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Autore: nightswimming    02/09/2011    6 recensioni
Stringo la sua mano con un sorriso sincero.
- Léa. –
- Léa come? – chiede, sciogliendo subito la stretta.
- Brian come? – ribatto automaticamente io, aggrottando le sopracciglia. Lui esita un attimo e poi sorride, piegando le labbra in una smorfia ironica.
- Brian Molko. Ma sono l’unico Brian in città, non mi puoi confondere con nessun altro. – dice, in un buffo tono a metà fra il lieve e il presuntuoso. Ha una voce incredibilmente nasale.

(II capitolo online)
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Brian Molko, Nuovo personaggio, Stefan Osdal, Steve Hewitt
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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QUESTA E’ LA PRIMA SIGNIFICATIVA PAGINA BIANCA
SEVERAMENTE VIETATO SCRIVERCI SU
 
Solo per pazzi!!!
 
Brian, sai leggere?
No
Beh sì
E’ che mi faceva tristezza la pagina bianca
 
 
 
 
 
 
 
 
29 agosto 1988
 
Non riesco. Non voglio. Non voglio e non riesco. Perché
Lo so che dobbiamo. Lo so che devo. Ma non cambia nulla.
Perché diavolo scrivo? Io detesto i diari, mio padre mi obbligava sempre a scrivere cosa avevo fatto durante la giornata, e io lo odiavo, quindi perché
 
Dopo
 
La mamma ha già tirato fuori tutto, anche le foto. Ci sono tutte. TUTTE. Tutte quelle di famiglia.
Perché, mamma? Non ha senso. Ce ne siamo andate per un motivo, lo stesso motivo che rende crudele e grottesco tenere quelle foto sulla credenza. Togli almeno quella del matrimonio, sei così bella, lì, e anche papà e bellissimo, Dio, basta, basta, basta, basta basta basta basta basta
 
30 agosto 1988
 
Non riesco a dormire, i dischi sono ancora impacchettati, mi fa male il naso, mi sono stufata di piangere e mi è venuta la bella idea di ricominciare a scrivere. E’ tardissimo e il silenzio che c’è in questa stanza è come un cuscino premuto sulle orecchie. Non ho voluto stare in camera con la mamma, non stanotte. Sapevo che non l’avrei fatta dormire.
Mi sento prudere dappertutto: è perché voglio muovermi, muovermi e andarmene.
Vado via
Dove vado?
 
Mattina – veramente un’orrenda mattina
 
La mamma è uscita presto per comprarmi gli yogurt, ci ha messo un po’ perché ha fatto fatica a trovare il supermercato. Persino la luce è grigia in questo posto: filtra dai vetri tirati a lucido con l’energia appena sufficiente a far brillare il cucchiaio dei cornflakes. Non sono ancora mai uscita da quando siamo scese dalla macchina, neanche per portare fuori il cane. Devo prendere una boccata d’aria fresca oppure impazzisco.
Ma si può chiamare aria fresca quella di ***, Lussemburgo?
 
Orrendo pomeriggio
 
No, non si può.
Almeno i dischi sono fuori. Ascolto Bob Dylan, Ramona come closer shut softly your watery eyes, una delle mie preferite. Ne ho fisicamente bisogno.
Mamma sta facendo il bagno al cane. Ride, urla e lo insulta perché l’ha schizzata tutta e di vestiti ne abbiamo portati dietro pochi, se cominciamo macchiandoli di eau de chien butta male. Ride ancora.
Come accidenti fai?
Io compilo il mio modulo di iscrizione di scuola e fumo in casa in barba al tuo divieto. So che ora come ora non hai la forza di rimproverarmi, e mi sento ad un tratto prepotente e insensibile, ma subito dopo penso che non me ne importa proprio niente.
 
Orrenda serata
 
Fa un freddo maledetto e siamo ad agosto. Cristo santissimo, odio questo posto!
Marcel poggia il suo musone nero sul grembo della mamma e guarda con lei la tv, gettandomi canini sguardi di rivalsa dall’altro lato del divano. La mamma è mia anche stasera, dice tutto soddisfatto.
E tienitela, rispondo io facendogli una linguaccia, è così ottimista nonostante tutto che mi fa venire voglia di giocare a biglie con le perle delle sue collane.
La scuola comincia il primo settembre. Il solo pensiero di andarci mi frustra già. Che me ne faccio di un ultimo anno gettatomi addosso così, alla rinfusa, senza amici e senza nessun appiglio? A che serve?
Ho chiesto alla mamma di poter dare gli esami da privatista, ma non l’avessi mai fatto!
“Non devi isolarti, pulcino, la scuola è una simulazione di vita vera. E’ noiosa ma ti serve”.
Ah, ‘fanculo.
 
Seguito dell’orrenda serata
 
Sono uscita per la prima volta, portata al guinzaglio da Marcel per tutta la strada. Schiere e schiere di rispettabili casette con davanti un rispettabile giardino, munite di rispettabili staccionate e rispettabilissime cassette della posta. Fisso con disgusto i vetri splendenti di questi blocchi identici uno all’altro e mi viene voglia di spaccarli tutti. Sono uguali ai nostri.
Marcel ulula alla luna per un paio di secondi, poi si rende conto anche lui di essere ridicolo e mi guarda con scarsa convinzione.
- Bello schifo, eh? – gli dico, rabbrividendo nella giacca di pelle.
Riprende ad ululare. Cretino.
 
Questa orrenda serata non finisce mai
 
Il tabaccaio più vicino è a quattrocentoventinove passi da qui, li ho contati. Ci sono arrivata davanti ed era chiuso.
Ci scommetto pure che a me non le vendono, dovrò mandarci la mamma che farà un sacco di scene perché lei non fuma e non vuole che la gente pensi che fumi. Che bello schifo davvero.
 
Mancherò di fantasia ma che notte orrenda
 
Perché non riesco a dormireeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeeee
Dormo, basta, mi sono stufata anche di non riuscire a prendere sonno. Rimetto su qualcosa sul giradischi. Nights In White Satin.
C’è qualcuno che ha già tentato di suicidarsi con i Moody Blues in sottofondo o potrò vantarmi nell’aldilà di essere stata la prima?
 
30 agosto 1988
 
Mi ha svegliato uno snervante susseguirsi di rintocchi che ho cercato inutilmente di ignorare, non riuscendoci. Abbiamo una graziosa chiesetta di fianco – graziosa dal punto di vista dell’architettura, sia chiaro, questa faccenda della sveglia obbligata alle dieci e mezza di ogni maledetta domenica per il richiamo a messa mi fa andare su tutte le furie.
Già non riesco a dormire, e adesso ci si mettono pure le campane!
 
Più tardi
 
Inutile, non sono riuscita a riaddormentarmi. Ho leggiucchiato un po’ a letto e dopo mi sono risolta ad uscire con la bestiaccia per andare a prendere il giornale alla mamma e una brioche per me – non che non voglia prenderla anche per lei, è solo che non la mangia, di mattina ha lo stomaco chiuso.
L’edicolante è stato diffidente ma educato, il barista invece mi ha squadrato con malcelata curiosità.
Sono la nuova arrivata, dopotutto, in un posto piccolo come questo una faccia sconosciuta dev’essere un bel trauma.
Marcel trotterella giulivo al mio fianco, anticipandomi di diverse falcate – inutile, non ci si riesce proprio a inculcargli di stare al passo, nemmeno mio padre c’è mai riuscito.
Mi chiedo se il papà pensi al cane, di tanto in tanto. Marcel non ha mai smesso di adorarlo; oggi l’ho sorpreso ad aspettare zampe riunite davanti alla porta, e il pensiero che avrebbe aspettato invano mi ha fatto salire le lacrime agli occhi. Sono andata in cucina e ho fatto risuonare i biscotti nella sua scatola. Lui è subito venuto a mangiarne uno.
Spero si rassegni un giorno a capire che non tornerà più - spero soprattutto di riuscire a farlo io.
 
Un pochino più tardi ancora
 
Sono uscita a fumare una sigaretta nel portico e mi sono soffermata a guardare la gente che usciva da messa. Sono tutti distinti signori in completo da lavoro e eleganti signore in gonna, camicetta e giro di perle: a prima vista non sono riuscita a distinguere i ragazzi dagli adulti, perché si vestono uguali. Ci sono pochi bambini e di conseguenza c’è poco rumore. Regna la compostezza e il decoro, persino nell’erba tagliata all’inglese che costituisce il praticello antistante alla chiesa.
Ho tirato una lunga boccata e ho sentito entrarmi nei polmoni il fumo della sigaretta e tutta la pesantezza che ristagna nell’aria di questa cittadina. I suoi abitanti sembrano non sentirla: chiacchierano serenamente, inconsapevoli di essere guardati e persino un po’ odiati da me. Nessuno ricambia le mie occhiate, nessuno mi nota, e chi di sfuggita mi nota non si interessa alla mia persona.
Sono un’estranea, una straniera, una di fuori. D’un tratto mi viene l’inspiegabile paura di restare tale per tutta la mia permanenza qui.
La sigaretta, partecipe del mio sconforto, mi si spegne in bocca. Tiro fuori l’accendino per riaccenderla e d’un tratto mi sento qualcosa addosso, come un tocco leggero ma insistente, e alzo la testa verso la folla radunata davanti alla chiesa.
Un ragazzo mi fissa, l’aria a metà fra il corrucciato e l’incuriosito. Sostengo il suo sguardo.
E’ basso, di corporatura nervosa, e anche se è almeno a dieci metri riesco a vedere che ha gli occhi molto chiari – verde, forse, o azzurro pallido. E’ vestito in giacca e cravatta come tutti gli altri, ma sembra volersi convincere che nonostante il freddo sia pur sempre estate e tiene i primi due bottoni della camicia slacciati. C’è un che di volutamente trascurato nel suo abbigliamento che lo rende particolare, facendolo spiccare in mezzo alla piccola folla che lo circonda. Continua a fissarmi, una mano piantata con decisione nella tasca sinistra dei pantaloni; con l’altra si riavvia distrattamente i capelli, all’apparenza indeciso su cosa fare. Ad un tratto capisco.
Non fissa me. Fissa il mio accendino.
Faccio sprigionare la scintilla in un gesto di intesa, sorridendogli. Non vedo che faccia fa perché si gira ad un tratto a salutare una bella signora dai capelli rossi e i lineamenti severi che probabilmente è sua madre – c’è qualcosa di simile nella forma del viso, nel modo fluido di muoversi. La guarda allontanarsi, aggrottando le sopracciglia, poi si gira di nuovo verso di me e muove un passo in avanti con aria seria. Ne fa un altro, e un altro ancora, infine decide di tentare una camminata continua e mi si avvicina con lentezza studiata.
Scendo i gradini del portico, mettendo insieme un sorriso più prudente di quello di prima – dopotutto, non è che lui mi abbia mostrato alcun segno di benevolenza. Ora che è più vicino vedo con chiarezza che ha gli occhi verdi, lucidi e seri. Porta i capelli leggermente più lunghi degli altri ragazzi che ho visto, in un’onda graziosa che pare quasi femminile.
- Devi accendere? – gli chiedo, in tono sommesso. Non so perché ma non riesco a parlare come vorrei.
Lui sembra soppesare con attenzione la mia domanda, manco fosse una proposta di matrimonio, poi ficca di nuovo la mano nella tasca e ne estrae un pacchetto di Gitanes.
- Grazie. – risponde, secco ma non maleducato, sfilandosene una e mettendosela in bocca con un gesto brusco come il suo tono di voce. Porgo la mano per accendergliela ma lui mi sfila l’accendino e provvede da solo. Quando me lo ridà, sento le sue dita sfiorarmi impercettibilmente. Sono calde.
- Prego. – rispondo, e subito dopo mi schiarisco la voce per farla uscire più decisa. Lui mi fissa con aria sospettosa.
- Sei nuova di qui, vero? – chiede, espirando una lunga scia di fumo dalle labbra. Dio, ho sempre desiderato fumare così scenograficamente.
- Sì. – rispondo, battendo a disagio una delle mie sigarette sul pacchetto. Lui continua a fissarmi con metodo, squadrandomi attentamente e quasi clinicamente, dopodiché si rimette la Gitane in bocca e mi porge una mano pallida e un po’ tozza.
- Brian. – si presenta, e ora la sua voce è un poco più accomodante. Persino i suoi occhi sembrano in qualche modo più caldi.
Stringo la sua mano con un sorriso sincero.
- Léa. –
-  Léa come? – chiede, sciogliendo subito la stretta.
- Brian come? – ribatto automaticamente io, aggrottando le sopracciglia. Lui esita un attimo e poi sorride, piegando le labbra in una smorfia ironica.
- Brian Molko. Ma sono l’unico Brian in città, non mi puoi confondere con nessun altro. – dice, in un buffo tono a metà fra il lieve e il presuntuoso. Ha una voce incredibilmente nasale.
- E come potrei. – rispondo in un accesso di impudenza che rischia di sembrare più provocatorio di quanto in realtà lo sia. Lui spalanca gli occhi fulminandomi con lo sguardo, sorpreso, poi ridacchia, schermandosi il viso con la mano che regge la Gitane. Mi accendo la sigaretta per nascondere il fatto che sono arrossita.
- Di Léa invece ce n’è un’altra, e per la cronaca mi sta sulle palle. Si chiama de Renal e si dà un sacco di arie. Tu invece saresti… -
- Leclerc. –
Sorride di nuovo, poi fa un passo indietro e alza la mano con la Gitane per salutarmi.
- Beh, ci vediamo a scuola, credo. O sei così sovversiva da non frequentare neanche quella, oltre alla santa funzione domenicale? – mi chiede, il viso illuminato dalla luce grigia di questo sole impietoso mentre esce dall’ombra del portico. Mi sforzo di sorridergli: male, è come pensavo, qui non andare a messa equivale a portare un cartello sul petto con su scritto “amo attirare l’attenzione”.
- Ci vediamo a scuola. – sottoscrivo, nervosa. Lui annuisce in segno di assenso e mi volta le spalle per andarsene, lasciando a terra il mozzicone della sua Gitane.
Lo guardo allontanarsi da solo, ignorato dai ragazzi che ancora sostano chiacchiericci davanti alla chiesa.
Un altro diverso, malgrado tutto?
 
Pomeriggio
 
KISS ME WHERE THE SUN DON’T SHINE
THE PAST WAS YOURS BUT THE FUTURE IS MINE
YOU’RE ALL OUT OF TIME.
 
Verso sera
 
Do uno sguardo alla divisa che sono andata a comprare oggi pomeriggio. E’ quanto di più anonimo e scialbo abbia mai visto, come si confà alla sua natura e al suo scopo – quello di renderci tutti uguali: camicia bianca, cravatta grigia, gonna a pieghe grigia, cardigan grigio e scarpe nere.
In pratica con questa roba addosso sembrerò un topo gigantesco, ma pur sempre con una buona famiglia alle spalle, Dio ce ne scampi. Semplicemente ridicolo.
Non ho mai portato l’uniforme prima. I soldati portano l’uniforme.
Significa forse che mi devo preparare a una guerra?
 
31 agosto 1988
 
Ho dormito con la mamma. Non ce la facevamo più a evitarci. Dopotutto, non è colpa sua almeno quanto non è colpa mia.
Ha sentito Maurice, dovrebbe riuscire a raggiungerci ad ottobre. E’ un bene: almeno così lei sarà più serena e si sentirà meno sperduta – sempre che lo sia davvero, dietro la sua solita irritante corazza di donna con la situazione in mano.
Quanto a me, non so che pensare. Sto in casa la maggior parte del tempo come se avessi paura di perdermi qualcosa, ad esempio l’arrivo imprevisto e provvidenziale di un benevolo visitatore.
Anche se in papà ormai ho smesso di sperare. Vorrei tanto che mi chiamasse stasera per augurarmi buon fortuna per domani…
Ma anche se non lo fa, chi se ne importa. Prima mi metto in testa come stanno davvero le cose e meglio è.
 
Dopo pranzo
 
Se mamma spera di risollevarmi l’umore facendomi il risotto ai funghi, si illude senza speranza – ma nondimeno apprezzo il tentativo. Molto.
Quasi quasi me ne riscaldo un altro piattino, muoio di fame.
 
Due piatti dopo
 
Ho mangiato così tanto che sento come dovere morale quello di uscire a fare una passeggiata con Marcel, altrimenti so che brucerò all’Inferno nel girone dei golosi.
Ma in fondo, pensandoci bene, non ho colpa: per quale altro peccato si potrebbe mai sperare di bruciare all’Inferno in questo buco di posto?
 
Pomeriggio di una noia mortale
 
Ho ottenuto dalla mamma di poter fumare in camera, a patto che tenga sempre le finestre aperte. Grazie a Dio. Non c’è nient’altro da fare qui se non leggere, mettere su dischi, strimpellare un po’ la chitarra e fumare una sigaretta dopo l’altra. L’augusta genitrice ha avuto il buon gusto di riconoscerlo e la diatriba sul mio lassismo si è logicamente afflosciata su sé stessa.
Peccato, una discussione è pur sempre un po’ di vita. Vedrò di farle saltare i nervi stasera a cena invertendo le posizioni delle posate a tavola – queste cose la fanno andare fuori di matto.
 
Notte troppo silenziosa
 
Mi fa male la pancia e non riesco a capire se è a causa del nervosismo per domani o dei quattro piatti di risotto. Avanzo l’ipotesi di un mix mortale fra i due e mi rigiro nelle lenzuola e nella frustrazione, senza pace.
Fuori dalla finestra vedo le luci della chiesa accese. E’ uno spettacolo molto bello.
Mi alzo dal letto, metto su Martha di Tom Waits e piango le mie buone lacrime rivolte alla federa del cuscino.
Nel momento in cui gli occhi mi si chiudono ripenso al ragazzo della chiesa, Brian o come si chiamava, e mi chiedo se domani lo incrocerò per davvero oppure no. E’ un dubbio stranamente pacificante, che invece di aggiungere ansia me la sottrae, è quasi una fantasticheria puerile da fiaba.
D’un tratto mi sento illusoriamente ed illogicamente meno sola.
 
1 settembre 1988
 
Non riesco a mangiare. Lo stomaco è un blocco di granito. Mi sento come se qualcuno avesse costretto nel mio esofago un gatto molto arrabbiato.
Mamma mi bacia ed abbraccia. Papà non si è fatto sentire, quello stronzo egoista.
Mi vergogno di avere così paura di una cosa così normale come il primo giorno di scuola: perché non è nervosismo, è proprio sacro terrore, è un’ansia divorante.
Come accidenti faccio a uscire di casa?
 
E’ finita
 
Meno traumatico di quanto pensassi. Dopotutto è una scuola privata, mica un lager nazista.
La parte più difficile è stata passare attraverso il cortile e su per le scale: mi sentivo tutti gli occhi addosso. Arrivata sulla soglia della classe mi sono bloccata sul posto e una coppia di ragazze sottobraccio mi ha urtato per entrare. Ero rigida come una statua di marmo, praticamente concorrevo a diventare parte dell’architettura scolastica.
- Resta o scappa via, signorina? – sento sussurrarmi d’un tratto all’orecchio. Mi volto come fulminata da una scossa e vedo davanti a me una signora sulla cinquantina molto piacente, che mi sorride e mi tende con aria complice una cartella che ha l’aria di pesare dieci chili e una pila di libri. – Resti, non se ne pentirà. E già che c’è mi appoggi questi sulla cattedra. –
Annuisco un po’ stranita barcollando per il peso della ventiquattr’ore. Quella che deduco essere la mia professoressa gira i tacchi e va a chiudere la porta, ma all’ultimo sguscia dentro il ragazzo della chiesa, Brian. Le rivolge un sorriso sfacciato.
- Buongiorno, prof. – cinguetta, sistemandosi la cartella a tracolla. Lei gli fa un brusco cenno che significa muoviti e stira le labbra in una smorfia.
- Buongiorno, Molko. Vedo che anche quest’anno persiste a ritenere che sia il mondo ad essere in anticipo e non lei in ritardo. –
Brian riduce di un poco il suo sorriso e si dirige in secondo banco, incrociando il mio sguardo e alzando gli occhi al cielo.
- Allora, - esordisce la donna sedendosi con un sospiro e aprendo il registro con un gesto secco, - primo settembre millenovecentottantotto, prima ora, che bello, forse l’unica occasione in cui posso affermare con sicurezza che siete freschi e predisposti all’attenzione. – Si sistema gli occhiali sul naso sorridendo fra sé e sé. Io, per la cronaca, sono ancora impalata di fianco alla cattedra, a mio agio più o meno come San Sebastiano durante il martirio. – E una nuova studentessa. Nome e cognome? –
- Léonie Leclerc. – gracchio, gli occhi fissi sul legno della cattedra. Lei prende nota accuratamente sul registro, annuendo soddisfatta, dopodiché mi indica con un gesto svogliato l’unico posto libero rimasto, quello in seconda fila accanto alla finestra. – Le risparmio la tortura di dover dire qualcosa su di sé. Io ne avevo il disgusto, quand’ero a scuola. –
La ringrazio mentalmente con tutto il cuore e schizzo in secondo banco. Accanto a me è seduta una ragazza con una faccia simpatica piena di lentiggini e con un naso molto grazioso, che mi sorride con vago disinteresse. La prof finisce di sbrigare la burocrazia, dopodiché si sfila gli occhiali e mi guarda con benevolenza.
- Vicino a Marlene, così, subito e senza preparazione. Sei stata sfortunata. – enuncia in tono divertito. La ragazza pare non prendersela e sorride educatamente. – Ma vedrai che è solo la prima impressione. Sembra dittatoriale, in realtà è solo deliziosamente primitiva. –
Ricambia il suo sorriso con aria di intesa. E’ evidente che la mia compagna di banco è una delle predilette. Comincio a pensare che forse è il caso di raccomandare l’anima a Dio.
Dall’altro lato dell’aula, Brian osserva distratto la mano tesa che Carole Marlene mi tende presentandosi.
- Ah, per lei, Leclerc: mi chiamo Geraldine Thierry, sono la vostra professoressa di francese. Per voi tutti: l’ultimo anno è impegnativo, sappiatelo - ma come sosteneva saggiamente Seneca, il meglio dei piaceri è alla fine. Buon lavoro. –
 
Lo stomaco si è rilassato e di conseguenza ho una fame allucinante. Ora che ci penso sono a digiuno da stamattina presto.
Continuo dopo.
 
Dopo
 
La Thierry, dicevo, è strana come il Natale alle Hawaii ma mi piace. E’ in gamba, è ironica, è svampita come le vecchie dive anni ’30 e il suo modo di spiegare è a dir poco ipnotizzante.
Peccato che costituisca una fortunata eccezione nel corpo docenti. Quella di matematica e fisica ha una voce che perforerebbe i timpani a un sordo e non ha palesemente più voglia di insegnare nulla a chicchessia; quella di scienze ha dei capelli che sembrano essere stati pareggiati da una ghigliottina ed è la classica prof maniaca della perfezione che si appunta tutto su uno di quei stramaledetti quaderni ad anelli, dalla marca dei tuoi vestiti all’umore che avevi nel giorno in cui sei stato interrogato. Ha esordito dicendo che siamo già in ritardo col programma – ci tengo a ricordare che oggi era il primo giorno.
Grazie a Dio l’orario era ridotto – solo tre ore – e alle undici era già tutto finito. Appena uscita dal portone ho messo mano alle sigarette con un gesto di sollievo, ma proprio mentre raggiungevo l’accendino in tasca mi sono sentita stritolare il braccio da una morsa prepotente.
- Che fai? – mi sibila Brian all’orecchio, e sono le prime parole che mi rivolge dall’inizio della giornata, - Non intenderai sputtanare così la tua buona impressione del primo giorno. –
- Ma che… - provo a protestare, inutilmente: mi interrompe subito.
- Qua se fumi non sei visto di buon occhio, soprattutto se non sei ancora maggiorenne. –
Strabuzzo gli occhi. Brian sospira condiscendente e alza gli occhi al cielo.
- Vieni con me - dice, con un evidente sforzo di pazienza, abbrancandomi per la seconda volta.
Mi riporta dentro l’edificio, su fino al secondo piano, poi spinge una porta a maniglia e mi conduce giù per quella che sembra una scala anti-incendio. In fondo alla suddetta scala, perfettamente silenziose, Carole e la Thierry fumano a distanza ravvicinata.
- Leclerc, anche lei qui a perder tempo? – mi apostrofa la prof, tirando una lunga boccata della sua lunga e sottilissima sigaretta. Io arrossisco. Lei mi sorride: sembra quasi intenerita, in una qualche maniera rigida e un po’ snob.
- Veramente… -
- Bene, qualcun altro a cui scroccare. Ottimo. Mi stai già più simpatica. – mi interrompe Carole, rivolgendomi un sorrisino malizioso. Ha l’aria di volermi comunicare che la mia prima impressione su di lei non dev’essere stata proprio superlativa.
Brian ridacchia e tira fuori una delle sue Gitane. Io lo seguo a ruota, impacciata.
- Di dove sei, Leclerc? – mi chiede la Thierry, brusca. – Direi di Parigi, a giudicare dall’accento. – completa subito senza darmi tempo di rispondere. Interrompermi dev’essere diventato il nuovo sport nazionale.
- Sì, è esatto. – replico timidamente. Carole ridacchia e muove le mani in maniera scema.
- Oh la la. – mi schernisce, ma pur sempre sorridendomi.
- Che ci fai in questo buco di posto, se vieni da lì? – mi apostrofa Brian, gli occhi velati di qualcosa che non riesco bene ad interpretare. Emetto un verso di sorpresa e inciampo sulle parole. Non mi va per niente di parlarne.
- Questa tua boccaccia, Molko, devi fare in modo di ridimensionarla prima che tu vada all’università. – lo bacchetta la Thierry, lo sguardo fisso su di me. I suoi occhi sembrano quasi comprensivi. Brian fa spallucce e si appoggia al corrimano con fare svogliato, la sigaretta penzoloni dalle labbra. Io sono ghiacciata dal disagio. – Altrimenti la vedo dura. –
- Sempre che ci vada, all’università. – ribatte lui a voce bassissima. Carole sogghigna.
- Sempre che ti ci prendano, all’università. – butta lì, casuale. Brian le rivolge un’occhiataccia.
- Se sono così scemi da prendere te, non vedo perché non dovrebbero accogliere me a braccia aperte. –
- Buon pomeriggio, ragazzi. – li interrompe la Thierry, spegnendo la sigaretta sul metallo freddo di un gradino. – Domani spiego, quindi siete pregati di portare i libri di testo. – Ignorando i loro commenti insofferenti, si tira giù gli occhiali sul naso e mi rivolge uno sguardo inquisitore. Io rabbrividisco intimamente. – Leclerc, ancora benvenuta. –
La guardiamo aprire la porta e scomparire lungo il corridoio con un’oscillante camminata altezzosa.
Dopo quest’attimo di innaturale stasi Carole si appoggia sulla ringhiera accanto a Brian e mi occhieggia divertita.
- Bel tipo, eh? – dice, soppesandomi attentamente con gli occhi.
- Sì. – rispondo, turbata. – Ma… Perché fuma qui? E’ una prof. Può fare quello che vuole. –
I due, sempre più inquietantemente simili al gatto e alla volpe, ridacchiano.
- Qui nessuno può fare quello che vuole. E poi, la Thierry non è vista di buon occhio né dal preside né dagli altri docenti. Non se la sente di tirare troppo la corda. –
- Perché? – chiedo, incuriosita.
- Primo: vota dalla parte sbagliata. Capisci cosa intendo. Secondo: è divorziata. –
- Orrore, disgusto, supremo affronto. – lo spalleggia Carole, profondendosi in un susseguirsi di smorfie.
- E terzo… Vive con la sua cameriera. – conclude Brian, in tono volutamente scenografico.
Io apro e chiudo gli occhi un paio di volte, confusa.
-E che c’è di male? –
- Diciamo che la gentile signorina non le fa solo le pulizie. – sussurra enfatica Carole.
- O altrimenti diciamo che è sempre molto diligente nella cura della camera da letto. – sogghigna Brian. Improvvisamente capisco.
- La Thierry è… Lesbica? –
Carole schiocca la lingua, soddisfatta.
- Fanno la spesa insieme. – elenca Brian, gli occhi verdi brillanti di riverenza. E’ evidente che se la Thierry non è amata dall’istituto nella sua interezza, è semplicemente idolatrata da questi due.
– Vanno insieme a concerti, mostre, conferenze, gite all’aria aperta. E, ciliegina sulla torta, non si perdono una santa messa nemmeno dovesse crollare il mondo. –
- Il prete non sa mai dove guardare quando le saluta. – ridacchia Carole.
Dopo quest’ultimo scambio di battute finiamo di fumare le nostre sigarette in silenzio. Usciti dall’istituto Brian ci saluta distrattamente e prosegue dalla parte opposta a casa mia. Carole, invece, fa un pezzo di strada con me – abita un isolato più avanti – e passa i cinque minuti che distano dalle nostre abitazioni a sputare su tutto e tutti, sparlando con raffinata perfidia in particolar modo dei nostri compagni di classe (“frigidi deficienti, teste di cazzo figlie di chissà quale inutile diplomatico, sporchi spioni”, ecc. ecc.). Arrivato il momento, mi saluta con un lezioso bacio sulla guancia e mi dice che d’ora in avanti possiamo fare la strada insieme – sempre che io abbia voglia di svegliarmi alle sette come fa lei, perché un lusso a cui assolutamente non può rinunciare è la colazione al bar. Io annuisco, stranita ma contenta.
Mi piace. Ha l’aria di essere tremenda, ma qualcosa mi dice che lo è solo con quelli che odia. E io, al momento, se ho capito bene, dovrei trovarmi dalla parte giusta della sua barricata.
 
Sera
 
A cena mamma mi ha chiesto com’è andata a scuola. Non ho saputo bene cosa risponderle, e lei ha preso la mia incertezza come un brutto segno ed ha subito cominciato a sommergermi di rassicurazioni.
Non è andata male, almeno credo. Brian e Carole sono molto interessanti – a dirla tutta, mi affascinano molto, singolarmente ma ancora di più in coppia. Il loro rapporto è molto strano: intimo ma in qualche modo sprezzante, tenero ma anche prepotente. Dev’essere successo qualcosa fra loro.
Magari sono stati addirittura insieme.
Spero di arrivare a conoscerli meglio. Il resto della classe sembra un manipolo di zombie upper-class, con le tasche piene di soldi e la testa di ragnatele.
 
A letto, insonne, guarda un po’
 
I toss and turn, I can’t sleep at night.
Più che il testo di Tainted Love sembra la storia della mia vita in questa città.
 
2 settembre 1988
 
Porto giù il cane prima dell’appuntamento con Carole. Mi sono svegliata molto prima di quanto fosse necessario. Ho una paura assurda di indisporla in qualsiasi modo.
 
Après la classe
 
Conosciuti gli altri professori: desolazione e sconforto. Meno male che c’è la Thierry – oggi ha cominciato a spiegare Stendhal, una meraviglia. Ha dato da leggere “Il Rosso e il Nero” per dopo le vacanze dei Morti. Io e Brian eravamo gli unici ad averlo già letto.
La Thierry ci ha sorriso annuendo fra sé e sé, come immagino faccia ogni volta che è soddisfatta. Carole accanto a me ha sbuffato sonoramente.
La parte più interessante della giornata, però, è stata la colazione. Carole ed io ci stavamo apprestando a pagare quando Brian è entrato di corsa, guardandosi alle spalle con aria infuriata.
La mia nuova amica ha alzato gli occhi al cielo. – Bene, si ricomincia. – ha commentato sottovoce, e Brian l’ha fulminata con lo sguardo. Aveva un vistoso graffio lucido di sangue proprio sotto l’occhio sinistro e il labbro leggermente tumefatto.
Ho spalancato gli occhi.
- Che ti è successo? – ho chiesto, preoccupata. Lui mi ha fissato con un lampo di fastidio negli occhi.
- Sono caduto. – ha detto sottovoce.
- L’hanno menato. – l’ha subito corretto Carole, beffarda, cercando le sigarette nella cartella. – Menare Brian è uno dei passatempi preferiti di questa città, subito dopo il karaoke del venerdì sera. –
- Sta’ zitta. – è sbottato lui, stringendo il tavolo sotto le nocche fino a farsele diventare bianche. Era pallido di rabbia, e in quel modo il graffio risaltava il doppio sul suo zigomo chiarissimo.
Ho frugato anch’io nella borsa per cercare i fazzoletti. – Tieni -, gli ho sussurrato, porgendogliene uno. Brian mi ha guardato con aria strana, quasi fossi uno strano tipo di insetto e non un essere umano come lui, poi, arrossendo per l’ira e forse anche per l’umiliazione, l’ha accettato mugugnando un secco grazie.
L’ho guardato pulirsi mentre una ciocca dei suoi capelli scendeva a mo’ di sipario sulla sua guancia livida. Dall’altro lato del tavolo, Carole faceva lo stesso, le sopracciglia aggrottate e gli occhi brillanti di una luce crudele.
- Non hanno capito l’antifona neanche quest’anno, quegli stronzi. – ha mormorato, più a sé stessa che a noi.
Brian ha ridacchiato aspramente. – Si vede che il karaoke del venerdì sera non è più divertente come una volta. -
Carole gli ha sorriso di malavoglia. Sembrava quasi fiera di lui, dopotutto.
- Tieni -, gli ha detto poi, ironica, allungandogli la sua trousse, - fatti bella. E copriti quel segnaccio. –
Brian si è truccato in silenzio davanti a noi, con perizia e attenzione: prima il fondotinta, per cancellare le tracce dello scontro, poi con mia grande sorpresa anche la matita per gli occhi e un leggero velo di ombretto. Quando ha rialzato lo sguardo su di me – uno sguardo nuovo, non più umiliato, non più ferito, ma lucido di orgoglio e di consapevolezza – sono ammutolita. Era bellissimo. Non che non fosse bello anche prima, ma ora era… Magnetico. Una calamita naturale.
- Visto com’è più carina se si trucca un po’? – ha commentato maliziosa Carole, risvegliandomi dalla mia momentanea trance. Si è sporta sul tavolino per guardarlo più da presso, con aria critica: Brian le ha scoccato un bacio a mezz’aria e lei si è messa a ridere. – Solo che, se prima che non eri imbellettato ti sei già preso un paio di pugni, dopo scuola che tornerai a casa così bella ti faranno sputare tutti i denti. – lo ha avvertito, tirando fuori il portafoglio.
Brian ha ripreso in mano lo specchietto ed ha concesso un lungo, languido sguardo a sé stesso.
- Che mi importa. –
Sentivo che lo pensava davvero. Che niente, neanche la paura del dolore, nemmeno la vergogna di essere additati per strada, poteva scalfire la splendida armatura di cui si era appena rivestito.
 
Sera
 
Mi sono accorta di non aver ancora parlato di Carole come lei si meriterebbe. Rimedio subito.
Carole Marlene ha da poco compiuto diciassette anni, ed è molto piccola, minuscola a dir la verità; porta i capelli castano chiaro cortissimi, da maschio, con un grande ciuffo di un colore leggermente più chiaro a velarle la fronte. E’ piena di lentiggini e ha gli occhi di un verde meraviglioso, quasi acqua. Pratica pallavolo da anni e non ha un filo di grasso corporeo manco a cercarlo col microscopio. Ha un naso perfetto, sbarazzino – in poche parole è molto bella, in una maniera tutta sua, ruvida e vistosa.
Le piace la musica ska, porta la divisa scolastica il doppio più attillata di tutte noi e quando non è a scuola volteggia con leggerezza su tacchi alti almeno sette centimetri. E’ irascibile, prepotente, cinica, vanitosa e molte volte perfida; possiede un’intelligenza selvatica che non si fonda né su grandi letture né su alcuno specifico tipo di cultura, ma che è formidabile. Ha sempre la battuta pronta. Va molto bene in matematica, le piacciono uno o due filosofi non particolarmente complicati, detesta l’inglese e stenta un po’ in francese, sebbene sia adorata dalla Thierry. In classe passa il tempo a sbuffare, sbadigliare, rifarsi le unghie dietro l’astuccio e rimirarsi nello specchietto che ha attaccato sul sottobanco; poi, qualche volta, si riscuote e butta lì un pensiero geniale senza nessuno sforzo. Persino i suoi neuroni sono capricciosi.
Last but not the least, è stata la prima volta di Brian.
- E Brian è stata la mia. – mi ha confidato oggi, tornando da scuola, mentre le chiedevo come si erano conosciuti (alle elementari: Brian si è trasferito qui quando aveva cinque anni). – Era un periodo, quello, quando avevamo quattordici anni, in cui i suoi erano via per lavoro e casa sua era sempre vuota. Siamo stati insieme un anno, e per quello che mi ricordo ci siamo divertiti. Ci volevamo bene. – ha concluso, addolcendo il tono e volgendo lo sguardo a terra, come se un po’ si vergognasse. – Ma in fondo era una cosa dettata più dalla solitudine che da altro e per questo non è durata granché. Eravamo molto piccoli. Forse è stato tutto po’ troppo prematuro, sesso compreso. -
- Ho avuto ragazzi molto più importanti di lui, che ho amato molto di più e con cui non ho conservato nessun tipo di rapporto, ma con lui ho fatto di tutto per continuare ad averlo. Era troppo importante come persona – ed è un grande stronzo, lasciatelo dire, ma d’altronde anch’io lo sono – io lo sapevo e non ho voluto perderlo. Se non vuoi perdere una cosa non la perdi e basta, ci fai attenzione e te la tieni ben stretta. Lui ha cercato di fare resistenza e io non gli ho lasciato gioco. Ecco perché litighiamo in continuazione: lui sente ancora di aver subito un sopruso. Ma chissenefrega. E’ stato molto meglio così per entrambi, non solo per me. – Mi ha lanciato uno sguardo improvvisamente maturo, profondo, doloroso, non da lei. – Questo posto è un inferno. Bisogna restare uniti, altrimenti si soccombe. –
Gli ho chiesto dei pestaggi di cui è vittima Brian. A quanto pare sono veramente un rito comunitario.
- Quei figli di puttana lo menano da sempre. – ha detto, rabbiosa, accendendosi una sigaretta.
– Perché è basso e anche perché è sempre andato molto bene a scuola. Poi, beh, tu ovviamente non lo conoscevi prima di arrivare qui, ma il piccolo Bri quando io e lui abbiamo cominciato a frequentarci era di fatto un fanatico religioso. – Mi ha guardato come se mi stesso porgendo un succulento boccone di un qualche cibo prelibato. – Catechismo per ore, giorno dopo giorno, e lezioni private col parroco. Pare fosse molto bravo – si diceva in giro che avesse la vocazione, e sua madre impazziva di gioia. Ha sempre voluto che diventasse prete. Ma Brian, beh… Diciamo che dopo essere stato con me ha capito che non conveniva così tanto rinunciare ai piaceri terreni. – Ride, soddisfatta. – E meno male. Ha piantato baracca e burattini, e ora va solo a messa, come tutti noi. Però se glieli chiedi sa ancora una montagna di versetti della Bibbia a memoria. Mi diceva sempre che era una meraviglia, la Bibbia, che certi pezzi facevano piangere. E che dentro ci sono anche un sacco di porcate. – Fa una pausa per tirare una lunga boccata, giochicchiando col fumo che le esce in grandi nuvole dalle labbra. – E poi, ovviamente, da quando ha cominciato a truccarsi i guai si sono raddoppiati. –
- Perché lo fa? – le ho chiesto, e la mia voce è suonata terribilmente infantile persino a me stessa.
Carole ha fatto spallucce.
- Quando ha cominciato a fare teatro e a truccarsi in scena ha capito il potenziale del suo viso, evidentemente. Da lì non ha più smesso: si piace solo così. E io sono d’accordo – è molto più sexy con gli occhi e le labbra truccati. –
- Ma è… Insomma… -
Carole mi ha lanciato uno sguardo fintamente perplesso.
- E’ gay? Chi lo sa. Per me deve ancora capirlo lui stesso. Ma non mi ha mai parlato di un ragazzo di suo interesse. – Mi guarda con gli occhi brillanti di malizia, un po’ insinuanti. – Perché tutte queste domande? Ti piace Brian, per caso? –
E io, non so come, non arrossisco. Piuttosto mi metto a pensare.
Carole scoppia in una risata divertita e tirandomi una gomitata mi dice che la risposta non è così difficile.
 
Silent night
 
Tento di venire a capo di questi maledetti esercizi di trigonometria. Una tortura.
Intanto ascolto Van Morrison, per indorare un po’ la pillola. Someone Like You.
Sentirsi soli è un’arte, dopotutto.
 
7 settembre 1988
 
Sono stati giorni così pieni e incasinati che non ho mai avuto tempo di scrivere nulla. E’ da mercoledì che vado a letto alle nove e mezza, completamente distrutta: ricominciare scuola mi fa sempre quest’effetto. Divento spossata, inconcludente e anche un po’ lamentosa.
Sono successe un sacco di cose. Ho preso il mio primo voto – un otto in inglese: la prof è simpatica, un po’ troppo accademica, e fascista persa per giunta, ma simpatica – mi sono iscritta a pallavolo con Carole e ho aiutato a preparare la casa per l’arrivo di Maurice. Sì, arriva Maurice. Il 15 ottobre.
Alla fine, a conti fatti, sono contenta: non è mai stato il tipo da cercare di rimpiazzare il papà. Non mi fa impazzire ma è un uomo perbene, e ci fa molto ridere – e la mamma ha bisogno di ridere. Per cui il suo arrivo è legittimamente annoverato nella lista degli accadimenti positivi.
Brian è venuto qua a casa – la Thierry ci ha assegnato un’esposizione sulle opere minori di Stendhal: pare faccia sempre così con le cose che non ha tempo o voglia di spiegare – e ha conosciuto la mamma. Inutile dire che se l’è conquistata in quattro secondi netti. Si sono subito messi a parlare di Parigi, che Brian adora, e di libri e di teatro e di Jean Cocteau e di Marcel Proust (“Ah, avete chiamato il cane in suo onore? Non mangerà solo madeleines, spero!” “Ah ah ah, divertente, Brian, che cosa spiritosa!”) e di mille altre cose.
In più, Brian è educatissimo e questa è una delle cose che manda la mamma in brodo di giuggiole. A tavola sembrava un piccolo Lord Fauntleroy. Abbiamo chiacchierato allegri per tutto il pranzo, poi l’ho prontamente sottratto alla logorrea della padrona di casa e l’ho portato in camera.
Alla vista della chitarra si è illuminato.
- La suoni? – mi ha chiesto, sinceramente stupito. Io ho fatto un gesto vago con le mani.
- Sarebbe più corretto dire che la maltratto. – ho ammesso. Lui mi ha rivolto uno sguardo sospettoso.
- Non ci credo. – mi ha provocato, con una smorfia.
- Fai male, sono un vero disastro. – ho ribattuto, impassibile.
- Fa’ sentire. – ha insistito, caparbio.
- Agli ordini. – ho ceduto, di malavoglia.
Mi sono sistemata la chitarra in grembo e ho pensato a cosa suonargli. Qualcosa di facile: ne andava della mia faccia.
Ho pregato che gli piacesse Johnny Cash e ho accennato un ritmo blues.
I hear the train a’coming, it’s rolling down the bend, and I ain’t seen the sunshine since I don’t know when, ho cominciato a cantare col mio accento un po’ scadente. Lui mi ha sorriso e si è messo a tenere il tempo con il piede.
I’m stuck in Folsom Prison, and time keeps draggin’ on, si è aggiunto lui, imitando perfettamente il vocione country che si adattava meglio alla melodia, e in perfetto americano, but that train keeps a’rolling, all down to San Antone.
Gli ho annuito sinceramente ammirata e abbiamo ricominciato a cantare insieme: when I was just a baby, my mama told me son, always be a good boy, don’t ever play with guns, but I shot a man in Reno, just to watch him die… When I hear that whistle blowing, I hang my head and cry.
A quel punto siamo scoppiati a ridere. Era la prima volta che lo vedeva farsi una risata vera: sembrava quasi un bambino.
- Sei bravo! – gli ho detto, sistemando un po’ le chiavette, – Hai una voce non male. Io squittisco come un topo, invece. Non ho praticamente orecchio. –
- Non è vero. – mi rassicura lui, e gliene sono grata. – Tu almeno sai suonare. E’ difficile? – mi chiede, occhieggiando la chitarra con riverenza.
- Difficile? No, affatto… Sono solo un paio di accordi. –
- Mi insegni? – mi chiede lui tutto d’un fiato, un’espressione entusiasta sul viso. Io strabuzzo gli occhi, sorpresa.
- Insegnarti… Io? Ma non so suonare davvero! –
- E cos’avresti fatto poco prima, allora? –
- Io… Io so solo un paio di accordi! –
- E’ tutto quello che ti chiedo. Dai, non ti ci vorrà mica la magistrale! –
Insomma, abbiamo passato tutto il pomeriggio a suonare, cantare e parlare di musica. E’ un fan sfegatato dei Dead Kennedys, chi l’avrebbe mai detto. Gli piacciono molto anche Janis Joplin e Leonard Cohen, e i Pixies e i Sonic Youth e Billie Holiday. Mi dice che i negozi di dischi qui sono molto poco forniti e io inorridisco, letteralmente.
Frughiamo un po’ nella mia collezione e gli occhi gli prendono di nuovo a brillare. Torna a casa con un fascio di lp sottobraccio e nessuna conoscenza in più per quanto riguarda Stendhal.
Va bene, vorrà dire che dopodomani in classe improvviseremo sul momento. Per fortuna abbiamo già letto tutto quello che c’era da leggere e dobbiamo solo fare un ripasso veloce.
Non mi va di fare brutta impressione sulla Thierry: è l’unica professoressa della cui opinione mi importa.
 
Più tardi
 
Brian ha chiamato a casa, sviolinando con mia madre per cinque minuti buoni prima che lei si decidesse a passarmelo. Mi chiede se possiamo continuare le lezioni: mi viene da rispondergli che sarebbe più efficace se io gli scrivessi quel pugno di accordi che so su un foglio e glieli dessi da imparare a memoria, ma poi penso che l’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire e gli dico di sì.
Quando chiude la conversazione metto giù la cornetta, la ritiro subito su e chiamo immediatamente Carole. Ho bisogno di un consulto.
 
Dopo la telefonata con Carole
 
Dice che non è il tipo da provarci in maniera così grezza e scontata. Quello che pensavo anch’io.
Dopotutto il modo in cui guardava me non era assolutamente paragonabile al modo in cui guardava la chitarra.
Mi addormento sorridendo. E’ stata una bella giornata.
 
9 settembre 1988
 
Dopo scuola – una noia, il lunedì la Thierry ci fa solo un’ora – si è consumata una scenetta interessante. Ho scoperto chi picchia Brian: è il solito gruppo di trogloditi da film, con più muscoli che cervello. Fanno parte del club di basket – anche questo un evidente segno di originalità.
Dovevo andare al supermarket a prendere qualcosa per il pranzo, così mi sono incamminata con Brian nella direzione opposta alla solita; appena svoltato l’angolo un manipolo di ragazzi alti due metri seduto a fumare sul muretto dei giardini pubblici si è accorto di noi e ha cominciato a sfottere Brian, che si è limitato solamente ad accelerare il passo. In un secondo ci avevano circondati, tre contro due. Uno, magro e biondissimo, non sembrava molto convinto e ci lanciava sguardi pieni di vergogna – ma gli altri hanno subito cominciato a spintonare Brian e a provocare me.
Lui è diventato di ghiaccio, pallidissimo e immobile, ma immagino che il fatto che ci fossi anch’io gli abbia fatto salire il sangue alla testa. Alla prima spinta un po’ più violenta ha reagito con un pugno ed è scoppiata la rissa. Mi sono messa in mezzo tentando di separarli, e così anche il ragazzone biondo, ma è servito a poco: lo stavano massacrando.
Non ci ho visto più e ne ho voltato uno di forza, assestandogli un calcio mirato alle caviglie e facendolo cadere a terra di peso. Tutti, Brian compreso – che era pieno di sangue e con la camicia strappata - si sono bloccati e mi hanno fissato con aria di assoluto sconcerto.
- Nove anni di judo. – ho detto semplicemente. – E tre di aikido. – ho aggiunto, nel caso le cose non fossero sufficientemente chiare.
Si sono allontanati in pochi minuti. D’altronde, il loro giocattolo era diventato inutilizzabile: Brian era ancora a terra a stringersi le costole come se avesse paura che gli stessero per schizzare via dal corpo da un momento all’altro.
Il ragazzo biondo si è voltato a guardarci, ancora stupefatto. Gli ho fatto un cenno di ringraziamento, grata dell’aiuto che ci aveva dato almeno in forma di resistenza passiva, e lui mi ha ricambiato timidamente.
- Stefan! –, l’ha richiamato subito uno dei suoi compagni, la voce piena di rabbia, - muoviti! –
Lui ha obbedito ed è corso loro dietro senza più voltarsi. Io mi sono chinata ad aiutare Brian, che tremava un po’ per lo spavento. Pur con tutte le botte che aveva preso aveva ancora voglia di sfoggiare la sua proverbiale smorfia acida.
- Nove anni di judo. – mi ha detto, sputando un po’ di sangue.
- Esatto. – ho annuito io.
- E tre di aikido. –
- Precisamente. –
- E dirmelo prima…? –
Siamo scoppiati a ridere – almeno, io l’ho fatto; lui ci ha provato ma gli faceva troppo male.
 
15 settembre 1988
 
Il tempo scorre lento, ma scorre. Senza troppa fatica.
Dopo scuola vado praticamente ogni giorno a casa di Brian, che è sempre vuota, a studiare – se così si può dire. Carole ci raggiunge spesso.
La madre di Brian, una donna cortese dal bel volto spigoloso e le mani gelide, soffre spesso di emicrania e passa ore intere chiusa in camera nel buio più completo; esce solo per dare qualche indicazione alle cameriere in vista dei pasti. Suo padre è sempre via per lavoro, suo fratello è andato a vivere con sua moglie un paio di anni fa.
Brian di conseguenza passa moltissimo tempo da solo, in questa casa enorme dai mobili in legno scurissimo e dalle argenterie luccicanti. Vorrei potergli credere quando dice che non ne soffre, che è meglio così, che almeno quei rompicoglioni dei suoi genitori non lo perseguitano con quella o quell’altra richiesta: ma non ci riesco. Percorre i corridoi come un animale in gabbia e tratta tutto quello che tocca o guarda con un senso di alienazione che sa quasi di odio.
- Vuoi qualcosa? – mi chiede, percorrendo la cucina in tre passi svogliati. – Un bicchiere d’acqua, della spremuta… eh… cibo di qualsiasi tipo o quasi, cioccolato, per di più… -
Mi sorride sventolando per aria una barretta di fondente al novanta per cento. Io gli sorrido di rimando e scuoto la testa.
- Un bicchiere d’acqua va benissimo, grazie. –
Saliamo come al solito in camera sua. Di norma sua madre bussa ogni mezz’ora per offrirci qualcosa - o meglio, come mi ha chiarificato Brian in tono estenuato la prima volta che sono venuta da lui, per controllare che non facciamo cose strane, che vanno dal fumare una canna al sesso spinto - ma questo pomeriggio non succede. Copio da lui gli esercizi di goniometria che non mi sono venuti, cioè tutti, dopodiché mi stendo sul suo letto mentre lui si appollaia sul davanzale a fumare una sigaretta.
Come sempre c’è Hunky Dory in ripetizione continua sul giradischi.
- Carole viene? – gli chiedo sovrappensiero, sfogliando una rivista che ho trovato sotto il cuscino.
Brian fa spallucce.
- Io le ho detto di venire quando le va. E’ capace di arrivare anche alle sette, se la conosco bene. –
Mi sorride furbo. – E io la conosco molto bene. –
Deglutisco.
- Eh sì. – rispondo, rituffando il naso nella rivista.
- Comunque, sabato suo fratello grande fa una festa a casa sua. – continua lui, espirando uno sbuffo di fumo e abbracciandosi le ginocchia con il braccio libero. – Lei ha detto che possiamo venire. –
Rialzo lo sguardo su di lui, curiosa.
- Carole ha un fratello? –
Brian annuisce come se si trattasse di un’ovvietà.
- Due, Tomas e Jacques. Non te l’ha mai detto? –
Arrossisco, delusa, e non dico una parola. Dopo tante le chiacchierate che ci eravamo fatte mi ero illusa di esserci entrata veramente in confidenza – e invece…
Brian sembra accorgersi del mio disagio e tenta di rimediare.
- Ah, ma non preoccuparti, lei è fatta così. Finché non le piombi in casa pretendendo di sapere un po’di  più della sua vita, stai sicura che lei di sua spontanea volontà non ti dirà mai nulla. – dice, frettoloso.
Gli faccio un sorriso un po’ troppo debole.
- Nessun problema, in fondo ci conosciamo da pochissimo. – Sfoglio la rivista per dare l’impressione di essere naturale. – E’ che sono stata spesso a casa sua, e non ho mai incontrato nessuno… -
- Tomas è più grande di noi, vive con un coinquilino. Jacques invece ha gli allenamenti di nuoto ogni pomeriggio. – mi informa lui, saltando giù dal davanzale e venendo a sedersi sul letto di fianco a me. – E’ normale che tu non li abbia mai incrociati. La festa è a casa di Tomas, comunque. E’ un tipo simpatico. Certo, ci saranno i suoi compagni di facoltà e basta, ma noi ce ne staremo per i fatti nostri e andrà tutto bene. –
Si stende di fianco a me e io mi sposto un po’ di lato per fargli spazio. Mi sorride.
- Carole va a momenti, l’avrai capito. Un secondo la ami alla follia e il secondo dopo vorresti prenderla a schiaffi. – mi dice, e il suo è un tono quasi tenero. Arrossisco di nuovo.
- Non me la sono presa. – sussurro, dimostrando in questo modo di essermela presa eccome.
- Nooo, infatti. –
Mi tira una spallata.
- Ha un carattere molto forte. – ribatto. – Ma con me è sempre stata molto carina. Non fosse per lei non avrei amiche, qui. –
- Non ho detto che è una strega sempre. – ride lui, ravviandosi una ciocca di capelli. – Ho detto che è una strega qualche volta, e che quando lo diventa bisogna ignorarla. Ma appena beve un po’ diventa la persona più simpatica e affettuosa del mondo: vedrai alla festa. Ti si appiccica addosso e non si stacca più finché non fai qualcosa. –
Sorride, mordicchiandosi l’unghia del pollice e fissando il soffitto con aria strana. Io mi incuriosisco subito.
- E tu che hai fatto? – chiedo, stropicciandomi il lenzuolo fra le mani.
Brian si stende sulla schiena.
- Io l’ho baciata. – Gira il viso verso di me, ghignando. – Ma non ha funzionato, quella volta. Si è attaccata ancora di più. –
Ridacchio. Brian si gira su un fianco e mi guarda fisso con la guancia appoggiata a una mano, gli occhi un po’ lucidi.
- Carole ti ha detto che siamo stati insieme o ti ha taciuto anche questo dettaglio della sua vita? – mi chiede, in tono lento e prudente.
Un brivido mi corre lungo la schiena, qualcosa a metà fra il terrore e l’eccitazione.
- Sì, me l’ha detto. –
- Mh. E’ che ti ha detto? –
- Che… Che siete stati insieme un anno. – Mi mordo un labbro. Non so che accidenti dovrei dire adesso, in fono era una conversazione privata… - Che vi volevate bene. –
Brian annuisce convinto.
- Corretto. –
- Basta. Tutto qui. –
- Non ha fatto commenti sulla nostra prima volta? Voi ragazze non gettate strilli di gioia quando vi confidate queste cose? –
Mi tiro su sui gomiti, indispettita.
- Perché, voi uomini invece? Che girate col righello in tasca per misurarvelo anche quando siete al liceo? –
Brian si rivolta sulla schiena e comincia a ridere.
- E infatti è molto più divertente essere donna. Voi subite l’atto sessuale… Ma avete un ottimo modo per vendicarvi: spettegolare in giro a tutto spiano e distruggerci la reputazione. – Mi lancia uno sguardo ammiccante. – Uno spasso, no? –
- Noi non subiamo un bel niente! –
Brian fa un gesto pigro con una mano come a voler scacciare una mosca.
- Hai capito cosa intendo. –
- E non spettegoliamo in giro, se ci teniamo! Ma che immagine ti sei fatto del sesso femminile? Che siamo tutte cheerleader deficienti?! –
Mi tira un pizzicotto.
- Guarda guarda, l’orgoglio di genere. Quanto sei permalosa! –
Ricambio il pizzicotto.
- Tu in compenso sei veramente fastidioso. – gli dico, cercando di beccargli la pancia - non riuscendoci, mi limito a fargli il solletico.
Brian rimane immobile.
- Non lo soffro. – afferma, fiero, lanciandomi uno sguardo di sfida.
Inarco un sopracciglio.
- Da nessuna parte?... – chiedo insinuante, girandomi su un fianco per fronteggiarlo meglio.
Siamo vicinissimi.
- No. – sussurra.
Provo a colpirgli il petto, non ci riesco, riprovo con un braccio, non ci riesco, mi infastidisco, mi metto in ginocchio e provo con il collo - lui si mette a sedere di scatto e mi immobilizza abbracciandomi, bloccandomi le braccia lungo il corpo, e io cercando di dibattermi perdo l’equilibrio e gli cado addosso.
Riapro gli occhi che ho chiuso d’istinto e i suoi sono a un centimetro dal mio naso. Sento il suo respiro rapido sulla bocca.
- L’abbiamo fatto qui. – mi dice, continuando a stringermi gli avambracci, e la sua voce è seria e concitata e piena d’urgenza come non gliel’ho mai sentita prima. – Quando i miei non c’erano. E’ stato bellissimo e credo di non aver mai avuto il coraggio di dirle quanto l’ho adorata, in quel momento e in tutti i mesi che sono seguiti. – I suoi occhi sono enormi, chiarissimi, quasi spaventati. – Tutte le volte che le ho detto che la amavo… Ma cosa vuol dire ti amo a quattordici anni? Nulla. E quando è finita non sono mai riuscita a confessarle quanto è stata importante per me, come amica, come ragazza, come compagna. Ora so che ero innamorato… Due anni fa non lo sapevo. E lei forse non lo saprà mai. –
Mi stringe più forte. Mi sento il viso in fiamme e non capisco cosa sta succedendo. Non capisco perché sta dicendo queste cose. Non capisco perché le sta dicendo a me. Non capisco perché me le sta dicendo sul suo letto. Non capisco perché mi sento tremare anche se lui mi sostiene.
Trattengo il respiro come se stessi per tuffarmi.
E in quel momento bussano alla porta.
 
18 settembre 1988
 
Carole mi ha salvato da non so nemmeno io cosa. Però mi ha salvato – è entrata, ha chiesto con tono malizioso se aveva interrotto qualcosa e Brian  ha reindossato la sua solita maschera arrogante in meno di un secondo.
- Ci stavamo facendo il solletico. – ha proferito nel tono più normale del mondo, rovesciando la testa all’indietro per guardarla in faccia.
Io mi sono divincolata con più naturalezza possibile e mi sono alzata in piedi pregando che le gambe mi facessero il favore di reggermi.
Carole mi ha squadrato con aria esperta.
- Ricordo cosa è successo l’ultima volta che mi hai fatto il solletico, Bri… - ha scandito lentamente, passandomi davanti con aria furba e andandosi a sedere accanto a lui, che stava ancora sdraiato sul letto.
- Non so di cosa tu stia parlando. – ribatte calmissimo Brian, sorridendole cortese.
Carole gli riavvia una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La vedo rivolgergli uno sguardo che mi urta per quanto è intimo, privato, loro – per quanto è tenero e appassionato allo stesso tempo.
- Vado un attimo in bagno. – articolo a fatica, e quando torno, dopo essermi sciacquata la faccia e aver domandato bruscamente al mio riflesso nello specchio che cazzo fosse successo cinque minuti prima, Carole è in piedi di fianco alla scrivania che litiga con Brian riguardo al fatto che lui non voglia passarle i compiti di goniometria.
- Ah, Léa. – si interrompe appena mi vede entrare nella stanza. – Mio fratello Tomi dà una festa sabato. Ci sei? –
 
 
 
 
 
 
 
 
Note dell’autrice: ah, scrivere dell’adolescenza più fatua e cretina, fingendo di non esserci più dentro <3
Mi perplime (che verbo brutto XD) il modo in cui ho raffigurato questi tre sedicenni tutti ormoni, ma mi perplime in un modo che mi piace. Spero solo che lo stile di scrittura non annoi, visto che, appunto, parlando di sedicenni, e utilizzando come mezzo il diario di uno di questi, ho “volato basso” – non nel senso che se voglio scrivo la Divina Commedia XDDD, ma piuttosto nel modo di rappresentare le emozioni. Ho cercato di essere un pochino superficiale, insomma – superficiale nel senso di moderatamente immatura, come lo si è in genere a sedici anni, con migliaia di eccezioni - ma senza farli sembrare dei bimbiminkia XD, e ovviamente facendo pronunciare a Brian i soliti discorsi commoventi sull’amore che mancavano dai tempi immemori di Just Like Chelsea Hotel *si vergogna* *ama teen!Brian, che nella sua testa ancora non è un cinico bastardo*
Rileggendola mi sembrava un po’ semplicistica, ma l’ho scritta tutta d’un fiato in un momento in cui la concentrazione e l’intraprendenza erano alle stelle e io ero esaltatissima :D Detto in due parole, ormai non ho sbatti di cambiarla, visto che è lunga chilometri XD, ma d’altro canto il risultato mi soddisfa. Un pochino XD, non troppo, visto che come sempre la rilettura è estremamente irritante.
La scritta in grassetto del pomeriggio del 30 agosto è un pezzo di She Bangs The Drums degli Stone Roses <3, mentre la canzone che Brian e Léa cantano insieme è Folsom Prison Blues di Johnny Cash. I gruppi che Léa cita come i preferiti di Brian sono davvero alcuni dei suoi preferiti.
Altro da dire? Boh è_é
Grazie a chiunque leggerà <3
   
 
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