CAPITOLO I
Il cielo era interamente coperto da un’opprimente coltre di nuvole color
piombo, squarciate a tratti irregolari, da luminose scariche elettriche che
esplodevano nell’aria con assordante intensità. La pioggia sferzante scendeva
copiosa, impregnando senza sosta il corto vestito di cotone azzurro che
aderiva, ormai fradicio, al corpo snello della giovane ragazza dai lunghi
capelli castani, che camminava solitaria lungo i Champs Elysées in direzione di
Place de la Concorde.
I locali affacciati lungo la famigerata via parigina, erano affollati sino
all’inverosimile; i numerosi passanti, colti di sorpresa dall’improvvisa,
violenta tempesta estiva, si erano rifugiati nei bar, accalcandosi gli uni agli
altri, spintonandosi tra di loro per
accaparrarsi i pochi posti a sedere rimasti ancora liberi.
Ma la fanciulla proseguiva imperterrita, sotto la pioggia scrosciante,
incurante dell’acqua, dei tuoni e dei fastidiosi brividi di freddo che le
scendevano veloci lungo la schiena. Gli splendidi occhi cerulei risaltavano sul
volto pallido, apparentemente concentrati a scrutare la strada, ma se qualcuno
si fosse soffermato ad osservare con maggiore attenzione, si sarebbe
immediatamente reso conto, che non percepivano assolutamente nulla del mondo caotico
che, in quella piovosa giornata di fine estate, le vorticava attorno.
Solitaria e silenziosa, proseguiva senza arrestarsi mai, attraversando
viali costeggiati da alberi centenari, strette vie dai nomi rinomati, incroci
affollati dove automobilisti nervosi pigiavano con furia sul clacson allo
scattare del verde; sempre dritta, sempre assente, finché esausta, tremante e
palesemente confusa, fu costretta a cedere ai limiti del proprio corpo.
Pose fine a quell’inutile marcia, fermandosi, a sera inoltrata, davanti ad
una bassa costruzione, un tempo forse di un caldo color ocra, ma ora
completamente annerita dal malsano smog cittadino. Una lunga fila di grandi
finestre illuminate consentiva di intravedere l’interno del locale, dove un
paio di camerieri con espressione annoiata, si aggiravano tra i tavoli ormai
quasi deserti, raccogliendo svogliatamente i bicchieri disseminati qua e
là.
Un ennesimo, sgradevole, gelido brivido la fece capitolare eliminando anche
l’ultimo barlume di indecisione che la teneva immobile in mezzo la strada sotto
la pioggia che ora scendeva sottile. Raddrizzò le spalle esili tentando di
darsi almeno una parvenza di coraggio e spinse la porta di vetro smerigliato
sulla quale spiccava l’immagine minacciosa di un’aquila nera, con le enormi ali
spiegate e gli artigli adunchi ben in vista in un’aggressiva posa d’attacco. L’insegna
al neon, che lampeggiava poco sopra l’entrata, recitava infatti “Tavola calda Aquila Nera”.
La sua esitante entrata nel locale venne accompagnata dal ritmico tintinnio
dei campanellini di ottone appesi all’angolo della porta. L’interno del bar non
era fatiscente come l’esterno, era stato arredato con sobrio gusto casalingo e
sarebbe stato decisamente accogliente, se non fosse stato per l’acre odore di
tabacco mescolato a quello dolciastro delle zuppe sfornate in quella fredda
giornata, che la investì, provocandole un vago senso di nausea.
Scrollò con apparente disinvoltura i lunghi capelli gocciolanti, passandovi
attraverso le dita affusolate, tentando così di staccare le ciocche fradice dal
corpo intirizzito.
Individuò in fretta un tavolino appartato che le permettesse di sottrarsi
alle occhiate curiose dei pochi avventori del locale.
Un giovane cameriere le si avvicinò quasi subito, brandendo in mano
l’inseparabile blocco corredato di penna e la ragazza, mentre ordinava un the
caldo, fingendo di non notare lo sguardo insistente del ragazzo che la passava
in rassegna con maleducata insistenza, si ritrovò a maledire mentalmente
l’abitudine prettamente umana di invadere senza permesso gli spazi altrui.
Il giovane la fissava pienamente conscio della sua sfacciataggine, ma
incapace di fare altrimenti. In Francia non era raro incontrare belle donne,
coi capelli scuri, gli occhi chiari ed il sorriso amichevole, il carattere
solare ed estroverso, ma questa le batteva tutte. Non era molto alta e, non
c’era dubbio, non aveva affatto un sorriso amichevole, e probabilmente neppure
un carattere socievole, perlomeno non in quel frangente, ma la figura armoniosa
era ben modellata, l’espressione imbronciata suscitava una languida tenerezza,
un fascino acerbo difficile da ignorare. La stoffa leggera dell’abito era
completamente incollata al corpo invitante, evidenziandone ogni singola curva,
morbida e piena. Era giovane, molto giovane. Quindici, sedici anni al massimo.
-Tutto bene, mamoiselle?- chiese
gentilmente il cameriere, sporgendosi un poco verso di lei, insospettito dal
suo aspetto mesto.
-Non credo siano affari suoi, il mio the- replicò gelida in perfetto francese,
nonostante il taglio degli occhi tradisse una qualche parentela orientale.
Il ragazzo si allontanò con una rassegnata alzata di spalle, ritornando
pochi istanti dopo, con la bibita fumante appoggiata ad un usurato vassoio
d’acciaio.
Posò lentamente il the davanti alla giovane, dilungandosi a studiarla con
rinnovata attenzione -Decisamente non sta affatto bene- pensò con una
punta di sincera preoccupazione -Trema come una foglia, e la cosa non mi
sorprende, dal momento che é inzuppata sino alle ossa!-
-Le conviene andare a casa a cambiarsi, prenderà un malanno…- le consigliò,
stringendo distrattamente il vassoio vuoto al petto.
-Ho capito- tuonò la fanciulla, sbattendo la tazza sul tavolo ed
incenerendolo con lo sguardo -Lei non è minimamente intenzionato a farsi gli
affari suoi!-
-Insomma mi sto solo preoccupando per te- si schermì piccato, ricambiandole
l’occhiata ostile -Non ho nessuna intenzione di adescarti, se è questo che ti
rende così acida!-
Non sopportava che un suo genuino gesto di cordialità venisse così
sgarbatamente disprezzato. Ma era abbastanza onesto con se stesso, da ammettere
che gli era impossibile portare a lungo rancore a quella splendida creatura,
per quanto scortese e sprezzante essa fosse. Si rendeva conto che in quel
momento, doveva apparire ai suoi occhi come un bambino un po’ capriccioso che
non si voleva staccare dalla vetrina del negozio di giocattoli, ma proprio non
riusciva a fare a meno di ammirare inebetito quegli incredibili occhi color
ghiaccio, la cui limpidezza era in parte offuscata da scintille di collera
repressa che saettavano come dardi incandescenti nello sguardo della giovane
ragazza, che sperava, ne era certo, di spaventarlo con la sua spavalderia.
-Ah no? Quindi non ti interessa abbordarmi…- la sentì invece dire con sua
enorme sorpresa.
-Eh? No certo che no…- blaterò confuso, preso in contropiede dalla nuova
espressione che aleggiava sul bel volto della giovane, di cui non riusciva a
comprenderne appieno il significato.
-Siediti- ordinò la ragazza perentoria.
-Cosa?!!?-
-Siediti- ripeté freddamente con un tono che non ammetteva repliche.
Il ragazzo si guardò attorno. Nel locale c’erano solo pochi avventori che
si stavano lentamente avviando alla cassa per pagare le ultime consumazioni
della giornata. Si sedette ormai più incuriosito che stupito, da quella
affascinante, strana, triste fanciulla.
La ragazza puntò su di lui i suoi occhi gelidi, facendolo sentire piccolo
ed indifeso sotto quello sguardo tagliente come una lama d’acciaio, che
sembrava avere il potere di farlo a pezzi in qualsiasi momento lei lo avesse
desiderato. Percepì distintamente un fastidioso brivido di paura scendere
veloce lungo la colonna vertebrale, ma non si scompose, sostenendo quello
sguardo incredibile con imperturbabile fermezza. Non era certo da lui mostrarsi
in difficoltà di fronte ad una ragazzina sull’orlo di una crisi isterica!
-Mi trovi brutta forse?- esordì lei a bruciapelo, senza la benché minima
inflessione nella voce, innaturalmente piatta.
-Co…cosa? No…- mormorò ancora una volta disorientato dall’assurdità di quel
comportamento.
-No- ripeté pensosa, volgendo lo sguardo altrove. Solo in quel momento il
cameriere comprese il reale motivo del suo inspiegabile disagio. Lo sguardo di
lei era assente, lontano anni luce, in quel momento stava parlando con lui, ma
era come se si rivolgesse ad un altro, era in quel posto ma la sua mente era in
ben altri luoghi.
La esaminò con calma, soffermandosi sulla deliziosa smorfia di disappunto
che increspava la bella bocca rosea che spiccava sull’ovale pallido del volto
delicato. Quell’espressione corrucciata la faceva sembrare ancora più giovane,
donando ai lineamenti eleganti, un qualcosa di vagamente infantile, era di una
bellezza sconvolgente, quasi eterea.
-Senti io ho finito il mio turno…- borbottò incerto, nel vago tentativo di
porre fine allo sconosciuto turbamento che lo tormentava da qualche minuto.
Nemmeno un muscolo si mosse sul bel volto di lei, immobile e freddo come
una statua di inanimata pietra, ma un guizzo negli occhi grigi, gli fece capire
che lo aveva perlomeno udito, se non compreso.
-Mi senti? Io vado a cas….- si alzò di colpo sbalordito, protendendosi
verso la fanciulla per assicurarsi di non aver preso un abbaglio -Ma …ehi che
ti prende ora?!- esclamò non potendo credere ai propri occhi.
Fissò attonito le due grosse lacrime che scintillavano agli angoli degli
occhi trasparenti, per poi, non più trattenute dalle deboli ciglia, scivolare
veloci lungo le gote livide, lasciando dietro di loro una lunga scia umida.
-Stai male?- chiese preoccupato, guardandosi attorno in cerca di aiuto. Ma
non vi era più nessuno nel locale oltre a loro due ed il proprietario che, come
al solito, ogni sera a quell’ora, era indaffarato dietro la cassa a contare i
soldi della giornata, non prestando la benché minima attenzione alla giovane
ragazza disperata e al nuovo cameriere assunto pochi giorni prima.
-Sì…portami a casa- rispose esausta, accasciandosi di colpo sul tavolo come
un burattino a cui erano stati crudelmente recisi i fili.
-Sì certo…aspetta qui, non ti muovere- farfugliò confusamente prima di
precipitarsi a recuperare due impermeabili gialli, sempre pronti accanto alla
porta del personale in caso d’urgenza. Ritornò di corsa dalla ragazza, ancora
immobile nella medesima posizione, china sul tavolo, con il volto affondato
nell’incavo delle braccia, i lunghi capelli castani sparpagliati
disordinatamente sulle spalle irregolarmente scosse da singulti a stento
controllati.
-Infila questo. Fuori ha ricominciato a piovere. Dai muoviti!- la incalzò,
scuotendola dolcemente.
-Ho capito- concluse, constatando sconsolato che lei non era assolutamente
in grado di reagire. La sollevò afferrandola con cautela sotto le ascelle ma,
rendendosi conto che non riusciva a reggersi sulle gambe, la fece aderire
dolcemente alla parete vicina, infilandole adagio il giubbotto cerato. Le
afferrò una mano bianca e sottile, era gelata e inerme tra le sue dita. La
guardò perplesso avviandosi all’uscita e la sua preoccupazione aumentò ancora
quando lei lo seguì fuori dal locale come un docile cagnolino, senza opporre la
benché minima resistenza. Se invece di lui avesse incontrato qualche
mascalzone, sarebbe stato un gioco da ragazzi approfittare dello stato
confusionale in cui si trovava la fanciulla.
-Da che parte andiamo?- chiese una volta all’aperto, cercando di dare alla
propria voce un tono rassicurante. Un vento freddo faceva svolazzare ovunque
pagine di vecchi giornali e cartacce abbandonate sul ciglio del marciapiede.
-Insomma come faccio a portarti a
casa se non mi dici dove abiti? Guarda sta diluviando…- esclamò tirandosi su
sino al mento la zip dell’impermeabile per ripararsi dalle taglienti follate di
vento –hai capito che ho detto? Tra poco saremo bagnati fradici!- proseguì
indicandole con un dito il cielo da cui la pioggia continuava a scendere fitta.
La ragazza non fece alcun cenno d’intendimento, trincerata dietro un
ostinato silenzio si limitava a fissare assente la punta dei suoi eleganti
sandaletti estivi ormai completamente rovinati.
-Ehi…va bene…faccio di testa mia- concluse allargando le braccia in un
gesto di esasperazione -Poi non ti lamentare …ah al diavolo! Con te è tutto
tempo perso- sbottò afferrando senza tante cerimonie il braccio sottile della
ragazza e trascinandola con decisione lungo la via deserta.
-Ecco indossa questo- disse il giovane soccorritore qualche tempo dopo,
porgendole un pigiama maschile color blu notte -Puoi dormire in camera mia. Io
mi sistemerò sul divano…hai fame? Uffa! Sono stufo del tuo silenzio … ti decidi
a parlare?- sbuffò stizzito, perdendo definitivamente la pazienza. In fondo,
che gli importava di quella sconosciuta? Gli stava procurando solo un mucchio
di fastidi, eppure gli era impossibile ignorarla, così fragile e disperata…
probabilmente stava sbagliando tutto, era evidente che non era cosciente,
avrebbe dovuto portarla all’ospedale, non a casa sua. Si morse nervosamente il
labbro, mentre pensava sgomentato al grosso pasticcio in cui si era cacciato.
-No, non ho fame…- borbottò la ragazza uscendo dal mutismo in cui era
piombata -Voglio solo andare a letto-
-Benissimo ti mostro la stanza. Mi dici almeno come ti chiami?-
-Andree…- rispose meccanicamente.
-Andree? Ma è un nome maschile…uhm…lasciami indovinare, non hai voglia di
parlare! Che bella novità! Beh almeno non vuoi sapere come mi chiamo io?-
-No- fu la sconfortante risposta.
Distesa sul letto, finalmente con qualcosa d’asciutto addosso, Andree
fissava immobile il soffitto intonacato della piccola camera da letto, incapace
di farsene una ragione.
Tutto poteva aspettarsi, ma non quello! Un tradimento così infame! No, non
infame…solo umiliante. Vergogna, rabbia, disprezzo…per lui? No, magari. Solo
per se stessa. Purtroppo non era riuscita in alcun modo ad esternare la rabbia,
che continuava indisturbata a crescere dentro di lei, alimentandosi delle sue
emozioni, rosicchiandole l’anima e sgretolando infidamente la sua autostima. Si
odiava. Odiava il suo corpo. Odiava il suo essere donna. Eppure la verità era
quella. Era una donna. Bella e desiderabile per di più …o no?
Andree gettò all’aria la sottile trapunta puntellata di fiorellini bianchi,
ricamati a mano probabilmente da sapienti ed amorevoli mani femminili,
sgattaiolando fuori dal letto con un agile balzo felino. Accese la luce, guardandosi
attorno confusa. Ma che ci faceva in quella casa sconosciuta?
Lui!
-Maledizione!- imprecò avventandosi selvaggiamente contro l’anta
dell’armadio a muro.
La spalancò con foga, facendola scricchiolare sui cardini non perfettamente
oliati. Fissò compiaciuta il grande specchio appeso all’interno del mobile che
rifletteva il suo volto pallido e stravolto. Non indugiò ulteriormente a
compiangersi o a criticare le borse nere sotto i grandi occhi grigi
insolitamente vacui, ma si sfilò con un veloce gesto la maglia del pigiama,
sotto la quale non indossava nulla e, dopo un minuscolo istante di esitazione,
si sfilò anche i pantaloni, rimanendo completamente nuda.
Solo allora si concentrò ad esaminare la sua immagine riflessa. La pelle
era candida e liscia, senza alcuna imperfezione, il collo sottile e flessuoso,
i seni forse un po’ troppo pieni, ma sodi e ben fatti, il ventre piatto ed i
fianchi stretti. Le gambe, sebbene non lunghissime, erano comunque affusolate e
toniche …non c’era niente in lei che non andava…eppure qualcosa ci doveva
essere…Ma cosa? Cosa? Maledizione, cosa?
Aveva bisogno di una risposta. Doveva avere una risposta. O sarebbe
affogata nella vergogna. Con quel pensiero martellante in testa, uscì dalla
stanza ormai preda di un’eccitazione febbricitante che le impediva di ragionare
e di controllare le sue azioni coscienti.
Non appena mise piede nel corridoio, venne inevitabilmente attratta da una
fioca luce proveniente dal modesto salotto che fungeva anche da cucina. Si
avvicinò con passo felpato al divano rivestito da una ormai logora stoffa
beige, posto in un angolo della stanza. Il ragazzo, incontrato poco prima nel
bar, vi era comodamente disteso, il braccio sinistro mollemente ripiegato
dietro la nuca e le lunghe gambe, coperte da una morbida coperta di lana, erano
leggermente inarcate. Era il ritratto della tranquillità e l’espressione
assonnata, con cui scorreva pigramente la pagina del grosso libro che teneva
appoggiato al ventre, era la prova evidente che il torpore del sonno stava avendo
la meglio su di lui.
Non si era accorto dell’intrusione della ragazza che, poco distante,
tratteneva il respiro, cercando di controllare il battito tumultuoso del cuore
che sembrava volerle uscire dal petto. Andree strinse istintivamente le braccia
attorno al petto in un tardivo gesto di pudicizia, sobbalzando al contatto con
la sua pelle serica, come se solo in quel momento si fosse resa conto della sua
completa nudità.
Il ragazzo soffocò uno sbadiglio mentre voltava lentamente pagina, fu in
quell’attimo che distolse lo sguardo dal libro e scorse, con la coda
dell’occhio, una figura affianco a lui.
Incredulo, balzò a sedere emettendo un gemito strozzato mentre il pesante
volume scivolava a terra con tonfo sordo ed il languore del sonno lo abbandonava
di botto.
Incapace di proferire parola, fissò attonito la ragazza completamente nuda
a pochi passi da lui.
-Pazza…questa é totalmente, dannatamente pazza! - pensò rimanendo rigidamente inchiodato
allo schienale del divano, timoroso di fare un qualsiasi movimento - E io me la sono tirata in casa! Lo sapevo
che mi sarei ficcato nei guai! Povero me e ora che faccio?-
E poi, inaspettata come una coltellata alle spalle, l’inevitabile
voltafaccia del suo corpo. Una languida debolezza, lenta ma implacabile, gli
salì dal basso ventre inlanguidendogli in fretta ogni singola fibra. Era
inesperto sì, ma non così stupido da non capire che gli stesse accadendo e la
consapevolezza, invece di tranquillizzarlo, aumentò a dismisura la sua
angoscia….accidenti a lei… ma quanto era bella?
Tremendamente, sfacciatamente bella, quasi irreale.
Ecco la spiegazione! Era un miraggio, null’altro che una splendida visione
evocata dai suoi ormoni impazziti di adolescente -Che brutti scherzi giocano
questi scombussolamenti ormonali....ah ah mi vien da ridere! E sì che lo sapevo
che non dovevo guardare certa robaccia....che mi venga un colpo se sbircio un
altro di quei giornaletti negli spogliatoi....Forza ora chiudo gli
occhi...così....e quando li riapro, lei non c’é più...oplà!- pensò
chiudendo le palpebre con forza per riaprirle qualche istante dopo.
-Oplà un corno! Tu sei vera!- urlò agitato, cercando di balzare in piedi,
ma prontamente bloccato da una mano di lei che, appoggiata con forza sulla sua
spalla contratta dal panico, lo costrinse a ritornare dov’era.
-Pazza… pazza...pazza..-
-A…Andree…che stai combinando?- balbettò confuso, prendendo coscienza, con
crescente smarrimento, di quanto fosse sconcertante il suo odore ed
incredibilmente invitanti le sue curve.
-Allora, mio bel salvatore…-lo apostrofò lei con tono sensuale,
accantonando ogni ridicolo pudore, di nuovo dominata da quell’insana follia che
l’aveva portata sino a quel punto -Prima dicevi di non trovarmi brutta…sei
sempre dello stesso parere?-
-Io…cosa…Andree per l’amor di Dio, copriti!- protestò disperato, tentando
di drappeggiare quel corpo splendido con la coperta di lana abbandonata sul
divano.
-Perché? Ti piaccio di più vestita?- sussurrò maliziosa, respingendo con
uno stizzito gesto della mano, la coperta che lui le porgeva.
-Andree se non la smetti…io…non…non…non garantisco delle mie azioni!-
protestò tentando disperatamente di appiattirsi contro il divano e di volgere
lo sguardo altrove.
-Non garantire allora…- incalzò sinuosa, affondando senza tenerezza le mani
nei folti capelli scuri di lui, obbligandolo così a reclinare il capo
all’indietro e a guardarla dritta in faccia -Ma prima dimmi che mi trovi bella-
ordinò impietosa.
Il ragazzo subì impotente l’ondata di spossatezza che gli intorpidì le membra
rilassandogliele, mentre i suoi occhi scuri si liberavano inconsapevolmente del
panico per riempirsi di puro e semplice desiderio carnale. Ma nonostante tutto,
una vocina interna gli impediva di ignorare l’assurdità dell’intera situazione.
La coscienza gli ripeteva che doveva ribellarsi a quella debolezza, reagire con
fermezza. Andree non era in sé e lui non poteva permettere che accadesse nulla
di cui poi si sarebbero sicuramente pentiti, una volta tornati alla ragione. Doveva
avere buon senso per entrambi, non poteva cedere! Non doveva assolutamente
affondare in quelle ipnotiche pozze di ghiaccio incandescente, altrimenti
sarebbero stati perduti! Non doveva, non doveva…eppure …lo fece.
Frugò smanioso negli occhi di lei con trepidante trasporto, conscio di
essere ormai una nave strappata dalla sicurezza dell’ancora, sballottata
crudelmente in mezzo ai marosi della tempesta.
Stordito dall’intensità delle sue stesse emozioni, ammise sinceramente ciò
che il suo cuore gli aveva urlato sin dal primo istante in cui l’aveva vista
nel bar -Bella? Oh Andree! In
tutta la mia vita non ho mai visto nulla di più bello…sei stupenda…togli il
respiro…-
Lei colse senza indugi la sincerità di quella focosa
dichiarazione ed il suo orgoglio calpestato, ebbe un guizzo di rivalsa, che le
diede la forza necessaria per sostenere lo sguardo bruciante del ragazzo
sconosciuto.
Le iridi ambrate di lui, dilatate dalla passione, la
sondarono ancora più a fondo, con tale impeto che sembravano non accontentarsi
della nudità del corpo, ma reclamassero anche quella dell’anima.
Ma questo Andree non glielo poteva concedere, la sua anima si era rifugiata
in un posto lontano, dove neanche lei poteva raggiungerla e si stava
silenziosamente leccando le ferite inferte da quella vergognosa verità...
-...e Andree? Lei
che significa per te? Non puoi negare che ti piaccia!-
-Ma che dici! È solo una copertura. Uno
specchietto per le allodole...sei tu che imperi nei miei sogni e nel mio
cuore...-
Andree rabbrividì all’eco lontano di quelle parole crudeli e percepì a
malapena le mani bollenti del ragazzo che si chiudevano come una morsa sui suoi
fianchi delicati, trascinandola a forza sul divano.
La ragazza
non si oppose, assecondando passivamente i gesti impacciati del suo amante. Non
c’era più possibilità di scampo, e anche se avesse voluto fuggire, non avrebbe
saputo dove andare. Come si può fuggire al dolore e alla vergogna? Ringraziò
mentalmente il corpo pesante di lui che gravava sul
suo, inchiodandola al tiepido giaciglio, non lasciandole alcuna possibilità di
scelta. A volte scegliere è un privilegio, altre però é un’ingiusta condanna.
Il passo lo aveva fatto, forse inconsapevolmente, forse superficialmente,
ma ormai non poteva fare altro che andare sino in fondo, toccare il nero
terreno della disperazione e poi sperare di trovare la strada per risalire in
superficie.
Affidò con un gemito il suo corpo a quelle braccia che la circondarono
saldamente. Un nauseante senso di panico la colse per un attimo, quando si rese
conto di quanto fossero sviluppati e possenti i fasci muscolari che l’avevano
stretta contro il torace robusto del ragazzo. Se lui per un qualche strano
capriccio, avesse voluto farle del male, non avrebbe potuto opporsi in alcun
modo: quello era il corpo di un maschio virile e lei non era affatto preparata
a ciò. Si irrigidì, provando un istintivo moto di ribellione, ma la rabbia ed
il rigetto verso il suo corpo, ridicolmente morbido e fragile, ebbero la
meglio. Gettò il capo all’indietro sospirando, in un gesto di resa totale,
infischiandosene delle sue paure di mocciosa viziata, delle sue angosce, della
frustrazione che implacabile la soffocava ad ondate irregolari e, soprattutto,
tentando di distruggere per sempre la sua pietosa femminilità. Abbandonò se
stessa, il suo corpo, la sua anima, nelle mani di un estraneo, con sprezzante
disinvoltura, come se fossero un ripugnante fardello di cui doveva
assolutamente liberarsi.
Era tutto così nuovo ed eccitante per lui, era avido di conoscere ogni
centimetro di quella pelle di velluto, di sentirla scorrere, calda e liscia,
sotto i polpastrelli, di respirare quell’odore tipicamente femminile, di
perdersi in lei, di sentirla cedere arrendevole dinnanzi al suo dominio
maschio, di compenetrare le loro carni. Si lasciò andare, trascinato e dominato
dall’istinto animale che ruggiva in lui, che pretendeva di essere saziato, dopo
essere stato così impunemente stuzzicato.
Non indugiò oltre. Non poteva e non voleva. Si abbassò i pantaloni ed i
boxer con un unico gesto, non si preoccupò neppure di sfilarseli e si avventò
su di lei, penetrandola con irruenza, persuaso che fosse solo quello, ciò che
lei desiderava. La sentì sussultare, rigida e tesa sotto il suo corpo
accaldato, gli sembrò anche che soffocasse un urlo contro la sua spalla, ma era
troppo inesperto, per distinguere il dolore dal piacere. Inebriato da quella
sconosciuta sensazione d’onnipotenza, spinse ancora più forte, sempre più a
fondo, con impeto rinnovato, affondando il suo essere in quel rifugio
incantato, per poi esplodere con violenza dentro di lei.
Poco tempo dopo, tormentata da un dolore pulsante nella parte più intima
della sua femminilità martoriata e dal silenzio straziante della sua coscienza,
che si rifiutava di comunicare con lei dopo quello scempio ingiustificato, Andree
riemerse dal vuoto oblio in cui era precipitata.
Non urlò, anche se lo desiderava con tutta se stessa.
Non pianse, anche se ne aveva un bisogno viscerale.
Non odiava e non provava rancore.
Tanto meno piacere o soddisfazione.
Solo il dolore fisico non riusciva e non era riuscita ad eliminare.
Un lancinante, acuto, crudele dolore, che l’aveva sfregiata nel profondo. Un
dolore che sarebbe rimasto in lei come una traccia indelebile e che l’avrebbe
accompagnata per il resto della sua vita. Un dolore totale che l’aveva
smembrata in tanti piccoli, insignificanti frammenti. Frammenti d’anima che,
forse, non sarebbe più stata in grado di riunire assieme.
L’aveva sverginata con cattiveria, con un colpo netto, scatenandosi in lei
senza alcun riguardo, come se fosse stata un oggetto, un essere insensibile o
peggio ancora una puttana. E lo era stata. Faceva male anche solo pensarlo, ma
era proprio così. Puttana. Non c’era modo più adatto per descriverla.
Spostò inorridita il braccio muscoloso di lui ancora avvinto attorno ai
suoi fianchi snelli, in un gesto di virile possesso. Dormiva beato, fiero e
compiaciuto, convinto di aver fatto il suo dovere di uomo, ma, in fondo, che
colpa ne aveva lui?
Nessuna.
Evitò di indugiare sui lineamenti distesi dal sonno del suo inconsapevole
aguzzino, sfumati dalla tenue luce della lampada, dimenticata accesa. Non
riuscì però ad impedire alla sua mente in subbuglio di registrare la macchia
rossastra che spiccava come un orribile occhio iniettato di sangue, sul divano
chiaro -Dovrà cambiarlo...ben gli sta- pensò sorridendo senza gioia di
fronte al simbolo della sua innocenza perduta, dubitando ampiamente della sua
sanità mentale.
Ritrovò silenziosamente la camera da letto e, indossato in fretta l’abito
azzurro ancora umido di pioggia, uscì
da quella casa in cui aveva lasciato anche l’ultima briciola della sua
discutibile dignità.