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Autore: Koori_chan    16/10/2011    1 recensioni
Miguel Allende e Beatrìz Carriedo si conoscono da tutta una vita. Lei argentina e lui cileno, sarà però difficile la convivenza fra questi due ragazzini così radicalmente diversi tra loro. Ma gli anni passano e le opinioni cambiano, fino a mutare l’antipatia in amicizia e l’amicizia in amore.
Qualcosa però sta per cambiare in Cile, qualcosa che costringerà Miguel e Beatrìz a una vita totalmente diversa da quella che avevano immaginato.
/Nessuno dei due poteva immaginare, quella notte, che la nostra attesa era destinata a durare molto, molto di più.
Nessuno dei due, quella notte, poteva far caso al fatto che l’estate successiva sarebbe stata quella del 1973…/
Attenzione! Presenza OC!Cile; OC!Argentina; OC!Brasile e forse altri….
Genere: Sentimentale, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Spagna/Antonio Fernandez Carriedo
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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-Una Foto en Blanco y Negro





Siamo cresciuti insieme, Beatrìz e io.
A essere sinceri all’inizio le cose tra noi non andavano benissimo, ma eravamo ancora piccoli, ed è comprensibile.
Ci siamo conosciuti l’restate dei nostri sei anni, ancora ricordo le facce divertite dei nostri genitori il giorno del nostri primo incontro…
Mia madre mi aveva fatto vestire con l’abito della Domenica, quello che io odiavo a causa del fastidioso fiocco che spuntava da sotto il colletto. Più che un bambino sembravo uno di quei grassi gatti delle ricche signore di Santiago che a volte venivano fino il paese per commissionare qualche abito a mia madre.
Mi tranquillizzai parzialmente quando vidi che anche la figlia di Don Antonio era conciata come una bambola di porcellana.
Abbiamo una fotografia di quel pomeriggio: io, sudato marcio nel pietoso tentativo di sorridere all’obbiettivo, Beatrìz nera di rabbia nel suo vestitino rosa tutto pizzi e nastrini e i nostri genitori raggianti sullo sfondo.
La prima estate  mi sembrò interminabile: mia madre mi obbligava a giocare con la figlia di Don Antonio, e pian pianino i miei amici mi abbandonarono, rinunciando ad invitarmi alle loro scorribande.
No, non odiavo Beatrìz per questo, ma la sua sola vista mi pervadeva di un totale e profondo sconforto. D’altro canto nemmeno la signorina sembrava divertirsi eccessivamente nel costringermi a giocare con le bambole, a travestirmi o a spingerla sull’altalena.
Le estati successive furono un susseguirsi di disastri, quella che Don Antonio credeva di aver allevato come una principessa si rivelò invece la figlia del Diavolo.
Falsa, ipocrita, crudele!
Se con i genitori si comportava in modo adorabile, con me era sempre scortese ed offensiva.
Mai una parola dolce, mai un gesto affettuoso, passavamo le giornate a tirarci i capelli e a evitare i morsi l’uno dell’altra. Me ne tornavo sempre a casa pieno di lividi e amenità varie, ma nessuno sospettava mai dell’amabile figlia di Don Antonio.
Crescendo le cose cambiarono leggermente, del resto dopo cinque estati trascorse a stretto contatto non si poté fare altro che arrendersi all’evidenza che l’unica cosa saggia da fare era adeguarci l’uno all’altra e fare amicizia.
Certo, lei era sempre la stessa egocentrica e vanitosa, io sempre il solito ragazzino silenzioso e paziente, ma pian piano iniziai a rendermi conto che gli inverni mi sembravano incredibilmente lunghi e le estati troppo corte.
Sì, mi ero affezionato a Beatrìz, e non vedevo l’ora che arrivasse l’estate per poterla incontrare di nuovo.
Da piccoli non parlavamo quasi mai di noi, della nostra vita, dei nostri sogni, ma in quegli anni perdemmo lentamente il nostro interesse nei giochi, passando sempre più tempo a chiacchierare sotto il grande albero al parco.
Non che il parco fosse grande come potrebbe suggerire il nome, si trattava in realtà di un semplice prato con un paio di panchine, una fontana di pietra e un dondolo. Poi, a un’estremità di quest’area verde, c’era il nostro albero, un noce nodoso sul quale, il primo anno di liceo, avevamo inciso i nostri nomi.
“Miguel y Beatrìz”
Era un suono dolce, che lasciava un buon sapore in bocca. Adoravo la musicalità che prendeva il mio nome accanto a quello di quell’argentina tutto pepe.
A pensarci meglio non c’erano persone, in tutta l’America Latina, più diverse di noi.
Io, Miguel Allende, figlio di una sartina come tante e di un minatore qualsiasi, sepolto chissà dove nel cuore delle montagne.
Lei, Beatrìz Carriedo, figlia di uno dei più ricchi banchieri argentini e di una donna dell’alta borghesia italiana.
Non avevo mai visto sua madre, e lei ne parlava raramente, ma mia madre mi aveva raccontato che era una donna orgogliosa e un po’ scontrosa, ma dotata di un grande cuore.
Era proprio nel nostro paese che Don Antonio aveva chiesto la sua mano, e anche se non ho mai capito per quale motivo fossero finiti in questo buco di villaggio, pareva che vi fossero rimasti particolarmente legati, tanto da comprare una grande casa per la villeggiatura estiva.
Ricordo che all’inizio Beatrìz odiava il Cile. Lo odiava perché la strappava alla sua adorata Buenos Aires, perché la costringeva a tre mesi a stretto contatto con il sottoscritto e perché le ricordava di sua madre. Ma con il passare del tempo aveva finito per abituarsi alla mia nazione, fino ad amarla con tutto il suo cuore. Ogni tanto, durante la nostra corrispondenza invernale, mi chiedeva di spedirle qualche foto di Santiago o del paese, se andavo a fare qualche passeggiata in campagna mi portavo sempre la macchina fotografica per lei.
Lei, in compenso, mi spediva immagini dell’Argentina, dove io non ero mai stato. La mamma spendeva la maggior parte del suo stipendio per mandarmi a scuola, quindi non restava mai nulla per i viaggi.
A sedici anni iniziai a svolgere qualche lavoretto dopo l’orario scolastico, ma guadagnavo davvero una miseria, e avrei avuto bisogno di ancora un bel po’ di anni prima di organizzare il viaggio che avevo in mente.
Era finalmente giunta un’altra estate, stavo aspettando l’arrivo di Beatrìz seduto ai piedi del nostro albero. Mi cadde l’occhio sui nostri nomi incisi nella corteccia e sorrisi spontaneamente. Era questione di ore, forse minuti, poi l’avrei vista spuntare da dietro alla fontana, con il suo solito sorriso incerto delle prime volte in cui ci rincontravamo, e la mia vita sarebbe potuta incominciare di nuovo.
- Miguel? –
Alzai lo sguardo sulla ragazza di fronte a me, i mossi capelli castani scompigliati dal vento, un grosso fiore rosso dietro l’orecchio sinistro e gli occhi ambrati bassi sul sentiero, in un’espressione di adorabile imbarazzo.
Mi alzai in piedi e mi avvicinai a lei, baciandole la mano con una galanteria scherzosa.
- E’ un piacere rivederti, mi flor… -
- Piantala, scemo! – esclamò lei, dandomi un colpetto amichevole sulla spalla.
Ad un occhio esterno poteva sembrare che non fosse cambiato nulla dall’ultima volta in cui ci eravamo visti, ma entrambi sentivamo che c’era qualcosa di diverso, di sconosciuto.
- Sei cresciuto… - sussurrò, dopo qualche minuto trascorso a passeggiare in silenzio.
- Se lo dici tu… Anche tu sei cambiata, comunque... – argomentai, notando che in quell’inverno si era fatta sempre più femminile.
Alzò appena la tasta in un gesto vanitoso, ridacchiando soddisfatta di quella mia sorta di complimento.
- Certo, sono diventata ancora più bella di prima! – e scoppiò a ridere di gusto, come se avesse detto la cosa più stupida della sua vita.
Ma io non risi, non parlai.
Aveva ragione, si era fatta una ragazza bellissima, e probabilmente aveva inteso i miei pensieri, perché ammutolì e diventò leggermente rossa sulle guance.
Adoravo quei suoi momenti di vulnerabilità, quegli attimi in cui gettava la sua maschera di ragazza sicura di sé per mostrarmi le sue piccole debolezze.
Era in quei momenti che dovevo trattenermi dall’impulso di stringerla forte a me e dirle quanto le volessi bene.
Quanto il Cile mi sembrasse una terra vuota e arida senza di lei.
Quanto quei tre mesi che trascorrevamo insieme valessero per me più di tutto il resto dell’anno.
Avrei voluto dirle quello che provavo per lei, ma non ne avevo il coraggio, e mi lasciavo scivolare ogni occasione dalle mani senza fare nulla per cambiare le cose.
Per di più sapevo di non avere la benché minima speranza con lei.
Già, cosa potevo sperare di avere io, ragazzo qualsiasi di uno sperduto paesino a due ore da Santiago, più dei Joao Oliveira, il suo amico brasiliano che non avevo mai conosciuto ma che ogni tanto, nei miei sogni, mettevo in ridicolo davanti a Beatrìz?
Si erano conosciuti quando avevamo quindici anni, i loro genitori erano soci in affari, e una sera Don Antonio aveva invitato gli Oliveira a cena da loro, a una festa di gran gala.
Beatrìz mi aveva descritto con accuratezza quasi maniacale il suo vestito azzurro, l’eleganza degli altri invitati e la bellezza folgorante di Joao, alto, moro e con due occhi verdi da sembrare un modello. E per di più, oltre alla sua innata bellezza, eccelleva in ogni tipo di sport e materia scolastica. Insomma, era il ragazzo perfetto.
All’inizio non vi avevo dato troppa importanza, ma con il passare degli anni mi ero accorto di quanto le visite degli Oliveira presso i Carriedo e viceversa si fossero fatte sempre più frequenti, e avevo iniziato a temere che Joao avrebbe potuto,un giorno, portarmi via la mia Beatrìz.
Non sono mai stato un ragazzo violento, ma sapevo per certo che se mi fossi ritrovato davanti quel dannato brasiliano l’avrei certamente gonfiato di botte.
- Miguel… secondo te l’universo è davvero infinito? –
Era una notte calda, verso la fine dell’estate del 1972. Era questione di un paio di giorni, poi i Carriedo sarebbero dovuti tornare a Buenos Aires e la mia vita sarebbe tornata nel suo abisso di grigia monotonia.
Avevo notato che Beatrìz si era intristita e avevo pensato di sollevarle un po’ il morale portandola a guardare le stelle. Avevo preparato tutto: un paio di coperte, una bottiglia di sangria presa di nascosto dalla dispensa e qualcosa da mangiare che avevo preparato con l’aiuto di mia madre.
Avevo chiesto a Don Antonio il permesso di poter restare fuori casa con sua figlia fino a tardi e, senza dirle niente, avevo condotto la mia amica fino a un grande prato fuori dal paese.
L’avrebbe sempre smentito, ma fui certi di vedere i suoi occhi inumidirsi quando le tolsi la benda dagli occhi e le feci vedere tutto quello che avevo organizzato per lei.
- Non saprei… perché questa domanda? –
Stette zitta per qualche momento, poi scosse la testa e si accoccolò a me, un poco infreddolita nonostante la coperta di lana.
- Adoro questo cielo… a Buenos Aires non si vedono mai le stelle… - confessò.
- Davvero? Proprio mai? – chiesi io, sbigottito da quell’informazione.
- C’è troppa luce, e troppo inquinamento, si vedono solo le stelle più grosse. Questa meraviglia da noi ce la possiamo solo sognare… - sussurrò, indicando il cielo con un ampio gesto della mano.
Spostai un braccio da sotto la mia nuca per sistemare meglio la coperta e sospirai.
- Ogni luogo ha le sue bellezze… -
Un altro silenzio, e mi accorsi che Beatrìz aveva lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse pensando a qualcosa di totalmente diverso.
- Che c’è, mi flor? –
- Mi restano solo due giorni, poi dovrò tornare laggiù… - sospirò triste, come se l’Argentina di colpo le fosse stata stretta.
Le accarezzai i capelli dolcemente, nel tentativo di consolarla.
- Su, non sarà così male… Finiremo il liceo, l’estate prossima non avremo neanche più compiti per le vacanze! –
Ecco, un piccolo sorriso fece capolino sul suo volto, ma non mi sembrava particolarmente convinto.
- Perché l’inverno è così lungo? – chiese ancora, portando il suo sguardo su di me.
Solo in quel momento ci rendemmo conto di quanto i nostri visi fossero vicini.
Io non risposi, lei mi sorrise.
- Non pensare all’inverno, l’estate non è ancora finita… - e la mia voce non era più di un sussurro.
Ci baciammo dolcemente, sotto quel cielo stellato di fine estate, dopo undici anni trascorsi a capirci e ad accettarci.
Capii, in un solo momento, che Joao Oliveira non avrebbe mai più dovuto preoccuparmi, che Beatrìz era mia e lo era sempre stata.
- Ti amo… -
Eravamo felici, e quella notte ci parve che il mondo fosse nelle nostre mani, che nulla avrebbe dovuto più preoccuparci. Non ci importava nulla di quello che ci avrebbe detto Don Antonio quando, il giorno dopo, gli avrei riportato sua figlia come una donna e non come una ragazzina.
Ci amavamo davvero e quando sarei stato diplomato e con un lavoro come si deve, l’avrei chiesta in moglie. Era solo questione di anni, era solo questione di attendere.
Nessuno dei due poteva immaginare, quella notte, che la nostra attesa era destinata a durare molto, molto di più.
Nessuno dei due, quella notte, poteva far caso al fatto che l’estate successiva sarebbe stata quella del 1973...





Note dell'Autrice


Ordunque... Questa fanfiction è un'esperimento. Idea che vaga nella mia testolina già da un po', ma assurdamente sto facendo una fatica immane a trovare documentazione sul periodo sotrico.
Spero che questo primo capitolo, che è più un'introduzione alla storia vera e propria che altro, sia stato almeno un poco interessante...
Per qualsiasi errore storico-culturale sentitevi liberi di correggermi, perchè, come ho già detto, non sono stata in grado di reperire un granchè...
Big kissies,
Koori-chan
 
  
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