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Autore: SidRevo    06/09/2011    15 recensioni
Trecentosettanta miglia e un anno e mezzo a dividerli...
Quando il tempo – per quanto sia “solo tempo” – riesce solo a ferire, invece che rimettere le cose al loro posto; quando due persone, in quel loro ostinarsi a complicare le cose, nascondono l’innata capacità di ritrovarsi sempre e comunque, e la facilità con cui sanno rincontrarsi senza smettere mai di amarsi; quando si tratta di Brian e Justin.
Tratto dal capitolo: “«Se ci muoviamo, per le…nove di questa sera saremo lì!»
«Jace, sono stanco.» ribadì, ma l'altro non si arrese.
«D’accordo, allora domani!»
«Quale parte del ‘non verrò a Pittsburgh’ non ti è chiara?» domandò, e mai come allora ebbe l’impressione di sentirsi parlare esattamente come Brian.
«Oh, tu verrai. Verrai eccome!» sorrise sornione, come se avesse già vinto; e Justin non poteva neanche lontanamente immaginare quanto fosse vicino alla realtà dei fatti.”

So che è l'ennesima “sesta stagione” che viene pubblicata, ma ho voluto provare a dare una mia versione, visto che non ho altro modo per esorcizzare la mancanza di questo superbo telefilm! Spero vi piaccia!
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altro Personaggio, Brian Kinney, Justin Taylor, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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8.Thanksgiving day.

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6x08 – Thanksgiving day. 
[capitolo betato da Trappy]


“Fever” – Adam Lambert



Affrettò il passo, spaventato perfino dal continuo frusciare dei suoi pantaloni di nylon arancioni, intento a superare il più velocemente possibile quella zona di parcheggio adombrata.
Odiava andare al Babylon da solo, ma da quando i suoi amici si erano accasati con i loro compagni, non cera stata più loccasione per riuscire a trascinarli lì. Preferivano di gran lunga condurre la vita dei pantofolai; tutti tranne Brian ovviamente, ma non si sognava neanche per sbaglio di chiedere a lui un passaggio, considerando poi che il ritorno non sarebbe mai stato garantito.
Emmett sbuffò scocciato, stringendosi di più nella sua pelliccia sintetica blu, riprendendo a respirare con più regolarità quando la luce dei lampioni tornò ad accoglierlo sotto la sua rassicurante presenza.
Per quanto potesse essere ampiamente definibile checca urlante” – e doveva dire che, a dispetto di tutto, possedeva una discreta potenza vocale e degli acuti da far invidia anche a George Michael o Prince – Emmett aveva assistito a fin troppe aggressioni sulla pelle di persone che conosceva bene, per sentirsi al sicuro perfino lì, nella zona più popolata da omosessuali e transessuali.
Svoltò langolo in tutta fretta, con lo sguardo basso sullasfalto e neanche si rese conto della persona che lo precedeva con un passo più tranquillo, finché non ci sbatté letteralmente contro. «Oh Cristo!» strillò, sobbalzando per lo spavento. «Oddio, scusa!» restò per qualche secondo a scrutare la persona con cui aveva appena avuto il “sinistro pedonale” ed aggrottò la fronte. «Un momento, ma io ti conosco.»
Gli occhi nocciola dell
altro abbandonarono finalmente le proprie scarpe – fino a pochi secondi prima perfettamente bianche e immacolate – per degnarlo di uno sguardo, seppur decisamente infastidito. «Già.» ribatté asciutto, tornando a ispezionare i suoi preziosi mocassini italiani pagati trecentocinquanta dollari e tenuti nel migliore dei modi, prima che un “carrarmato frocio e multicolore” ci passasse sopra.
«Tu sei Jace, giusto?» esclamò ancora Emmett, battendo le mani entusiasta, ignorando limminente crisi isterica che stava per colpire il suo interlocutore da un momento allaltro. «Lamichetto di Justin.»
Jace lo guardò nuovamente sottecchi, con una vena sulla tempia che minacciava dinspessirsi ogni secondo di più, come ogni volta che stava per esplodere. «Esatto.» sibilò e si passò lindice ed il pollice delicatamente sulle palpebre per calmarsi, tentando di non togliere quel tocco di luce donatogli da qualche minuscolo brillantino. Non poteva esplodere con uno dei più cari amici di Justin, eppure, limprovvisa voglia di violenza che lo aveva pervaso al pensiero di poter usare la lingua del suo “investitore” per pulirsi le sue adorate scarpe, era difficile da trattenere.
«Anche tu al Babylon? Sei insieme a Justin? Dovè? Non lo vedo!» lo tempestò di domande, continuando a non sospettare minimamente del pericolo che incombeva su di lui.
«Sì, anchio al Babylon e No, non puoi vedere Justin perché non siamo insieme. Ergo, non cè.» replicò, sempre più stizzito. Neanche cinque minuti da solo con quel tipo e già gli era venuto un gran mal di testa
«Oh, che peccato!» continuò Emmett imperterrito. «Si sente male?»
«Mi auguro di no per lui! O se proprio deve sentire male, almeno che sia per qualcosa di eccitante.»
Emmett rimase per qualche secondo in silenzio a fissarlo con i suoi occhioni azzurri, accentuati dal mascara. «Sta scopando con Brian?» chiese poi, quasi incerto.
«Come vedi sono qui, perciò non posso saperlo. Per mia sfortuna non ho ancora il dono dellubiquità.» ribatté laltro con un sopracciglio innalzato. «In compenso, spero di sì. Avrà le ragnatele in mezzo a quelle chiappe sode.» tirò fuori un fazzoletto dalla tasca del cappotto e si pulì accuratamente le scarpe. «Non capisco proprio come abbia resistito per un anno e mezzo.»
«Un anno e mezzo dastinenza?» gridò scandalizzato Emmett, portandosi una mano davanti alla bocca. Conoscendo i ritmi che il biondino era abituato a tenere con “Mister Meraviglia”, gli sembrava anche più straordinario di tutti e tre i miracoli di Fatima messi assieme. «Ma sei sicuro?»
«A meno che non si sia dilettato con i pennelli, sì.»
«Cristo Santo...il mondo sta davvero andando a rotoli.»
Jace sospirò e gettò il fazzoletto nel cestino. «Eh già. Non ci sono più i froci di una volta...» mugugnò quasi sconsolato. «...adesso fanno a gara a chi inventa più stronzate tipo matrimoni, monogamia o famiglia.» fece una smorfia disgustata e finse di rabbrividire. «Mi chiedo come i loro ormoni non abbiano ancora indetto rivolte degne di quelle parigine!»
«Di un po...» iniziò Emmett fissandolo storto. «...fai per caso di cognome Kinney
«Eh?»
Laltro sbatté più volte le palpebre e continuò a scrutarlo come se avesse tre occhi. «Adesso capisco perché Justin ti adora così tanto.»
«Credo di essermi perso qualcosa...» mormorò Jace sempre più confuso.
«Niente, niente.» replicò sventolando la sua mano, facendo tintinnare i due braccialetti tondi e colorati. «Allora, vogliamo entrare? Passi con me? Conosco i buttafuori.»
Jace gli sorrise per la prima volta. In fondo, quell'Emmett, non era poi tanto male una volta abituati alla sua persona un tantino ingombrante. «La fortuna di essere amici del capo, eh?»
«No, tesoro.» puntualizzò fingendosi altezzoso e sfoderando un sorrisetto furbo, affiancandolo mentre attraversavano la strada. «La fortuna dellessersi scopati la maggior parte dei buttafuori.»
Un guizzò divertito illuminò gli occhi del designer newyorkese, che sorrise più apertamente e scoccò unocchiata dintesa e di piena approvazione allaltro, quando entrarono nel locale saltando la chilometrica fila con un solo cenno di saluto ad uno degli energumeni accostati allingresso. «Daccordo.» esordì più amichevole. «Visto che mi hai fatto entrare, ti offro da bere. Non mi piace avere debiti.»
«Non è necessario. Non abbiamo bisogno di pagare per bere.» rispose Emmett, togliendosi l
ingombrante e vistosa pelliccia blu e mostrando un altrettanto particolare maglia a rete.
«La fortuna dell
essersi scopati anche tutti i barman?» chiese Jace sorpreso e divertito, sfoggiando una decisamente molto più elegante camicia di seta bianca, ornata da fini girigogoli dorati.
«No.» borbottò laltro, arricciando le labbra quasi dispiaciuto, per poi tirar fuori dalla tasca dei pantaloni elasticizzati una carta oro con sovra impressa la dicitura “VIP CARD”. «La fortuna di essere amici del capo.» gli strizzò locchio citando a sua volta le sue parole e si avviò sculettando verso il bancone.



*'*'*


“Pocketful of Sunshine” – Natasha Bedingfield



Era certamente già mattino inoltrato quando riuscì ad aprire le palpebre e mostrare al mondo il verde scuro dei suoi occhi che silluminavano di pagliuzze più chiare se colpiti, come in quel momento, da un fascio di luce proveniente dalla finestra.
Ma ciò che in realtà brillava nel loft, rischiarando ogni cosa attorno, era linconsapevole sorriso appena accennato che increspava le labbra del ragazzo ancora assopito sul divano, in uno strano groviglio di gambe, braccia e delle lenzuola che si era trascinato dietro quando dal letto si erano svegliati e trasferiti per fare lamore, prima sul tappeto morbido e bianco, e infine sul divano.
Durante la notte, Brian si era svegliato di soprassalto, temendo che quello che era successo tra lui e Justin fosse stato solo un altro dei suoi sogni; una stupida illusione. Quando però, facendo correre lo sguardo al calore al suo fianco, aveva visto la chioma scompigliata di Justin e la sua espressione rilassata, si era tranquillizzato, tirando un sospiro di sollievo.
Facendo attenzione a non svegliare il suo amante, si era infilato i boxer ed era sceso dalla zona notte per raggiungere il pacchetto di sigarette ancora abbandonato sul mobile della cucina, e ne aveva accesa una per placare i battiti del suo cuore ancora ferito, mentre ammirava senza la solita malinconia lo spettacolo della sua città illuminata.
Non cera voluto molto comunque, prima che Justin si accorgesse della mancanza del suo corpo nel letto e si svegliasse, stropicciandosi gli occhi per il sonno. Si era sollevato e aveva vagato con lo sguardo per il loft, fino a che non aveva scorto la familiare figura che si stagliava come unombra dai contorni perfetti, davanti allenorme vetrata; resa quasi eterea dalla lieve nuvola di fumo che lentamente si disperdeva a circondarla.
Con passi incerti e dondolanti, laveva raggiunto, coprendosi con il lenzuolo blu notte sistemato a mo’ di toga, e gli aveva cinto la vita in un abbraccio, prima di posare più di un bacio lungo la linea delle spalle.
Brian non era riuscito a trattenere un sorriso compiaciuto e a stento aveva chiuso nella gola i gemiti di piacere nel sentire ancora quelle mani che si muovevano sulla sua schiena e sul suo petto; finché astenersi dal gustare ancora quelle labbra e sentire ancora l’odore ammaliante del sesso era stato impossibile.

Avevano fatto ancora l’amore; lì, distesi sul tappeto, fino a riassopirsi con i loro corpi ancora uniti e risvegliarsi insieme per riaffondare ancora nel limbo del piacere.
Era l’alba quando si erano definitivamente addormentati, abbracciati sul divano; e in quella stessa posizione Brian si era risvegliato, pronto ad ammirare la bellezza marmorea del corpo che giaceva tra le sue braccia.
Si sentiva un po’ patetico, ma era un prezzo che era disposto a pagare anche con gli interessi che ne sarebbero derivati, se significava poter godere di quella sensazione di magnifica leggerezza che era divampata dentro di lui da quando quel raggio di sole aveva rimesso piede nel suo loft.
«Buongiorno,
splendore.» lo prese in giro, imitando Deb, quando lo sentì mugugnare come ogni volta che si svegliava. Justin aprì prima un occhio, poi l’altro e sorrise apertamente. Se c’era una cosa che Brian aveva imparato in quegli anni era che, quando quel ragazzino sorrideva, era anche più accecante del sole. Justin era il suo sole.
«Che ore sono?» biascicò, strusciandosi contro la sua spalla come un gatto.
«Venticinque centimetri virgola cinque a mezzogiorno.»
«È unallusione poco velata alle dimensioni del tuo cazzo e al fatto che sia sullattenti per lerezione mattutina, o vuoi dirmi che mancano venticinque minuti a mezzogiorno?» ridacchiò in risposta.
Brian ammiccò. «Entrambe le cose, ma mi è parso di sentir squillare il tuo cellulare prima. Il che significa che ti stanno dando per disperso.»
«Dici che dovremmo proprio andare al Diner?»
«Se non vuoi che Deb chiami lFBI, indica una squadra di ricerca e si rivolga a qualche trasmissione televisiva per lanciare un annuncio disperato...direi proprio di sì.»
Justin borbottò qualcosa dincomprensibile e lamentoso con le labbra premute sul petto delluomo. «Che palle.» soffiò poi e lentamente si tirò su. Cercò di domare i capelli ribelli e si liberò dal groviglio in cui era incastrato. Si allungò nuovamente verso Brian e iniziò a sfiorare la pelle del collo dietro l’orecchio con la punta del naso e un sorrisetto impertinente.
Era più che ovvio che i suoi programmi non comprendevano affatto il Diner...non il quel momento almeno.
Brian sorrise e gli afferrò la faccia con una mano sola, stringendogli le guance con le sue dita lunghe ed eleganti, prima di farlo avvicinare alle sue labbra e prendere a mordicchiarlo.
Risero e si sorrisero, tra un bacio e l’altro, prima di intraprendere una sciocca lotta fatta di morsi dispettosi, alternati a carezze audaci, col risultato di rovinare l’uno addosso all’altro sul pavimento, tirandosi dietro perfino i cuscini.
Fu Brian ad averla vinta in un primo momento, riuscendo a sovrastare l’altro con il suo peso e bloccandogli entrambi i polsi sopra la testa, prima di iniziare una dolce tortura, fatta di scie umide e lucide con la punta della lingua, a seguire le linee del collo e del petto; ma non riuscì a tenerlo imprigionato per molto, conscio del bisogno che aveva di sentire quelle dita abili vagare in ogni parte del suo corpo.
Si ritrovarono quindi a ruoli invertiti; con Justin che si premurava di far dilagare scariche elettriche e brividi sulla pelle del suo amante, giocando semplicemente con i denti sul suo lobo.
Lo sentì ridere appena e sospirare di piacere, rendendosi nuovamente conto che avrebbe passato la sua intera vita a sentire solo quei semplici suoni, insieme a quello della voce dell’uomo che amava.
Avrebbe passato ogni suo giorno a respirare solo quel profumo; ad ammirare ogni suo movimento, ogni suo vizio. Avrebbe passato ogni istante che ancora gli restava in compagnia di Brian, riempiendosi l’anima di tutto quello che andava a comporre la sua essenza.
Fece scendere una mano ad accarezzargli il petto, superando lo stomaco fino al limite del ventre, sorridendo compiaciuto quando sentì l’altro deglutire, per poi emettere un piccolissimo gemito; ed era pronto a ottenerne altri ben più sonori, se solo il telefono non avesse iniziato a squillare.
Lasciò cadere la testa sconsolato addosso a Brian - che nel frattempo aveva sollevato gli occhi e si era lasciato ricadere a terra con esasperazione - e sbuffò rumorosamente, unendosi alle colorite imprecazioni dell’uomo, sibilate tra i denti.
Justin si scostò da un lato per permettere all’altro di alzarsi e raggiungere il telefono. L’osservò in tutta la sua nuda bellezza e lasciò che le sue labbra piene s’increspassero in un sorriso.
Brian se ne accorse e, solo per un attimo, abbandonò il suo cipiglio contrariato per ricambiare quel sorriso, prima di rispondere: «Pronto?» soffiò scocciato e portò una mano a massaggiarsi la faccia per calmarsi, quando riconobbe la voce del suo migliore amico.
«È da te?» gli chiese semplicemente Michael, senza aggiungere spiegazioni, mentre sua madre borbottava alle sue spalle.
«Arriviamo.» ringhiò e sbatté malamente il ricevitore al suo posto. «La libertà condizionata è finita, raggio di sole.» comunicò poi a un Justin visibilmente divertito. «I malefici carcerieri ti rivogliono nel loro covo.»
«Non potresti chiedere a Furore se può salvarmi?»
«Mi dispiace, ma contro Debbie non basterebbe una bomba nucleare.» fece una smorfia e, dopo essersi infilato i pantaloni della tuta, iniziò a preparare il caffè. «Altro che HIV...è lei il nemico giurato di ogni frocio. Ti si aggrappa alla giugulare e ti succhia la vita. Peggio di un vampiro.»
«Non sapevo che ti dispiacesse farti succhiare...»
«Il cazzo.» lo interruppe, versando una quantità esagerata di granellini bianchi nella caraffa, nellintento di zuccherare. «Non il sangue, e soprattutto non da Deb.»
«Sei crudele.» rise Justin, avvicinandosi a lui, nuovamente avvolto nel lenzuolo.
«Non sono crudele.» mormorò porgendogli una tazza fumante. «Voglio solo farmi la mia sacrosanta scopata mattutina in pace, senza che quel cazzo di telefono cominci a squillare. È un reato forse?» inarcò le sopracciglia e bevve direttamente dalla caraffa, prima di risputare tutto il liquido scuro nel lavabo.
«Era sale, vero?» gli chiese Justin con la faccia schifata, tenendo ancora tra le dita la tazza.
Brian rovesciò il resto nelle condutture, con unespressione disgustata. «Vedi? È colpa di quella strega!» abbandonò la caraffa e afferrò il cartoccio del succo dal frigo. «Mi avrà lanciato qualche maledizione contro, dal momento che si è accorta che ti ho monopolizzato.»
«Va be...in fondo, dovremmo pur farci una doccia prima di uscire, no?» sorrise sornione, prima di abbandonare la tazza, afferrare Brian per lelastico dei pantaloni e trascinarlo fino al bagno, lasciando che il lenzuolo blu scivolasse a terra, scoprendo il suo corpo niveo.



*'*'*



«Secondo me è inutile che te la prendi così.» mormorò Ted, addentando il suo panino col tonno. «Stiamo parlando di Brian e Justin! Che ti aspettavi che facessero, a parte chiudersi in qualche posto a scopare come ricci?»
«Non si parla con la bocca piena.» lo rimproverò Debbie, dopo avergli rifilato uno scappellotto. «E comunque pensavo fossero cresciuti abbastanza da riuscire a tenerselo buono nei pantaloni, almeno per qualche ora!»
Ted, Emmett e Michael, seduti sugli sgabelli dallaltra parte del bancone, si scambiarono occhiate eloquenti, prima che il figlio della donna provasse ancora a rabbonirla. Proprio non laveva buttato giù il fatto che Brian avesse letteralmente rapito il suo “topino”. «Mamma, andiamo! Non si vedono da più di un anno!»
«E che vuol dire?» borbottò, puntando entrambi i pugni sui fianchi. «Che devono recuperare tutto insieme?»
Emmett sollevò le sopracciglia. «Se pensi che erano abituati ad almeno quattro volte al giorno, e che sono stati lontani tutto quel tempo...»
«Fa una media di circa...» Ted ci pensò su un attimo, continuando a masticare e affermò soddisfatto: «Duemilacentonovanta scopate da recuperare, come minimo.»
«Esistono anche altre cose oltre al sesso, lo sapete?» continuò la donna con la sua filippica.
«Vallo a spiegare a Brian!» commentò Emmett, tagliando la sua ciambella e portando il boccone alle labbra. «Comunque ha detto che sarebbero arrivati, no? Abbi fede!»
«Eccoli infatti!» esclamò Michael, indicando con un cenno della testa la vetrina del Diner, davanti a cui i due stavano sfilando. Aspettò che fossero entrati e sorrise raggiante, prima di rendersi conto delle condizioni disastrate in cui vertevano le facce di entrambi. Nonostante la loro proverbiale bellezza, le borse sotto gli occhi non perdonavano nessuno. «Ma che cazz...»
«Avete già recuperato tutte le duemilacentonovanta scopate?» chiese Ted, dando voce ai pensieri di tutti, mentre i due si lanciavano occhiate confuse.
«Cristo. Avevo sentito parlare di mitologiche maratone di sesso!» esclamò Emmett, con la forchetta a mezzaria, per poi ammiccare e tornare a mangiare. «Adesso so da chi derivano certe leggende.»
«Topino!» esclamò Debbie infine, riscuotendo gli ultimi arrivati con il volume decisamente alto della sua voce. «Ma cosa ti ha fatto?!»
«Sicura di volerlo sapere, mamma?»
«Deb, quando hai finito di trattarmi come il mostro cattivo della laguna, mi verseresti una tazza di caffè?» Brian si tolse gli occhiali da sole e i guanti, e si appoggiò al bancone con un sorriso tirato. Ignorando le occhiatacce della donna. «Grazie.»
«Una anche per me, Deb!» intervenne Justin con uno sbadiglio.
«Certo, tesoro.» rispose e con un sorriso posò uno dei suoi rossi baci sulla fronte del ragazzo.
«Tutte tue le attenzioni, raggio di sole.» commentò il bel pubblicitario, ridendo del segno lasciato dal rossetto. «Non tinvidio affatto.»
«Perché a differenza sua, sei un frocio acido e scorbutico, come se ti avessero piantato qualcosa su per il culo!» borbottò lei. «Senza lubrificante!»
«Mi spiace deluderti, ma nel mio culo non cè proprio niente.»
«Accidenti.» replicò Ted. «Questa sì che è una novità! E poi dicono che a Pittsburgh non succede mai niente di nuovo!»
«Theodore...» lo chiamò Brian, continuando a sorridere. «...vuoi usare il giorno del Ringraziamento per essermi grato di averti licenziato
«No!»
«E allora chiudi quella cazzo di bocca.» sibilò con le sopracciglia inarcate, e allargò il suo sorriso sfrontato.
«Maledetto schiavista.»
«Come scusa?»
«Parlavo...dell’‘insalata mista.» sorrise indicando il panino. «Sai, non la digerisco bene! Eppure non riesco a farne a meno. Non ha lo stesso gusto, né il colore senza!»
«Certo, certo.» annuì Brian e portò il pollice a sfiorare la propria fronte. «Be, cerca di abituarti, perché sarà lunica cosa che potrai permetterti di mangiare quando ti avrò ridotto a vivere sotto un ponte.» sorrise ancora e sbatté le ciglia più volte, prima di rivolgersi a Justin, che nel frattempo aveva assistito alla scena ridacchiando. «Direi di andare.» il ragazzo annuì e posò la tazza sul bancone. Brian inforcò gli occhiali da sole e rinfilò i guanti di pelle nera. «Lavete visto anche per troppo oggi.» disse rivolto agli altri e, dopo aver passato un braccio intorno alle spalle di Justin, lo scortò fino alla Corvette verde e lucente.
«Secondo voi tornano a scopare?» domandò Emmett, quasi sconvolto.
«Be duemilacentonovanta scopate non sono poche da recuperare.» replicò Michael. «Un minimo di duemilacentonovanta.»
«Non credo di averne mai fatte così tante, neanche in due o tre anni.» concluse Ted.
Debbie prese le due tazzine sporche e passò uno straccio sul bancone. «Una cosa è certa. Da quanto il topino è tornato, Brian Kinney è risorto e risplende di luce nuova.»
«Amen.» commentò in risposta il figlio, con uno sbuffo sarcastico. «Sembra che tu stia parlando di Gesù Cristo.»
«Perché...cè qualche sostanziale differenza?»
«Effettivamente...» iniziò Emmett. «A parte il look e il fatto che, purtroppo per lui, non sa ancora trasformare lacqua in Jim Beam, più o meno ci siamo.»
«Nel suo letto avviene la moltiplicazione degli uomini.» continuò Ted, sollevando uno degli angoli della bocca in un lieve sorriso.
«Per non parlare dei preservativi!» esclamò laltro in risposta. «Mi sono sempre chiesto dove diavolo li tenesse nascosti!»
«E dei soldi.» aggiunse infine il contabile, terminando il suo panino e pulendosi accuratamente le mani. «Pensate alla Kinnetik.»
Michael sorrise, tra gli sguardi sconvolti che sua madre stava lanciando ai tre amici. «Se non sono miracoli questi! Certo le sue parabole non sono propriamente etiche, però...»
«E voi chi cazzo siete? I Re Magi?» replicò sarcastica la donna.
«Soldi...» pronunciò Ted indicando se stesso, per poi passare a Emmett dopo averci pensato su un attimo. «...droga...» e per finire fece un cenno verso Michael. «...e birra.»
«Facciamo alcool. È più generico!» rispose lultimo tirato in causa.
«Ma che cazzo di problemi avete?» chiese lei al limite dello sconvolto, prima di dare unenergica pulita al bancone con lo straccio, masticando decisa il chewin-gum. «Piuttosto, che avete combinato ieri sera?»
«Cena e film con Ben e Hunter.» replicò immediatamente Michael con una scrollata di spalle.
«Cena e film con Blake.» lo seguì imitandolo Ted.
«Non avevo dubbi.» commentò con ironia, per poi rivolgersi a Emmett. «E tu, tesoro? Quanti bei maschioni hai conquistato ieri sera? Ti ho sentito rientrare tardi a casa.» rise compiaciuta e aggiunse: «Scommetto che qualcuno si è divertito parecchio!»
«Effettivamente...» mormorò con tono vago, giocherellando con uno degli stecchini. «È stata una bella serata.»
Debbie si protese sul bancone, appoggiandosi sui gomiti. «Allora, racconta! Comera il ragazzone?»
«No, no.» rise Emmett, sventolando una delle mani in segno di negazione. «Non è come pensi. Ho passato una bella serata intavolando uninteressantissima chiacchierata.»
«Chiacchierata?!» chiesero sorpresi Ted e Michael, allunisono. «Tu?!»
«Esattamente.» confermò deciso, con un pizzico di vanità.
Gli altri due si scambiarono unocchiata confusa e ripresero a fissarlo come se fosse stato un alieno. «Em, sicuro di sentirti bene?»
«Ehi, voi due.» intervenne Debbie. «Piantatela. Non tutti pensano solo e soltanto a scopare! Può essere piacevole anche una chiacchierata, sapete?»
Il figlio le rivolse unocchiata scettica. «Mamma. Stiamo parlando comunque di Emmett
«E con questo? Non fa mica Kinney di cognome.» ribatté contrariata, prima di riportare la sua attenzione sul colorato single della combriccola. «Allora tesoro, dicci chi è?»
Emmett osservò con attenzione il rosso sorriso di Debbie, prima di passare lo sguardo sui propri amici.
Una parte di sé avrebbe voluto confessare candidamente di aver trascorso lintera serata con Jace. Non cera niente di male in fondo, visto e considerato che avevano davvero solo parlato per tutta la sera, eppure qualcosa bloccava la sua proverbiale lingua sempre in movimento e spesso inopportuna.
Pochissime volte nella sua vita qualcuno lo aveva coinvolto tanto usando solo le parole; soprattutto nellultimo periodo, in cui trascorreva le sue notti al Babylon trovando quasi ogni sera un uomo diverso con cui passare qualche ora facendo esclusivamente buon sesso, anche se decisamente vuoto.
Stavolta invece era stato diverso.
Jace aveva riso e scherzato con lui. Avevano bevuto insieme e parlato del più e del meno, osservando la pista e commentando i presenti, prima di lanciarsi in qualche ballo, al centro di quel vortice di luci colorate.
Si era sentito davvero libero e spensierato. Quel ragazzo sembrava in grado di alleggerirlo da ogni pensiero ed ogni peso. Poteva apparire superficiale, ma per certi versi gli ricordava tanto lo sprizzante e un po frivolo Emmett - senza alcun problema o fantasma con cui combattere, che era stato anni addietro - condito da quella speziata malizia e da quel tocco di charme, tipici di uno come Brian.
Jace era un tipo estremamente sicuro di sé.
Sapeva di essere un bel ragazzo con una classe indiscutibile, e dal suo sguardo deciso sembrava che niente potesse turbarlo o intimorirlo; e se mai qualcosa ci fosse stato, certamente lo nascondeva più che bene.
La vicinanza di quel ragazzo era stata una vera e propria boccata daria fresca, e proprio perché sentiva quella sensazione nuova così personale, ne era “geloso” e non sapeva se condividerla, né come poterla spiegare. «È un segreto!» rispose allora, con un largo sorriso a nascondere il suo turbamento, prima di alzarsi dallo sgabello e controllare il proprio palmare. «Scusate, ma devo proprio andare!» concluse poi, inviando loro un bacio nellaria, per poi sculettare come sempre verso luscita, infilandosi il cappotto.
Debbie, Michael e Ted seguirono la psichedelica figura per tutto il suo tragitto, con uno sguardo attento. Restarono in silenzio per qualche secondo e si scambiarono unocchiata eloquente.
Non cera bisogno di parole.
Emmett aveva qualcosa di strano, e come ogni famiglia che si rispetti, era loro preciso compito ficcanasare a dovere per scoprire cosa stesse nascondendo.



*'*'*



«Quindi...che si fa?» chiese Justin, passeggiando tranquillamente al fianco di Brian per Liberty Avenue, e passando gli occhi intorno a sé, in ogni angolo di quella strada così familiare, per assaporarne ogni particolare.
Aveva agognato per così tanto tempo la possibilità di rivivere quei momenti, fatti delle loro abitudinarie passeggiate, che ancora non riusciva a crederci davvero. Continuava ad essere terrorizzato dallorrendo presentimento che tutto quello fosse solo un sogno e che presto avrebbe finito per svegliarsi nel suo letto a New York.
Spostò lo sguardo su Brian, bellissimo e reale accanto a lui, e gli si fece più vicino, cingendogli la vita con un braccio e lasciando che luomo passasse il proprio sulle sue spalle.
«Lo domandi?» replicò in risposta il bel pubblicitario, con il suo solito sorrisetto spavaldo. «Scopiamo.»
Justin sorrise e scosse la testa. «Non mi riferivo solo a oggi. Come sempre non ci siamo dati neanche il tempo per parlare un po...»
«Cè sempre da preoccuparsi, quando hai voglia di parlare.» mormorò Brian arricciando le labbra poco convinto dalle parole dellaltro, ed inarcò le sopracciglia. «Il tuo pensare non ha mai portato a niente di buono.»
«Brian, sto parlando sul serio.»
«Anchio.» ribatté prontamente, ma quando incrociò lespressione seria di Justin, sospirò e comprese che non era davvero il momento di scherzare. «E va bene...hai detto che potrai restare circa un mese se tutto procede secondo i piani, no?» sollevò le spalle e prese le chiavi della Corvette dalla tasca del cappotto. «Ok, allora quando arriverà quel giorno vedremo.»
«Vedremo
«Esatto. Quando sarà il momento in cui dovrai ritornare a New York, perché tu ritornerai a New York...» scandì bene le parole, per accertarsi che il suo biondo interlocutore avesse afferrato lindiscutibile concetto, e con unaltra distratta scrollata di spalle, aggiunse: «Allora ne parleremo. Non ha molto senso farlo ora.»
Stizzito e spaventato dalle parole delluomo, Justin sentì montare rabbia ed esasperazione dentro. Non poteva permettere che Brian lallontanasse di nuovo. Non era a New York che voleva stare, ma a Pittsburgh insieme a lui. «E se io non volessi tornare là? Hai sentito quello che ti ho detto ieri?»
«E tu hai sentito quello che ti ho detto più di un anno fa?» replicò asciutto, togliendosi gli occhiali da sole. Brian aveva già preventivato una reazione del genere e, per quanto in cuor suo avrebbe voluto accontentarlo e lasciarlo restare, non poteva assolutamente permettere uno sbaglio simile. Justin aveva una carriera da portare avanti, ed era quello che avrebbe fatto, anche a costo di costringerlo e rispedirlo nella Grande Mela legato al sedile dellaereo. «Tornerai a New York e non si discute. Non puoi mandare tutto a puttane.»
«Ho già avuto tutto da quella città.»
«Puoi sempre avere di più.»
«Ma non minteressa e...»
«Justin. Non voglio ripeterlo.» lo interruppe, stavolta con un tono molto più duro. «Non butterai nel cesso tutta la tua carriera. Fine della storia.»
«È la mia vita, cazzo!» sbottò inevitabilmente, stringendo i pugni così forte da far sbiancare le nocche. «Posso decidere di farne quello che voglio!»
«Non erano questi i patti.» replicò irremovibile Brian, aggrottando la fronte.
«Fanculo i patti!» esclamò Justin. «Non voglio tornare in quel posto.»
«Ok, resta alla vecchia e gloriosa Pittsburgh, ma non aspettarti di trovarci anche me.»
«Perché devi essere sempre così stronzo?» chiese con rabbia, passandosi una mano tra i capelli biondi e lucenti per scostare i ciuffi che gli coprivano gli occhi.
«E tu perché devi essere sempre così sordo e cieco?!» ribatté Brian, alzando la voce e inchiodando laltro con il suo penetrante sguardo verde scuro. Serrò le labbra e aspettò che Justin recepisse il messaggio celato nella sua frase; e come da programma, dopo qualche secondo di gelido silenzio, le spalle dellartista si rilassarono e gli occhi blu si addolcirono nuovamente, facendogli riassumere quella sua tipica aria da ragazzino.
Come in ogni loro litigio, Justin aveva avuto il bisogno di fare la sua solita sparata, prima di calmarsi e comprendere cosa in realtà laltro volesse comunicargli. Aveva avuto bisogno di sfogare la sua frustrazione, prima di ascoltare con più attenzione quelle parole e capire che tutto quello che Brian diceva o faceva era, come sempre, solo e soltanto per il suo bene.
Non era per scacciarlo o perché non lo voleva tra i piedi. Perché per quante volte gli avesse detto di andarsene in passato, ormai la fase “sono single, voglio restarlo e scoparmi qualsiasi cosa si muove” era stata superata ed accantonata da un bel pezzo, e Brian aveva già imparato ad ammettere, accettare e convivere con lamore che provava per Justin. Aveva compreso il suo bisogno di quel ragazzino biondo nella sua vita e non avrebbe mai fatto niente per allontanarlo, se non fosse stato esclusivamente per il suo bene.
Nuovamente consapevole di quella verità, con un sospiro sommesso, Justin finì per placare anche la poca rabbia rimasta e mormorò, pur mantenendo uno sguardo triste: «La smetterai mai di sacrificarti per gli altri?»
«Non è un sacrificio.»
«Per me lo è!» esclamò ancora. Non riusciva a sopportare il fatto che ogni dannata volta, Brian dovesse sempre anteporre la sua stramaledetta carriera dartista alla propria felicità; e non abbandonava mai la speranza che prima o poi la piantasse con quella sua stupida crociata e gli dicesse un sincero “resta”.
«Tornerai quando sarà il momento e non è certo adesso.» gli rispose invece, con un tono che non ammetteva repliche, e fu impossibile per Justin desistere dallalzare gli occhi al cielo e sospirare ancora.
«Verrai a trovarmi almeno?»
Le labbra di Brian si schiusero con fare incerto, per rispondere, quando il suo cellulare prese ad agitarsi e suonare nella tasca interna del cappotto. «Pronto...» disse, dopo aver letto un “Linz” lampeggiare sullo schermo. «Ciao figliolo!» esclamò poi; e quegli occhi verdi parvero accendersi e brillare di una luce accecante, mentre un sorriso sincero andava ad increspargli le labbra piene. «Sì...di pure alla mamma che passo a prenderti tra...» guardò il suo costoso Rolex e comunicò: «...dieci minuti.» sorrise più apertamente e lanciò unocchiata a Justin. «Sì, è qui con me. Verrà anche lui. A tra poco.» riagganciò e, dopo aver riposto il cellulare nel taschino, fece scattare la serratura della Corvette. «Andiamo raggio di sole, devo andare a dar sfoggio delle mie qualità di padre perfetto.»
«Brian...» lo chiamò con uno sbuffo scocciato. «Smetti di sviare il discorso. Hai sentito quello che ti ho detto?»
Lui sollevò gli occhi al cielo e si passò la punta della lingua sulla bocca. «Sì, ho sentito...e la mia risposta è sempre la stessa...non voglio interferire o crearti distrazioni, e...»
«Ma perché non la pianti una buona volta con...»
«Non ho finito.» intervenne per bloccare le proteste dellaltro. «Stavo dicendo che non voglio crearti distrazioni mentre lavori, ma se avrai il tempo di prenderti una pausa...» alzò le spalle e piegò per un attimo le labbra allinterno, prima di accennare ad un sorriso. «...Pittsburgh dista unora daereo e nessuno ti vieta di trascorrere qua le tue vacanze. In fondo è anche casa tua. Chi può impedirti di tornare?»
Justin lo scrutò attentamente, nel silenzio più assoluto, come se si aspettasse unaltra clausola in quellennesimo loro patto, che non gli sarebbe piaciuta affatto. Aggrottò la fronte e pronunciò fievolmente: «Vuol dire che posso...»
«Tornare durante le pause...è questo che ho detto.» si affrettò a puntualizzare, per smorzare sul nascere qualsiasi strana idea potesse aggirarsi in quella folle e spettinata testolina bionda. «Non abbandonare tutto e ritrasferirti in pianta stabile. Chiaro?» aspettò che laltro annuisse, seppur con titubanza, ed aprì la portiera della Corvette. «Andiamo, sali. Gus s’innervosisce se arrivo tardi.» sorrise e si mise al volante, rendendosi conto di come la frase appena pronunciata gli riportasse alla mente un Justin appena maggiorenne che, dopo laggressione, mostrava quella stessa identica reazione se non lo aveva vicino. Per qualche strana ragione, Gus somigliava un poanche a lui. «Sai, ha un po i tuoi modi di fare.» gli confessò quindi, ridacchiando.
«E questo ti preoccupa?» domandò il ragazzo, regalandogli uno dei suoi sorrisi luminosi e compiaciuti. Gli piaceva davvero tanto lidea che Gus ricordasse lui al padre.
Brian gli scoccò una strana occhiata e inforcò nuovamente gli occhiali scuri, prima di mettere in moto e partire. «Non immagini quanto.»

Con un minuto esatto di anticipo, dopo una sua classica performance di guida perfettamente spericolata, Brian parcheggiò la Corvette nel vialetto, assistendo compiaciuto alla corsa felice di suo figlio che lo raggiungeva con le braccia aperte - pronto a farsi stringere in un abbraccio - ed un sorriso splendido ad illuminargli il visino dolce e paffuto.
Scese velocemente dall’auto e si preparò ad accoglierlo compiaciuto, quando il bambino si gettò al collo di Justin.
«Justin, Justin.» lo chiamò entusiasta, lasciando il padre decisamente confuso e interdetto. «Ho fatto un disegno! Vuoi vederlo?!» gli chiese speranzoso, dopo aver afferrato la mano del giovane artista con la sua minuscola e morbida, per tirarlo verso casa.
«Certo, certo.» rise il ragazzo, per poi farsi trascinare, senza neanche avere il tempo di salutare Linz a dovere.
Brian scosse la testa, con uno strano sorriso e inserì lallarme, prima di avviarsi lentamente verso la porta dingresso, dove la sua bionda migliore amica lo stava aspettando con unespressione evidentemente divertita. «Evita i commenti.» lavvertì immediatamente ma, come aveva già preventivato, fu tutto perfettamente inutile.
«Sembra che i geni dei Kinney, abbiano un particolare debole per quello dei Taylor.» sorrise compiaciuta, dandogli un buffetto sulla spalla.
«Non mi pare che lamore divampasse tra me e papà Taylor.» rispose lui, riferendosi ai brutti trascorsi con Craig, per confutare in qualche modo la sua teoria.
Linz sollevò le sopracciglia ed arricciò le labbra, come se stesse varando varie ipotesi. «Effettivamente...» mormorò, per poi aggiungere: «...probabilmente è un debole solo per quel Taylor in particolare.»
«Come no.» borbottò Brian, entrando in casa, sperando nuovamente – e invano – che il discorso si esaurisse con quella battuta.
«Sono davvero contenta che sia tornato.»
«Non lha fatto infatti.» rispose con una scrollata di spalle, e quando vide lo sguardo confuso della donna, si decise a spiegare: «Starà qui solo per un mese, al massimo. Poi dovrà tornare alla sua base operativa nella Grande Mela.»
«Un mese non è poco, e magari potresti anche deciderti per farti qualche viaggetto a New York.» lo rimproverò con unocchiataccia. «O magari a Toronto in sua compagnia. Faresti felice anche Gus.»
«Vedremo.» tagliò corto con un sospiro, facendo il suo ingresso nel salotto di casa Bruckner-Novotny, dove il tavolino ed il pavimento erano completamente imbanditi di pastelli, matite e fogli.
Le labbra di Brian sincresparono in un sorriso dolce e sentì il cuore battergli con forza dirompente nel petto, quando tra quel tripudio di pittoresca confusione, i suoi occhi simbatterono nellentusiasmo del piccolo Gus che mostrava i suoi buffi disegni a Justin, spiegandoli accuratamente: «Questa è la nostra casa a Toronto.» disse deciso, indicando quella strampalata riproduzione dal tetto rosso e triangolare e il comignolo storto. «E questo sono io, con le mie mamme, Jenny e il mio papà.» indicò tutti, uno per uno, finché non arrivò ad unaltra figura bionda nel disegno, con due grandi cerchi blu ad interpretarne gli occhi. «E ho disegnato anche te, vicino al mio papà! Vedi?»
«Sì.» sorrise Justin. «È bellissimo sai?» gli disse poi, accarezzandogli la testa. «Che dici...posso tenerlo io questo?»
A quelle parole Gus si gonfiò dorgoglio. «Certo!» esclamò, prima di voltarsi verso i propri genitori e correre da loro. Si allungò verso Brian e si fece prendere in braccio. «Hai sentito papà? A Justin è piaciuto il mio disegno!» gli rivolse un gigantesco sorriso e continuò: «E se lha detto lui, vuol dire che anche io farò i quadri?»
«Be...se lha detto Justin...» ammiccò, strizzando locchio. «...deve essere per forza così. Anche perché ne sono certo, Gus...potrai diventare tutto quello che vorrai.»
Il bambino sorrise felice, prima di passare gli occhi tra suo padre e il biondo artista. «Adesso possiamo andare alla tua casa? È più bella e ha la televisione grandissimissima
«Daccordo signorino.» convenne lui, facendo un cenno a Justin.
«È proprio tuo figlio.» commentò Linz, scuotendo la testa. «Non riesce a stare lontano dalle cose costose, di classe e da megalomani come te.»
«Per fortuna, aggiungerei.» ribatté Brian, inarcando le sopracciglia. «La sua natura lo salverà da te e tuo marito. Non oso immaginare cosa ne verrebbe fuori altrimenti.»
«Molto spiritoso.» lo apostrofò lei. «Comportati bene davanti a tuo figlio...» lanciò unocchiata eloquente e ammonitrice a Justin e sorrise maliziosa. «Tenete le mani a posto e portatelo a casa di Debbie in orario per la cena. Chiaro?»
«Sì, signorina Rottermaier.» la prese in giro luomo, tra le risate di Justin, riuscendo a schivare appena in tempo un debole pugno. «Ci vediamo più tardi.» la salutò, seguito dagli altri due suoi uomini, prima di raggiungere la Corvette e consegnare il bambino a Justin, per farlo sedere con lui, proprio come avevano sempre fatto in passato.


“Hear you me” – Jimmy Eat World


Il primo a raggiungere la porta scorrevole fu Gus, dopo aver trascinato i due uomini in una “gara a chi arriva primo” su per tutte le scale del palazzo, e in cui, ovviamente, lo avevano lasciato vincere.
Brian osservò suo figlio saltellare felice, mentre prendeva in giro sia lui che Justin, e fece girare le chiavi nella serratura per permettere a tutti di entrare nel loft.
Con uno scatto fulmineo, il bambino corse immediatamente allinterno e salì su una delle due sedie bianche, sporgendosi sul tavolo, senza neanche togliersi il cappotto e la sciarpa, pronto ad iniziare il suo pomeriggio di disegni con il giovane e biondo artista. «Justin, Justin!» lo chiamò, agitandosi sulla sedia. «Metti tutto qui!» strillò entusiasta, riferendosi ai colori e ai fogli che aveva insistito per portarsi da casa.
«Piano, campione.» lo riprese suo padre. «Togliti prima questa roba.» gli disse, prendendo a srotolare la sciarpa dal piccolo collo bianco e sbottonandogli il piumino.
«Ehi Gus.» lo chiamò Justin. «Che ne dici se disegniamo sul pavimento?» propose, sapendo quanto Brian tenesse al suo tavolo ellittico e immacolato, e che sarebbe certamente stato in pericolo con un bambino di sette anni e i suoi coloratissimi pennarelli.
Gus annuì felice in risposta e zampettò vicino al ragazzo, mettendosi immediatamente disteso a pancia sotto e aspettando che Justin posasse un foglio bianco davanti a lui. «Che disegno?» chiese in seguito, indugiando sulla miriade di pennarelli a sua disposizione.
«Non so, quello che preferisci.» gli rispose lartista, sedendosi accanto a lui.
«Allora...» iniziò incerto il bambino, inarcando le piccole ciglia scure e facendo sparire le labbra allinterno della bocca, replica del padre. «...disegno me, te e papà!» decise, e prese il pennarello rosa, iniziando a tracciare i primi contorni.
«Attenti al mio parquet, voi due.» brontolò immediatamente Brian, prendendo una bottiglia di birra dal frigo. «Vi tengo docchio.»
«Non fare il padre pallos...ehm...» Justin si schiarì la voce e lanciò unocchiata al mini-Kinney, per sincerarsi che non lavesse sentito. «...noioso.»
«Taylor...» lo apostrofò, fingendosi sconvolto, mentre si avvicinava ai due e si sedeva con loro. «Che cosè questo linguaggio?»
«Ma piantala!» ribatté laltro, lanciandogli contro uno dei pennarelli.
«Justin, mi disegni una casa?» chiese Gus, intento nella riproduzione dei capelli del padre sul foglio bianco.
«Certo.» rispose, prendendo immediatamente i colori giusti ed iniziando a tracciare le prime linee perfettamente dritte, mentre gli occhi scuri di Brian si perdevano nellosservare lespressione assorta che Justin assumeva ogni volta che doveva disegnare; anche se si trattava della cosa più semplice del mondo.
Semplicemente, gli piaceva guardarlo.
Adorava vedere il cipiglio leggero che gli solcava la fronte nivea, e quelle perle blu dei suoi occhi fisse sul foglio e concentrate; o il modo in cui a volte serrava le labbra o le mordicchiava distrattamente. Adorava come piegava di lato la testa per controllare da unaltra angolazione il suo operato; o come i capelli biondi e lisci danzavano davanti alla sua faccia, costringendolo a scostarseli dietro le sue bellissime orecchie a conchiglia. E adorava anche quel suo buffo vizio di premersi il pennarello – o qualunque fosse lo strumento che usava in quel momento per disegnare – sulle labbra, assottigliando lo sguardo e assumendo quella sua eccitante aria pensosa.
Brian avrebbe trascorso ore ad osservarlo mentre disegnava, perché in quel momento Justin gli appariva etereo. Era così bello da sembrare intoccabile, e a volte quasi aveva avuto paura a farlo, perché temeva di rovinare quellaffinità che quel ragazzino riusciva a creare con larte. Solo nei momenti in cui il bisogno di sentirselo addosso era diventato più forte di tutto il resto, si avvicinava a lui e lo strappava dal quel suo strano limbo per farlo ancora suo.
Prese un sorso e inconsapevolmente si ritrovò a sorridere.
Se invece che avere il genio della pubblicità dentro, avesse avuto quello dellarte come Justin, sicuramente avrebbe immortalato su una tela quella scena, e lavrebbe nominata con un titolo che avrebbe richiamato il significato della felicità più semplice e pura; perché per lui, quellimmagine, aveva davvero quel sapore perfetto, e avrebbe anche pregato purché non finisse mai, perché restasse indelebile ed immutata nel tempo; eppure, bastò un brutto ricordo del passato a rovinare tutto.
Improvvisamente la mano di Justin prese a tremare, come tante altre volte gli aveva visto fare, e il ragazzo fu costretto a ritrarla prima di rovinare il disegno con i suoi spasmi e ad afferrarla con quella sana, per mettere in trazione i tendini.
Brian lo vide borbottare qualche imprecazione, così che si avvicinò a lui con uno strano groppo alla gola, e sostituì le sue mani a quella dellartista, per aiutarlo nei massaggi. «Non mi hai ancora detto niente di questa. Come va?»
Justin sbuffò. «Come sempre. Solo che in questo periodo le ho chiesto davvero troppo, e adesso sembra resistere un po meno del solito.»
«Tranquillo...» gli disse, vedendolo nervoso. «...tienila un po a riposo e tornerà come prima.»
«Finisco questo disegno e...»
«Justin.» lo chiamò, con un leggero tono di rimprovero.
«Solo questo.» gli sorrise, gongolando un po per il fatto che Brian si preoccupasse tanto per lui. «Promesso.»
«Daccordo.» sospirò arrendevole, terminando di massaggiargli la mano, prima di passare le dita nei capelli setosi del figlio, in una carezza carica damore. Tornò a sorseggiare la sua birra, e riprese a godere di quellimmagine perfetta, seppur con un po di ansia che, come un dito gelido, gli sfiorava la schiena in tutta la sua lunghezza, impedendogli di sciogliere quellodioso nodo al centro della gola.
Per quanti anni fossero trascorsi, Brian non sarebbe mai riuscito a farsi davvero una ragione per quello stramaledetto incidente; Brian non riusciva ancora a perdonarsi per non esser stato capace di impedire a Chris Hobbs di colpire il suo Justin e di lasciargli addosso una ferita indelebile.
Gli capitava spesso di sentir bruciare quella ferita al centro del petto che si era andata ad aprire nel momento in cui laveva visto crollare, seguita dallimmagine del rosso vermiglio del sangue che andava a insinuarsi tra i fili dorati dei suoi capelli e a macchiargli la faccia, spegnendone il sorriso.
Non ne aveva mai parlato con nessuno, ma gli capitava di avere incubi per quella notte, e qualche volta si ritrovava a fissare il vuoto mentre la sua mente gli riproponeva, traditrice, quella sequenza orribile.
Erano stati forse anche quelli, nellultimo anno, i momenti in cui desistere dal chiamare Justin e correre da lui, era stato davvero difficile. Si svegliava nel cuore della notte, terrorizzato dal fatto che tutto ciò che avevano vissuto dopo lincidente fosse stato solo un sogno, e che nella realtà, Justin era morto da tempo, perché non era riuscito a salvarlo.
Si sentiva i polmoni svuotati, il cuore che sembrava sul punto di esplodere, e la pelle sudata e fredda per lo spavento, finché non si rendeva conto che era lennesimo incubo e si lasciava ricadere sul letto disfatto dal suo continuo rotolarsi e riprendeva a respirare, ripetendosi come un mantra che era tutto a posto, che Justin stava bene e che non doveva disturbarlo.
A volte si chiedeva se una semplice telefonata avrebbe salvato le cose; se per una di quelle notti avesse ceduto e gli avesse detto la verità, invece di continuare a fingere che tutto fosse un idillio, avrebbe cambiato le sorti di quella loro strampalata e minata storia...poi però, gettava uno sguardo distratto all’inserto di cultura di un qualsiasi giornale, e leggendo quel nome tanto familiare seguito da miriadi di recensioni positive, il suo cuore si riempiva a metà tra l’orgoglio e la malinconia, per cui, con un sorriso amaro, abbandonava ogni proposito e si costringeva a tornare alla sua vita.
E si era ormai quasi arreso al fatto che le cose sarebbero rimaste in quel modo, quando quei ciuffi biondi e luminosi, quegli occhi profondamente blu e quel sorriso disarmante, erano ricomparsi all’improvviso sulla sua strada, riattivando il suo cuore ammaccato e gelido che credeva ormai destinato ad essere inutilizzato, e a riempirsi di polvere e ragnatele.
Era stata come una sorda esplosione, come ricominciare a respirare dopo aver passato troppo tempo a soffocare lentamente in apnea; era stato come sentire distintamente il sangue ricominciare a scorrere nelle vene, e scaldare quel corpo ormai gelido, alla stregua di quello di un cyborg.
Justin era tornato, e con lui il suo bambino.
Erano tornati a dargli una speranza che, per quanto borbottasse di non volere, in realtà era la cosa che più agognava al mondo e a cui si aggrappava con tutte le sue forze.
Brian Kinney sperava, sperava eccome.
Sperava di raggiungere quella felicità di cui tutti parlavano, ma che lui era riuscito solo a sfiorare per qualche istante, prima di vederla volare via; sperava di poter tenere con sé gli unici due uomini che aveva davvero amato più di qualsiasi altra cosa nella sua discutibile esistenza, e che occupavano tutto il suo cuore.
Con un lieve sospiro, svuotò la bottiglia con un ultimo sorso e si riavvicinò a suo figlio, in uno slancio d’affetto, per sfiorargli con un bacio la testa ed osservarlo mentre terminava di colorare gli ultimi dettagli di quel suo piccolo capolavoro, tenendo la lingua fuori su un lato, stretta tra le labbra, a dimostrazione dell’impegno che ci stava mettendo. «È bellissimo, sai?» gli confidò poi, passandogli un braccio intorno alla vita.
«È quasi finito!» esclamò il bambino in risposta, prima di chiudere il pennarello – come mamma Mel gli aveva insegnato per non lasciarli seccare – e sventolare il foglio colorato. «Guarda!»
«Ma come Gus, non metti la firma alla tua opera?» gli chiese Justin. «Tutti i grandi artisti lo fanno.»
«Anche tu?» gli domandò in risposta, con gli occhi vispi e incuriositi.
Justin annuì e Brian gli porse un pennarello nero. «Andiamo piccolo Warhol, scrivi il tuo nome.»
«Dove?» chiese lui, squadrando il disegno con attenzione, come se dovesse fare la cosa più importante del mondo.
«Qui.» indicò Justin. «Nell’angolo in fondo a destra. Ti piace?»
Gus annuì sorridente, e si distese nuovamente a pancia sotto, concentrandosi al massimo per non sbagliare neanche una lettera e mostrare a suo padre quanto ormai fosse bravo. «‘Gus’.» pronunciò lentamente per aiutarsi. «‘P’...‘M’...‘Kinney’.» sorrise soddisfatto, per essere riuscito a scrivere tutto correttamente e si voltò verso Brian, con uno sguardo furbo. «Il cognome importante è ‘Kinney’.»
«Mi sembra più che ovvio, campione.» convenne, strizzando l’occhio.
«Fanatico.» sussurrò Justin, attento a non farsi sentire dal piccolo.
«Ha già capito come stanno le cose.» ammiccò, sollevando le sopracciglia e spingendo la lingua contro la guancia. «È intelligente...d’altronde è mio figlio
Justin scosse la testa rassegnato e prese a ridacchiare. «Ho quasi paura di sapere come verrà fuori. Sembra già fin troppo sulla buona strada per replicarti.»
«E questo è un male?»
«Dipende dai punti di vista.» rispose, storcendo le labbra. «Spiegalo a Melanie, se ci riesci.»
«Mamma Melanie si mette sempre a pregare ogni volta che qualcuno le dice che assomiglio a te.» intervenne il bambino, stupendo i due adulti. «Lo fa perché spera che sia così, vero? È per questo che alza gli occhi al cielo e prega tanto?»
Per Justin, trattenersi dal ridere dopo la sorpresa, fu letteralmente impossibile, mentre Brian si sforzò di assumere un’espressione più seria. «Certo tesoro.» rispose, con un ghigno divertito. «E non immagini quanto! Non vede l’ora...»
«Allora m’impegnerò tanto e diventerò come il mio papà.» affermò convinto il bambino, prima di prendere un altro foglio e ricominciare a disegnare, ispirato da chissà cosa.
«Melanie ti strapperà le palle per questo.» sussurrò all’orecchio di Brian, il biondo artista, e l’altro scrollò le spalle.
«Be’...mi auguro le difenderai a costo della vita, perché non ci perdo solo io, stronzetto...» inarcò le sopracciglia e si sporse per baciarlo sulle labbra.
Appoggiò la fronte contro quella dell’altro, trattenendolo per la nuca e facendo vagare le dita tra quelle ciocche bionde, prima di sfiorare il proprio naso su quello di Justin. Sollevò le palpebre, andando incontro all’abisso profondo di quegli occhi blu e non riuscì a trattenere un sorriso beato, reso più sognante dal leggero sospiro che gli sfuggì dalle labbra, quando riprese a baciarlo.
Erano quei semplici momenti di malcelata dolcezza, quelli in cui avrebbe davvero pregato che il tempo si fermasse; quando inconsapevolmente si concedevano di coccolarsi, senza però dirselo apertamente, come se fosse il loro piccolo segreto. Un segreto di cui avrebbero certamente negato l’esistenza, se mai qualcuno avesse provato a pronunciarlo ad alta voce...perché loro erano Brian Kinney e Justin Taylor, e per il resto del mondo scopavano e basta, senza mai confessare che quei gesti, in realtà, erano così pieni di dolcezza e di un’amore talmente grande, che avrebbero potuto spazzare via qualsiasi cosa.
E avrebbe continuato a restare in quella tiepida bolla, dove ogni cosa sembrava perfetta, se solo quel dannato telefono non avesse emesso il suo trillo acuto, attentando alla salute dei suoi nervi per la seconda volta in una sola giornata.
Sollevò gli occhi verde scuro verso l’altro gonfiando le guance, e si alzò per raggiungere il cordless, ciondolando scocciato per il breve tragitto. «Pronto?» rispose ed immediatamente le sue labbra si piegarono in una smorfia.
«Mi auguro per voi due che vi siate astenuti dal fare porcate davanti a Gus, o mi premurerò di staccarvi le palle personalmente...» lo aggredì immediatamente la voce decisa di Melanie. «...a parte questo, datevi una mossa, ci vediamo da Debbie tra mezz’ora.»
Brian si diede una sonora scozzata ai gioielli di famiglia, come ogni volta che il marito di Linz si premurava di lanciare minacce alla sua tanto cara attività sessuale, e biascicò in risposta: «Bestellungen, fuhrer!»
«Attento a quello che dici.» lo minacciò nuovamente lei, con la voce ridotta ad un sibilo. «Ricordati che sono ebrea
«Appunto.» ridacchiò lui e riagganciò prima che potesse protestare.
«Chi era?» gli domandò Justin, quando lo vide riavvicinarsi.
Brian imitò il saluto militare nazista e calcò la voce come se fosse un tedesco: «Kommandant Melanie Marcus.» si sedette nuovamente al fianco dell’artista e si sporse verso di lui per baciarlo. «Ha detto che tra mezz’ora dobbiamo essere da Deb. Pena...»
«Non voglio sentirla.» lo fermò l’altro. «Posso immaginarla e tanto basta.»
«Ehi campione, hai sentito?» si rivolse allora a suo figlio. «Mamma Mel ha detto che dobbiamo andare subito da nonna Deb.»
«Di già?» s’imbronciò il bambino, facendogli intendere che avrebbe decisamente preferito restare solo con loro due.
E come poteva dargli torto suo padre, che attingeva da quegli sporadici e preziosi momenti tutta l’energia di cui aveva bisogno per affrontare quelli in cui la mancanza di Gus e Justin si faceva davvero insopportabile.
Accarezzò ancora una volta i capelli del suo bambino, con uno sguardo profondamente dolce, e si lasciò andare ad un sospiro. «Prometto che domani staremo ancora insieme, ok?»
«Va bene.» mormorò il piccolo, con quella sua vocina adorabile, prima di rimettere nella scatola i pennarelli.
«Sembri quasi più dispiaciuto tu di tuo figlio.» gli fece notare Justin, facendosi più vicino. «Non so chi dei due ha il broncio più grande.»
Brian sorrise amaramente e portò una mano a scostare un ciuffo biondo e ribelle dietro l’orecchio, per poter ammirare meglio quei lineamenti morbidi e perfetti. «Probabilmente sto davvero invecchiando.»
«O forse stai finalmente crescendo.» ribatté Justin, protendendosi con l’intento di appropriarsi di altri baci.
Le loro labbra si ricongiunsero ancora e ancora, tra tanti piccoli schiocchi, prima che il piccolo Gus – perfettamente a suo agio – reclamasse l’attenzione di entrambi e la sua dose di coccole, gettandosi addosso a suo padre in un assalto.
Brian si lasciò ricadere all’indietro ed attingendo a un poco della forza nelle braccia, sollevò il bambino in aria, come se volesse farlo volare.
La possibilità di sentire le risate di Justin, disteso accanto a lui, unite a quelle di suo figlio, era per Brian qualcosa di così prezioso per cui provava davvero la voglia di dire “grazie” in quel giorno di festa; di urlarlo con tutta la voce, più forte di quanto gli fosse possibile...e anche se continuava a percepire dentro al cuore il dolore di vecchie ferite, miste alla paura che, prima o poi, avrebbe perso per sempre quei momenti, un sorriso di suo figlio e uno di Justin bastarono perché ogni preoccupazione e ogni senso dinquietudine svanissero allistante, come nuvole soffiate via dal vento, lasciando solo il posto ad un accecante sole che gli scaldava il cuore.



*'*'*



«Hunter, metti quei salatini sul tavolo.» ordinò Debbie dalla cucina, sbraitando isterica. «E le bibite sull’altro tavolo. Ah, e mi raccomando, il ghiaccio!»
«Che palle!» sbottò il ragazzo, guardando truce la nonna adottiva. «Non siamo al Diner! La pianti di farmi sgobbare?!» lanciò un’occhiataccia a Carl beatamente accomodato sulla poltrona a guardare le ultime notizie alla tv, insieme ad un Emmett stranamente inquieto, e ai suoi genitori che squadravano attentamente quest’ultimo come se gli volessero fare una lastra, e continuò: «Perché non fai alzare un po’ anche i loro culi?!»
«Se usassi le energie che impieghi per lamentarti nel fare ciò che ti ho chiesto, a quest’ora saresti anche tu stravaccato sul divano come loro.» replicò la donna con un sorriso, prima di appioppargli un vassoio di tartine ed una pacca sul sedere come incentivo a darsi una smossa.
«Va bene, va bene.» borbottò lui, procedendo tra gli sbuffi verso la sala in cui era stato sistemato parte del gigantesco aperitivo preparato da Debbie, che, come suo solito, cucinava per un vero reggimento. Lasciò il vassoio sul tavolo e lanciò un’occhiata a Melanie – intenta nel sistemare tovaglioli e bicchieri – prima di chiederle: «Se la uccido, mi difenderai in tribunale?»
Mel scosse la testa ridacchiando. «Non credo ci arriveresti al tribunale, sai?» fece un cenno alle sue spalle, indicando il resto dei presenti e aggiunse: «Provocheresti una crisi emotiva a livello mondiale. Qui tutti dipendono da lei...immaginati il caos. Sicuro di voler correre un rischio simile?»
Hunter sollevò le sopracciglia, soppesando per un attimo le varie possibilità, per poi assumere un’espressione terrorizzata ed affrettarsi a negare con la testa. «No, grazie. Chi li sopporta poi?»
«Appunto.» ribatté con ovvietà, quando il suono del campanello si diffuse per tutta la casa. Si avviò verso la porta e l’aprì, dando il benvenuto a Jace, Ted e Blake. «La casa non è stata difficile da trovare allora!» esclamò, riferendosi al primo dei tre.
«No, no.» sorrise il designer. «Fortuna che ho sempre avuto un buon senso dell’orientamento.» la salutò con due baci sulla guancia e proseguì per raggiungere Debbie e consegnarle la confezione di dolciumi acquistata in pasticceria. «Questa è per la padrona di casa.»
«Tesoro!» lo chiamò con uno strillo che fece sobbalzare tutti; tutti tranne Emmett, che si era gelato sulla poltrona fin dal primo momento in cui aveva udito la voce del ragazzo. «Ma non dovevi!»
«Ho chiesto un po’ in giro e mi hanno detto che era la pasticceria migliore della città.» fece un sorriso spavaldo e aggiunse: «Ho sentito dire che fanno dei cannoli favolosi.»
Debbie gli rifilò uno scappellotto e lo spinse verso la sala. «Va’ a sederti, piccolo succhiacazzi impudente!»
Continuando a ridacchiare, Jace raggiunse gli altri stravaccati sul divano, e li salutò con un sorriso. «Ciao a tutti!» esclamò, passando lo sguardo su ognuno di loro, fino ad incontrare la perennemente evidente figura di Emmett. Gli strizzò l’occhio con fare complice, e solo allora si rese conto di quanto questo fosse più cupo del solito e rigido come un blocco di marmo. Di certo, non era il solito favoloso e sfavillante Emmett; perciò, continuando a sostare con lo sguardo su di lui, si avvicinò con la fronte aggrottata pronto a sederglisi a fianco, incuriosito dal suo comportamento, quando il campanello suonò per la seconda volta.
I suoi occhi abbandonarono il ragazzo per spostarsi verso la porta, da cui un uomo sulla cinquantina, con i capelli cenerini e gli occhi azzurri come il cielo, fece il suo ingresso, accolto da una quantità esagerata di affetto e sorrisi, soprattutto da parte di Debbie.
«Era il compagno di mio zio.» gli comunicò una voce alle sue spalle, che poi riconobbe essere quella di Michael. «Non hai fatto in tempo a conoscerlo, ma so che ti sarebbe piaciuto.»
«Be’, a chi non poteva piacere Vic?» convenne immediatamente Ben, cingendo il marito in un abbraccio. «Era una persona fantastica.»
L’altro fece un sorriso un po’ amaro, con lo sguardo perso nel vuoto a ricordare qualche aneddoto, per poi riportare la sua attenzione su Jace. «Ci ha lasciati tre anni fa.»
«Come...» iniziò il ragazzo, un po’ imbarazzato.
«AIDS.» rispose senza tanti fronzoli. «Era malato da parecchi anni, ma è riuscito a tenere testa a quello schifo per davvero molto tempo.»
«Doveva essere un vero uomo con le palle.»
Michael sollevò le sopracciglia ed indicò con gli occhi la madre, ancora intenta a parlottare con Rodney. «Come pensi che potesse essere con una sorella del genere?» scoppiò a ridere e aggiunse: «Per vivere una vita intera con mia madre, non ti bastano due palle.»
Jace sorrise a sua volta, osservando l’energica donna, come abbagliato da quella sua forza che sembrava letteralmente sprizzare da ogni centimetro del suo corpo ed annuì convinto, prima di gettare l’ennesima occhiata furtiva verso Emmett, sempre più assente.
«Allora, ci siamo tutti?» esclamò Debbie, con la sua voce dirompente.
«No.» comunicarono in coro gli altri, con una voce un tantino esasperata.
«Chi cazzo manca ancora?» replicò lei, guardandosi intorno, finché, resasi conto della stupidità della sua domanda, emise un mugugno infastidito.
«E lo domandi?» borbottò Carl, guardando fuori dalla finestra.
«Li ammazzo.» sibilò Melanie, temendo e pensando al peggio, a cui diede immediatamente voce Ted.
«Staranno mica scopando...»
«Spero di no per le loro palle. C’è mio figlio con loro e non voglio che ne esca traumatizzato!» replicò Linz inviperita, scendendo le scale con in braccio la piccola Jenny Rebecca, dopo aver sentito la conversazione. Raggiunse sua moglie, consegnandole la bambina e si affrettò ad aprire la porta, quando – finalmente – il campanello venne suonato anche dagli ultimi ospiti attesi. «Alla buon’ora!»
Gus fu il primo ad entrare, correndo immediatamente in contro alle loro mamme, entusiasta. Agguantò Linz per il maglione e prese a tirarlo per conquistare la sua attenzione. «Mamma, mamma! Io, Justin e papà abbiamo giocato alla lotta!»
Gli occhi di tutti i presenti guizzarono immediatamente verso Brian, nel gelido silenzio, contornati da espressioni poco amichevoli. «Non quel tipo di lotta.» si affrettò a ribattere allora lui, roteando gli occhi. «Ma perché dovete pensare subito male?»
«Perché si tratta di te e Justin.» replicò acida Melanie, con un sorriso tirato.
Justin si lasciò andare ad una risata e scosse la testa. «Accidenti che bell’idea che avete di me! Sono più responsabile di tutti voi messi assieme.»
«Lo sappiamo, topino.» lo rincuorò immediatamente Deb, con un tono dolce, prima di assottigliare nuovamente lo sguardo ed inacidire la voce, riferendosi al pubblicitario: «Ma, sai com’è, sappiamo anche quanto riesce ad essere traviante una certa persona di nostra conoscenza.»
«Moi?!» esclamò Brian, portandosi una mano al petto e fingendosi sconcertato, ottenendo un pugno sulla spalla da parte di Linz.
«Mangiamo che è meglio.» comunicò la padrona di casa allora, quando il cellulare di Justin prese a suonare.
La mano dell’artista corse immediatamente alla tasca dei Jeans, immaginando che fosse la madre a chiamarlo per ricordargli l’impegno per il pranzo del giorno successivo, ma dovette ricredersi, quando sul display vide un nome totalmente diverso. «Ah...» balbettò, impallidendo per l’ansia. «...rispondo un attimo e arrivo.»
«Certo. Fa pure, tesoro.» gli rispose Debbie, cominciando a riempire il proprio piatto tranquillamente, seguita dal resto della combriccola, eccezion fatta per Brian e Jace che, prima seguirono Justin attentamente, mentre si allontanava per rispondere, poi – senza neanche volerlo – si scambiarono un’occhiata carica della stessa apprensione.
Erano le due persone che lo conoscevano meglio, e ad entrambi non era certo sfuggito quel drastico cambiamento sul suo volto, quando i suoi occhi avevano incrociato lo schermo.
Restarono immobili in mezzo alla stanza, in silenzio, ed ignorando cosa stesse succedendo intorno a loro, troppo presi dall’attesa di quei pochi minuti che assumevano ogni istante di più il sapore di una spiacevole sentenza.
Qualche scambio di battute appena, e Justin lasciò ricadere il braccio, come se fosse privo di forze, chiudendo la comunicazione e voltandosi verso il resto dei presenti, con un’espressione affranta sul volto e passando gli occhi blu – ormai spenti ed opacizzati – prima su Jace, confermando ogni suo presentimento, poi su Brian, sentendo lacrime amare spingere per fare la loro comparsa. «Era Gary, il mio agente...» biascicò con la voce ridotta ad un soffio; e credette di poter svenire da un momento all’altro, quando vide gli occhi dell’uomo di cui era follemente innamorato chiudersi con rassegnazione, nell’attesa che lui terminasse quella frase, come se fosse una pugnalata. Strinse i pugni e digrignò i denti, cercando invano di sciogliere quel fastidioso nodo creatosi improvvisamente nel fondo della gola, per poi costringersi a immettere aria nei suoi polmoni letteralmente svuotati e mormorare a fatica quelle parole gli stavano graffiando la lingua: «...domattina devo rientrare a New York.» 


*** 


Note dell'autrice: 
Rieccomi qua, dopo poco più di un mese con questo nuovo capitolo! 
Scusatemi per il ritardo, ma tra vacanze, matrimoni e università, mi è proprio mancato il tempo!
Sarò brevissima, perché è già tardi e poi non credo ci sia molto da specificare! XD Qualcuno mi odierà...ma io l'avevo detto che non sarebbero state facilmente "rose e fiori" e che sono un po' sadica, no?
Stupidaggini a parte, spero che vi sia comunque piaciuto e che abbiate trascorso delle belle vacanze, perciò passo immediatamente alla cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha inserito la storia nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate, ma soprattutto grazie a: mindyxx, electra23, FREDDY335, Hel Warlock, Katie88, SusyJM, EmmaAlicia79, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio [a cui devo dire grazie anche per avermi fatto ascoltare "Fever" di Adam Lambert], giacale, silver girl e Thiliol per aver commentato l'ultimo capitolo!
Grazie ancora e alla prossima!
Prometto di essere molto più veloce con la pubblicazione del prossimo capitolo!

Un bacio,
Veronica.


   
 
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