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Autore: SidRevo    02/08/2011    12 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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7.I still love you, afterall.

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6x07] – I still love you, afterall. 
[capitolo betato da Trappy]



Con qualche “piccola” difficoltà e laiuto di un divertito passante, riuscì a parcheggiare la sua adorata spider in modo più o meno decente e scese facendo attenzione a non sbattere e sciupare il rosso acceso della vernice.
Se solo Brian l
avesse vista, non avrebbe esitato a prenderla in giro e ricoprirla di quei luoghi comuni sulle donne incapaci di guidare che tanto lo divertivano; specie quando si trattava di infierire su di lei.
Era per questo che ogni volta parcheggiava abbastanza lontano dalla Kinnetik e sopportava almeno cento metri di strada sui suoi tacchi vertiginosi e rigorosamente firmati, per raggiungere il suo posto di lavoro. Non voleva certo dare a quel sadico del suo capo un altro motivo per punzecchiarla apertamente durante ogni loro incontro!
Sbuffò contrariata e si affrettò a percorrere la strada illuminata dai lampioni, ticchettando sull
asfalto con i suoi adorati e nuovissimi decollété in vernice nera, ammirandoli attraverso il riflesso delle vetrine, finché non raggiunse la sede della Kinnetik e aprì con le sue chiavi, entrando in quel posto minimalista e di classe, che rispecchiava perfettamente il suo elegante proprietario.
In quei giorni l
azienda era chiusa per via delle vacanze, e le fece un po effetto percorrere i pochi corridoi solitamente pieni di persone che scattavano da una parte allaltra – soprattutto nellultimo periodo, da quando Brian era diventato un tuttuno con quellaura nera e rabbiosa che aveva iniziato a circondarlo da quando il suo raggio di sole aveva preso il volo per New York – in quel momento vuoti e silenziosi; immersi in una penombra che gli donava quel non sapeva cosa di surreale.
Un po
titubante, per via del suo essere sempre così suggestionabile – e forse anche per colpa dei thriller che guardava continuamente sul divano di casa sua, munita di cucchiaio e vaschetta di gelato, come la più triste delle single trentenni della sua città – zampettò fino alla sua scrivania per riprendere il palmare che aveva dimenticato il giorno prima, finché non udì leco di alcuni passi provenire proprio dallufficio di Brian.
Scosse la testa, convinta si trattasse di un
altra sua stupida paranoia, quando udì distintamente il rumore di un cassetto sbattuto. Deglutì a forza e spaventata, afferrò la lampada della scrivania, staccandone la spina, e si preparò a contattare la polizia. Abbandonò le sue adorate scarpe, lanciando loro un bacio e avanzò furtiva fino alla soglia. Sollevò la lampada, pronta a colpire e fece capolino per sbirciare oltre langolo, quando una voce la sorprese alle spalle: «Che cazzo stai facendo?»
Balzò per lo spavento e con il cuore a mille si affrettò a voltarsi e a lanciare la lampada senza neanche guardare il suo interlocutore. Solo grazie alla sua solita sfacciata fortuna e i riflessi pronti, Brian riuscì a schivarla. «Oh Santo Dio!» esclamò lei, resasi conto che chi aveva appena tentato di ammazzare, non era un ladro ma il suo capo. «Che cazzo ci fai tu qui?!»
Brian la fissò stranito e contrariato, prima di superarla e raggiungere la sua costosa poltrona. «Uhm...questa è la mia agenzia, questa è la mia scrivania e questi sono i file della Brown Athletics.» piegò le labbra all
interno della bocca e sbatté le ciglia, per poi concludere con sarcasmo: «Lavoro. Tu che dici?»
«Lavori?» storse le labbra lei. «Il giorno prima del Ringraziamento, tu lavori?»
«Che ci vuoi fare. Sono un capo diligente che vuole avere perfettamente sotto controllo l
andamento della sua proficua azienda.» lasciò ricadere i fogli sulla scrivania e si appoggiò allo schienale, con le mani incrociate sulle gambe accavallate. «Tu piuttosto che cazzo ci fai qui?»
«Ero tornata a prendere questo.» disse e agitò il palmare che ancora teneva ben stretto tra le mani. «L
ho dimenticato ieri.»
Brian annuì e girò la poltrona per avvicinarsi alla scrivania. Poggiò gli avambracci sul bordo e si apprestò a leggere i documenti, quando si accorse che la sua assistente non aveva mosso un passo. Sollevò gli occhi scocciato e stirò le labbra in un sorriso infastidito. «Che cazzo c
è ancora?»
Cynthia scrollò le spalle e sospirò con le labbra arricciate e un
espressione pensosa. Si sedette su un lato della scrivania, ignorando le occhiate contrariate di lui e sorrise. «Allora capo...quale frustrante e insormontabile problema si sta arrovellando nella tua testolina gay?»
«Credo di non aver capito bene...» sibilò, con le sopracciglia inarcate.
«Lo fai sempre
«Agatha Christie, che ne dici di farla finita col mistero e venire al sodo?» piegò la testa di lato e la squadrò con la sua solita espressione sprezzante. «Come vedi sarei un tantino impegnato e vorrei dedicare il minor tempo possibile alle tue stronzate.»
«Vedi, ho ragione.»
«Ma cosa?!»
«Diventi irritabile.» rispose con ovvietà, prima di correggersi. «Cioè...più irritabile del solito, e lavori come un pazzo quando c
è qualcosa che non va.»
«E quindi?» domandò, allargando le braccia e gettando la penna sui fogli.
«Quindi, cosa turba il mio adorato, brillante e meraviglioso capo?»
Brian sorrise, per poi sbuffare con ironia. «Se stai cercando di ottenere un aumento puoi scordartelo.»
«No, ma se vuoi darmelo non rifiuterò.» replicò immediatamente lei. Lavorava da così tanto tempo con lui che ormai sapeva dove andare a parare e come tenergli testa. D
altronde, era proprio per questo suo modo spiccio di essere che Brian si fidava di lei e laveva sempre voluta al suo fianco. «Allora, vuoi dirmi o no cosa ti turba?»
«Niente, Cynthia.» sospirò esasperato. «Adesso potresti farmi il grosso favore di togliere il tuo culo dalla mia scrivania e andare a goderti le tue cazzo di ferie come ogni stramaledetto dipendente di questo posto?»
«Che razzista. Solo perché il mio è il culo di una donna.» si finse offesa e lo vide ridacchiare sinceramente. «Se fosse stato di un uomo non l
avresti schifato così...o forse gli avresti chiesto di posarsi altrove
Lui spinse la lingua contro la guancia e la fissò con il suo classico sguardo furbo e profondo, mentre sul suo viso si disegnava un
espressione divertita. Anche se non lavrebbe mai ammesso, Cynthia sapeva benissimo quanto lui adorasse i loro battibecchi. Esattamente come li amava lei. «Stai cercando di prendermi per esasperazione?»
«Di solito funziona.» ribatté, con una scrollata di spalle.
«Buone vacanze, Cynthia. E non strafogarti di tacchino o non ti entrerà più neanche un tailleur.»
«
Fanculo, Brian.» lo apostrofò, sporgendosi per colpirlo sulla spalla. «Daccordo. Tu non parli, allora lo farò io.» restò a fissarlo per un attimo e si decise a pronunciare quel nome, pronta a subirne anche le peggiori conseguenze. «È per Justin, vero?»
«Esattamente, che ti dice il cervello per farti credere una stronzata simile?»
«Non è il mio cervello che me lo fa credere. È Ted che mi ha detto che è tornato a Pittsburgh.»
Brian assottigliò lo sguardo in un modo decisamente poco amichevole. «Io lo licenzio.»
«Lo dici sempre ma non lo fai mai.»
«Bene, questa volta lo faccio sul serio e licenzio anche te se non evapori immediatamente fuori di qui.»
«Abbaia quanto vuoi, capo. Non riusciresti mai a fare a meno di me e Ted.»
«Questo lo vedremo.» ammiccò lui, e tentò invano di tornare al suo lavoro.
«Allora, vi siete già incontrati?»
«Chi?» chiese con voce esasperata, sollevando gli occhi al soffitto.
«Come chi? Tu e Justin!» esclamò lei, corrugando la fronte, prima di cambiare la sua espressione in una fin troppo entusiasta. «Immagino già la maratona di scopate selvagge in cui vi sarete cimentati. Dio, quanto invidio la vostra attività sessuale.»
«Trovati un bravo uomo, sposati, metti al mondo un paio di pargoli e sfogati con loro invece di fracassare i coglioni a me.»
«Il coglione.» rettificò lei e lui le lanciò un
occhiataccia.
«Grazie per avermelo ricordato.» commentò con velenoso sarcasmo.
«Prego. In fondo è il mio lavoro: colmare le tue dimenticanze.»
Lui sbuffò ancora, per poi lasciarsi ricadere nuovamente contro lo schienale con un sospiro stanco e prolungato. «Non te ne andrai vero?»
«No.»
Brian si leccò le labbra e scosse la testa, prima di sibilare telegrafico: «Sì, l
ho visto e No, non abbiamo fatto una maratona di scopate selvagge. Sei contenta adesso?»
«A dire il vero no.» s
imbronciò Cynthia. «Ho scommesso cinquanta dollari con Ted che appena vi foste rivisti avreste svegliato tutto il vicinato.»
«Bene. Dammi un buon motivo per cui non dovrei davvero licenziarvi adesso?»
«Sempre lo stesso. Perché non potresti stare senza di noi.» incrociò le braccia soddisfatta e riprese: «Quindi niente sesso?»
«No, niente sesso.» sbottò scocciato. «La vuoi piantare di trasformare la mia vita in uno dei tuoi penosi e stupidi romanzetti rosa Harmony?»
«Io non leggo quella roba!» esclamò, e lui sollevò le sopracciglia, lanciandole un
occhiata eloquente. «Ok, a volte. Ma solo perché me li porta mia madre.»
«Certo, certo.» ridacchiò l
uomo e si passò il pollice sulla fronte. «Allora ciao Cynthia. È stato un piacere intrattenere questa frizzante conversazione con te...ora ti puoi gentilmente togliere dalle palle?»
«Va
da Justin e scopatelo come si deve.» rispose invece contro le sue aspettative, lasciandolo di stucco. «Che cè? Che ho detto di strano? Tu usi sempre certi termini.»
«È quasi ora di cena.» mormorò lui, dopo qualche attimo di silenzio. Riordinò i fogli e li gettò in uno dei cassetti. S
infilò il cappotto e sospirò guardando il soffitto, leccandosi le labbra con la punta della lingua. Spostò gli occhi scuri su Cynthia e le disse, con fare arrendevole. «Andiamo a bere qualcosa?»
«Birra, hamburger e patatine fritte che scoppiano di grassi con tanto di salsa, che impiegherò mesi a smaltire e che manderanno a puttane la mia dieta...» elencò fingendosi di pensarci su, prima di sorridergli raggiante. «Certo che sì, capo!»

“My life changed” – William Fitzsimmons

«Quindi, fammi capire...» esordì Cynthia, mangiucchiando lultima patatina ricoperta di ketchup. «Ricapitolando, Justin è ripiombato a Pittsburgh con quel suo amico.»
«Checca.» la corresse Brian, appoggiato al tavolo in legno, guardandosi distrattamente intorno e sorseggiando la sua birra. «È questo che ho detto, non amico
«Sì, ok. Quello che è.» soffiò scocciata lei. Era passata almeno un
ora da quando erano entrati in quel bar, e il suo capo con tutte le sue risposte ambigue, quelle lasciate a metà o terminate con unespressione indecifrabile, le aveva creato una confusione in testa degna del peggiore enigma. «E non minterrompere, altrimenti perdo il filo.» Brian sollevò le sopracciglia e le mani, come per arrendersi e serrò le labbra, così che lei potesse continuare con i suoi sproloqui. «Allora, Justin è tornato con questa checca a Pittsburgh e ti ha detto che forse resterà qui per almeno un mese. Giusto?» lui annuì, con il pollice premuto sulle labbra e lei prese una sorsata di birra, dopo essersi pulita le mani. «Quindi, dove sta il problema? Scopate e amatevi allegramente per un mese e se mai dovrà tornare a New York, deciditi a usare una buona volta quei cazzo di biglietti aerei che mi fai prenotare e che puntualmente getti nel cestino!»
«Non è questo...» soffiò stanco lui, prima di essere interrotto.
«Che c
è? Il meraviglioso Brian Kinney teme la concorrenza?»
«Quale concorrenza?» domandò in un guizzo di spavalderia, con le sopracciglia inarcate.
«La checca. Il suo amico.»
«No. Quello al massimo potrebbe andar bene per Emmett, non è certo il tipo di Justin.»
«E il tipo di Justin sarebbe?» rise lei. «Bellissimo e con charme, anche se più grande di lui. Brillante, sagace e con un
azienda avviata splendidamente?»
«Suppongo di sì.»
«Supponi? Supponi?» esclamò incredula. «Brian Kinney non suppone un cazzo di niente. Brian Kinney è solo e soltanto certezze.» bevve la birra con gli occhi sgranati e si passò una mano tra i capelli biondi. «Se inizi ad avere i dubbi esistenziali anche tu, posso anche tornare a casa e tagliarmi le vene.»
Brian si lasciò sfuggire una risata a prese a giocherellare con la bottiglia. «Che modo triste e poco elegante per andarsene. Tutto quel sangue da smacchiare.»
«E sentiamo, tu che sceglieresti?»
Sollevò uno degli angoli della bocca e ripensò al quel suo stupido “gesto estremo” per i suoi tanto temuti trent
anni. In quel momento ne aveva trentacinque e pensò che se davvero Michael non lavesse fermato, avrebbe perso davvero troppe cose della sua vita. Troppi attimi e ricordi che custodiva gelosamente nel profondo del suo cuore, anche se alcuni spesso sapevano ferirlo profondamente. In fondo non era poi così male la vita anche dopo il “tre-zero”. «Strafatto di alcool e droga mentre mi faccio una sega, mimpiccherei nel mio lussuosissimo loft, con una sciarpa candida di purissima seta firmata. Armani sintende.»
«Che classe, capo.»
«Be
, se le cose devi farle...falle con classe o non farle affatto.» ammiccò e bevve ancora.
«E allora, sempre con classe ovviamente, va
da Justin.» replicò lei, con un tono deciso, quasi lo stesse sgridando. «Potrebbe girare il mondo, ma non troverà mai nessuno che sa dargli quello che puoi tu, perché nessuno sarà mai come te e nessuno potrà mai condividere con lui quello che avete condiviso voi due.»
«Una tragedia dietro l
altra?» ribatté, strusciando svogliatamente la bocca della bottiglia contro la fronte.
«Non fare il melodrammatico. Non ti si addice e poi ti vengono le rughe.»
«L
hanno quasi ammazzato spaccandogli la testa, ha dovuto occuparsi di me per mesi, mentre non facevo altro che vomitare per la radioterapia e gli è esplosa una bomba quasi addosso.» chiuse gli occhi e tentò di respingere il ricordo delle mani di Justin mentre lo accarezzava e si prendeva cura di lui. «Suo padre è un fottuto omofobo che lha cacciato via da casa, il mio era un povero stronzo ubriaco che ha passato gli ultimi anni della sua vita a spillarmi soldi, e quando gli ho detto che sono frocio mi ha detto che avrei dovuto esserci io al suo posto.» sorrise con amarezza e sollevò appena la bottiglia, come se volesse brindare ironicamente alla sua memoria. «Figlio di puttana, ce lha quasi fatta a farmi crepare come lui.» scosse la testa e distese le labbra in un sorriso più sincero, dato dalla soddisfazione di essere ancora vivo e vegeto, nonostante gli infelici auguri di morte dategli da entrambi i suoi genitori dopo aver saputo la verità. «Non sono certo rose e fiori. Bello schifo che abbiamo da condividere.»
«Ma lui ama te e tu ami lui.» insisté lei e gli sventolò la bottiglia davanti agli occhi. «E non provare a dire il contrario o ti caccio questa su per il culo.»
«Che finezza, principessa
«Da quando sei diventato un finocchio educato e schizzinoso?»
«Da quando le lesbiche mi riempono di legnate ogni volta che accenno solo a mezza parolaccia.» fece una smorfia di disappunto e terminò la sua birra. «Non capisco perché poi. Tanto prima o poi mio figlio sarà anche più sboccato di me.»
«Gus è a Pittsburgh?»
«Sì, resterà qui per il Ringraziamento.»
«Sembra che le cose stiano prendendo la piega giusta, paparino innamorato
Brian roteò gli occhi scocciato e le rubò la bottiglia dalle mani, per terminarla con una sorsata. «Non stanno prendendo nessuna cazzo di piega. Tra un mese al massimo tornerà tutto come prima.»
«Cazzo, Brian. Il tuo pessimismo uccide.»
«Sono realista.» rettificò, con lo sguardo assottigliato.
«Chiedigli di restare.»
«A chi?» chiese interdetto. «A mio figlio?»
«A Justin.»
«E togliergli la possibilità di raggiungere la vetta e restarci
nei secoli dei secoli, amen
«Come se gli importasse.» commentò lei con una scrollata di spalle.
«E tu che ne sai?»
«Lo sanno tutti Brian. Tutti meno che te hanno capito che lui non aspetta altro che tu gli dica di tornare.»
«Fammi indovinare.» mormorò, prendendosi il mento tra le dita. «Justin ha parlato con Theodore...e il buon vecchio Theodore ha pensato di far sapere a tutta l
azienda i cazzi del proprio capo.»
«D
accordo, lo ammetto. Ted mi ha dato un aiutino...ma ci sarei arrivata anche da sola!»
«Certo. Neanche un paio d
ore che sono con te e ho già trovato almeno tre buoni motivi per licenziarlo. Dovrei dirlo al resto dei dipendenti che sei una cattiva influenza.»
«Non è vero.» esclamò, ed entrambi indossarono i loro cappotti senza doversi dire niente. Dopo tutti quegli anni sapevano bene quando uno dei loro scontri era ormai giunto al termine. Erano in perfetto equilibrio. «Allora, principe azzurro...sei pronto per andare a riprenderti la tua principessa
«E tu sei pronta per andare a recuperare la tua macchina a miglia e miglia dalla Kinnetik perché non la sai parcheggiare, per poi strafogarti di gelato davanti alla tv come una zitella patetica?» ridacchiò alzandosi per pagare, con un
espressione visibilmente soddisfatta per averla lasciata a bocca aperta e il cuore un po più leggero dopo quella chiacchierata.
«E questo chi cazzo te l
ha detto?»
«Indovina un po
...» le sorrise, sollevando una delle sopracciglia.
«Credo che invece andrò a preparare la lettera di licenziamento per Ted!»


*'*'*



Con lo stomaco chiuso, ed uno strano peso a incombere sulle sue spalle, Justin, dopo aver vagato per ore per la città, senza una vera meta e perso tra i suoi pensieri e gli innumerevoli rimpianti, rientrò nell'albergo.
Si fece consegnare la sua copia delle chiavi e salì fino alla sua stanza, pregando – pur sapendo che fosse pressoché inutile – di essere solo per farsi una doccia in pace e deprimersi sul letto.
Era quello di cui aveva bisogno. Un po
come quando aveva ancora diciannove anni e passava il tempo a rimuginare e oziare nella stanza di Daphne con i suoi sogni erotici in cui lui e Brian scopavano a mezzaria.
Neanche a dirlo però, le sue preghiere non vennero ascoltate.
Ad attenderlo, disteso sul suo letto in accappatoio mentre sgranocchiava patatine, c
era Jace, intento a seguire una di quelle sue penose soap opera.
Lo vide spostare le sue iridi nocciola nella sua direzione e quel suo sguardo caldo si addolcì immediatamente nel constatare le condizioni pietose in cui versava. «Qualcosa mi dice che non è andata esattamente come speravi...»
Justin sollevò le sopracciglia, come per comunicare un “ma dai”, e si tolse la sciarpa e il cappotto, per poi lasciarsi ricadere a peso morto sul letto. Affondò la testa nel cuscino e aspettò che l
altro facesse la sua mossa.
Sapeva che nel giro di qualche secondo se lo sarebbe ritrovato nel letto e avrebbe iniziato a punzecchiarlo con insistenza; e come da previsione, percepì il materasso abbassarsi sotto il peso dell
altro. «Allora? Che ti ha detto il bobo nero
«Mi ha velatamente invitato a togliermi dalle palle e riportare il mio culo a New York.»
«Pensavo che il tuo culo gli piacesse...»
Attraverso i ciuffi biondi, gli occhi blu chiaro di Justin guizzarono a fulminare l
amico. «Vaa farti fottere.»
«Sì, penso che questa sera lo farò quel giretto in Dark Room.» pronunciò distrattamente, come se stesse leggendo la lista della spesa. «Tanto non dovrò controllare che tu non ti accasci sulle scale in preda agli effetti dell
alcool.»
«E perché mai?» mormorò l
altro, con la bocca premuta contro il cuscino.
«Semplice, perché tu non verrai al Babylon.»
«Mi stai esortando a deprimermi e tentare il suicidio nella mia stanza d
albergo?» gli domandò stranito. «So che sarebbe lo stereotipo di morte di un giovane artista, ma mi aspettavo che almeno avresti tentato di fermarmi.»
«E chi ha parlato di suicidio o di restare nella tua stanza d
albergo?»
«E che dovrei fare allora? Andare a svendere il culo?»
«Non ne vedo il motivo...i soldi mica ti mancano, e che io sappia non hai qualche strana dipendenza tipo le slot machines o le corse ai cavalli, quindi non credo finirai presto in rovina.» continuò a farfugliare Jace, con la sua parlantina a mitraglietta, esasperando Justin.
«Quindi...non posso venire al Babylon, non mi posso suicidare e non posso neanche farmi scopare. Che mi resta da fare allora?»
«Non puoi farti scopare da degli sconosciuti, ma puoi farlo con il tuo grande amore.»
Justin si alzò di scatto, puntando gli avambracci sul materasso. «Dico, ma mi ascolti quando parlo? Ti ho appena detto che mi ha gentilmente invitato a tornare a New York!»
Jace gli riservò un
occhiata scettica. «Dimmi un po...da quando vi conoscete, cè mai stata una sola volta in cui hai dato ascolto a quello che ti diceva di fare?»
«A parte quando mi diceva girati, o andiamo a fare la doccia o scopiamo?» l
altro annuì esasperato e lartista perse qualche secondo a riflettere. «Allora no.» rispose infine e vide nascere un sorriso furbo sulle labbra di Jace.
«Giust
appunto. E allora per quale cazzo di motivo dovresti dargli ascolto ora?» sollevò un sopracciglio con ovvietà e non permise a Justin di ribattere. «Quindi, tu vai a farti una doccia veloce, ti vesti e piombi a casa sua. Dovrà ascoltarti per forza. Digli tutto quello che ti tieni dentro da più di un anno e, se neanche allora cambierà idea, almeno non avrai più il rimpianto di non averci provato fino alla fine.»
«Jace, tu non capisci...»
«No, caro il mio artista da strapazzo!» lo interruppe nuovamente. «Tu non capisci che se non fai come ti dico, ti caccio il pomello del letto su per il culo e senza lubrificante.»
Justin si lasciò andare a una risata. «Chi ti dice che non mi piacerebbe?»
«Mi auguro per quel dio che si è preso la tua verginità che non sia così, altrimenti sai che fatica soddisfarti!»
«Credi davvero sia la cosa giusta?» chiese titubante, anche se poteva sentire chiaramente le urla del suo cuore che lo spingevano a correre da Brian.
«Tesoro, cos
hai da perdere?» gli scompigliò i capelli biondissimi e fece una smorfia. «Mi pare poi che la dignità tu labbia persa già da tempo con i tuoi imbarazzanti colpi di testa da adolescente frustrato!»
«Grazie Jace...come incoraggi tu, non incoraggia nessuno.» borbottò con acido sarcasmo.
«Lo so, e ora fila a farti la doccia!» gli ordinò, trascinandolo giù dal letto e spingendolo dentro il bagno.

“After afterall” – William Fitzsimmons

Neanche unora più tardi, Justin se ne stava impalato davanti al portone del numero sei di Fuller Street, dopo che Jace senza tante cerimonie, si era appropriato della sua adorata jeep e laveva scaricato lì.
Sbuffò scocciato, chiedendosi se fosse davvero la cosa giusta da fare, finché un altro degli inquilini del palazzo uscì lasciandogli la porta aperta senza che lui avesse chiesto niente.
Quell
idiota di Jace direbbe che un segno.
Inspirò a fondo e sgattaiolò dentro prima che si richiudesse, ritrovandosi a respirare il familiare profumo che fin dalla prima volta aveva sentito aleggiare in quel posto.
Il suo cuore prese a pulsare con più foga mentre, senza neanche rendersene conto, l
indice corse a premere il pulsante per richiamare il montacarichi. Con la gola secca e deglutendo a vuoto salì e lo indirizzò con qualche esitazione al piano del loft di Brian, continuando a darsi dello stupido, visto e considerato che non sapeva neanche se linquilino era in casa.
Quando il montacarichi raggiunse la destinazione con il classico rumore, pensò che il cuore potesse esplodergli da un momento all
altro, e lo mise ancora più a dura prova nel portare la sua mano a bussare alla porta scorrevole.
Quante volte aveva fatto quel gesto? Quante volte ne erano susseguite scene piacevoli e felici, e quante orrende da strappargli il cuore e schiacciarlo senza pietà...
Quante volte aveva fatto scorrere quella porta con l
idea di rientrare in quella che sentiva davvero come casa propria, e quante ancora laveva lasciata con le lacrime agli occhi e un orribile nodo alla gola.
In quel momento sentiva ognuna di quelle sensazioni amplificata dismisura dalla prolungata assenza a cui era stato costretto; e le cose peggiorarono decisamente, quando nel silenzio riuscì a percepire dei passi avvicinarsi dall
altra parte ed il rumore secco dellingranaggio che iniziò a muoversi.
«Justin...» sentì sussurrare, ma non vide immediatamente la faccia sorpresa di Brian; perché semplicemente non aveva il coraggio di sollevare lo sguardo da terra. «Che ci fai...» lo sentì pronunciare, e fu allora che alzò di scatto la testa e lo interruppe prima che distruggesse ogni sua intenzione con una manciata di parole gettate lì.
«Ti sbagli.» gli urlò quasi in faccia, a pugni stretti.
L
espressione dellaltro mutò da sorpresa a confusa. «Eh?»
«Guardami Brian, io non sono a New York.» si sentì sciocco a pronunciare quelle parole, ma d
altronde non poteva far altro che lasciarle uscire, prima che lo facessero impazzire. Aveva bisogno di urlare che era tornato solo e soltanto per lui. «Sono qui, dannazione! Sono tornato perché è qui che devo stare.» aggrottò la fronte e lasciò fuoriuscire i suoi pensieri come un fiume in piena. «È qui che voglio stare ed è qui che tornerò sempre, dopo tutto. Il mio posto non è a New York, e non appartengo a loro. Per quanto tu ti ostini a dire il contrario, io appartengo a te.» calcò la voce su quel “te”, trattenendosi a stento dal gridarlo come un pazzo e riprese: «Non mimporta quante volte lhai negato o lo negherai, o se mi dici che io sono solo di me stesso, perché la realtà dei fatti è unaltra.»
«Justin, ascoltami...» mormorò Brian, ancora aggrappato con una mano alla porta e con l
altra al muro. Nonostante il suo tentativo di aprir bocca però, non sembrava voler combattere davvero per far valere le sue ragioni. Non aveva il familiare sguardo pungente e deciso; al contrario, sembrava piuttosto stanco.
«No. Non ascolterò le tue patetiche scuse.» replicò Justin deciso. «Non farò finta che vada tutto bene. Che mi vada bene di starmene in quella cazzo di città circondato da cose di cui non m
interessa niente!» si soffermò a fissarlo negli occhi con decisione e per un attimo credette di poter affogare in quel verde scuro e tremendamente profondo. «Lunica cosa che mimporta sapere è se tu mi vuoi ancora almeno un briciolo di quanto ti voglio io.» soffiò infine con un fil di voce, come se con una sola delle sue occhiate, Brian fosse riuscito ad annullare tutta la foga con cui si era fomentato. «Voglio solo sapere se...posso ancora essere tuo.»
Non poteva esserne certo, ma per un solo misero attimo, ebbe la sensazione di veder accendersi un po
di sorpresa mista a sollievo in quegli occhi verdi, e pregò come mai nella sua vita di non essersi sbagliato.
A confermare i suoi pensieri, e ad alleggerirgli almeno un po
il cuore, ci pensò il sospirò con cui Brian si riempì i polmoni, il modo in cui sollevò lo sguardo al soffitto e il sorriso che non riuscì a nascondere piegando le labbra allinterno della bocca. Lo vide premere la punta della lingua a gonfiare la guancia e rivolgergli una delle sue occhiate ambigue, come ogni volta che non voleva dargliela subito vinta dopo una delle sue classiche sparate, lasciandolo un po cuocere nel suo brodo, prima di pronunciare con finto disinteresse e una sola parola, ciò che sperava di sentirsi dire: «Entra.»



*'*'*



Accompagnato ormai dal suono di quella porta che in poco tempo era ormai diventato familiare anche per lui, Jace entrò nel Liberty Diner, con un sorrisetto divertito che non riusciva a cancellarsi dalle labbra per via della caustica espressione che Justin gli aveva rivolto quando laveva letteralmente abbandonato per strada, dopo averlo spinto giù quasi a calci.
Quello che ormai era il suo diventato il suo più caro amico, aveva fegato e spavalderia da vendere in qualsiasi cosa facesse, e spesso si era trovato a tapparsi gli occhi e le orecchie dopo una delle sue sparate davanti a qualche pezzo grosso di New York, senza lombra di un’indecisione nel difendere le sue convinzioni, eppure, nel momento in cui si era ritrovato a fare i conti con i propri sentimenti, il terrore aveva preso il sopravvento.
Nellanno di vita che avevano condiviso, a Jace non era mai stato permesso di pronunciare il nome di Brian...pena la morte; ma in un modo o nellaltro quellingombrante presenza che incombeva su Justin era stata nominata quasi ogni giorno dietro qualche stupido soprannome.
Brian era per il piccolo artista un enorme fantasma del passato, un cardine fondamentale del suo presente e il sogno più agognato per il futuro. Brian per Justin era tutto...e Jace voleva così bene a quel ragazzino troppo bello, troppo artisticamente dotato, troppo biondo...insomma “troppo tutto”, che si era ripromesso di bacchettarlo fino alla fine, per spronarlo a non arrendersi mai, neanche davanti alla peggiore delle difficoltà, e volare a raggiungere il proprio obbiettivo come aveva sempre fatto con tutto il resto.
Ai suoi occhi, Justin era quel fratellino impertinente e coraggioso che gli mancava da morire e che aveva perso tanti anni prima, in un tempo così lontano che a malapena lo ricordava.
Suo fratello aveva la stessa età di Justin, ma non era un artista, non era biondo né aveva gli occhi azzurri. Non era gay – o almeno non che lui sapesse – e non possedeva quella brillante luminosità, eppure era comunque speciale, per il modo in cui si rapportavano, per come lo faceva sentire, per la loro complicità e lintesa perfetta. Esattamente come quella che intercorreva tra lui e Justin.
Per quel fratello avrebbe fatto di tutto e di più, e aveva sopportato per anni le botte di suo padre e il disprezzo della sua famiglia dovuto alla disapprovazione per i suoi gusti sessuali; e avrebbe continuato a farlo per sempre, se solo un brutto incidente non glielo avesse strappato via.
Da quel giorno, Jace non aveva più avuto un solo misero motivo per restare in quel posto che avrebbe dovuto chiamare “casa”, ma che nella sua testa era registrato sotto il nome di “inferno”.
Se nera andato senza mai voltarsi, quasi senza avvertire nessuno; e con nessuno aveva mantenuto un rapporto, ricominciando da capo con la sua vita a New York e una bella maschera sorridente a coprire la sofferenza che in realtà si portava dentro.
Era andato avanti grazie alla sua forza danimo, ottenendo successi su successi, ma senza mai riuscire a togliersi quel peso dallo stomaco, finché una testa inverosimilmente bionda, con un sorriso così abbagliante quasi da ferire gli occhi, si era intromessa nel suo cammino, e tra i fogli che volavano a sparpagliarsi aveva incontrato due iridi blu e un vero amico; unancora di salvezza che aveva a sua volta bisogno di qualcosa a cui sorreggersi per non affondare.
Inspiegabilmente, in quel ragazzo che non assomigliava neanche un po al suo fratellino, Jace aveva trovato il modo di redimersi e riversare quellaffetto fraterno che aveva lasciato accumulare, ormai stantio, che non poteva più liberare e che lentamente lo stava soffocando.
Justin lo aveva salvato dal mostro formato dai suoi rimorsi, ed era lunico a conoscenza della sua storia. In una delle loro tante serate di confessioni alcoliche, era uscito fuori il nome di suo fratello, che non osava più pronunciare da troppo tempo, e dopo che la sua lingua aveva sentito il sapore amaro di ognuna di quelle lettere, non piangere quelle lacrime che si era tenuto dentro per anni, era stato impossibile.
Aveva finalmente rimosso quel blocco opprimente ed era nuovamente rinato.
Suo fratello gli sarebbe mancato per sempre, di questo era ben conscio...ma, da quando Justin era piombato nella sua vita, aveva ricominciato a vivere e respirare anche lui; a ridere e scherzare sinceramente ma, soprattutto, aveva finalmente qualcuno a cui poter donare quellamore e con cui condividere una speciale complicità.
«Ehi, ciao!» sentì esclamare da una voce femminile e squillante, vagamente familiare, che lo riscosse dai suoi pensieri. «Jace, giusto?»
Gli occhi nocciola si spostarono a incontrare la sfavillante figura di Debbie, e un ennesimo sorriso gli increspò le labbra. A Pittsburgh girava gente davvero strana, ma non gli era poi così difficile capire perché al suo caro artista mancassero così tanto. Erano tutte persone così diverse e speciali a loro modo, da riempirti la vita e lasciarti un buco enorme dentro se non le avevi accanto. «Sì.»
«Vieni a sederti. Cosa ti porto?»
«Mi basta un caffè, grazie.» rispose, accomodandosi sullo sgabello.
«Che ci fai da queste parti?» gli chiese, versando il liquido nero. «E dove lhai lasciato il mio topino? Sta bene, vero?»
«Spero di sì.» ridacchiò Jace nel sentire laltro buffo soprannome di Justin. «Al momento suppongo sia ancora impegnato a riprendersi la sua vita...e farà bene a riuscirci!»
«È ancora con Brian?»
Lui annuì, portandosi la tazza alle labbra. «Già. Lincontro di oggi non era finito nel migliore dei modi, ma lo saprai anche meglio di me, Justin non è uno che si scoraggia molto presto.»
«No, direi proprio di no.» replicò convinta e agguerrita con i pugni puntati sui fianchi. «Quel coglione lha trattato male?»
«No, no.» si affrettò a rispondere. Non conosceva affatto quella donna, ma era pronto a giurare che sarebbe partita in quarta alla ricerca di Brian per bastonarlo, se solo avesse saputo che aveva ferito il suo figlioccio biondo. «Solo gli ha detto che il suo posto è a New York adesso.»
«Ha solo una fottuta paura.» sospirò lei, con uno sguardo improvvisamente addolcito. «Brian non è il tipo da dare possibilità allamore e ai sentimentalismi. Prima di Justin non sapeva neanche cosa volesse dire e...lunica volta che lha concessa, be...sai anche tu come è andata a finire.»
«Non deve essere proprio una passeggiata per quei due.»
«Oh credimi, in cinque anni che li ho visti insieme hanno attirato catastrofi come due cazzo di calamite.» scosse la testa e si protese sul bancone, sventolando il suo indice con lunghia laccata di rosso sotto il naso. «Ma hanno sempre avuto le palle più grosse di tutto lo schifo che gli è stato gettato addosso e hanno sempre trovato il modo di mandare a fanculo tutti.» sorrise e masticò con energia il chewin-gum «Superare questo è niente rispetto a tutto il resto.»
«Già, ma le ferite restano. A volte le persone si stancano di dover sempre combattere.»
«Non il mio topino. Lui non si arrende mai.» borbottò quasi offesa, con la fronte aggrottata. «E neanche quellaltro stronzo. Brian ha la faccia come il culo...figuriamoci se cè qualcosa che può stenderlo. Neanche il cancro lha voluto.» rise ancora e sollevò le spalle. «Comunque, lunica cosa che possiamo fare è aspettare.»
«E allora aspettiamo.» gli sorrise lui e terminò il suo caffè.
«Di te invece che mi racconti? Problemi di cuore?»
«Eh?» chiese stupito, con le sopracciglia sollevate quasi a raggiungere lattaccatura dei capelli. «No, no. Che mi prenda un’accidente se mai mi farò incastrare!»
«Che cazzo sei, una versione di Brian Kinney newyorkese?»
«A me piace donare amore in giro, non limitarmi a una sola persona.» ammiccò, sistemandosi il foulard intorno al collo. «Sono un tipo generoso!»
«Questa è la scusa più idiota che le mie povere vecchie orecchie abbiano mai sentito.» replicò lei. «E ti assicuro che ne ho sentite tante.»
«Certo che devi vederne di stranezze qui dentro.»
«Uh, non immagini quante! Voi gay siete un melodramma continuo!»
«Senza neanche un dramma personale, che razza di frocio sei?»
Debbie sollevò le sopracciglia come per voler confermare le sue parole. «Comunque straniero, dove hai intenzione di donare amore, e non dico ‘buco di culo perché sono una cazzo di signora, questa sera?»
Jace la fissò per un attimo sconcertato e scoppiò a ridere. «Suppongo di donare amore, e non dico buco di culo perché sono una cazzo di signorina anch
io, al Babylon. Justin mi ha detto che cè sempre da divertirsi.»
«Mi piaci ragazzo.» sorrise affabile. «Spero tu sia ben conscio che se t’infili nella nostra strana famiglia poi puoi dire addio a privacy e libertà. Sarai costretto a partecipare a tutte le nostre cazzo di cene familiari e guai a te se ti lamenterai se sarai soffocato daffetto.»
«Sarebbe unesperienza da provare.» rise lui pagando e alzandosi per uscire. «Non ho una famiglia da tanto tempo, e forse non lho proprio mai avuta. Credo di poterlo sopportare.»



*'*'*


“The blower's daughter” – Damien Rice



Quel posto non era cambiato.
Nel loft il tempo sembrava essersi fermato a quella mattina trascorsa da più di un anno e mezzo, quando con un macigno sullo stomaco, era strisciato fuori dalle lenzuola e dal calore del corpo di Brian, e si era vestito e trascinato oltre la porta, senza avere il coraggio di guardare nientaltro che non fosse il pavimento di parquet perfettamente lucido.
Respirò a fondo e sorrise, quando i suoi occhi si posarono su ogni angolo di quel lussuoso appartamento, riportando alla mente frammenti dei momenti trascorsi lì.
Avanzò lentamente verso il letto, nel silenzio più totale, quasi temesse di rovinare quellattimo così perfetto e magico, e si soffermò a osservare quella macchia blu notte, spesso presente nei suoi quadri, che nella sua testa si raffigurava come la massima espressione damore: il blu scuro delle lenzuola in cui lui e Brian si erano aggrovigliati e fusi a formare una cosa sola, innumerevoli volte.
Laccarezzò con lo sguardo e proseguì fino al comodino; dove sapeva esserci il suo cassetto: il terzo; e concluse la corsa delle sue iridi cerulee allarmadio; al lato sinistro, quello che Brian aveva abitualmente riservato per lui.
«Non è cambiato niente qui.» esordì, più verso se stesso, per convincersi di quello che i suoi occhi vedevano, che rivolto a Brian.
Luomo allargò le braccia e sollevò le spalle, per poi riprendere a giocherellare con il pacchetto di sigarette che stringeva tra le mani. «Perché avrebbe dovuto essere diverso?»
«Non lo so.» rispose titubante. «È passato parecchio tempo dallultima volta che sono stato qui.»
«Lo so.» sorrise appena. E chi meglio di lui poteva saperlo? Lui che aveva scandito ogni singolo, stramaledetto, istante da quando Justin se nera andato. Contando ogni secondo e inghiottendoli come bocconi amari e spinosi. Chi meglio di lui poteva sapere cosa significava ritrovarsi a respirare lentamente, per cercare di conservare il più possibile lodore della persona che amava intatto tra quelle quattro mura; e guardare a un calendario come alla somma dei giorni che si erano accumulati dalla sua partenza.
«È bello.» mormorò poi Justin, rivolgendogli un sorriso.
«Cosa?» domandò stranito.
«Che sia rimasto tutto uguale anche qui.» ridacchiò appena e scese gli scalini per avvicinarsi a Brian. «Ero terrorizzato dal fatto che, tornando a Pittsburgh, niente sarebbe stato come lavevo lasciato. Invece è tutto com’era
«Lo sai che nella gloriosa Pittsburgh non succede mai niente.»
«Credo proprio di essere davvero felice, per la prima volta, che questo posto sia così. È rassicurante.»
«È patetico. È noioso e ridicolo.»
«È un po romantico.»
Brian scoppiò a ridere e scosse la testa, picchiettando con il pacchetto rosso e bianco sul bancone della cucina. Restarono in silenzio per un tempo incalcolabile, finché le iridi verde scuro di Brian si sollevarono appena a scrutarlo sottecchi, quasi temesse che da un momento allaltro non lavrebbe più visto e capisse che era stato solo un altro dei suoi patetici e tristi sogni.
A dispetto delle sue paure, invece, lo trovò più vicino e spaventato.
Justin aveva lo stesso sguardo incerto e quel falso sorriso tirato della prima volta in cui era stato lì. Era cresciuto, era più bello, ma mai come in quel momento gli parve di rincontrare quel ragazzino inesperto che si affacciava per la prima volta al mondo a cui appartenevano entrambi.
Aveva le spalle irrigidite e le braccia altrettanto intirizzite e abbandonate lungo il corpo. Lo guardava come un cucciolo abbandonato in cerca di una mano che lo guidasse, e non si accorgeva di quanto in quel momento, dietro la sua solita facciata impenetrabile e il sorrisetto sprezzante, si nascondesse la stessa paura.
La paura di sbagliare, di lasciarsi andare e illudersi. La paura di vederlo tornare, di sperare ancora, per poi essere abbandonato di nuovo, pur sapendo di non potergliene mai fare una colpa, perché proprio lui era stato il primo a ferirsi e a spingerlo fuori da quel loft per mandarlo a conquistare il mondo con la sua arte e i suoi sogni, e farsi un nome. Proprio lui laveva incoraggiato – per non dire quasi costretto – ad abbandonarlo, per esser sicuro che riuscisse a ottenere tutto ciò che potesse, anche solo velatamente, desiderare.
E se quello non era amore; se ancora cera qualcuno che osasse dire che Brian Kinney non sapeva amare, o se qualche stupido omofobo potesse ancora ritenerlo abominevole; allora che gli spiegassero cosera davvero quel sentimento che tutti tanto decantavano, perché, e forse peccava di presunzione, lui era certo di non aver mai visto o provato niente di più grande in tutta la sua vita.
Justin era una specie di catalizzatore sentimentale: al suo fianco ogni cosa sembrava concentrarsi e quintuplicarsi. Amore, rabbia, tristezza, gelosia e sì, anche odio. Quando si trattava di Justin, Brian si sentiva esplodere.
Lui che aveva sempre definito i sentimenti come una cosa stupida, ridicola e patetica, adatta solo agli etero o alle lesbiche, ma assolutamente fuori dalla portata dei gay; lui che si era sempre vantato di quel suo essere egoista e superficiale...accanto a Justin, era semplicemente incapace di prescindere da certe emozioni, e non sapeva fare a meno di ciò che aveva sempre ripudiato.
Perso tra i suoi pensieri, lasciò che le sue labbra si piegassero in un fievole sorriso, praticamente invisibile agli occhi di una persona qualunque, ma perfettamente percepibile da chi, anche dellinterpretazione di ogni suo gesto, aveva fatto unarte.
Justin negli anni aveva imparato a leggere tra le righe delle sue parole, ma soprattutto a vedere cosa si nascondeva dietro gli sbuffi, i sorrisi o anche il solo movimento di quegli occhi profondi e di ogni singolo muscolo del suo corpo. Aveva imparato perfino a riconoscere i suoi stati danimo dal modo in cui respirava; aveva imparato fin troppo di lui.
Perciò, anche in quel momento, riuscì a capire che, per quanto si sentisse spaventato, Brian non avrebbe potuto aiutarlo; non avrebbe preso in mano le redini del gioco come la sera in cui si erano incontrati e non gli avrebbe mai fatto un invito esplicito ad avvicinarsi. Per quella volta, doveva essere lui a “stare in piedi da solo e tirare fuori le palle”; doveva essere lui a raggiungerlo.
E lo fece.
Con il cuore incastrato a metà della gola che pulsava come un pazzo, minacciando di abbandonarlo da un momento allaltro, Justin colmò la distanza tra loro, e sollevò gli occhi ad incontrare quelli dellaltro, per andare a sprofondare in quellabisso verde scuro. Così vicino da poterne sfiorare il naso e sentirne il respiro sulla bocca.
Sostenne quello sguardo con decisione, finché non separò le labbra lentamente, con una nota dincertezza, per poi incagliarle tra i denti.
Le mordicchiò appena e respirò a fondo, riempendosi i polmoni dellodore della pelle di Brian, misto a quello del suo dopobarba e dello shampoo; frammenti di quei profumi così familiari, e gli unici che nella sua testa poteva ricondurre alla sensazione di sentirsi veramente a casa e nellunico posto in cui avrebbe voluto essere.
Ovunque fosse, gli bastava percepire quellodore per star bene.
«Mi sei mancato.» mormorò con un filo di voce, come per voler esternare la conclusione ovvia a cui era giunto nel sentir vorticare certi pensieri nella mente, e sorrise a sua volta, nel vedere gli angoli della bocca delluomo di cui era disperatamente innamorato piegarsi verso lalto.
Sapeva bene di non doversi aspettare parole da Brian; e sapeva anche che il guizzo luminoso che si era acceso in quelle iridi verdi nel momento in cui aveva pronunciato quelle parole valeva molto di più di qualsiasi confessione.
E probabilmente fu proprio quella traccia lucente a dargli il coraggio per sollevare una mano e sfiorare con la punta delle dita una guancia perfettamente rasata dellaltro, appagandosi del calore della sua pelle e del modo in cui la testa di Brian si piegò per cercare quella carezza, plasmandosi su quel tocco.
Piccoli gesti, movimenti appena percettibili; passi lenti e misurati da infinita calma, per percorrere la distanza che si era intromessa tra di loro in quel tempo che avevano definito insignificante ma che, a dispetto della loro traballante spavalderia, aveva quasi rovinato ogni cosa.
Respiri trattenuti e occhi che si osservavano attentamente per imprimersi ancora una volta nella testa ogni singola particella del volto che gli stava davanti; per una volta luno di fronte allaltro, in un confronto diverso, senza la fretta di aversi, scortati da quella passione incontenibile che aveva caratterizzato ogni loro incontro.
Justin sentì il proprio cuore accelerare il battito quando la sua mano venne coperta da quella di Brian e le loro dita andarono a intrecciarsi in un incastro perfetto e guidato da movimenti fatti di una complicità disarmante, come se fossero mossi dalla stessa persona.
Perché fin dal loro primo incontro, qualcosa dincomprensibile ma altrettanto resistente si era andato a formare e annodare tra le loro vite. Un filo quasi invisibile e che spesso gli aveva comunque permesso di allontanarsi luno dallaltro e di farsi anche male, ma che in un modo o nellaltro, era rimasto ben saldo a ricordare loro come ritrovare sempre la strada e incontrarsi ancora.
Né Justin, né tanto meno Brian, credevano in cose stupide e patetiche come il destino, eppure quel loro legame così particolare aveva il sapore di qualcosa che andava ben oltre la normale realtà. Un po come loro due del resto, che di convenzionale non avevano assolutamente niente, e forse mai lavrebbero avuto.
Brian mosse il pollice per accarezzare con movimenti circolari il dorso di quella mano più piccola della sua e diafana, dalle dita affusolate e abili, proprio come immaginava dovessero essere quelle di unartista – il suo artista – che lo toccava ogni volta come se fosse una preziosa opera darte, facendolo sentire venerato, appagato e amato, come mai nessuno era riuscito a fare.
Quelle mani sulla sua pelle, avevano lasciato tracce indelebili; si erano tatuate su di lui, gli erano entrate dentro, e avevano scavato con inesorabile lentezza finché, senza neanche rendersene conto, erano arrivate a toccargli il cuore e a scaldarlo per la prima volta nella sua vita.
Justin era lunico a esser stato capace di arrivare così nel profondo e, soprattutto, a esser stato in grado di ricavarsi uno spazio in mezzo al suo enorme ego e a diventare indispensabile.
Per ogni volta in cui laveva cacciato via, per ogni volta in cui laveva ferito e per ogni volta in cui aveva sbagliato, portandolo a tirare su un muro per allontanarlo, quel piccolo raggio di sole aveva sempre trovato il modo di oltrepassare ogni sua barriera, anche se questo aveva significato dover percorrere una strada insidiosa e dolorosa. Justin, in fondo, non si era mai arreso e, alla fine, lo aveva raggiunto.
E in fin dei conti era stato così facile innamorarsi di lui che neanche riusciva a capire quando era successo. Forse fin dalla prima volta in cui laveva visto, oppure dalle sensazioni che aveva provato nel fare lamore con lui – perché Justin aveva ragione. Neanche la prima volta era stato solo sesso. Tra di loro, non era mai stato solo sesso – o nel momento in cui aveva capito che stava rischiando di perderlo, la notte dopo il ballo scolastico.
Non era stato difficile amarlo; era stato difficile ammetterlo.
Era stato difficile – e continuava a esserlo – pronunciare quelle due piccolissime parole, e neanche quelle erano servite a non farli separare, o a togliersi quellorrendo vizio di torturarsi inconsapevolmente a vicenda, o smettere di soffrire per gesti non fatti e parole non dette, guidati da convinzioni assurde.
Niente era mai stato semplice fra loro, a parte innamorarsi luno dellaltro; e probabilmente era stato proprio questo il motivo per cui si erano intrecciati in quel legame ed erano finalmente di nuovo insieme.
In quel loro ostinarsi a complicare le cose si nascondeva linnata capacità di ritrovarsi sempre e comunque; la facilità con cui sapevano rincontrarsi senza smettere mai di amarsi.
Brian ampliò il suo sorriso – colto da quelle consapevolezze – e si protese un poco per far sfiorare la punta del suo naso contro quella di Justin, e avanzò ancora fino a trovare la sua fronte su cui appoggiarsi, come già tante altre volte aveva fatto.
A occhi chiusi si beò della stupenda sensazione che gli davano quei fili biondi quando lo sfioravano delicatamente, e ascoltò il suono del suo respiro confuso con quello dellaltro, insieme al battito sincronizzato dei loro cuori.
Era come se si fossero riconosciuti e avessero ricominciato a pulsare in sincronia, sulla stessa lunghezza donda, come se per funzionare davvero avessero bisogno di farlo insieme.
Cristo, quanto mi sei mancato.
Si riempì del suo odore con un respiro e slegò le sue dita da quelle di Justin per portare entrambe le mani a circondargli il viso e affondare in quella chioma bionda e soffice, per trarlo a sé e far finalmente congiungere le loro labbra in un bacio dolce e appena accennato, come se entrambi sentissero di doversi riabituare lentamente a quella droga chiamata “passione”, che era sempre imperversata tra loro, per cinque lunghi anni.
Ma per quante accortezze potessero prendere, non potevano certo mentire a loro stessi; non potevano nascondere ancora a lungo quella loro natura.
Il calore divampato improvvisamente da quel contatto, insieme ai fremiti che dilagarono in tutto il corpo, non fu che la scintilla destinata a innescare lesplosione.
Perché per quanti anni fossero trascorsi, per quanta distanza gli fosse stata imposta e per quanti ostacoli avessero dovuto superare, il fuoco che li aveva sempre uniti non poteva essere estinto. Poteva essere solo domato e sopito per un tempo limitato e insignificante.
Brian e Justin non potevano stare vicini senza prender fuoco, incendiandosi lun laltro; erano fatti per bruciare e consumarsi insieme, ed era così che sarebbe sempre andata tra loro.

La loro prima volta, Brian gli aveva detto che avrebbe fatto in modo che se la ricordasse per sempre, cosicché, con chiunque fosse stato da quel momento in poi, ci sarebbe sempre stato anche lui.
Ed era esattamente così che era andata.
Justin non avrebbe mai dimenticato quel giorno, la perfezione di quella notte e del modo in cui quelle mani lo avevano accarezzato, come quella bocca lo aveva baciato e la sensazione di averlo dentro di sé per la prima volta.
Da quel momento in poi, Brian cera sempre stato. Nei suoi pensieri, sulle sue labbra con il suo sapore e sulla sua pelle con il suo inconfondibile odore.
Niente era paragonabile a quando faceva lamore con lui; niente era paragonabile a Brian Kinney.
E anche quella sera, nonostante i giorni che li avevano separati e feriti, la complicità dei loro movimenti, non era stata minimamente scalfita o contaminata dalla lontananza. Proprio come il loro amore, non era ingrigita, ma brillava con la stessa intensità di sempre, e guidava le mani di Brian ad accarezzare la schiena dellaltro, lasciandolo pervadere dai brividi, fino a raggiungere il bordo del maglione e sfilarglielo con un gesto secco, insieme alla maglia.
La loro complicità divampava nel modo in cui le dita di Justin liberavano i bottoni della camicia di Brian dallasola, e da come i lembi venivano scostati e abbassati, fino a che la stoffa bianca non andò ad adagiarsi a terra; o nel modo in cui si sorridevano, tra un bacio e laltro, incespicando nei jeans già sbottonati, mentre raggiungevano il letto e si lasciavano ricadere con un tonfo nel blu oceano del copriletto.
Affondare di nuovo le dita luno nei capelli dellaltro e farle correre fino a stringerli. Far sollevare la testa dellamante, con passione, a scoprire il collo per poterlo inumidire di una scia umida lasciata dai baci o dalla punta della lingua; piccoli morsi che costellavano la pelle di marchi rossastri e sospiri trattenuti appena, per poi essere rilasciati, senza nascondere minimamente il sollievo nel sentirsi nuovamente insieme.
Justin portò le braccia a circondare il collo di Brian e lo tirò a sé, per assaporare ancora il gusto di quelle labbra morbide e intrecciare la lingua con quella dellaltro, e sentirne il respiro caldo sulla pelle.
Lasciò che fosse lui a togliere anche lultimo pezzo di stoffa rimasto a dividerli e fu inevitabile sorridere, quando lo vide aprire il quadratino di plastica del profilattico con i denti; così come gli aveva sempre visto fare.
Non cera tempo quella volta per i preliminari, o i loro giochetti sciocchi ed eccitanti; non cera tempo per scherzare, perché dovevano aversi. Dovevano sentirsi nuovamente una cosa sola, al più presto. Percepire ancora il calore emanato dai loro corpi fusi in un unico incastro perfetto; e al diavolo se non si fossero mai più rivisti dopo quella notte...al diavolo New York, larte, gli impegni di lavoro, gli aerei mancati e le telefonate non fatte.
Al diavolo tutto...perché, in quel momento, cera spazio solo per loro due e per la felicità che riuscivano ad accendersi dentro quando erano insieme, quando potevano abbracciarsi e amarsi come solo loro sapevano fare.
Cancellando definitivamente i pensieri dalla mente, Justin portò entrambe le gambe ad appoggiarsi sulle spalle dellaltro e si sollevò un poco per raggiungere la bocca del suo amante e baciarlo ancora. Brian lo guardò intensamente, con gli occhi accesi di languida eccitazione, mentre le sue labbra si erano già increspate in un dolce sorriso. Socchiuse gli occhi e, trattenendo il fiato, entrò dentro di lui, lasciandosi sfuggire un gemito strozzato che andò ad unirsi e mischiarsi nellaria a quelli di Justin.
Brividi di piacere percorsero il corpo di entrambi come scariche elettriche, mentre le loro lingue continuavano a cercarsi e trovarsi, dallunione delle loro labbra, tra spinte e sospiri, gemiti e parole sussurrate appena.
Piccoli morsi, come se volessero divorarsi e vivere soltanto cibandosi luno dellaltro, e di quellamore che li legava saldamente; e affondi più profondi, quasi a voler perdere e distruggere i loro contorni per ricollegare quelle due anime che, ne erano certi, un tempo dovevano aver fatto parte di una sola essenza.
Brian gli accarezzo i capelli, lo baciò sulla fronte e scese lungo il naso e la bocca, fino al collo. Lo leccò per tutta la lunghezza, aumentando la presa delle sue dita, nella foga delle sue spinte, tanto da togliere il fiato a entrambi. Justin spostò le gambe a cingere la vita dellaltro e con le mani si aggrappò alla sua schiena, avvicinandosi per congiungere nuovamente le loro labbra e perdersi in quei baci pieni di passione, fino allorgasmo.
Sudato e con il respiro affannato, Brian si lasciò ricadere sul petto di Justin e lentamente uscì dal corpo del suo amante, mentre con le labbra costellava quelle dellaltro di piccoli baci languidi.
Si sorrisero ancora, sinceri, e sfiorarono i loro nasi, inspirando profondamente i loro profumi nuovamente mischiati, insieme allodore della loro unione, e godendosi il calore che i loro corpi erano finalmente tornati a trasmettersi.
Le mani di Justin corsero ad accarezzare i capelli e il collo dellaltro, prima di scendere sulle spalle e proseguire a sfiorare i muscoli asciutti e sempre perfetti delle braccia di quelluomo a cui doveva tutta la sua vita, trovando il coraggio per ripetere ancora quella piccola frase: «Mi sei mancato.» lo sussurrò e volle dirglielo ancora, e ancora. «Mi sei mancato, mi sei mancato da morire.» e con le lacrime ad annacquargli il blu chiaro degli occhi, respirò a fondo e riuscì a togliersi di dosso anche quelle ultime parole che continuavano ad opprimergli il petto: «Ti amo ancora.» 


*** 


Note finali: 
Fischietto distrattamente e faccio la gnorri... XD 
Ho deciso di anticipare perché mi sono resa conto che nei prossimi giorni sarò davvero incasinata, soprattutto per la partenza, e non volevo rischiare di non avere il tempo per rispondere a tutte le recensioni e andarmene senza aver aggiornato come promesso. 
Stavolta però, note telegrafiche e senza alcun tipo di commento o anticipazione...anche perché non ho la più pallida idea di come interpreterete questo momento molto fluffleggiante...nè di quello che vi aspettate nel prossimo...
Spero solamente vi sia piaciuto almeno un po'! ^^ 
Mi limito perciò a fare la cosa più importante di tutte: Ringraziamenti
Un grazie a tutti coloro che hanno letto questo capitolo, a chi ha inserito la storia tra le preferite, le seguite o le ricordate, ma soprattutto grazie a: Thiliol, electra23, OfeliaCuorDiGhiaccio, Clara_88, FREDDY335, mindyxx, EmmaAlicia79, SusyJM, oo00carlie00oo, giacale, Hel Warlock, Katniss88 e silvergirl per aver recensito l'ultimo capitolo! GRAZIE DAVVERO!
Detto questo posso anche scappare fuori, altrimenti mi lasciano a piedi e almeno posso sfuggire dalla furia di alcune di voi che mi odieranno per questo capitolo, e probabilmente anche di più per cosa succederà nel prossimo! XD 
Tornerò il 14, ma non so ancora quando pubblicherò...prometto comunque di non farvi aspettare troppo
Un bacio e ancora buone vacanze. 
Veronica.

PS. Non so come lo chiamate voi, ma per noi Fiorentini il "bobo nero" è l'uomo nero. XD Sono cretina, lo so.
PPS. La canzone di Damien Rice - che io adoro particolarmente - vale per tutto il paragrafo, fino alla fine. Lo so che è un appunto idiota, ma ho scritto quella parte con questa canzone in loop, quindi ci tenevo a specificarlo. XD

   
 
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