
decisamente, quando nel silenzio riuscì a percepire dei passi
avvicinarsi dall’altra parte ed il rumore secco dell’ingranaggio che
iniziò a muoversi.
«Justin...»
sentì sussurrare, ma non vide immediatamente la faccia sorpresa di
Brian; perché semplicemente non aveva il coraggio di sollevare lo
sguardo da terra. «Che ci
fai...» lo sentì pronunciare, e fu allora che alzò di scatto la testa
e lo interruppe prima che distruggesse ogni sua intenzione con una
manciata di parole gettate lì.
«Ti sbagli.» gli
urlò quasi in faccia, a pugni stretti.
L’espressione
dell’altro mutò da sorpresa a confusa. «Eh?»
«Guardami Brian,
io non sono a New York.» si sentì sciocco a pronunciare quelle
parole, ma d’altronde non poteva far altro che lasciarle uscire,
prima che lo facessero impazzire. Aveva bisogno di urlare che era
tornato solo e soltanto per lui. «Sono qui, dannazione! Sono tornato
perché è qui che devo stare.» aggrottò la fronte e lasciò
fuoriuscire i suoi pensieri come un fiume in piena. «È
qui che voglio stare ed è qui che tornerò sempre, dopo
tutto. Il mio posto non è a New York, e non appartengo a loro. Per
quanto tu ti ostini a dire il contrario, io appartengo a te.»
calcò la voce su quel “te”, trattenendosi a stento dal gridarlo
come un pazzo e riprese: «Non m’importa quante volte l’hai negato o
lo negherai, o se mi dici che io sono solo di me stesso, perché la
realtà dei fatti è un’altra.»
«Justin,
ascoltami...» mormorò Brian, ancora aggrappato con una mano alla
porta e con l’altra al muro. Nonostante il suo tentativo di aprir
bocca però, non sembrava voler combattere davvero per far valere le
sue ragioni. Non aveva il familiare sguardo pungente e deciso; al
contrario, sembrava piuttosto stanco.
«No. Non
ascolterò le tue patetiche scuse.» replicò Justin deciso. «Non
farò finta che vada tutto bene. Che mi vada bene di starmene in quella
cazzo di città circondato da cose di cui non m’interessa niente!»
si soffermò a fissarlo negli occhi con decisione e per un attimo
credette di poter affogare in quel verde scuro e tremendamente
profondo. «L’unica cosa che m’importa sapere è se tu mi vuoi ancora
almeno un briciolo di quanto ti voglio io.» soffiò infine con un
fil di voce, come se con una sola delle sue occhiate, Brian fosse
riuscito ad annullare tutta la foga con cui si era fomentato. «Voglio
solo sapere se...posso ancora essere tuo.»
Non poteva esserne
certo, ma per un solo misero attimo, ebbe la sensazione di veder
accendersi un po’ di sorpresa mista a sollievo in quegli occhi verdi,
e pregò come mai nella sua vita di non essersi sbagliato.
A confermare i
suoi pensieri, e ad alleggerirgli almeno un po’ il cuore, ci pensò
il sospirò con cui Brian si riempì i polmoni, il modo in cui
sollevò lo sguardo al soffitto e il sorriso che non riuscì a
nascondere piegando le labbra all’interno della bocca. Lo vide
premere la punta della lingua a gonfiare la guancia e rivolgergli una
delle sue occhiate ambigue, come ogni volta che non voleva dargliela
subito vinta dopo una delle sue classiche sparate, lasciandolo un po’ cuocere nel suo brodo, prima di pronunciare con finto disinteresse e
una sola parola, ciò che sperava di sentirsi dire: «Entra.»
*'*'*
Accompagnato ormai
dal suono di quella porta che in poco tempo era ormai diventato
familiare anche per lui, Jace entrò nel Liberty Diner, con un
sorrisetto divertito che non riusciva a cancellarsi dalle labbra per
via della caustica espressione che Justin gli aveva rivolto quando
l’aveva
letteralmente abbandonato per strada, dopo averlo spinto giù quasi a
calci.
Quello che ormai
era il suo diventato il suo più caro amico, aveva fegato e
spavalderia da vendere in qualsiasi cosa facesse, e spesso si era
trovato a tapparsi gli occhi e le orecchie dopo una delle sue sparate
davanti a qualche pezzo grosso di New York, senza l’ombra
di un’indecisione
nel difendere le sue convinzioni, eppure, nel momento in cui si era
ritrovato a fare i conti con i propri sentimenti, il terrore aveva
preso il sopravvento.
Nell’anno
di vita che avevano condiviso, a Jace non era mai stato permesso di
pronunciare il nome di Brian...pena la morte; ma in un modo o
nell’altro
quell’ingombrante
presenza che incombeva su Justin era stata nominata quasi ogni giorno
dietro qualche stupido soprannome.
Brian era per il
piccolo artista un enorme
fantasma del passato, un cardine fondamentale del suo presente e il
sogno più agognato per il futuro. Brian per Justin era tutto...e
Jace voleva così bene a quel ragazzino troppo bello, troppo
artisticamente dotato, troppo biondo...insomma “troppo tutto”,
che si era ripromesso di bacchettarlo fino alla fine, per spronarlo a
non arrendersi mai, neanche davanti alla peggiore delle difficoltà, e
volare a raggiungere il proprio obbiettivo come aveva sempre fatto con
tutto il resto.
Ai suoi occhi,
Justin era quel fratellino impertinente e coraggioso che gli mancava
da morire e che aveva perso tanti anni prima, in un tempo così
lontano che a malapena lo ricordava.
Suo fratello aveva
la stessa età di Justin, ma non era un artista, non era biondo né
aveva gli occhi azzurri. Non era gay – o almeno non che lui sapesse
– e non possedeva quella brillante luminosità, eppure era comunque
speciale, per il modo in cui si rapportavano, per come lo faceva
sentire, per la loro complicità e l’intesa
perfetta. Esattamente come quella che intercorreva tra lui e Justin.
Per quel fratello
avrebbe fatto di tutto e di più, e aveva sopportato per anni le botte
di suo padre e il disprezzo della sua famiglia dovuto alla disapprovazione per i suoi gusti
sessuali; e avrebbe continuato a farlo per sempre, se solo un brutto
incidente non glielo avesse strappato via.
Da quel giorno,
Jace non aveva più avuto un solo misero motivo per restare in quel
posto che avrebbe dovuto chiamare “casa”, ma che nella sua testa
era registrato sotto il nome di “inferno”.
Se n’era
andato senza mai voltarsi, quasi senza avvertire nessuno; e con
nessuno aveva mantenuto un rapporto, ricominciando da capo con la sua
vita a New York e una bella maschera sorridente a coprire la
sofferenza che in realtà si portava dentro.
Era andato avanti
grazie alla sua forza d’animo,
ottenendo successi su successi, ma senza mai riuscire a togliersi
quel peso dallo stomaco, finché una testa inverosimilmente bionda,
con un sorriso così abbagliante quasi da ferire gli occhi, si era
intromessa nel suo cammino, e tra i fogli che volavano a
sparpagliarsi aveva incontrato due iridi blu e un vero amico;
un’ancora
di salvezza che aveva a sua volta bisogno di qualcosa a cui
sorreggersi per non affondare.
Inspiegabilmente,
in quel ragazzo che non assomigliava neanche un po’
al suo fratellino, Jace aveva trovato il modo di redimersi e
riversare quell’affetto
fraterno che aveva lasciato accumulare, ormai stantio, che non poteva
più liberare e che lentamente lo stava soffocando.
Justin lo aveva
salvato dal mostro formato dai suoi rimorsi, ed era l’unico
a conoscenza della sua storia. In una delle loro tante serate di
confessioni alcoliche, era uscito fuori il nome di suo fratello, che
non osava più pronunciare da troppo tempo, e dopo che la sua lingua
aveva sentito il sapore amaro di ognuna di quelle lettere, non
piangere quelle lacrime che si era tenuto dentro per anni, era stato
impossibile.
Aveva finalmente
rimosso quel blocco opprimente ed era nuovamente rinato.
Suo fratello gli
sarebbe mancato per sempre, di questo era ben conscio...ma, da quando
Justin era piombato nella sua vita, aveva ricominciato a vivere e
respirare anche lui; a ridere e scherzare sinceramente ma,
soprattutto, aveva finalmente qualcuno a cui poter donare quell’amore
e con cui condividere una speciale complicità.
«Ehi, ciao!»
sentì esclamare da una voce femminile e squillante, vagamente
familiare, che lo riscosse dai suoi pensieri. «Jace, giusto?»
Gli occhi nocciola
si spostarono a incontrare la sfavillante figura di Debbie, e un
ennesimo sorriso gli increspò le labbra. A Pittsburgh girava gente
davvero strana, ma non gli era poi così difficile capire perché al
suo caro artista mancassero così tanto. Erano tutte persone così
diverse e speciali a loro modo, da riempirti la vita e lasciarti un
buco enorme dentro se non le avevi accanto. «Sì.»
«Vieni a sederti.
Cosa ti porto?»
«Mi basta un
caffè, grazie.» rispose, accomodandosi sullo sgabello.
«Che ci fai da
queste parti?» gli chiese, versando il liquido nero. «E dove l’hai
lasciato il mio topino? Sta bene, vero?»
«Spero di sì.»
ridacchiò Jace nel sentire l’altro
buffo soprannome di Justin. «Al momento suppongo sia ancora
impegnato a riprendersi la sua vita...e farà bene a riuscirci!»
«È
ancora con Brian?»
Lui annuì,
portandosi la tazza alle labbra. «Già. L’incontro
di oggi non era finito nel migliore dei modi, ma lo saprai anche
meglio di me, Justin non è uno che si scoraggia molto presto.»
«No, direi
proprio di no.» replicò convinta e agguerrita con i pugni puntati
sui fianchi. «Quel coglione l’ha
trattato male?»
«No, no.» si
affrettò a rispondere. Non conosceva affatto quella donna, ma era
pronto a giurare che sarebbe partita in quarta alla ricerca di Brian
per bastonarlo, se solo avesse saputo che aveva ferito il suo
figlioccio biondo. «Solo gli ha detto che il suo posto è a New York
adesso.»
«Ha solo una
fottuta paura.» sospirò lei, con uno sguardo improvvisamente
addolcito. «Brian non è il tipo da dare possibilità all’amore
e ai sentimentalismi. Prima di Justin non sapeva neanche cosa volesse
dire e...l’unica volta
che l’ha concessa,
be’...sai anche tu
come è andata a finire.»
«Non deve essere
proprio una passeggiata per quei due.»
«Oh credimi, in
cinque anni che li ho visti insieme hanno attirato catastrofi come
due cazzo di calamite.» scosse la testa e si protese sul bancone,
sventolando il suo indice con l’unghia
laccata di rosso sotto il naso. «Ma hanno sempre avuto le palle più
grosse di tutto lo schifo che gli è stato gettato addosso e hanno
sempre trovato il modo di mandare a ‘fanculo
tutti.» sorrise e masticò con energia il chewin-gum «Superare
questo è niente rispetto a tutto il resto.»
«Già, ma le
ferite restano. A volte le persone si stancano di dover sempre
combattere.»
«Non il mio
topino. Lui non si arrende mai.» borbottò quasi offesa, con
la fronte aggrottata. «E neanche quell’altro
stronzo. Brian ha la faccia come il culo...figuriamoci se c’è
qualcosa che può stenderlo. Neanche il cancro l’ha
voluto.» rise ancora e sollevò le spalle. «Comunque, l’unica
cosa che possiamo fare è aspettare.»
«E allora
aspettiamo.» gli sorrise lui e terminò il suo caffè.
«Di te invece che
mi racconti? Problemi di cuore?»
«Eh?» chiese
stupito, con le sopracciglia sollevate quasi a raggiungere
l’attaccatura dei
capelli. «No, no. Che mi prenda un’accidente
se mai mi farò incastrare!»
«Che cazzo sei,
una versione di Brian Kinney newyorkese?»
«A me piace
donare ‘amore’
in giro, non limitarmi a una sola persona.» ammiccò, sistemandosi
il foulard intorno al collo. «Sono un tipo generoso!»
«Questa è la
scusa più idiota che le mie povere vecchie orecchie abbiano mai
sentito.» replicò lei. «E ti assicuro che ne ho sentite tante.»
«Certo che devi
vederne di stranezze qui dentro.»
«Uh, non immagini
quante! Voi gay siete un melodramma continuo!»
«Senza neanche un
dramma personale, che razza di frocio sei?»
Debbie sollevò le
sopracciglia come per voler confermare le sue parole. «Comunque
straniero, dove hai intenzione di ‘donare
amore’, e non dico
‘buco di culo’
perché sono una cazzo di signora, questa sera?»
Jace la fissò per
un attimo sconcertato e scoppiò a ridere. «Suppongo di ‘donare
amore’, e non dico
‘buco di culo’
perché sono una cazzo di signorina anch’io, al Babylon.
Justin mi ha detto che c’è
sempre da divertirsi.»
«Mi piaci
ragazzo.» sorrise affabile. «Spero tu sia ben conscio che se
t’infili nella nostra
strana famiglia poi puoi dire addio a privacy e libertà. Sarai
costretto a partecipare a tutte le nostre cazzo di cene familiari e
guai a te se ti lamenterai se sarai soffocato d’affetto.»
«Sarebbe
un’esperienza da
provare.» rise lui pagando e alzandosi per uscire. «Non ho una
famiglia da tanto tempo, e forse non l’ho
proprio mai avuta. Credo di poterlo sopportare.»
*'*'*
“The
blower's daughter” – Damien Rice
Quel posto non era
cambiato.
Nel loft il tempo
sembrava essersi fermato a quella mattina trascorsa da più di un
anno e mezzo, quando con un macigno sullo stomaco, era strisciato
fuori dalle lenzuola e dal calore del corpo di Brian, e si era
vestito e trascinato oltre la porta, senza avere il coraggio di
guardare nient’altro
che non fosse il pavimento di parquet perfettamente lucido.
Respirò a fondo e
sorrise, quando i suoi occhi si posarono su ogni angolo di quel
lussuoso appartamento, riportando alla mente frammenti dei momenti
trascorsi lì.
Avanzò lentamente
verso il letto, nel silenzio più totale, quasi temesse di rovinare
quell’attimo così
perfetto e magico, e si soffermò a osservare quella macchia blu
notte, spesso presente nei suoi quadri, che nella sua testa si raffigurava come la
massima espressione d’amore:
il blu scuro delle lenzuola in cui lui e Brian si erano aggrovigliati
e fusi a formare una cosa sola, innumerevoli volte.
L’accarezzò
con lo sguardo e proseguì fino al comodino; dove sapeva esserci il
suo cassetto: il terzo; e concluse la corsa delle sue iridi
cerulee all’armadio;
al lato sinistro, quello che Brian aveva abitualmente riservato per
lui.
«Non è cambiato
niente qui.» esordì, più verso se stesso, per convincersi di
quello che i suoi occhi vedevano, che rivolto a Brian.
L’uomo
allargò le braccia e sollevò le spalle, per poi riprendere a
giocherellare con il pacchetto di sigarette che stringeva tra le
mani. «Perché avrebbe dovuto essere diverso?»
«Non lo so.»
rispose titubante. «È passato parecchio tempo dall’ultima
volta che sono stato qui.»
«Lo so.» sorrise
appena. E chi meglio di lui poteva saperlo? Lui che aveva scandito
ogni singolo, stramaledetto, istante da quando Justin se n’era
andato. Contando ogni secondo e inghiottendoli come bocconi amari e
spinosi. Chi meglio di lui poteva sapere cosa significava ritrovarsi
a respirare lentamente, per cercare di conservare il più possibile
l’odore della persona
che amava intatto tra quelle quattro mura; e guardare a un calendario
come alla somma dei giorni che si erano accumulati dalla sua
partenza.
«È bello.»
mormorò poi Justin, rivolgendogli un sorriso.
«Cosa?» domandò
stranito.
«Che sia rimasto
tutto uguale anche qui.» ridacchiò appena e scese gli scalini per
avvicinarsi a Brian. «Ero terrorizzato dal fatto che, tornando a
Pittsburgh, niente sarebbe stato come l’avevo
lasciato. Invece è tutto com’era.»
«Lo sai che nella
gloriosa Pittsburgh non succede mai niente.»
«Credo proprio di
essere davvero felice, per la prima volta, che questo posto sia così.
È rassicurante.»
«È patetico. È
noioso e ridicolo.»
«È un po’
romantico.»
Brian scoppiò a
ridere e scosse la testa, picchiettando con il pacchetto rosso e
bianco sul bancone della cucina. Restarono in silenzio per un tempo
incalcolabile, finché le iridi verde scuro di Brian si sollevarono
appena a scrutarlo sottecchi, quasi temesse che da un momento
all’altro non
l’avrebbe più visto e
capisse che era stato solo un altro dei suoi patetici e tristi sogni.
A dispetto delle
sue paure, invece, lo trovò più vicino e spaventato.
Justin aveva lo
stesso sguardo incerto e quel falso sorriso tirato della prima volta
in cui era stato lì. Era cresciuto, era più bello, ma mai come in
quel momento gli parve di rincontrare quel ragazzino inesperto che si
affacciava per la prima volta al mondo a cui appartenevano entrambi.
Aveva le spalle
irrigidite e le braccia altrettanto intirizzite e abbandonate lungo
il corpo. Lo guardava come un cucciolo abbandonato in cerca di una
mano che lo guidasse, e non si accorgeva di quanto in quel momento,
dietro la sua solita facciata impenetrabile e il sorrisetto
sprezzante, si nascondesse la stessa paura.
La paura di
sbagliare, di lasciarsi andare e illudersi. La paura di vederlo
tornare, di sperare ancora, per poi essere abbandonato di nuovo,
pur sapendo di non potergliene mai fare una colpa, perché proprio lui
era stato il primo a ferirsi e a spingerlo fuori da quel loft per
mandarlo a conquistare il mondo con la sua arte e i suoi sogni, e
farsi un nome. Proprio lui l’aveva
incoraggiato – per non dire quasi costretto – ad abbandonarlo,
per esser sicuro che riuscisse a ottenere tutto ciò che potesse,
anche solo velatamente, desiderare.
E se quello non
era amore; se ancora c’era
qualcuno che osasse dire che Brian Kinney non sapeva amare, o se
qualche stupido omofobo potesse ancora ritenerlo abominevole; allora
che gli spiegassero cos’era
davvero quel sentimento che tutti tanto decantavano, perché, e forse
peccava di presunzione, lui era certo di non aver mai visto o provato
niente di più grande in tutta la sua vita.
Justin era una
specie di catalizzatore sentimentale: al suo fianco ogni cosa
sembrava concentrarsi e quintuplicarsi. Amore, rabbia, tristezza,
gelosia e sì, anche odio. Quando si trattava di Justin, Brian si
sentiva esplodere.
Lui che aveva
sempre definito i sentimenti come una cosa stupida, ridicola e
patetica, adatta solo agli etero o alle lesbiche, ma assolutamente
fuori dalla portata dei gay; lui che si era sempre vantato di quel
suo essere egoista e superficiale...accanto a Justin, era
semplicemente incapace di prescindere da certe emozioni, e non sapeva
fare a meno di ciò che aveva sempre ripudiato.
Perso tra i suoi
pensieri, lasciò che le sue labbra si piegassero in un fievole
sorriso, praticamente invisibile agli occhi di una persona qualunque,
ma perfettamente percepibile da chi, anche dell’interpretazione
di ogni suo gesto, aveva fatto un’arte.
Justin negli anni
aveva imparato a leggere tra le righe delle sue parole, ma
soprattutto a vedere cosa si nascondeva dietro gli sbuffi, i sorrisi
o anche il solo movimento di quegli occhi profondi e di ogni singolo
muscolo del suo corpo. Aveva imparato perfino a riconoscere i suoi
stati d’animo dal modo
in cui respirava; aveva imparato fin troppo di lui.
Perciò, anche in
quel momento, riuscì a capire che, per quanto si sentisse
spaventato, Brian non avrebbe potuto aiutarlo; non avrebbe preso in
mano le redini del gioco come la sera in cui si erano incontrati e
non gli avrebbe mai fatto un invito esplicito ad avvicinarsi. Per
quella volta, doveva essere lui a “stare in piedi da solo e tirare
fuori le palle”; doveva essere lui a raggiungerlo.
E lo fece.
Con il cuore
incastrato a metà della gola che pulsava come un pazzo, minacciando
di abbandonarlo da un momento all’altro,
Justin colmò la distanza tra loro, e sollevò gli occhi ad
incontrare quelli dell’altro,
per andare a sprofondare in quell’abisso
verde scuro. Così vicino da poterne sfiorare il naso e sentirne il
respiro sulla bocca.
Sostenne quello
sguardo con decisione, finché non separò le labbra lentamente, con
una nota d’incertezza,
per poi incagliarle tra i denti.
Le mordicchiò
appena e respirò a fondo, riempendosi i polmoni dell’odore
della pelle di Brian, misto a quello del suo dopobarba e dello
shampoo; frammenti di quei profumi così familiari, e gli unici che
nella sua testa poteva ricondurre alla sensazione di sentirsi
veramente a casa e nell’unico
posto in cui avrebbe voluto essere.
Ovunque fosse, gli
bastava percepire quell’odore
per star bene.
«Mi sei mancato.»
mormorò con un filo di voce, come per voler esternare la conclusione
ovvia a cui era giunto nel sentir vorticare certi pensieri nella
mente, e sorrise a sua volta, nel vedere gli angoli della bocca
dell’uomo di cui era
disperatamente innamorato piegarsi verso l’alto.
Sapeva bene di non
doversi aspettare parole da Brian; e sapeva anche che il guizzo
luminoso che si era acceso in quelle iridi verdi nel momento in cui
aveva pronunciato quelle parole valeva molto di più di qualsiasi
confessione.
E probabilmente fu
proprio quella traccia lucente a dargli il coraggio per sollevare una
mano e sfiorare con la punta delle dita una guancia perfettamente
rasata dell’altro,
appagandosi del calore della sua pelle e del modo in cui la testa di
Brian si piegò per cercare quella carezza, plasmandosi su quel
tocco.
Piccoli gesti,
movimenti appena percettibili; passi lenti e misurati da infinita
calma, per percorrere la distanza che si era intromessa tra di loro
in quel tempo che avevano definito insignificante ma che, a dispetto
della loro traballante spavalderia, aveva quasi rovinato ogni cosa.
Respiri trattenuti
e occhi che si osservavano attentamente per imprimersi ancora una
volta nella testa ogni singola particella del volto che gli stava
davanti; per una volta l’uno
di fronte all’altro,
in un confronto diverso, senza la fretta di aversi, scortati da
quella passione incontenibile che aveva caratterizzato ogni loro
incontro.
Justin sentì il
proprio cuore accelerare il battito quando la sua mano venne coperta
da quella di Brian e le loro dita andarono a intrecciarsi in un
incastro perfetto e guidato da movimenti fatti di una complicità
disarmante, come se fossero mossi dalla stessa persona.
Perché fin dal
loro primo incontro, qualcosa d’incomprensibile
ma altrettanto resistente si era andato a formare e annodare tra le
loro vite. Un filo quasi invisibile e che spesso gli aveva comunque
permesso di allontanarsi l’uno
dall’altro e di farsi
anche male, ma che in un modo o nell’altro,
era rimasto ben saldo a ricordare loro come ritrovare sempre la strada e
incontrarsi ancora.
Né Justin, né
tanto meno Brian, credevano in cose stupide e patetiche come il
destino, eppure quel loro legame così particolare aveva il sapore di
qualcosa che andava ben oltre la normale realtà. Un po’
come loro due del resto, che di convenzionale non avevano
assolutamente niente, e forse mai l’avrebbero
avuto.
Brian mosse il
pollice per accarezzare con movimenti circolari il dorso di quella
mano più piccola della sua e diafana, dalle dita affusolate e abili,
proprio come immaginava dovessero essere quelle di un’artista
– il suo artista – che lo toccava ogni volta come se fosse
una preziosa opera d’arte,
facendolo sentire venerato, appagato e amato, come mai nessuno era
riuscito a fare.
Quelle mani sulla
sua pelle, avevano lasciato tracce indelebili; si erano tatuate su di
lui, gli erano entrate dentro, e avevano scavato con inesorabile
lentezza finché, senza neanche rendersene conto, erano arrivate a
toccargli il cuore e a scaldarlo per la prima volta nella sua vita.
Justin era l’unico
a esser stato capace di arrivare così nel profondo e, soprattutto, a
esser stato in grado di ricavarsi uno spazio in mezzo al suo enorme
ego e a diventare indispensabile.
Per ogni volta in
cui l’aveva cacciato
via, per ogni volta in cui l’aveva
ferito e per ogni volta in cui aveva sbagliato, portandolo a tirare
su un muro per allontanarlo, quel piccolo raggio di sole aveva
sempre trovato il modo di oltrepassare ogni sua barriera, anche se
questo aveva significato dover percorrere una strada insidiosa e
dolorosa. Justin, in fondo, non si era mai arreso e, alla fine, lo
aveva raggiunto.
E in fin dei conti
era stato così facile innamorarsi di lui che neanche riusciva a
capire quando era successo. Forse fin dalla prima volta in cui
l’aveva visto, oppure
dalle sensazioni che aveva provato nel fare l’amore
con lui – perché Justin aveva ragione. Neanche la prima volta era
stato solo sesso. Tra di loro, non era mai stato solo sesso –
o nel momento in cui aveva capito che stava rischiando di perderlo,
la notte dopo il ballo scolastico.
Non era stato
difficile amarlo; era stato difficile ammetterlo.
Era stato
difficile – e continuava a esserlo – pronunciare quelle due
piccolissime parole, e neanche quelle erano servite a non farli
separare, o a togliersi quell’orrendo
vizio di torturarsi inconsapevolmente a vicenda, o smettere di
soffrire per gesti non fatti e parole non dette, guidati da
convinzioni assurde.
Niente era mai
stato semplice fra loro, a parte innamorarsi l’uno
dell’altro; e
probabilmente era stato proprio questo il motivo per cui si erano
intrecciati in quel legame ed erano finalmente di nuovo insieme.
In quel loro
ostinarsi a complicare le cose si nascondeva l’innata
capacità di ritrovarsi sempre e comunque; la facilità con cui
sapevano rincontrarsi senza smettere mai di amarsi.
Brian ampliò il
suo sorriso – colto da quelle consapevolezze – e si protese un
poco per far sfiorare la punta del suo naso contro quella di Justin,
e avanzò ancora fino a trovare la sua fronte su cui appoggiarsi,
come già tante altre volte aveva fatto.
A occhi chiusi si
beò della stupenda sensazione che gli davano quei fili biondi quando
lo sfioravano delicatamente, e ascoltò il suono del suo respiro
confuso con quello dell’altro,
insieme al battito sincronizzato dei loro cuori.
Era come se si
fossero riconosciuti e avessero ricominciato a pulsare in sincronia,
sulla stessa lunghezza d’onda,
come se per funzionare davvero avessero bisogno di farlo insieme.
Cristo,
quanto mi sei mancato.
Si riempì del suo
odore con un respiro e slegò le sue dita da quelle di Justin per
portare entrambe le mani a circondargli il viso e affondare in quella
chioma bionda e soffice, per trarlo a sé e far finalmente
congiungere le loro labbra in un bacio dolce e appena accennato, come
se entrambi sentissero di doversi riabituare lentamente a quella
droga chiamata “passione”, che era sempre imperversata tra loro,
per cinque lunghi anni.
Ma per quante
accortezze potessero prendere, non potevano certo mentire a loro
stessi; non potevano nascondere ancora a lungo quella loro natura.
Il calore
divampato improvvisamente da quel contatto, insieme ai fremiti che
dilagarono in tutto il corpo, non fu che la scintilla destinata a
innescare l’esplosione.
Perché per quanti
anni fossero trascorsi, per quanta distanza gli fosse stata imposta e
per quanti ostacoli avessero dovuto superare, il fuoco che li aveva
sempre uniti non poteva essere estinto. Poteva essere solo domato e
sopito per un tempo limitato e insignificante.
Brian e Justin non
potevano stare vicini senza prender fuoco, incendiandosi l’un
l’altro; erano fatti
per bruciare e consumarsi insieme, ed era così che sarebbe sempre
andata tra loro.
La loro prima
volta, Brian gli aveva detto che avrebbe fatto in modo che se la
ricordasse per sempre, cosicché, con chiunque fosse stato da quel
momento in poi, ci sarebbe sempre stato anche lui.
Ed era esattamente
così che era andata.
Justin non avrebbe
mai dimenticato quel giorno, la perfezione di quella notte e del modo
in cui quelle mani lo avevano accarezzato, come quella bocca lo aveva
baciato e la sensazione di averlo dentro di sé per la prima volta.
Da quel momento in
poi, Brian c’era
sempre stato. Nei suoi pensieri, sulle sue labbra con il suo sapore e
sulla sua pelle con il suo inconfondibile odore.
Niente era
paragonabile a quando faceva l’amore
con lui; niente era paragonabile a Brian Kinney.
E anche quella
sera, nonostante i giorni che li avevano separati e feriti, la
complicità dei loro movimenti, non era stata minimamente scalfita o
contaminata dalla lontananza. Proprio come il loro amore, non era
ingrigita, ma brillava con la stessa intensità di sempre, e guidava
le mani di Brian ad accarezzare la schiena dell’altro,
lasciandolo pervadere dai brividi, fino a raggiungere il bordo del
maglione e sfilarglielo con un gesto secco, insieme alla maglia.
La loro complicità
divampava nel modo in cui le dita di Justin liberavano i bottoni
della camicia di Brian dall’asola,
e da come i lembi venivano scostati e abbassati, fino a che la stoffa
bianca non andò ad adagiarsi a terra; o nel modo in cui si
sorridevano, tra un bacio e l’altro,
incespicando nei jeans già sbottonati, mentre raggiungevano il letto
e si lasciavano ricadere con un tonfo nel blu oceano del copriletto.
Affondare di nuovo
le dita l’uno nei
capelli dell’altro e
farle correre fino a stringerli. Far sollevare la testa dell’amante,
con passione, a scoprire il collo per poterlo inumidire di una scia
umida lasciata dai baci o dalla punta della lingua; piccoli morsi che
costellavano la pelle di marchi rossastri e sospiri trattenuti
appena, per poi essere rilasciati, senza nascondere minimamente il
sollievo nel sentirsi nuovamente insieme.
Justin portò le
braccia a circondare il collo di Brian e lo tirò a sé, per
assaporare ancora il gusto di quelle labbra morbide e intrecciare la
lingua con quella dell’altro,
e sentirne il respiro caldo sulla pelle.
Lasciò che fosse
lui a togliere anche l’ultimo
pezzo di stoffa rimasto a dividerli e fu inevitabile sorridere,
quando lo vide aprire il quadratino di plastica del profilattico con
i denti; così come gli aveva sempre visto fare.
Non c’era
tempo quella volta per i preliminari, o i loro giochetti sciocchi ed
eccitanti; non c’era
tempo per scherzare, perché dovevano aversi. Dovevano sentirsi
nuovamente una cosa sola, al più presto. Percepire ancora il calore
emanato dai loro corpi fusi in un unico incastro perfetto; e al
diavolo se non si fossero mai più rivisti dopo quella notte...al
diavolo New York, l’arte,
gli impegni di lavoro, gli aerei mancati e le telefonate non fatte.
Al diavolo
tutto...perché, in quel momento, c’era
spazio solo per loro due e per la felicità che riuscivano ad
accendersi dentro quando erano insieme, quando potevano abbracciarsi
e amarsi come solo loro sapevano fare.
Cancellando
definitivamente i pensieri dalla mente, Justin portò entrambe le
gambe ad appoggiarsi sulle spalle dell’altro
e si sollevò un poco per raggiungere la bocca del suo amante e
baciarlo ancora. Brian lo guardò intensamente, con gli occhi accesi
di languida eccitazione, mentre le sue labbra si erano già
increspate in un dolce sorriso. Socchiuse gli occhi e, trattenendo il
fiato, entrò dentro di lui, lasciandosi sfuggire un gemito strozzato
che andò ad unirsi e mischiarsi nell’aria
a quelli di Justin.
Brividi di piacere
percorsero il corpo di entrambi come scariche elettriche, mentre le
loro lingue continuavano a cercarsi e trovarsi, dall’unione
delle loro labbra, tra spinte e sospiri, gemiti e parole sussurrate
appena.
Piccoli morsi,
come se volessero divorarsi e vivere soltanto cibandosi l’uno
dell’altro, e di
quell’amore che li
legava saldamente; e affondi più profondi, quasi a voler perdere e
distruggere i loro contorni per ricollegare quelle due anime che, ne
erano certi, un tempo dovevano aver fatto parte di una sola essenza.
Brian gli
accarezzo i capelli, lo baciò sulla fronte e scese lungo il naso e
la bocca, fino al collo. Lo leccò per tutta la lunghezza, aumentando
la presa delle sue dita, nella foga delle sue spinte, tanto da
togliere il fiato a entrambi. Justin spostò le gambe a cingere la
vita dell’altro e con
le mani si aggrappò alla sua schiena, avvicinandosi per congiungere
nuovamente le loro labbra e perdersi in quei baci pieni di passione,
fino all’orgasmo.
Sudato e con il
respiro affannato, Brian si lasciò
ricadere sul petto di Justin e lentamente uscì dal corpo del suo
amante, mentre con le labbra costellava quelle dell’altro
di piccoli baci languidi.
Si sorrisero
ancora, sinceri, e sfiorarono i loro nasi, inspirando profondamente i loro
profumi nuovamente mischiati, insieme all’odore
della loro unione, e godendosi il calore che i loro corpi erano
finalmente tornati a trasmettersi.
Le mani di Justin
corsero ad accarezzare i capelli e il collo dell’altro,
prima di scendere sulle spalle e proseguire a sfiorare i muscoli
asciutti e sempre perfetti delle braccia di quell’uomo
a cui doveva tutta la sua vita, trovando il coraggio per ripetere
ancora quella piccola frase: «Mi sei mancato.» lo sussurrò e volle
dirglielo ancora, e ancora. «Mi sei mancato, mi sei mancato da
morire.» e con le lacrime ad annacquargli il blu chiaro degli occhi,
respirò a fondo e riuscì a togliersi di dosso anche quelle ultime
parole che continuavano ad opprimergli il petto: «Ti amo ancora.»
***
Note finali:
Fischietto distrattamente e faccio la gnorri... XD
Ho deciso di anticipare perché mi sono resa conto che nei
prossimi giorni sarò davvero incasinata, soprattutto per la
partenza, e non volevo rischiare di non avere il tempo per rispondere a
tutte le recensioni e andarmene senza aver aggiornato come
promesso.
Stavolta però, note telegrafiche e senza alcun tipo di commento o
anticipazione...anche perché non ho la più pallida idea
di come interpreterete questo momento molto fluffleggiante...nè di quello che vi aspettate nel prossimo...
Spero solamente vi sia piaciuto almeno un po'! ^^
Mi limito perciò a fare la cosa più importante di tutte: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: Thiliol, electra23, OfeliaCuorDiGhiaccio, Clara_88, FREDDY335, mindyxx, EmmaAlicia79, SusyJM, oo00carlie00oo, giacale, Hel Warlock, Katniss88 e silvergirl per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO!
Detto questo posso anche scappare fuori, altrimenti mi lasciano a piedi
e almeno posso sfuggire dalla furia di alcune di voi che mi odieranno
per questo capitolo, e probabilmente anche di più per cosa
succederà nel prossimo! XD
Tornerò il 14, ma non so ancora quando pubblicherò...prometto comunque di non farvi aspettare troppo!
Un bacio e ancora buone vacanze.
Veronica.
PS. Non so come lo chiamate voi, ma per noi Fiorentini il "bobo nero" è l'uomo nero. XD Sono cretina, lo so.
PPS. La canzone di Damien Rice - che io adoro particolarmente - vale per tutto il paragrafo, fino alla fine. Lo so che è un appunto idiota, ma ho scritto quella parte con questa canzone in loop, quindi ci tenevo a specificarlo. XD