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Autore: Sonnyx94    05/08/2011    2 recensioni
Demi Lovato è appena tornata a New York. E' stata lontana per un anno, ricoverata in ospedale per una malattia che l'aveva colpita. Qui tornerà a riprendere la sua vecchia vita al liceo e tra amici ritrovati, nuove conoscenze e il calore di essere tornata a casa, scoprirà che qualcosa nella sua vita cambierà. Quel cambiamento lo provocherà Joe Jonas, trasferitosi nella Grande Mela poco dopo la partenza della ragazza. Demi imparerà che la vita può essere malvagia ma che se si è in due le cose possono risultare più facili e mai avrebbe potuto immaginare di venire salvata dal Paese delle Meraviglie, come New York, da un Pirata, come Joe.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Demi Lovato
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Cap.2: Ritorno a casa


San Francisco dista esattamente 6 ore di volo da New York. Due città stupende, conosciute in tutto il mondo, ma con due fascini esattamente diversi. San Francisco è soleggiata e calda per 12 mesi l’anno, New York è gelida l’inverno e calda l’estate.
Scesi dall’aereo di linea e presi il treno che mi portò fino a Manhattan, nell’Upper East Side.
La stazione centrale era decorata in modo moderno, le vetrate erano nuove e i muri in marmo color oro sbiadito, sembravano dire “Benvenuti!”.
-Demi stai calma -pensai, trascinandomi dietro la valigia. Uscii dalla stazione per trovarmi davanti  la mia città. Manhattan in autunno era una visione fantastica.
Il grigio dei grattacieli stonava con gli alberi dai mille colori e le strade, che erano sempre grigie, erano colorate dalle foglie cadute dagli alberi e le macchine che passavano le facevano volare, avvolgendo i poveri passanti che correvano qui e là per gli isolati.
Ispirai l’aria, per chi era abituato all’odore dell’inquinamento della città, riusciva ad accostarlo e sentire solo il buon odore che usciva dai bar di caffè caldo e il profumo delle foglie secche.
Erano le sei di sera, la città era colorata dal tramonto rosso, che donava un qualcosa di innocente alla città, anche se di innocente non aveva proprio niente.
Mi passò davanti una donna giovanissima, fresca di laurea, vestito di Prada, tacchi vertiginosi, cappotto lungo e capelli perfetti. Sorrisi, - non era proprio cambiato niente - pensai.
Manhattan era sempre la stessa, tutti pensavano sempre e solo alle apparenze.
D'altronde non era un caso, mio padre piuttosto di dire a tutti che sua figlia se ne era andata a San Francisco perché aveva la meningite, aveva preferito dire che mi aveva mandato in collegio per un anno.
Per un anno non ero andata a scuola, ma non lo avevo perso davvero, durante la mia permanenza in ospedale un professore mi insegnava privatamente, in modo che, se fossi mai tornata, nessuno avrebbe mai sospettato niente.
-Chissà cosa avrebbe pensato mia madre di tutto questo- mi chiesi, pensando a come si erano ridotte le cose dopo la sua scomparsa, non che sapessi come erano prima le cose, visto che mi basavo solo sulle storie che da sempre mi raccontava la mia tata.
Il rumore di un clacson mi fece riemergere dai miei pensieri, mi voltai e vidi l’autista di mio padre che mi faceva cenno con una mano.
Sorrisi e lo raggiunsi.
-Bentornata signorina Lovato- mi accolse, togliendosi il ridicolo cappello da autista, prese i miei bagagli e mi aprii la portiera.
-Edward sai che odio essere chiamata così- dissi io con un sorriso.
-Felice di vedere che non è cambiata- disse chiudendo la portiera della limousine nera.
Ah già, forse non ve l’ho ancora detto, mio padre è ricco, molto ricco.
Mi sistemai sul sedile in pelle chiara, afferrai la bottiglia di Bacardi al lime per gli ospiti.
-Non è il massimo però sempre meglio che niente- pensai, volevo non essere del tutto sobria per il mio incontro con mio padre, ma quella bevanda non mi avrebbe reso abbastanza brilla.
Non pensate male, non sono un’alcoolista, semplicemente a Manhattan bere era una cosa normalissima. Non ne abusavo, ma ovviamente davanti a un bicchiere di vino, non rifiutavo di certo.
Sorseggiai il mio Bacardi in santa pace, appoggiando la testa al finestrino, mentre sfrecciavo per le strade di Manhattan.
Mi ero appisolata, quando all’improvviso Edward abbassò lo sportello che mi divideva dal posto di guida.
-Signorina, siamo arrivati- disse, guardandomi dallo specchietto.
Strofinai gli occhi, presi la borsa e scesi dalla limousine.
-Grazie Edward- dissi, salutandolo.
Mi ritrovai davanti a un grattacielo, scalini di marmo bianco sporco all’entrata. Sopirai, feci gli scalini ed entrai.
-Signorina Lovato! Bentornata!- mi salutò Albert, il portiere, con il solito sorriso di sempre.
-Ciao Al- dissi salutandolo, dirigendomi verso il bancone, volevo perdere un po’ di tempo.
-Allora com’era la California?- mi chiese, adoravo Al, era interessato a tutto quello che succedeva a tutti, ma non era un pettegolo. -Chissà quante cose sapeva appostato dietro al suo bancone- mi chiesi.
-Mmm...troppo sole!- dissi sorridendo.
-Newyorkesi!- esclamò Albert alzando gli occhi al cielo, me lo diceva sempre, lui così fiero delle sue origini italiane.
-Fino alla morte!- dissi allontanandomi e raggiungendo l’ascensore.
-Ah le sue amiche sono passate e hanno detto che la passeranno a prendere domani- aggiunse Albert.
-Grazie Al sei il migliore!- dissi mentre l’ascensore si chiudeva.
-L’unico della mia specie!- disse salutandomi con la mano.
Albert, uno dei pochi uomini che lavoravano per mio padre che era in grado di trattarmi come una persona normale e non come la figlia di un uomo d’affari, milionario e freddo come il ghiaccio.
Mi appoggiai al muro dell’ascensore, mentre salivo all’ultimo piano del grattacielo, vedevo la mia adorata Manhattan illuminata dalle luci mentre calava la notte.
L’ascensore si fermò e io entrai in casa.
Il solito profumo di rose fresche mi accolse. Il mio fiore preferito. Tutto era rimasto come prima, l’ingresso arredato, come il resto della casa, con mobili moderni. Le soffici tende bianche erano accostate ai bordi delle finestre, per lasciare vedere il bellissimo panorama della città. Sorrisi, finalmente un posto che mi emanava calore, non più chiusa dentro quelle pareti bianche e prive di emozioni o di ricordi dell’ospedale.
Tolsi la giacca di pelle e l’appoggiai insieme alla borsa sul divanetto dell’entrata.
-Signorina Lovato!- esclamò una voce familiare.
Mi girai verso la porta della cucina, sulla soglia c’era una donna bassa e paffutella, vestita da donna delle pulizie.
-Dorota!- esclamai e le corsi incontro abbracciandola.
Dorota era stata la mia tata, la madre che non avevo mai avuto. La persona che sono ora è tutta opera sua.
-Signorina ma è cresciuta ancora, non è possibile!- disse Dorota, facendomi girare su me stessa mentre mi ispezionava. Mi misi a ridere, sembravamo proprio madre e figlia.
-Però è dimagrita! Non vi hanno fatto mangiare a San Francisco vero?- disse accigliata.
-Dorota smettila!- dissi, era vero, ero dimagrita, non che fossi mai stata grassa, anzi, ma tra terapie e antibiotici, il cibo era l’ultima cosa a cui pensavo.
-Mio padre c’è?- chiesi, non lo avevo ancora visto.
-No, ha avuto un impegno di lavoro, tornerà domani- mi disse dispiaciuta.
-Certo- . - C’è sempre un impegno di lavoro - aggiunsi io pensando.
Forse era un bene che avessi bevuto solo un bacardi, ubriacarsi non sarebbe servito a niente.
-Su forza, vediamo di mettere un po’ di carne su queste ossa!- disse Dorota per sdrammatizzare.
Sorrisi e mi lasciai trascinare in cucina.
Che me ne importava se non c’era mio padre, la mia famiglia l’avevo già incontrata: Dorota, Albert e Edward. Era sempre stato così, ma a me andava bene, non avevo mai conosciuto niente di meglio.

  
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