6x08 –
Thanksgiving day.
[capitolo betato da Trappy]
Affrettò il
passo, spaventato perfino dal continuo frusciare dei suoi pantaloni
di nylon arancioni, intento a superare il più velocemente possibile
quella zona di parcheggio adombrata.
Odiava andare al
Babylon da solo, ma da quando i suoi amici si erano accasati con i
loro compagni, non c’era
stata più l’occasione
per riuscire a trascinarli lì. Preferivano di gran lunga condurre la
vita dei pantofolai; tutti tranne Brian ovviamente, ma non si sognava
neanche per sbaglio di chiedere a lui un passaggio, considerando poi
che il ritorno non sarebbe mai stato garantito.
Emmett sbuffò
scocciato, stringendosi di più nella sua pelliccia sintetica blu,
riprendendo a respirare con più regolarità quando la luce dei
lampioni tornò ad accoglierlo sotto la sua rassicurante presenza.
Per quanto potesse
essere ampiamente definibile “checca
urlante” – e doveva dire che, a dispetto di tutto, possedeva una
discreta potenza vocale e degli acuti da far invidia anche a George
Michael o Prince – Emmett aveva assistito a fin troppe aggressioni
sulla pelle di persone che conosceva bene, per sentirsi al sicuro
perfino lì, nella zona più popolata da omosessuali e transessuali.
Svoltò l’angolo
in tutta fretta, con lo sguardo basso sull’asfalto
e neanche si rese conto della persona che lo precedeva con un passo
più tranquillo, finché non ci sbatté letteralmente contro. «Oh
Cristo!» strillò, sobbalzando per lo spavento. «Oddio, scusa!»
restò per qualche secondo a scrutare la persona con cui aveva appena
avuto il “sinistro pedonale” ed aggrottò la fronte. «Un
momento, ma io ti conosco.»
Gli
occhi nocciola dell’altro
abbandonarono finalmente le proprie scarpe – fino a pochi secondi
prima perfettamente bianche e immacolate – per degnarlo di uno
sguardo, seppur decisamente infastidito. «Già.» ribatté asciutto,
tornando a ispezionare i suoi preziosi mocassini italiani pagati
trecentocinquanta dollari e tenuti nel migliore dei modi, prima che
un “carrarmato frocio e multicolore” ci passasse sopra.
«Tu sei Jace,
giusto?» esclamò ancora Emmett, battendo le mani entusiasta,
ignorando l’imminente
crisi isterica che stava per colpire il suo interlocutore da un
momento all’altro.
«L’amichetto di
Justin.»
Jace lo guardò
nuovamente sottecchi, con una vena sulla tempia che minacciava
d’inspessirsi ogni
secondo di più, come ogni volta che stava per esplodere. «Esatto.»
sibilò e si passò l’indice
ed il pollice delicatamente sulle palpebre per calmarsi, tentando di
non togliere quel tocco di luce donatogli da qualche minuscolo
brillantino. Non poteva esplodere con uno dei più cari amici di
Justin, eppure, l’improvvisa
voglia di violenza che lo aveva pervaso al pensiero di poter usare la
lingua del suo “investitore” per pulirsi le sue adorate scarpe,
era difficile da trattenere.
«Anche tu al
Babylon? Sei insieme a Justin? Dov’è?
Non lo vedo!» lo tempestò di domande, continuando a non sospettare
minimamente del pericolo che incombeva su di lui.
«‘Sì,
anch’io al Babylon’
e ‘No, non puoi vedere
Justin perché non siamo insieme’.
Ergo, ‘non c’è’.»
replicò, sempre più stizzito. Neanche cinque minuti da solo con
quel tipo e già gli era venuto un gran mal di testa
«Oh, che
peccato!» continuò Emmett imperterrito. «Si sente male?»
«Mi auguro di no
per lui! O se proprio deve sentire male, almeno che sia per qualcosa
di eccitante.»
Emmett rimase per
qualche secondo in silenzio a fissarlo con i suoi occhioni azzurri,
accentuati dal mascara. «Sta scopando con Brian?» chiese poi, quasi
incerto.
«Come vedi sono
qui, perciò non posso saperlo. Per mia sfortuna non ho ancora il
dono dell’ubiquità.»
ribatté l’altro con
un sopracciglio innalzato. «In compenso, spero di sì. Avrà le
ragnatele in mezzo a quelle chiappe sode.» tirò fuori un fazzoletto
dalla tasca del cappotto e si pulì accuratamente le scarpe. «Non
capisco proprio come abbia resistito per un anno e mezzo.»
«Un anno e mezzo
d’astinenza?» gridò
scandalizzato Emmett, portandosi una mano davanti alla bocca.
Conoscendo i ritmi che il biondino era abituato a tenere con “Mister
Meraviglia”, gli sembrava anche più straordinario di tutti e tre i
miracoli di Fatima messi assieme. «Ma sei sicuro?»
«A meno che non
si sia dilettato con i pennelli, sì.»
«Cristo
Santo...il mondo sta davvero andando a rotoli.»
Jace sospirò e
gettò il fazzoletto nel cestino. «Eh già. Non ci sono più i froci
di una volta...» mugugnò quasi sconsolato. «...adesso fanno a gara
a chi inventa più stronzate tipo matrimoni, monogamia o famiglia.»
fece una smorfia disgustata e finse di rabbrividire. «Mi chiedo come
i loro ormoni non abbiano ancora indetto rivolte degne di quelle
parigine!»
«Di un po’...»
iniziò Emmett fissandolo storto. «...fai per caso di cognome
‘Kinney’?»
«Eh?»
L’altro
sbatté più volte le palpebre e continuò a scrutarlo come se avesse
tre occhi. «Adesso capisco perché Justin ti adora così tanto.»
«Credo di essermi
perso qualcosa...» mormorò Jace sempre più confuso.
«Niente, niente.»
replicò sventolando la sua mano, facendo tintinnare i due
braccialetti tondi e colorati. «Allora, vogliamo entrare? Passi con
me? Conosco i buttafuori.»
Jace gli sorrise
per la prima volta. In fondo, quell'Emmett, non era poi tanto male una volta
abituati alla sua persona un tantino ingombrante. «La fortuna di
essere amici del capo, eh?»
«No, tesoro.»
puntualizzò fingendosi altezzoso e sfoderando un sorrisetto furbo,
affiancandolo mentre attraversavano la strada. «La fortuna
dell’essersi scopati
la maggior parte dei buttafuori.»
Un
guizzò divertito illuminò gli occhi del designer newyorkese, che
sorrise più apertamente e scoccò un’occhiata
d’intesa
e di piena approvazione all’altro,
quando entrarono nel locale saltando la chilometrica fila con un solo
cenno di saluto ad uno degli energumeni accostati all’ingresso.
«D’accordo.»
esordì più amichevole. «Visto che mi hai fatto entrare, ti offro
da bere. Non mi piace avere debiti.»
«Non
è necessario. Non abbiamo bisogno di pagare per bere.» rispose
Emmett, togliendosi l’ingombrante
e vistosa pelliccia blu e mostrando un
altrettanto
particolare maglia a rete.
«La
fortuna dell’essersi
scopati anche tutti i barman?» chiese Jace sorpreso e
divertito, sfoggiando una decisamente molto più elegante camicia di
seta bianca, ornata da fini girigogoli dorati.
«No.» borbottò
l’altro, arricciando
le labbra quasi dispiaciuto, per poi tirar fuori dalla tasca dei
pantaloni elasticizzati una carta oro con sovra impressa la dicitura
“VIP CARD”. «La fortuna di essere amici del capo.» gli strizzò
l’occhio citando a sua
volta le sue parole e si avviò sculettando verso il bancone.
*'*'*
“Pocketful
of Sunshine” – Natasha Bedingfield
Era certamente già
mattino inoltrato quando riuscì ad aprire le palpebre e mostrare al
mondo il verde scuro dei suoi occhi che s’illuminavano
di pagliuzze più chiare se colpiti, come in quel momento, da un
fascio di luce proveniente dalla finestra.
Ma ciò che in
realtà brillava nel loft, rischiarando ogni cosa attorno, era
l’inconsapevole
sorriso appena accennato che increspava le labbra del ragazzo ancora
assopito sul divano, in uno strano groviglio di gambe, braccia e
delle lenzuola che si era trascinato dietro quando dal letto si erano
svegliati e trasferiti per fare l’amore,
prima sul tappeto morbido e bianco, e infine sul divano.
Durante la notte,
Brian si era svegliato di soprassalto, temendo che quello che era
successo tra lui e Justin fosse stato solo un altro dei suoi sogni;
una stupida illusione. Quando però, facendo correre lo sguardo al
calore al suo fianco, aveva visto la chioma scompigliata di Justin e
la sua espressione rilassata, si era tranquillizzato, tirando un
sospiro di sollievo.
Facendo attenzione
a non svegliare il suo amante, si era infilato i boxer ed era sceso
dalla zona notte per raggiungere il pacchetto di sigarette ancora
abbandonato sul mobile della cucina, e ne aveva accesa una per
placare i battiti del suo cuore ancora ferito, mentre ammirava senza
la solita malinconia lo spettacolo della sua città illuminata.
Non c’era
voluto molto comunque, prima che Justin si accorgesse della mancanza
del suo corpo nel letto e si svegliasse, stropicciandosi gli occhi
per il sonno. Si era sollevato e aveva vagato con lo sguardo per il
loft, fino a che non aveva scorto la familiare figura che si
stagliava come un’ombra
dai contorni perfetti, davanti all’enorme
vetrata; resa quasi eterea dalla lieve nuvola di fumo che lentamente
si disperdeva a circondarla.
Con passi incerti
e dondolanti, l’aveva
raggiunto, coprendosi con il lenzuolo blu notte sistemato a mo’
di toga, e gli aveva cinto la vita in un abbraccio, prima di posare
più di un bacio lungo la linea delle spalle.
Brian
non era riuscito a trattenere un sorriso compiaciuto e a stento aveva
chiuso nella gola i gemiti di piacere nel sentire ancora quelle mani
che si muovevano sulla sua schiena e sul suo petto; finché astenersi
dal gustare ancora quelle labbra e sentire ancora l’odore
ammaliante del sesso era stato impossibile.
Avevano fatto
ancora l’amore; lì, distesi sul tappeto, fino a riassopirsi con i
loro corpi ancora uniti e risvegliarsi insieme per riaffondare ancora
nel limbo del piacere.
Era l’alba
quando si erano definitivamente addormentati, abbracciati sul divano;
e in quella stessa posizione Brian si era risvegliato, pronto ad
ammirare la bellezza marmorea del corpo che giaceva tra le sue
braccia.
Si
sentiva un po’ patetico, ma era un prezzo che era disposto a pagare
anche con gli interessi che ne sarebbero derivati, se significava
poter godere di quella sensazione di magnifica leggerezza che era
divampata dentro di lui da quando quel raggio
di sole aveva
rimesso piede nel suo loft.
«Buongiorno,
splendore.»
lo prese in giro, imitando Deb, quando lo sentì mugugnare come ogni
volta che si svegliava. Justin aprì prima un occhio, poi l’altro e
sorrise apertamente. Se c’era una cosa che Brian aveva imparato in
quegli anni era che, quando quel ragazzino sorrideva, era anche più
accecante del sole. Justin era il suo
sole.
«Che ore sono?»
biascicò, strusciandosi contro la sua spalla come un gatto.
«Venticinque
centimetri virgola cinque a mezzogiorno.»
«È
un’allusione poco
velata alle dimensioni del tuo cazzo e al fatto che sia sull’attenti
per l’erezione
mattutina, o vuoi dirmi che mancano venticinque minuti a
mezzogiorno?» ridacchiò in risposta.
Brian ammiccò.
«Entrambe le cose, ma mi è parso di sentir squillare il tuo
cellulare prima. Il che significa che ti stanno dando per disperso.»
«Dici che
dovremmo proprio andare al Diner?»
«Se non vuoi che
Deb chiami l’FBI,
indica una squadra di ricerca e si rivolga a qualche trasmissione
televisiva per lanciare un annuncio disperato...direi proprio di sì.»
Justin borbottò
qualcosa d’incomprensibile
e lamentoso con le labbra premute sul petto dell’uomo.
«Che palle.» soffiò poi e lentamente si tirò su. Cercò di domare
i capelli ribelli e si liberò dal groviglio in cui era incastrato.
Si allungò nuovamente verso
Brian e iniziò a sfiorare la pelle del collo dietro l’orecchio con
la punta del naso e un sorrisetto impertinente.
Era più che ovvio
che i suoi programmi non comprendevano affatto il Diner...non il quel
momento almeno.
Brian sorrise e
gli afferrò la faccia con una mano sola, stringendogli le guance con
le sue dita lunghe ed eleganti, prima di farlo avvicinare alle sue
labbra e prendere a mordicchiarlo.
Risero e si
sorrisero, tra un bacio e l’altro, prima di intraprendere una
sciocca lotta fatta di morsi dispettosi, alternati a carezze audaci,
col risultato di rovinare l’uno addosso all’altro sul pavimento,
tirandosi dietro perfino i cuscini.
Fu Brian ad averla
vinta in un primo momento, riuscendo a sovrastare l’altro con il
suo peso e bloccandogli entrambi i polsi sopra la testa, prima di
iniziare una dolce tortura, fatta di scie umide e lucide con la punta
della lingua, a seguire le linee del collo e del petto; ma non riuscì
a tenerlo imprigionato per molto, conscio del bisogno che aveva di
sentire quelle dita abili vagare in ogni parte del suo corpo.
Si ritrovarono
quindi a ruoli invertiti; con Justin che si premurava di far dilagare
scariche elettriche e brividi sulla pelle del suo amante, giocando
semplicemente con i denti sul suo lobo.
Lo sentì ridere
appena e sospirare di piacere, rendendosi nuovamente conto che
avrebbe passato la sua intera vita a sentire solo quei semplici
suoni, insieme a quello della voce dell’uomo che amava.
Avrebbe passato
ogni suo giorno a respirare solo quel profumo; ad ammirare ogni suo
movimento, ogni suo vizio. Avrebbe passato ogni istante che ancora
gli restava in compagnia di Brian, riempiendosi l’anima di tutto
quello che andava a comporre la sua essenza.
Fece scendere una
mano ad accarezzargli il petto, superando lo stomaco fino al limite
del ventre, sorridendo compiaciuto quando sentì l’altro deglutire,
per poi emettere un piccolissimo gemito; ed era pronto a ottenerne
altri ben più sonori, se solo il telefono non avesse iniziato a
squillare.
Lasciò cadere la
testa sconsolato addosso a Brian - che nel frattempo aveva sollevato
gli occhi e si era lasciato ricadere a terra con esasperazione - e
sbuffò rumorosamente, unendosi alle colorite imprecazioni dell’uomo,
sibilate tra i denti.
Justin si scostò
da un lato per permettere all’altro di alzarsi e raggiungere il
telefono. L’osservò in tutta la sua nuda bellezza e lasciò che le
sue labbra piene s’increspassero in un sorriso.
Brian
se ne accorse e, solo per un attimo, abbandonò il suo cipiglio
contrariato per ricambiare quel sorriso, prima di rispondere:
«Pronto?» soffiò scocciato e portò una mano a massaggiarsi
la faccia per calmarsi, quando riconobbe la voce del suo migliore
amico.
«È
da te?» gli chiese semplicemente Michael, senza aggiungere
spiegazioni, mentre sua madre borbottava alle sue spalle.
«Arriviamo.»
ringhiò e sbatté malamente il ricevitore al suo posto. «La libertà
condizionata è finita, raggio di sole.» comunicò poi a un
Justin visibilmente divertito. «I malefici carcerieri ti rivogliono
nel loro covo.»
«Non potresti
chiedere a Furore se può salvarmi?»
«Mi dispiace, ma
contro Debbie non basterebbe una bomba nucleare.» fece una smorfia
e, dopo essersi infilato i pantaloni della tuta, iniziò a preparare
il caffè. «Altro che HIV...è lei il nemico giurato di ogni frocio.
Ti si aggrappa alla giugulare e ti succhia la vita. Peggio di un
vampiro.»
«Non sapevo che
ti dispiacesse farti succhiare...»
«Il cazzo.» lo
interruppe, versando una quantità esagerata di granellini bianchi
nella caraffa, nell’intento
di zuccherare. «Non il sangue, e soprattutto non da Deb.»
«Sei crudele.»
rise Justin, avvicinandosi a lui, nuovamente avvolto nel lenzuolo.
«Non sono
crudele.» mormorò porgendogli una tazza fumante. «Voglio solo
farmi la mia sacrosanta scopata mattutina in pace, senza che quel
cazzo di telefono cominci a squillare. È
un reato forse?» inarcò le sopracciglia e bevve direttamente dalla
caraffa, prima di risputare tutto il liquido scuro nel lavabo.
«Era sale, vero?»
gli chiese Justin con la faccia schifata, tenendo ancora tra le dita
la tazza.
Brian rovesciò il
resto nelle condutture, con un’espressione
disgustata. «Vedi? È
colpa di quella strega!» abbandonò la caraffa e afferrò il
cartoccio del succo dal frigo. «Mi avrà lanciato qualche
maledizione contro, dal momento che si è accorta che ti ho
monopolizzato.»
«Va be’...in
fondo, dovremmo pur farci una doccia prima di uscire, no?» sorrise
sornione, prima di abbandonare la tazza, afferrare Brian per
l’elastico dei
pantaloni e trascinarlo fino al bagno, lasciando che il lenzuolo blu
scivolasse a terra, scoprendo il suo corpo niveo.
*'*'*
«Secondo me è
inutile che te la prendi così.» mormorò Ted, addentando il suo
panino col tonno. «Stiamo parlando di Brian e Justin! Che ti
aspettavi che facessero, a parte chiudersi in qualche posto a scopare
come ricci?»
«Non si parla con
la bocca piena.» lo rimproverò Debbie, dopo avergli rifilato uno
scappellotto. «E comunque pensavo fossero cresciuti abbastanza da
riuscire a tenerselo buono nei pantaloni, almeno per qualche ora!»
Ted, Emmett e
Michael, seduti sugli sgabelli dall’altra
parte del bancone, si scambiarono occhiate eloquenti, prima che il
figlio della donna provasse ancora a rabbonirla. Proprio non l’aveva
buttato giù il fatto che Brian avesse letteralmente rapito il suo
“topino”. «Mamma, andiamo! Non si vedono da più di un anno!»
«E che vuol
dire?» borbottò, puntando entrambi i pugni sui fianchi. «Che
devono recuperare tutto insieme?»
Emmett sollevò le
sopracciglia. «Se pensi che erano abituati ad almeno quattro
volte al giorno, e che sono stati lontani tutto quel tempo...»
«Fa una media di
circa...» Ted ci pensò su un attimo, continuando a masticare e
affermò soddisfatto: «Duemilacentonovanta scopate da
recuperare, come minimo.»
«Esistono anche
altre cose oltre al sesso, lo sapete?» continuò la donna con la sua
filippica.
«Vallo a spiegare
a Brian!» commentò Emmett, tagliando la sua ciambella e portando il
boccone alle labbra. «Comunque ha detto che sarebbero arrivati, no?
Abbi fede!»
«Eccoli infatti!»
esclamò Michael, indicando con un cenno della testa la vetrina del
Diner, davanti a cui i due stavano sfilando. Aspettò che fossero
entrati e sorrise raggiante, prima di rendersi conto delle condizioni
disastrate in cui vertevano le facce di entrambi. Nonostante la loro
proverbiale bellezza, le borse sotto gli occhi non perdonavano
nessuno. «Ma che cazz...»
«Avete già
recuperato tutte le duemilacentonovanta scopate?» chiese Ted,
dando voce ai pensieri di tutti, mentre i due si lanciavano occhiate
confuse.
«Cristo. Avevo
sentito parlare di mitologiche maratone di sesso!» esclamò Emmett,
con la forchetta a mezz’aria,
per poi ammiccare e tornare a mangiare. «Adesso so da chi derivano
certe leggende.»
«Topino!»
esclamò Debbie infine, riscuotendo gli ultimi arrivati con il volume
decisamente alto della sua voce. «Ma cosa ti ha fatto?!»
«Sicura di
volerlo sapere, mamma?»
«Deb, quando hai
finito di trattarmi come il mostro cattivo della laguna, mi
verseresti una tazza di caffè?» Brian si tolse gli occhiali da sole
e i guanti, e si appoggiò al bancone con un sorriso tirato.
Ignorando le occhiatacce della donna. «Grazie.»
«Una anche per
me, Deb!» intervenne Justin con uno sbadiglio.
«Certo, tesoro.»
rispose e con un sorriso posò uno dei suoi rossi baci sulla fronte
del ragazzo.
«Tutte tue le
attenzioni, raggio di sole.» commentò il bel pubblicitario,
ridendo del segno lasciato dal rossetto. «Non t’invidio
affatto.»
«Perché a
differenza sua, sei un frocio acido e scorbutico, come se ti avessero
piantato qualcosa su per il culo!» borbottò lei. «Senza
lubrificante!»
«Mi spiace
deluderti, ma nel mio culo non c’è
proprio niente.»
«Accidenti.»
replicò Ted. «Questa sì che è una novità! E poi dicono che a
Pittsburgh non succede mai niente di nuovo!»
«Theodore...» lo
chiamò Brian, continuando a sorridere. «...vuoi usare il giorno del
Ringraziamento per essermi grato di averti licenziato?»
«No!»
«E allora chiudi
quella cazzo di bocca.» sibilò con le sopracciglia inarcate, e
allargò il suo sorriso sfrontato.
«Maledetto
schiavista.»
«Come scusa?»
«Parlavo...dell’‘insalata
mista’.» sorrise
indicando il panino. «Sai, non la digerisco bene! Eppure non riesco
a farne a meno. Non ha lo stesso gusto, né il colore senza!»
«Certo, certo.»
annuì Brian e portò il pollice a sfiorare la propria fronte. «Be’,
cerca di abituarti, perché sarà l’unica
cosa che potrai permetterti di mangiare quando ti avrò ridotto a
vivere sotto un ponte.» sorrise ancora e sbatté le ciglia più
volte, prima di rivolgersi a Justin, che nel frattempo aveva
assistito alla scena ridacchiando. «Direi
di andare.» il ragazzo annuì e posò la tazza sul bancone. Brian
inforcò gli occhiali da sole e rinfilò i guanti di pelle nera.
«L’avete
visto anche per troppo oggi.» disse rivolto agli altri e, dopo aver
passato un braccio intorno alle spalle di Justin, lo scortò fino
alla Corvette verde e lucente.
«Secondo voi
tornano a scopare?» domandò Emmett, quasi sconvolto.
«Be’
duemilacentonovanta scopate non sono poche da recuperare.»
replicò Michael. «Un minimo di duemilacentonovanta.»
«Non credo di
averne mai fatte così tante, neanche in due o tre anni.» concluse
Ted.
Debbie prese le
due tazzine sporche e passò uno straccio sul bancone. «Una cosa è
certa. Da quanto il topino è tornato, Brian Kinney è risorto
e risplende di luce nuova.»
«Amen.»
commentò in risposta il figlio, con uno sbuffo sarcastico. «Sembra
che tu stia parlando di Gesù Cristo.»
«Perché...c’è
qualche sostanziale differenza?»
«Effettivamente...»
iniziò Emmett. «A parte il look e il fatto che, purtroppo per lui,
non sa ancora trasformare l’acqua
in Jim Beam, più o meno ci siamo.»
«Nel suo letto
avviene la moltiplicazione degli uomini.» continuò Ted, sollevando
uno degli angoli della bocca in un lieve sorriso.
«Per non parlare
dei preservativi!» esclamò l’altro
in risposta. «Mi sono sempre chiesto dove diavolo li tenesse
nascosti!»
«E dei soldi.»
aggiunse infine il contabile, terminando il suo panino e pulendosi
accuratamente le mani. «Pensate alla Kinnetik.»
Michael sorrise,
tra gli sguardi sconvolti che sua madre stava lanciando ai tre amici.
«Se non sono miracoli questi! Certo le sue parabole non sono
propriamente etiche, però...»
«E voi chi cazzo
siete? I Re Magi?» replicò sarcastica la donna.
«Soldi...»
pronunciò Ted indicando se stesso, per poi passare a Emmett dopo
averci pensato su un attimo. «...droga...» e per finire fece un
cenno verso Michael. «...e birra.»
«Facciamo
‘alcool’.
È più generico!»
rispose l’ultimo
tirato in causa.
«Ma che cazzo di
problemi avete?» chiese lei al limite dello sconvolto, prima di dare
un’energica pulita al
bancone con lo straccio, masticando decisa il chewin-gum. «Piuttosto,
che avete combinato ieri sera?»
«Cena e film con
Ben e Hunter.» replicò immediatamente Michael con una scrollata di
spalle.
«Cena e film con
Blake.» lo seguì imitandolo Ted.
«Non avevo
dubbi.» commentò con ironia, per poi rivolgersi a Emmett. «E tu,
tesoro? Quanti bei maschioni hai conquistato ieri sera? Ti ho sentito
rientrare tardi a casa.» rise compiaciuta e aggiunse: «Scommetto
che qualcuno si è divertito parecchio!»
«Effettivamente...»
mormorò con tono vago, giocherellando con uno degli stecchini. «È
stata una bella serata.»
Debbie si protese
sul bancone, appoggiandosi sui gomiti. «Allora, racconta! Com’era
il ragazzone?»
«No, no.» rise
Emmett, sventolando una delle mani in segno di negazione. «Non è
come pensi. Ho passato una bella serata intavolando
un’interessantissima
chiacchierata.»
«‘Chiacchierata’?!»
chiesero sorpresi Ted e Michael, all’unisono.
«Tu?!»
«Esattamente.»
confermò deciso, con un pizzico di vanità.
Gli altri due si
scambiarono un’occhiata
confusa e ripresero a fissarlo come se fosse stato un alieno. «Em,
sicuro di sentirti bene?»
«Ehi, voi due.»
intervenne Debbie. «Piantatela. Non tutti pensano solo e soltanto a
scopare! Può essere piacevole anche una chiacchierata, sapete?»
Il figlio le
rivolse un’occhiata
scettica. «Mamma. Stiamo parlando comunque di Emmett.»
«E con questo?
Non fa mica ‘Kinney’
di cognome.» ribatté contrariata, prima di riportare la sua
attenzione sul colorato single della combriccola. «Allora
tesoro, dicci chi è?»
Emmett osservò
con attenzione il rosso sorriso di Debbie, prima di passare lo
sguardo sui propri amici.
Una parte di sé
avrebbe voluto confessare candidamente di aver trascorso l’intera
serata con Jace. Non c’era
niente di male in fondo, visto e considerato che avevano davvero solo
parlato per tutta la sera, eppure qualcosa bloccava la sua
proverbiale lingua sempre in movimento e spesso inopportuna.
Pochissime volte
nella sua vita qualcuno lo aveva coinvolto tanto usando solo le
parole; soprattutto nell’ultimo
periodo, in cui trascorreva le sue notti al Babylon trovando quasi
ogni sera un uomo diverso con cui passare qualche ora facendo
esclusivamente buon sesso, anche se decisamente vuoto.
Stavolta invece
era stato diverso.
Jace aveva riso e
scherzato con lui. Avevano bevuto insieme e parlato del più e del
meno, osservando la pista e commentando i presenti, prima di
lanciarsi in qualche ballo, al centro di quel vortice di luci
colorate.
Si era sentito
davvero libero e spensierato. Quel ragazzo sembrava in grado di
alleggerirlo da ogni pensiero ed ogni peso. Poteva apparire
superficiale, ma per certi versi gli ricordava tanto lo sprizzante e
un po’ frivolo Emmett -
senza alcun problema o fantasma con cui combattere, che era stato
anni addietro - condito da quella speziata malizia e da quel tocco di
charme, tipici di uno come Brian.
Jace era un tipo
estremamente sicuro di sé.
Sapeva di essere
un bel ragazzo con una classe indiscutibile, e dal suo sguardo deciso
sembrava che niente potesse turbarlo o intimorirlo; e se mai qualcosa
ci fosse stato, certamente lo nascondeva più che bene.
La vicinanza di
quel ragazzo era stata una vera e propria boccata d’aria
fresca, e proprio perché sentiva quella sensazione nuova così
personale, ne era “geloso” e non sapeva se condividerla, né come
poterla spiegare. «È
un segreto!» rispose allora, con un largo sorriso a nascondere il
suo turbamento, prima di alzarsi dallo sgabello e controllare il
proprio palmare. «Scusate, ma devo proprio andare!» concluse poi,
inviando loro un bacio nell’aria,
per poi sculettare come sempre verso l’uscita,
infilandosi il cappotto.
Debbie, Michael e
Ted seguirono la psichedelica figura per tutto il suo tragitto, con
uno sguardo attento. Restarono in silenzio per qualche secondo e si
scambiarono un’occhiata
eloquente.
Non c’era
bisogno di parole.
Emmett aveva
qualcosa di strano, e come ogni famiglia che si rispetti, era loro
preciso compito ficcanasare a dovere per scoprire cosa stesse
nascondendo.
*'*'*
«Quindi...che si
fa?» chiese Justin, passeggiando tranquillamente al fianco di Brian
per Liberty Avenue, e passando gli occhi intorno a sé, in ogni
angolo di quella strada così familiare, per assaporarne ogni
particolare.
Aveva agognato per
così tanto tempo la possibilità di rivivere quei momenti, fatti
delle loro abitudinarie passeggiate, che ancora non riusciva a
crederci davvero. Continuava ad essere terrorizzato dall’orrendo
presentimento che tutto quello fosse solo un sogno e che presto
avrebbe finito per svegliarsi nel suo letto a New York.
Spostò lo sguardo
su Brian, bellissimo e reale accanto a lui, e gli si fece più
vicino, cingendogli la vita con un braccio e lasciando che l’uomo
passasse il proprio sulle sue spalle.
«Lo domandi?»
replicò in risposta il bel pubblicitario, con il suo solito
sorrisetto spavaldo. «Scopiamo.»
Justin sorrise e
scosse la testa. «Non mi riferivo solo a oggi. Come sempre non ci
siamo dati neanche il tempo per parlare un po’...»
«C’è
sempre da preoccuparsi, quando hai ‘voglia
di parlare’.» mormorò
Brian arricciando le labbra poco convinto dalle parole dell’altro,
ed inarcò le sopracciglia. «Il tuo pensare non ha mai portato a
niente di buono.»
«Brian, sto
parlando sul serio.»
«Anch’io.»
ribatté prontamente, ma quando incrociò l’espressione
seria di Justin, sospirò e comprese che non era davvero il momento
di scherzare. «E va bene...hai detto che potrai restare circa un
mese se tutto procede secondo i piani, no?» sollevò le spalle e
prese le chiavi della Corvette dalla tasca del cappotto. «Ok, allora
quando arriverà quel giorno vedremo.»
«Vedremo?»
«Esatto. Quando
sarà il momento in cui dovrai ritornare a New York, perché tu
ritornerai a New York...» scandì bene le parole, per accertarsi
che il suo biondo interlocutore avesse afferrato l’indiscutibile
concetto, e con un’altra
distratta scrollata di spalle, aggiunse: «Allora ne parleremo. Non ha
molto senso farlo ora.»
Stizzito e
spaventato dalle parole dell’uomo,
Justin sentì montare rabbia ed esasperazione dentro. Non poteva
permettere che Brian l’allontanasse
di nuovo. Non era a New York che voleva stare, ma a Pittsburgh
insieme a lui. «E se io non volessi tornare là? Hai sentito quello
che ti ho detto ieri?»
«E tu hai sentito
quello che ti ho detto più di un anno fa?» replicò asciutto,
togliendosi gli occhiali da sole. Brian aveva già preventivato una
reazione del genere e, per quanto in cuor suo avrebbe voluto
accontentarlo e lasciarlo restare, non poteva assolutamente
permettere uno sbaglio simile. Justin aveva una carriera da portare
avanti, ed era quello che avrebbe fatto, anche a costo di
costringerlo e rispedirlo nella Grande Mela legato al sedile
dell’aereo. «Tornerai
a New York e non si discute. Non puoi mandare tutto a puttane.»
«Ho già avuto
tutto da quella città.»
«Puoi sempre
avere di più.»
«Ma non
m’interessa e...»
«Justin. Non
voglio ripeterlo.» lo interruppe, stavolta con un tono molto più
duro. «Non butterai nel cesso tutta la tua carriera. Fine della
storia.»
«È
la mia vita, cazzo!» sbottò inevitabilmente, stringendo i pugni
così forte da far sbiancare le nocche. «Posso decidere di farne
quello che voglio!»
«Non erano questi
i patti.» replicò irremovibile Brian, aggrottando la fronte.
«‘Fanculo
i patti!» esclamò Justin. «Non voglio tornare in quel posto.»
«Ok, resta alla
vecchia e gloriosa Pittsburgh, ma non aspettarti di trovarci anche
me.»
«Perché devi
essere sempre così stronzo?» chiese con rabbia, passandosi una mano
tra i capelli biondi e lucenti per scostare i ciuffi che gli
coprivano gli occhi.
«E tu perché
devi essere sempre così sordo e cieco?!» ribatté Brian, alzando la
voce e inchiodando l’altro
con il suo penetrante sguardo verde scuro. Serrò le labbra e aspettò
che Justin recepisse il messaggio celato nella sua frase; e come da
programma, dopo qualche secondo di gelido silenzio, le spalle
dell’artista si
rilassarono e gli occhi blu si addolcirono nuovamente, facendogli
riassumere quella sua tipica
aria da ragazzino.
Come in ogni loro
litigio, Justin aveva avuto il bisogno di fare la sua solita sparata,
prima di calmarsi e comprendere cosa in realtà l’altro
volesse comunicargli. Aveva avuto bisogno di sfogare la sua
frustrazione, prima di ascoltare con più attenzione quelle parole e
capire che tutto quello che Brian diceva o faceva era, come sempre,
solo e soltanto per il suo bene.
Non era per
scacciarlo o perché non lo voleva tra i piedi. Perché per quante
volte gli avesse detto di andarsene in passato, ormai la fase “sono
single, voglio restarlo e scoparmi qualsiasi cosa si muove” era
stata superata ed accantonata da un bel pezzo, e Brian aveva già
imparato ad ammettere, accettare e convivere con l’amore
che provava per Justin. Aveva compreso il suo bisogno di quel
ragazzino biondo nella sua vita e non avrebbe mai fatto niente per
allontanarlo, se non fosse stato esclusivamente per il suo bene.
Nuovamente
consapevole di quella verità, con un sospiro sommesso, Justin finì
per placare anche la poca rabbia rimasta e mormorò, pur mantenendo
uno sguardo triste: «La smetterai mai di sacrificarti per gli
altri?»
«Non è un
sacrificio.»
«Per me lo è!»
esclamò ancora. Non riusciva a sopportare il fatto che ogni dannata
volta, Brian dovesse sempre anteporre la sua stramaledetta carriera
d’artista alla propria
felicità; e non abbandonava mai la speranza che prima o poi la
piantasse con quella sua stupida crociata e gli dicesse un sincero
“resta”.
«Tornerai quando
sarà il momento e non è certo adesso.» gli rispose invece, con un
tono che non ammetteva repliche, e fu impossibile per Justin
desistere dall’alzare
gli occhi al cielo e sospirare ancora.
«Verrai a
trovarmi almeno?»
Le labbra di Brian
si schiusero con fare incerto, per rispondere, quando il suo
cellulare prese ad agitarsi e suonare nella tasca interna del
cappotto. «Pronto...» disse, dopo aver letto un “Linz”
lampeggiare sullo schermo. «Ciao figliolo!» esclamò poi; e quegli
occhi verdi parvero accendersi e brillare di una luce accecante,
mentre un sorriso sincero andava ad increspargli le labbra piene.
«Sì...di pure alla mamma che passo a prenderti tra...» guardò il
suo costoso Rolex e comunicò: «...dieci minuti.» sorrise più
apertamente e lanciò un’occhiata
a Justin. «Sì, è qui con me. Verrà anche lui. A tra poco.»
riagganciò e, dopo aver riposto il cellulare nel taschino, fece
scattare la serratura della Corvette. «Andiamo raggio di sole,
devo andare a dar sfoggio delle mie qualità di padre perfetto.»
«Brian...» lo
chiamò con uno sbuffo scocciato. «Smetti di sviare il discorso. Hai
sentito quello che ti ho detto?»
Lui sollevò gli
occhi al cielo e si passò la punta della lingua sulla bocca. «Sì,
ho sentito...e la mia risposta è sempre la stessa...‘non
voglio interferire o crearti distrazioni’,
e...»
«Ma perché non
la pianti una buona volta con...»
«Non ho finito.»
intervenne per bloccare le proteste dell’altro.
«Stavo dicendo che non voglio crearti distrazioni mentre lavori, ma
se avrai il tempo di prenderti una pausa...» alzò le spalle
e piegò per un attimo le labbra all’interno,
prima di accennare ad un sorriso. «...Pittsburgh dista un’ora
d’aereo e nessuno ti
vieta di trascorrere qua le tue vacanze. In fondo è anche casa tua.
Chi può impedirti di tornare?»
Justin lo scrutò
attentamente, nel silenzio più assoluto, come se si aspettasse
un’altra clausola in
quell’ennesimo loro
patto, che non gli sarebbe piaciuta affatto. Aggrottò la fronte e
pronunciò fievolmente: «Vuol dire che posso...»
«‘Tornare
durante le pause’...è
questo che ho detto.» si affrettò a puntualizzare, per smorzare sul
nascere qualsiasi strana idea potesse aggirarsi in quella folle e
spettinata testolina bionda. «Non ‘abbandonare
tutto e ritrasferirti in pianta stabile’.
Chiaro?» aspettò che l’altro
annuisse, seppur con titubanza, ed aprì la portiera della Corvette.
«Andiamo, sali. Gus s’innervosisce
se arrivo tardi.» sorrise e si mise al volante, rendendosi
conto di come la frase appena pronunciata gli riportasse alla mente
un Justin appena maggiorenne che, dopo l’aggressione,
mostrava quella stessa identica reazione se non lo aveva vicino. Per
qualche strana ragione, Gus somigliava un po’
anche a lui. «Sai, ha un po’
i tuoi modi di fare.» gli confessò quindi, ridacchiando.
«E questo ti
preoccupa?» domandò il ragazzo, regalandogli uno dei suoi sorrisi luminosi e
compiaciuti. Gli piaceva davvero tanto l’idea
che Gus ricordasse lui al padre.
Brian gli scoccò
una strana occhiata e inforcò nuovamente gli occhiali scuri, prima
di mettere in moto e partire. «Non immagini quanto.»
Con un minuto
esatto di anticipo, dopo una
sua classica performance di guida perfettamente
spericolata, Brian
parcheggiò la Corvette nel vialetto, assistendo compiaciuto alla
corsa felice di suo figlio che lo raggiungeva con le braccia aperte -
pronto a farsi stringere in un abbraccio - ed un sorriso splendido ad
illuminargli il visino dolce e paffuto.
Scese
velocemente dall’auto e si preparò ad accoglierlo compiaciuto,
quando il bambino si gettò al collo di Justin. «Justin,
Justin.» lo chiamò entusiasta, lasciando il padre decisamente
confuso e interdetto. «Ho fatto un disegno! Vuoi vederlo?!» gli
chiese speranzoso, dopo aver afferrato la mano del giovane artista
con la sua minuscola e morbida, per tirarlo verso casa.
«Certo, certo.»
rise il ragazzo, per poi farsi trascinare, senza neanche avere il
tempo di salutare Linz a dovere.
Brian scosse la
testa, con uno strano sorriso e inserì l’allarme,
prima di avviarsi lentamente verso la porta d’ingresso,
dove la sua bionda migliore amica lo stava aspettando con
un’espressione
evidentemente divertita. «Evita i commenti.» l’avvertì
immediatamente ma, come aveva già preventivato, fu tutto
perfettamente inutile.
«Sembra che i
geni dei Kinney, abbiano un particolare debole per quello dei
Taylor.» sorrise compiaciuta, dandogli un buffetto sulla spalla.
«Non mi pare che
l’amore divampasse tra
me e papà Taylor.» rispose lui, riferendosi ai brutti
trascorsi con Craig, per confutare in qualche modo la sua teoria.
Linz sollevò le
sopracciglia ed arricciò le labbra, come se stesse varando varie
ipotesi. «Effettivamente...» mormorò, per poi aggiungere:
«...probabilmente è un debole solo per quel Taylor in
particolare.»
«Come no.»
borbottò Brian, entrando in casa, sperando nuovamente – e invano –
che il discorso si esaurisse con quella battuta.
«Sono davvero
contenta che sia tornato.»
«Non l’ha
fatto infatti.» rispose con una scrollata di spalle, e quando vide
lo sguardo confuso della donna, si decise a spiegare: «Starà
qui solo per un mese, al massimo. Poi dovrà tornare alla sua base
operativa nella
Grande Mela.»
«Un mese non è
poco, e magari potresti anche deciderti per farti qualche viaggetto a
New York.» lo rimproverò con un’occhiataccia.
«O magari a Toronto in sua compagnia. Faresti felice anche
Gus.»
«Vedremo.»
tagliò corto con un sospiro, facendo il suo ingresso nel salotto di
casa Bruckner-Novotny, dove il tavolino ed il pavimento erano
completamente imbanditi di pastelli, matite e fogli.
Le labbra di Brian
s’incresparono in un
sorriso dolce e sentì il cuore battergli con forza dirompente nel
petto, quando tra quel tripudio di pittoresca confusione, i suoi
occhi s’imbatterono
nell’entusiasmo del
piccolo Gus che mostrava i suoi buffi disegni a Justin, spiegandoli
accuratamente: «Questa è la nostra casa a Toronto.» disse deciso,
indicando quella strampalata riproduzione dal tetto rosso e
triangolare e il comignolo storto. «E questo sono io, con le mie
mamme, Jenny e il mio papà.» indicò tutti, uno per uno, finché
non arrivò ad un’altra
figura bionda nel disegno, con due grandi cerchi blu ad interpretarne
gli occhi. «E ho disegnato anche te, vicino al mio papà! Vedi?»
«Sì.» sorrise
Justin. «È bellissimo
sai?» gli disse poi, accarezzandogli la testa. «Che dici...posso
tenerlo io questo?»
A quelle parole
Gus si gonfiò d’orgoglio.
«Certo!» esclamò, prima di voltarsi verso i propri genitori e
correre da loro. Si allungò verso Brian e si fece prendere in
braccio. «Hai sentito papà? A Justin è piaciuto il mio disegno!»
gli rivolse un gigantesco sorriso e continuò: «E se l’ha
detto lui, vuol dire che anche io farò i quadri?»
«Be’...se
l’ha detto Justin...»
ammiccò, strizzando l’occhio.
«...deve essere per forza così. Anche perché ne sono certo,
Gus...potrai diventare tutto quello che vorrai.»
Il bambino sorrise
felice, prima di passare gli occhi tra suo padre e il biondo artista.
«Adesso possiamo andare alla tua casa? È
più bella e ha la televisione grandissimissima.»
«D’accordo
signorino.» convenne lui, facendo un cenno a Justin.
«È
proprio tuo figlio.» commentò Linz, scuotendo la testa. «Non
riesce a stare lontano dalle cose costose, di classe e da megalomani
come te.»
«Per fortuna,
aggiungerei.» ribatté Brian, inarcando le sopracciglia. «La
sua natura lo salverà da te e tuo marito. Non oso immaginare cosa ne
verrebbe fuori altrimenti.»
«Molto
spiritoso.» lo apostrofò lei. «Comportati bene davanti a tuo
figlio...» lanciò un’occhiata
eloquente e ammonitrice a Justin e sorrise maliziosa. «Tenete le
mani a posto e portatelo a casa di Debbie in orario per la cena.
Chiaro?»
«Sì, signorina
Rottermaier.» la prese in giro l’uomo,
tra le risate di Justin, riuscendo a schivare appena in tempo un
debole pugno. «Ci vediamo più tardi.» la salutò, seguito
dagli altri due suoi uomini, prima di raggiungere la Corvette e
consegnare il bambino a Justin, per farlo sedere con lui, proprio
come avevano sempre fatto in passato.
“Hear you me” – Jimmy Eat World
Il primo a
raggiungere la porta scorrevole fu Gus, dopo aver trascinato i due
uomini in una “gara a chi arriva primo” su per tutte le scale del
palazzo, e in cui, ovviamente, lo avevano lasciato vincere.
Brian osservò suo
figlio saltellare felice, mentre prendeva in giro sia lui che Justin,
e fece girare le chiavi nella serratura per permettere a tutti di
entrare nel loft.
Con uno scatto
fulmineo, il bambino corse immediatamente all’interno
e salì su una delle due sedie bianche, sporgendosi sul tavolo, senza
neanche togliersi il cappotto e la sciarpa, pronto ad iniziare il suo
pomeriggio di disegni con il giovane e biondo artista. «Justin,
Justin!» lo chiamò, agitandosi sulla sedia. «Metti tutto qui!»
strillò entusiasta, riferendosi ai colori e ai fogli che aveva
insistito per portarsi da casa.
«Piano,
campione.» lo riprese suo padre. «Togliti prima questa roba.» gli
disse, prendendo a srotolare la sciarpa dal piccolo collo bianco e
sbottonandogli il piumino.
«Ehi Gus.» lo
chiamò Justin. «Che ne dici se disegniamo sul pavimento?» propose,
sapendo quanto Brian tenesse al suo tavolo ellittico e immacolato, e
che sarebbe certamente stato in pericolo con un bambino di sette anni
e i suoi coloratissimi pennarelli.
Gus annuì felice
in risposta e zampettò vicino al ragazzo, mettendosi immediatamente
disteso a pancia sotto e aspettando che Justin posasse un foglio
bianco davanti a lui. «Che disegno?» chiese in seguito, indugiando
sulla miriade di pennarelli a sua disposizione.
«Non so, quello
che preferisci.» gli rispose l’artista,
sedendosi accanto a lui.
«Allora...»
iniziò incerto il bambino, inarcando le piccole ciglia scure e
facendo sparire le labbra all’interno
della bocca, replica del padre. «...disegno me, te e papà!»
decise, e prese il pennarello rosa, iniziando a tracciare i primi
contorni.
«Attenti al mio
parquet, voi due.» brontolò immediatamente Brian, prendendo una
bottiglia di birra dal frigo. «Vi tengo d’occhio.»
«Non fare il
padre pallos...ehm...» Justin si schiarì la voce e lanciò
un’occhiata al
mini-Kinney, per sincerarsi che non l’avesse
sentito. «...noioso.»
«Taylor...» lo
apostrofò, fingendosi sconvolto, mentre si avvicinava ai due e si
sedeva con loro. «Che cos’è
questo linguaggio?»
«Ma piantala!»
ribatté l’altro,
lanciandogli contro uno dei pennarelli.
«Justin, mi
disegni una casa?» chiese Gus, intento nella riproduzione dei
capelli del padre sul foglio bianco.
«Certo.»
rispose, prendendo immediatamente i colori giusti ed iniziando a
tracciare le prime linee perfettamente dritte, mentre gli occhi scuri
di Brian si perdevano nell’osservare
l’espressione assorta
che Justin assumeva ogni volta che doveva disegnare; anche se si
trattava della cosa più semplice del mondo.
Semplicemente, gli
piaceva guardarlo.
Adorava vedere il
cipiglio leggero che gli solcava la fronte nivea, e quelle perle blu
dei suoi occhi fisse sul foglio e concentrate; o il modo in cui a
volte serrava le labbra o le mordicchiava distrattamente. Adorava
come piegava di lato la testa per controllare da un’altra
angolazione il suo operato; o come i capelli biondi e lisci danzavano
davanti alla sua faccia, costringendolo a scostarseli dietro le sue
bellissime orecchie a conchiglia. E adorava anche quel suo buffo
vizio di premersi il pennarello – o qualunque fosse lo strumento
che usava in quel momento per disegnare – sulle labbra,
assottigliando lo sguardo e assumendo quella sua eccitante aria
pensosa.
Brian avrebbe
trascorso ore ad osservarlo mentre disegnava, perché in quel momento
Justin gli appariva etereo. Era così bello da sembrare intoccabile,
e a volte quasi aveva avuto paura a farlo, perché temeva di rovinare
quell’affinità che
quel ragazzino riusciva a creare con l’arte.
Solo nei momenti in cui il bisogno di sentirselo addosso era
diventato più forte di tutto il resto, si avvicinava a lui e lo
strappava dal quel suo strano limbo per farlo ancora suo.
Prese un sorso e
inconsapevolmente si ritrovò a sorridere.
Se invece che
avere il genio della pubblicità dentro, avesse avuto quello
dell’arte come Justin,
sicuramente avrebbe immortalato su una tela quella scena, e l’avrebbe
nominata con un titolo che avrebbe richiamato il significato della
felicità più semplice e pura; perché per lui, quell’immagine,
aveva davvero quel sapore perfetto, e avrebbe anche pregato purché
non finisse mai, perché restasse indelebile ed immutata nel tempo;
eppure, bastò un brutto ricordo del passato a rovinare tutto.
Improvvisamente la
mano di Justin prese a tremare, come tante altre volte gli aveva
visto fare, e il ragazzo fu costretto a ritrarla prima di rovinare il
disegno con i suoi spasmi e ad afferrarla con quella sana, per
mettere in trazione i tendini.
Brian lo vide
borbottare qualche imprecazione, così che si avvicinò a lui con uno
strano groppo alla gola, e sostituì le sue mani a quella
dell’artista, per
aiutarlo nei massaggi. «Non mi hai ancora detto niente di questa.
Come va?»
Justin sbuffò.
«Come sempre. Solo che in questo periodo le ho chiesto davvero
troppo, e adesso sembra resistere un po’
meno del solito.»
«Tranquillo...»
gli disse, vedendolo nervoso. «...tienila un po’
a riposo e tornerà come prima.»
«Finisco questo
disegno e...»
«Justin.» lo
chiamò, con un leggero tono di rimprovero.
«Solo questo.»
gli sorrise, gongolando un po’
per il fatto che Brian si preoccupasse tanto per lui. «Promesso.»
«D’accordo.»
sospirò arrendevole, terminando di massaggiargli la mano, prima di
passare le dita nei capelli setosi del figlio, in una carezza carica
d’amore. Tornò a
sorseggiare la sua birra, e riprese a godere di quell’immagine
perfetta, seppur con un po’
di ansia che, come un dito gelido, gli sfiorava la schiena in tutta
la sua lunghezza, impedendogli di sciogliere quell’odioso
nodo al centro della gola.
Per quanti anni
fossero trascorsi, Brian non sarebbe mai riuscito a farsi davvero una
ragione per quello stramaledetto incidente; Brian non riusciva ancora
a perdonarsi per non esser stato capace di impedire a Chris Hobbs di
colpire il suo Justin e di lasciargli addosso una ferita indelebile.
Gli capitava
spesso di sentir bruciare quella ferita al centro del petto che si
era andata ad aprire nel momento in cui l’aveva
visto crollare, seguita dall’immagine
del rosso vermiglio del sangue che andava a insinuarsi tra i fili
dorati dei suoi capelli e a macchiargli la faccia, spegnendone il
sorriso.
Non ne aveva mai
parlato con nessuno, ma gli capitava di avere incubi per quella
notte, e qualche volta si ritrovava a fissare il vuoto mentre la sua
mente gli riproponeva, traditrice, quella sequenza orribile.
Erano stati forse
anche quelli, nell’ultimo
anno, i momenti in cui desistere dal chiamare Justin e correre da
lui, era stato davvero difficile. Si svegliava nel cuore della notte,
terrorizzato dal fatto che tutto ciò che avevano vissuto dopo
l’incidente fosse
stato solo un sogno, e che nella realtà, Justin era morto da tempo,
perché non era riuscito a salvarlo.
Si sentiva i
polmoni svuotati, il cuore che sembrava sul punto di esplodere, e la
pelle sudata e fredda per lo spavento, finché non si rendeva conto
che era l’ennesimo
incubo e si lasciava ricadere sul letto disfatto dal suo continuo
rotolarsi e riprendeva a respirare, ripetendosi come un mantra che
era tutto a posto, che Justin stava bene e che non doveva
disturbarlo.
A volte si
chiedeva se una semplice telefonata avrebbe salvato le cose; se per
una di quelle notti avesse ceduto e gli avesse detto la verità,
invece di continuare a fingere che tutto fosse un
idillio, avrebbe cambiato le sorti di quella loro strampalata e
minata storia...poi però, gettava uno sguardo distratto all’inserto
di cultura di un qualsiasi giornale, e leggendo quel nome tanto
familiare seguito da miriadi di recensioni positive, il suo cuore si
riempiva a metà tra l’orgoglio e la malinconia, per cui, con un
sorriso amaro, abbandonava ogni proposito e si costringeva a tornare
alla sua vita.
E si era ormai
quasi arreso al fatto che le cose sarebbero rimaste in quel modo,
quando quei ciuffi biondi e luminosi, quegli occhi profondamente blu
e quel sorriso disarmante, erano ricomparsi all’improvviso sulla
sua strada, riattivando il suo cuore ammaccato e gelido che credeva
ormai destinato ad essere inutilizzato, e a riempirsi di polvere e
ragnatele.
Era stata come una
sorda esplosione, come ricominciare a respirare dopo aver passato
troppo tempo a soffocare lentamente in apnea; era stato come sentire
distintamente il sangue ricominciare a scorrere nelle vene, e
scaldare quel corpo ormai gelido, alla stregua di quello di un
cyborg.
Justin era
tornato, e con lui il suo bambino.
Erano tornati a
dargli una speranza che, per quanto borbottasse di non volere, in
realtà era la cosa che più agognava al mondo e a cui si aggrappava
con tutte le sue forze.
Brian Kinney
sperava, sperava eccome.
Sperava di
raggiungere quella felicità di cui tutti parlavano, ma che lui era
riuscito solo a sfiorare per qualche istante, prima di vederla volare
via; sperava di poter tenere con sé gli unici due uomini che aveva
davvero amato più di qualsiasi altra cosa nella sua discutibile
esistenza, e che occupavano tutto il suo cuore.
Con un lieve
sospiro, svuotò la bottiglia con un ultimo sorso e si riavvicinò a
suo figlio, in uno slancio d’affetto, per sfiorargli con un bacio
la testa ed osservarlo mentre terminava di colorare gli ultimi
dettagli di quel suo piccolo capolavoro, tenendo la lingua fuori su
un lato, stretta tra le labbra, a dimostrazione dell’impegno che ci
stava mettendo. «È bellissimo, sai?» gli confidò poi, passandogli
un braccio intorno alla vita.
«È quasi
finito!» esclamò il bambino in risposta, prima di chiudere il
pennarello – come mamma Mel gli aveva insegnato per non lasciarli
seccare – e sventolare il foglio colorato. «Guarda!»
«Ma come Gus, non
metti la firma alla tua opera?» gli chiese Justin. «Tutti i grandi
artisti lo fanno.»
«Anche tu?» gli
domandò in risposta, con gli occhi vispi e incuriositi.
Justin
annuì e Brian gli porse un pennarello nero. «Andiamo piccolo
Warhol,
scrivi il tuo nome.»
«Dove?» chiese
lui, squadrando il disegno con attenzione, come se dovesse fare la
cosa più importante del mondo.
«Qui.» indicò
Justin. «Nell’angolo in fondo a destra. Ti piace?»
Gus annuì
sorridente, e si distese nuovamente a pancia sotto, concentrandosi al
massimo per non sbagliare neanche una lettera e mostrare a suo padre
quanto ormai fosse bravo. «‘Gus’.» pronunciò lentamente per
aiutarsi. «‘P’...‘M’...‘Kinney’.» sorrise soddisfatto,
per essere riuscito a scrivere tutto correttamente e si voltò verso
Brian, con uno sguardo furbo. «Il cognome importante è ‘Kinney’.»
«Mi sembra più
che ovvio, campione.» convenne, strizzando l’occhio.
«Fanatico.»
sussurrò Justin, attento a non farsi sentire dal piccolo.
«Ha
già capito come stanno le cose.» ammiccò, sollevando le
sopracciglia e spingendo la lingua contro la guancia. «È
intelligente...d’altronde è mio
figlio.»
Justin scosse la
testa rassegnato e prese a ridacchiare. «Ho quasi paura di sapere
come verrà fuori. Sembra già fin troppo sulla buona strada per
replicarti.»
«E questo è un
male?»
«Dipende dai
punti di vista.» rispose, storcendo le labbra. «Spiegalo a Melanie,
se ci riesci.»
«Mamma Melanie si
mette sempre a pregare ogni volta che qualcuno le dice che assomiglio
a te.» intervenne il bambino, stupendo i due adulti. «Lo fa perché
spera che sia così, vero? È per questo che alza gli occhi al cielo
e prega tanto?»
Per Justin,
trattenersi dal ridere dopo la sorpresa, fu letteralmente
impossibile, mentre Brian si sforzò di assumere un’espressione più
seria. «Certo tesoro.» rispose, con un ghigno divertito. «E non
immagini quanto! Non vede l’ora...»
«Allora
m’impegnerò tanto e diventerò come il mio papà.» affermò
convinto il bambino, prima di prendere un altro foglio e ricominciare
a disegnare, ispirato da chissà cosa.
«Melanie ti
strapperà le palle per questo.» sussurrò all’orecchio di Brian,
il biondo artista, e l’altro scrollò le spalle.
«Be’...mi
auguro le difenderai a costo della vita, perché non ci perdo solo
io, stronzetto...» inarcò le sopracciglia e si sporse per baciarlo
sulle labbra.
Appoggiò la
fronte contro quella dell’altro, trattenendolo per la nuca e
facendo vagare le dita tra quelle ciocche bionde, prima di sfiorare
il proprio naso su quello di Justin. Sollevò le palpebre, andando
incontro all’abisso profondo di quegli occhi blu e non riuscì a
trattenere un sorriso beato, reso più sognante dal leggero sospiro
che gli sfuggì dalle labbra, quando riprese a baciarlo.
Erano quei
semplici momenti di malcelata dolcezza, quelli in cui avrebbe davvero
pregato che il tempo si fermasse; quando inconsapevolmente si
concedevano di coccolarsi, senza però dirselo apertamente, come se
fosse il loro piccolo segreto. Un segreto di cui avrebbero certamente
negato l’esistenza, se mai qualcuno avesse provato a pronunciarlo
ad alta voce...perché loro erano Brian Kinney e Justin Taylor, e per
il resto del mondo scopavano e basta, senza mai confessare che quei
gesti, in realtà, erano così pieni di dolcezza e di un’amore
talmente grande, che avrebbero potuto spazzare via qualsiasi cosa.
E avrebbe
continuato a restare in quella tiepida bolla, dove ogni cosa sembrava
perfetta, se solo quel dannato telefono non avesse emesso il suo
trillo acuto, attentando alla salute dei suoi nervi per la seconda
volta in una sola giornata.
Sollevò gli occhi
verde scuro verso l’altro gonfiando le guance, e si alzò per
raggiungere il cordless, ciondolando scocciato per il breve tragitto.
«Pronto?» rispose ed immediatamente le sue labbra si piegarono in
una smorfia.
«Mi auguro per
voi due che vi siate astenuti dal fare porcate davanti a Gus, o mi
premurerò di staccarvi le palle personalmente...» lo aggredì
immediatamente la voce decisa di Melanie. «...a parte questo, datevi
una mossa, ci vediamo da Debbie tra mezz’ora.»
Brian si diede una
sonora scozzata ai gioielli di famiglia, come ogni volta che il
marito di Linz si premurava di lanciare minacce alla sua tanto
cara attività sessuale, e biascicò in risposta: «Bestellungen,
fuhrer!»
«Attento a quello
che dici.» lo minacciò nuovamente lei, con la voce ridotta ad un
sibilo. «Ricordati che sono ebrea.»
«Appunto.»
ridacchiò lui e riagganciò prima che potesse protestare.
«Chi era?» gli
domandò Justin, quando lo vide riavvicinarsi.
Brian imitò il
saluto militare nazista e calcò la voce come se fosse un tedesco:
«Kommandant
Melanie Marcus.» si
sedette nuovamente al fianco dell’artista e si sporse verso di lui
per baciarlo. «Ha detto che tra mezz’ora dobbiamo essere da Deb.
Pena...»
«Non voglio
sentirla.» lo fermò l’altro. «Posso immaginarla e tanto basta.»
«Ehi campione,
hai sentito?» si rivolse allora a suo figlio. «Mamma Mel ha detto
che dobbiamo andare subito da nonna Deb.»
«Di già?»
s’imbronciò il bambino, facendogli intendere che avrebbe
decisamente preferito restare solo con loro due.
E come poteva
dargli torto suo padre, che attingeva da quegli sporadici e preziosi
momenti tutta l’energia di cui aveva bisogno per affrontare quelli
in cui la mancanza di Gus e Justin si faceva davvero insopportabile.
Accarezzò ancora
una volta i capelli del suo bambino, con uno sguardo profondamente
dolce, e si lasciò andare ad un sospiro. «Prometto che domani
staremo ancora insieme, ok?»
«Va bene.»
mormorò il piccolo, con quella sua vocina adorabile, prima di
rimettere nella scatola i pennarelli.
«Sembri quasi più
dispiaciuto tu di tuo figlio.» gli fece notare Justin, facendosi più
vicino. «Non so chi dei due ha il broncio più grande.»
Brian sorrise
amaramente e portò una mano a scostare un ciuffo biondo e ribelle
dietro l’orecchio, per poter ammirare meglio quei lineamenti
morbidi e perfetti. «Probabilmente sto davvero invecchiando.»
«O forse stai
finalmente crescendo.» ribatté Justin, protendendosi con l’intento
di appropriarsi di altri baci.
Le loro labbra si
ricongiunsero ancora e ancora, tra tanti piccoli schiocchi, prima che
il piccolo Gus – perfettamente a suo agio – reclamasse
l’attenzione di entrambi e la sua dose di coccole, gettandosi
addosso a suo padre in un assalto.
Brian si lasciò
ricadere all’indietro ed attingendo a un poco della forza nelle
braccia, sollevò il bambino in aria, come se volesse farlo volare.
La possibilità di
sentire le risate di Justin, disteso accanto a lui, unite a quelle di
suo figlio, era per Brian qualcosa di così prezioso per cui provava
davvero la voglia di dire “grazie” in quel giorno di festa; di
urlarlo con tutta la voce, più forte di quanto gli fosse
possibile...e anche se
continuava a percepire dentro al cuore il dolore di vecchie ferite,
miste alla paura che, prima o poi, avrebbe perso per sempre quei
momenti, un sorriso di suo figlio e uno di Justin bastarono perché
ogni preoccupazione e ogni senso d’inquietudine
svanissero all’istante,
come nuvole soffiate via dal vento, lasciando solo il posto ad un
accecante sole che gli scaldava il cuore.
*'*'*
«Hunter, metti
quei salatini sul tavolo.» ordinò Debbie dalla cucina, sbraitando
isterica. «E le bibite sull’altro tavolo. Ah, e mi raccomando, il
ghiaccio!»
«Che palle!»
sbottò il ragazzo, guardando truce la nonna adottiva. «Non siamo al
Diner! La pianti di farmi sgobbare?!» lanciò un’occhiataccia a
Carl beatamente accomodato sulla poltrona a guardare le ultime
notizie alla tv, insieme ad un Emmett stranamente inquieto, e ai suoi
genitori che squadravano attentamente quest’ultimo come se gli
volessero fare una lastra, e continuò: «Perché non fai alzare un
po’ anche i loro culi?!»
«Se usassi le
energie che impieghi per lamentarti nel fare ciò che ti ho chiesto,
a quest’ora saresti anche tu stravaccato sul divano come loro.»
replicò la donna con un sorriso, prima di appioppargli un vassoio di
tartine ed una pacca sul sedere come incentivo a darsi una smossa.
«Va bene, va
bene.» borbottò lui, procedendo tra gli sbuffi verso la sala in cui
era stato sistemato parte del gigantesco aperitivo preparato da
Debbie, che, come suo solito, cucinava per un vero reggimento. Lasciò
il vassoio sul tavolo e lanciò un’occhiata a Melanie – intenta
nel sistemare tovaglioli e bicchieri – prima di chiederle: «Se la
uccido, mi difenderai in tribunale?»
Mel scosse la
testa ridacchiando. «Non credo
ci arriveresti al tribunale, sai?» fece un cenno alle sue spalle,
indicando il resto dei presenti e aggiunse: «Provocheresti una crisi
emotiva a livello mondiale. Qui tutti dipendono da lei...immaginati
il caos. Sicuro di voler correre un rischio simile?»
Hunter sollevò le
sopracciglia, soppesando per un attimo le varie possibilità, per poi
assumere un’espressione terrorizzata ed affrettarsi a negare con la
testa. «No, grazie. Chi li sopporta poi?»
«Appunto.»
ribatté con ovvietà, quando il suono del campanello si diffuse per
tutta la casa. Si avviò verso la porta e l’aprì, dando il
benvenuto a Jace, Ted e Blake. «La casa non è stata difficile da
trovare allora!» esclamò, riferendosi al primo dei tre.
«No, no.»
sorrise il designer. «Fortuna che ho sempre avuto un buon senso
dell’orientamento.» la salutò con due baci sulla guancia e
proseguì per raggiungere Debbie e consegnarle la confezione di
dolciumi acquistata in pasticceria. «Questa è per la padrona di
casa.»
«Tesoro!» lo
chiamò con uno strillo che fece sobbalzare tutti; tutti tranne
Emmett, che si era gelato sulla poltrona fin dal primo momento in cui
aveva udito la voce del ragazzo. «Ma non dovevi!»
«Ho chiesto un
po’ in giro e mi hanno detto che era la pasticceria migliore della
città.» fece un sorriso spavaldo e aggiunse: «Ho sentito dire che
fanno dei cannoli favolosi.»
Debbie gli rifilò
uno scappellotto e lo spinse verso la sala. «Va’ a sederti,
piccolo succhiacazzi impudente!»
Continuando a
ridacchiare, Jace raggiunse gli altri stravaccati sul divano, e li
salutò con un sorriso. «Ciao a tutti!» esclamò, passando lo
sguardo su ognuno di loro, fino ad incontrare la perennemente
evidente figura di Emmett. Gli strizzò l’occhio con fare complice,
e solo allora si rese conto di quanto questo fosse più cupo del
solito e rigido come un blocco di marmo. Di certo, non era il solito
favoloso e sfavillante Emmett; perciò, continuando a sostare con lo
sguardo su di lui, si avvicinò con la fronte aggrottata pronto a
sederglisi a fianco, incuriosito dal suo comportamento, quando il
campanello suonò per la seconda volta.
I suoi occhi
abbandonarono il ragazzo per spostarsi verso la porta, da cui un uomo
sulla cinquantina, con i capelli cenerini e gli occhi azzurri come il
cielo, fece il suo ingresso, accolto da una quantità esagerata di
affetto e sorrisi, soprattutto da parte di Debbie.
«Era il compagno
di mio zio.» gli comunicò una voce alle sue spalle, che poi
riconobbe essere quella di Michael. «Non hai fatto in tempo a
conoscerlo, ma so che ti sarebbe piaciuto.»
«Be’, a chi non
poteva piacere Vic?» convenne immediatamente Ben, cingendo il marito
in un abbraccio. «Era una persona fantastica.»
L’altro fece un
sorriso un po’ amaro, con lo sguardo perso nel vuoto a ricordare
qualche aneddoto, per poi riportare la sua attenzione su Jace. «Ci
ha lasciati tre anni fa.»
«Come...» iniziò
il ragazzo, un po’ imbarazzato.
«AIDS.» rispose
senza tanti fronzoli. «Era malato da parecchi anni, ma è riuscito a
tenere testa a quello schifo per davvero molto tempo.»
«Doveva essere un
vero uomo con le palle.»
Michael sollevò
le sopracciglia ed indicò con gli occhi la madre, ancora intenta a
parlottare con Rodney. «Come pensi che potesse essere con una
sorella del genere?» scoppiò a ridere e aggiunse: «Per vivere una
vita intera con mia madre, non ti bastano due palle.»
Jace sorrise a sua
volta, osservando l’energica donna, come abbagliato da quella sua
forza che sembrava letteralmente sprizzare da ogni centimetro del suo
corpo ed annuì convinto, prima di gettare l’ennesima occhiata
furtiva verso Emmett, sempre più assente.
«Allora, ci siamo
tutti?» esclamò Debbie, con la sua voce dirompente.
«No.»
comunicarono in coro gli altri, con una voce un tantino esasperata.
«Chi cazzo manca
ancora?» replicò lei, guardandosi intorno, finché, resasi conto
della stupidità della sua domanda, emise un mugugno infastidito.
«E lo domandi?»
borbottò Carl, guardando fuori dalla finestra.
«Li ammazzo.»
sibilò Melanie, temendo e pensando al peggio, a cui diede
immediatamente voce Ted.
«Staranno mica
scopando...»
«Spero di no per
le loro palle. C’è mio figlio con loro e non voglio che ne esca
traumatizzato!» replicò Linz inviperita, scendendo le scale con in
braccio la piccola Jenny Rebecca, dopo aver sentito la conversazione.
Raggiunse sua moglie, consegnandole la bambina e si affrettò ad
aprire la porta, quando – finalmente – il campanello venne
suonato anche dagli ultimi ospiti attesi. «Alla buon’ora!»
Gus fu il primo ad
entrare, correndo immediatamente in contro alle loro mamme,
entusiasta. Agguantò Linz per il maglione e prese a tirarlo per
conquistare la sua attenzione. «Mamma, mamma! Io, Justin e papà
abbiamo giocato alla lotta!»
Gli occhi di tutti
i presenti guizzarono immediatamente verso Brian, nel gelido
silenzio, contornati da espressioni poco amichevoli. «Non quel
tipo di lotta.» si affrettò a ribattere allora lui, roteando gli
occhi. «Ma perché dovete pensare subito male?»
«Perché si
tratta di te e Justin.» replicò acida Melanie, con un
sorriso tirato.
Justin si lasciò
andare ad una risata e scosse la testa. «Accidenti che bell’idea
che avete di me! Sono più responsabile di tutti voi messi assieme.»
«Lo sappiamo,
topino.» lo rincuorò immediatamente Deb, con un tono dolce,
prima di assottigliare nuovamente lo sguardo ed inacidire la voce,
riferendosi al pubblicitario: «Ma, sai com’è, sappiamo anche
quanto riesce ad essere traviante una certa persona di nostra
conoscenza.»
«Moi?!»
esclamò Brian, portandosi una mano al petto e fingendosi
sconcertato, ottenendo un pugno sulla spalla da parte di Linz.
«Mangiamo che è
meglio.» comunicò la padrona di casa allora, quando il cellulare di
Justin prese a suonare.
La mano
dell’artista corse immediatamente alla tasca dei Jeans, immaginando
che fosse la madre a chiamarlo per ricordargli l’impegno per il
pranzo del giorno successivo, ma dovette ricredersi, quando sul
display vide un nome totalmente diverso. «Ah...» balbettò,
impallidendo per l’ansia. «...rispondo un attimo e arrivo.»
«Certo. Fa pure,
tesoro.» gli rispose Debbie, cominciando a riempire il proprio
piatto tranquillamente, seguita dal resto della combriccola, eccezion
fatta per Brian e Jace che, prima seguirono Justin attentamente,
mentre si allontanava per rispondere, poi – senza neanche volerlo –
si scambiarono un’occhiata carica della stessa apprensione.
Erano le due
persone che lo conoscevano meglio, e ad entrambi non era certo
sfuggito quel drastico cambiamento sul suo volto, quando i suoi occhi
avevano incrociato lo schermo.
Restarono immobili
in mezzo alla stanza, in silenzio, ed ignorando cosa stesse
succedendo intorno a loro, troppo presi dall’attesa di quei pochi
minuti che assumevano ogni istante di più il sapore di una
spiacevole sentenza.
Qualche scambio di
battute appena, e Justin lasciò ricadere il braccio, come se fosse
privo di forze, chiudendo la comunicazione e voltandosi verso il
resto dei presenti, con un’espressione affranta sul volto e
passando gli occhi blu – ormai spenti ed opacizzati – prima su
Jace, confermando ogni suo presentimento, poi su Brian, sentendo
lacrime amare spingere per fare la loro comparsa. «Era Gary, il mio
agente...» biascicò con la voce ridotta ad un soffio; e credette di
poter svenire da un momento all’altro, quando vide gli occhi
dell’uomo di cui era follemente innamorato chiudersi con
rassegnazione, nell’attesa che lui terminasse quella frase, come se
fosse una pugnalata. Strinse i pugni e digrignò i denti, cercando
invano di sciogliere quel fastidioso nodo creatosi improvvisamente
nel fondo della gola, per poi costringersi a immettere aria nei suoi
polmoni letteralmente svuotati e mormorare a fatica quelle parole gli
stavano graffiando la lingua: «...domattina devo rientrare a New
York.»
***
Note dell'autrice:
Rieccomi qua, dopo poco più di un mese con questo nuovo capitolo!
Scusatemi per il ritardo, ma tra vacanze, matrimoni e università, mi è proprio mancato il tempo!
Sarò brevissima, perché è già tardi e poi non credo ci
sia molto da specificare! XD Qualcuno mi odierà...ma io l'avevo
detto che non sarebbero state facilmente "rose e fiori" e che sono un
po' sadica, no?
Stupidaggini a parte, spero che vi sia comunque piaciuto e che abbiate
trascorso delle belle vacanze, perciò passo immediatamente alla
cosa più importante: Ringraziamenti!
Un grazie a tutti coloro che hanno letto, a chi ha inserito la storia nelle preferite, nelle seguite o nelle ricordate, ma soprattutto grazie a: mindyxx, electra23, FREDDY335, Hel Warlock, Katie88, SusyJM, EmmaAlicia79, Clara_88, OfeliaCuorDiGhiaccio [a cui devo dire grazie anche per avermi fatto ascoltare "Fever" di Adam Lambert], giacale, silver girl e Thiliol per aver commentato l'ultimo capitolo!
Grazie ancora e alla prossima!
Prometto di essere molto più veloce con la pubblicazione del prossimo capitolo!
Un bacio,
Veronica.